Il mio cinema è su Futuro Europa:
martedì 29 dicembre 2020
domenica 10 maggio 2020
mercoledì 15 aprile 2020
Il ciclone (1996)
di Leonardo Pieraccioni
Regia:
Leonardo Pieraccioni. Soggetto: Leonardo Pieraccioni. Sceneggiatura: Leonardo
Pieraccioni, Giovanni Veronesi. Fotografia: Roberto Forza. Montaggio: Mirco
Garrone. Musica Claudio Guidetti. Scenografia: Francesco Frigeri. Costumi:
Nicoletta Ercole. Effetti Speciali: Fabio Traversari. Produzione: Vittorio e
Rita Cecchi Gori per Cecchi Gori Group. Distribuzione: Cecchi Gori Group. Genere.
Commedia. Durata: 91’. Interpreti: Leonardo Pieraccioni (Levante), Massimo
Ceccherini (Libero), Barbara Enrichi (Selvaggia), Sergio Forconi (Osvaldo),
Alessandro Haber (Naldone), Tosca D’Aquino (Carlina), Paolo Hendel (Pippo),
Lorena Forteza (Caterina), Natalia Estrada (Penelope), Benedetta Mazzini
(Isabella), Pilar Marin (Conchita), Anna Valeria Dini (Ines), Corinna Locastro
(Maura), Mario Monicelli (Voce di Gino), Jerry Potenza (Lele), Gianni Ferreri
(Gigi), Patrizia Corti (Franca), Gianni Pellegrino (Nello), Giuliano Grande
(gratta e vinci), Alessio Caruso (Alejandro).
Un
film talmente famoso da aver prodotto persino lo pseudonimo di una cantautrice
(Levante), 75 milioni di euro d’incasso, una valanga di premi (persino
eccessivi), soprattutto come miglior attore e miglior regista a un Pieraccioni che
svolge il suo compito con generosità e passione, ma niente voli pindarici,
purtroppo. Il ciclone si guarda
volentieri anche oltre vent’anni dopo la sua uscita in sala ma ci rendiamo
conto di tutte le sue debolezze. Partenza sprint con la presentazione degli
attori -molto affiatati - e relative macchiette, battute, personalità, per poi
calare inesorabilmente verso la metà della storia, dopo l’arrivo delle
ballerine al casolare della famiglia Quarini e l’inevitabile amore tra Levante
e Caterina.
La storia è troppo nota per raccontarla, in fondo non esiste
neppure una trama ma una riuscita riunione di personaggi in un borgo toscano, interpretati
da un gruppo di attori in forma per dare vita a un riuscito film corale. Levante
(Pieraccioni) è il ragioniere tutto calcoli e dichiarazioni Iva che finisce per
innamorarsi di una ballerina di flamenco; Carlina (Tosca D’Aquino) è l’eterna
innamorata di Levante che si ricorda per il gesto beffardo con la mano al naso
(piripì); Pippo (Hendel) è il
meccanico macho e allupato (Metto la
sirena e faccio scattare il pronto soccorso erotico! Oggi finocchi freschi!); Selvaggia (Enrichi), innamorata della
farmacista, vive un rapporto litigioso e vorrebbe fare outing, ma si concede
una scappatella con Penelope; Nardoni (Haber) è l’impresario in bolletta che si
consola trovando l’amore; Caterina (Forteza) e Penelope (Estrada) sono la nota
erotico – esotica della pellicola, sconvolgendo Levante e Selvaggia; Libero
(Ceccherini) è l’artista incompreso un po’ grullo che dà il ramato alle viti e non
riesce mai a portare a termine una storia con una donna. Poi ci sono i
personaggi da una battuta: Che ce l’hai
il gratta e vinci?.
C’è Mario Monicelli che presta la voce a Gino quando conversa
con Levante dalla sua casa di campagna e non si vede mai. Novità della trama: l’attenzione
all’amore omosessuale al femminile, fino a quel momento poco trattato dal
cinema italiano, soprattutto in una commedia. Secondo film firmato Pieraccioni -
la sceneggiatura di Veronesi si sente sin dalla fastidiosa voce fuori campo che
imperversa - decisamente superiore a I
laureati (1995), ma sopravvalutato rispetto ai meriti artistici. Fotografa
bene gli anni Novanta e si ricorda per la colonna sonora di Claudio Guidetto con
alcuni brani che resteranno nell’immaginario collettivo: The rhythm is magic di Marie Claire D’Ubaldo (molto latineggiante),
2 the night di Ottmar Liebert e Born Slippy degli Underworld (sparito
dal DVD per una questione di diritti non pagati).
Ambientazione toscana ottima,
nel Casentino - tra Poppi, Laterina, Stia, paesi e campagne aretine -, con
puntata finale a Firenze, tra Santa Maria Novella, Enoteca Pinchiorri (via
Ghibellina), via del Proconsolo, Piazza Poggi, Muretto del Lungarno, San Lorenzo
e Santissima Annunziata. Lorena Forteza – modella colombiana bellissima – non regge
la grande popolarità che la travolge, interpreta Facciamo fiesta (1997) e Colpo
di stato (1998), poi sparisce di scena, per rivederla ne Il mondo meraviglioso (2005), afflitta
da problemi di linea.
Natalia Estrada, invece, è molto attiva fino al 2006 –
tra televisione italiana, spagnola e cinema – poi si ritira dalle scene per
dedicarsi all’equitazione. Il suo ultimo film è Olè (2006) dei Vanzina. Il gossip si occupa a lungo di lei per una
storia con Paolo Berlusconi, fratello del più noto Silvio. Mario Monicelli, che
presta la sua voce per il personaggio di Gino, conclude il film con un Olé quando Levante decide di andare in
Spagna. Finale abbastanza scontato con Pieraccioni a Madrid intento a calcolare
l’Iva sulla compravendita di tori mentre la compagna aspetta un bambino. Fotografia
solare e nitida delle campagne toscane, macchina da presa che si muove con
delicatezza per le strade di città e paesi. Il ciclone resta un buon film corale per il ritmo e per l’originalità
delle trovate comiche.
La scena del flamenco:
Il mio cinema è su Futuro Europa:
venerdì 3 aprile 2020
Totò, Peppino e la dolce vita (1961)
di Sergio Corbucci
Regia: Sergio Corbucci. Soggetto.
Steno, Lucio Fulci. Sceneggiatura: Bruno Corbucci, Giovanni Grimaldi, Mario
Guerra. Fotografia. Alvaro Mnacori. Montaggio: Renato Cinquini. Musiche.
Armando Trovajoli. Scenografia: Piero Filippone. Costumi: Maria Baroni. Trucco
e Parrucco: Nilo Jacoponi, Carlo Sindici. Produttori: Mario Mariani, Gianni
Buffardi. Casa di Produzione: MB Film. Distribuzione. Cineriz. Durata. 87’.
Genere: Commedia/Farsa. Colore: B/N. Interpreti: Totò (Barbacane il
posteggiatore e il nonno), Peppino De Filippo (Peppino Barbacane, cugino), Mara
Berni (Elena), Francesco Mulè (Gugo), Rosalba Neri (Magda), Antonio
Pierfederici (conte Oscar), Gloria Paul (Patrizia), Peppino De Martino (ministro),
Tania Berjll (Alice), Mario castellani (presidente SPA), Daniele Vargas
(marchese Fortebraccio), Giancarlo Zarfati (Renato), Diana Perbellini (Luisa
Giovanna), Irene Aloisi (baronessa Renata Francesca), Jacqueline Pierreux
(Jacqueline), Franco Rossellini (un invitato), Jo Staiano (omosessuale),
Gianfranco Piacentini (Coriolano), Gianni Baghino (ladro d’auto), Mimmo Poli
(il palo), Nino Vingelli (spacciatore), Sergio Corbucci (cliente che vuole
telefonare).
La
dolce vita (1960)
è un film epocale
che scandalizza l’Italia bacchettona e moralista, ma la genialità di Fellini è
tale da inventare
nuove parole del gergo quotidiano che saranno inserite nel vocabolario della
lingua italiana: vitelloni, paparazzi, persino bidone. Sergio Corbucci
dirige nel 1961 una satira dai toni farseschi, scritta da Steno e Lucio Fulci,
sceneggiata dal fratello Bruno:
Totò, Peppino e la dolce vita.
Totò e
Peppino De Filippo sono i mattatori di una commedia che riprende luoghi e
situazioni del film originale tuffandoli nell’acido corrosivo della commedia
plautina. Il film doveva
ammiccare al titolo originale
per ricalcare il successo del capolavoro,
sfruttando le costose scenografie di una via Veneto ricostruita in studio, per
rendere del tutto felliniano anche il
prodotto comico. Il regista avrebbe dovuto essere Camillo Mastrocinque, che
diresse solo la prima scena in via Veneto, poi abbandonò per contrasti con la
produzione e fu scelto al suo posto Sergio Corbucci. Pare che la sceneggiatura
non fosse stata scritta per intero ma che ogni giorno si procedesse aggiungendo
o togliendo battute e sequenze, ispirandosi al soggetto firmato Fulci e Steno.
Il canovaccio base è La dolce vita,
messa in parodia sin dalle prime battute quando Peppino - cugino integerrimo e
moralista di Totò - fa togliere dai muri i manifesti del film di Fellini,
giudicato volgare. I due cugini sarebbero a Roma per realizzare i desiderata del nonno: corrompere i
politici per far spostare il tracciato autostradale dalle proprie terre. In
realtà i due si dedicano soltanto ai piaceri che la capitale dispensa, tra
feste private di nobili e incontri galanti, fotografati da immancabili paparazzi. Molte citazioni del film
originale. Abbiamo la
scena dei poveracci al night in compagnia di due belle americane e in mezzo
alle ballerine, la droga scambiata per borotalco, lo champagne napoletanizzato (“Mo’ esce Antonio”
invece di Moët & Chandon). Il bagno della bellezza (Rosalba
Neri) non si svolge a Fontana di Trevi ma nella casa di Totò, allagata perché
vive in una catapecchia malsana.
La bellissima Gloria Paul tra Totò e Peppino
Molte battute politiche costano tagli da parte
della censura e divieti ai minori, tra un politico che sembra Fanfani rincorso
in chiesa per un posto di lavoro, battute sulla Democrazia Cristiana, citazioni
da Marx e Mussolini, giochi di parole tra Proci e froci …. La critica
contemporanea non apprezza i numerosi doppi sensi erotici, a volte un tantino
volgari, così come non approva alcune sequenze con attrici troppo svestite. Sergio
Corbucci compare in due rapide sequenze al bar come cliente spazientito che
vorrebbe telefonare ma Peppino non glielo permette. Presenze femminili interessanti come
Gloria Paul, Rosalba Neri (emula di Anita Ekberg per un bagno meno nobile) e
Tania Beryll.
Sergio Corbucci nel cammeo al Bar
Attori bravi, anche nei ruoli minori, a parte i grandissimi (e in
perfetta forma) Totò e Peppino, citiamo Francesco Mulé (avvocato fedifrago) e
Mario Castellani (spalla di lusso). Sergio Corbucci dirige con mano ferma,
imitando lo stile felliniano, mentre la fotografia di Mancori è un nitido
bianco e nero che ricorda l’originale. Musiche di Trovajoli. Sergio
Corbucci (Roma, 1927 - 1990) è un regista che lavora molto nel cinema
popolare, spaziando tra i generi più in voga, come dice Giacovelli, rendendo scostumata la commedia di costume e
portandovi la parolaccia a ruota libera e il riso di grana grossa.
Alcune scene del film:
lunedì 30 marzo 2020
Dottor Jekill e gentile signora (1979)
di Steno
Regia: Steno. Soggetto: Robert Louis
Stevenson (Lo strano caso del dottor Jekill e Mister Hyde), Castellano &
Pipolo (idea parodistica). Sceneggiatura: Leonardo Benvenuti, Piero De
Bernardi, Gianni Manganelli, Steno. Fotografia: Ennio Guarnieri, Sergio
Salvati. Montaggio: Raimondo Crociani. Musiche: Armando Trovajoli. Scenografia:
Luciano Sapdoni. Costumi: Marisa Crimi, Elisabetta Poccioni. Genere: Commedia
fantastica. Durata: 107’. Produzione: Medusa Distribuzione, Dania Film.
Distribuzione: Medusa Distribuzione. Interpreti: Paolo Villaggio (Henry
Jekill/Edward Hyde), Edwige Fenech (Barbara Wimply), Gianrico Tedeschi
(Jeeves), Gordon Mitchell (Pretorius), Walter Wright Williams (capo della
Pantac), Paolo Paoloni (direttore stabilimento), Guerrino Crivello (studente),
Eolo Capritti (scagnozzo di Pretorius), Paola Arduini (Agatha Thompson),
Francesco Anniballi (scagnozzo di Pretorius), Geoffrey Copleston (membro del
consiglio).
Nel 1978 Steno scopre la bellezza
prorompente di Edwige Fenech, che nel 1976
aveva interpretato il discusso Cattivi
pensieri per la regia di Ugo Tognazzi. Alla fine degli anni Settanta la
carriera della bella franco-algerina subisce una brusca sterzata: non più
commedia sexy convenzionale ma vera commedia (erotica, fantastica, sofisticata,
all’italiana …) firmata da autori interessanti. La Fenech si spoglia sempre
meno e prende parte a produzioni che comprendono attori e registi come Steno,
Pasquale Festa Campanile, Dino Risi, Alberto Sordi e Bruno Corbucci. Amori miei (1978) è il primo incontro
tra Steno e la Fenech, chiamata a interpretare un ruolo sexy in una commedia
d’autore che la vede recitare insieme a Monica Vitti, Johnny Dorelli ed Enrico
Maria Salerno.
Dottor Jekill e gentile signora (1979) è il
secondo incontro tra Steno e la Fenech per una commedia fantastica ricca di
comicità slap - stick e citazioni
letterarie che vede protagonista Paolo Villaggio in una variante bipolare del personaggio
fantozziano. Una vera e propria parodia del racconto di Stevenson, classica idea
di Castellano e Pipolo, sceneggiata da Steno, Benvenuti, De Bernardi e
Manganelli, con trasformazione al contrario - da cattivo a buono - grazie al filtro
che dissocia la personalità, conservato in uno scantinato dal vero Mister Hyde. Il film - se non fosse per poche parti
erotiche - sarebbe quasi una commedia fantastica per ragazzi, salvata dalla recitazione
di Villaggio e da una Fenech inedita (doppiata da Vittoria Febbi), in un duplice
ruolo, non soltanto sexy.
Marco Giusti sostiene che il film è talmente brutto da superare ogni limite del possibile, quindi
è quasi un cult. Il ragionamento è singolare ma non fa una grinza se
accettiamo la concezione di cult al negativo. Ricordiamo come esempio di trash le musiche di Armando Trovajoli,
che firma la canzonetta Mr. Jekill &
Mr. Hyde cantata da un ignoto Mr. Hyde. Il massimo del trash si raggiunge nel finale, quando il dottor Jekill diventato il
buonissimo Hyde e, in collaborazione con l’angelica segretaria, diffonde il
siero della bontà. Gli operai della fabbrica che produce il siero, ormai
angelici, cantano: “Siamo tutti bon/ lavoriamo al progetton” e ancora “Il lavoro nobilita
l’uomo”.
Quando tutti gli uomini del mondo sono diventati angelici vediamo gli
scioperi al contrario con gli operai che gridano: “Padroni … padroni … siete
troppo buoni!” ed esigono settimana lunga, niente ferie e salari ridotti. Un finale
pessimistico, perché i padroni - che si proteggono dagli effetti del siero - non
si fanno certo spaventare da un mondo di troppo buoni. Villaggio e Fenech
vengono impiegati come giornalisti televisivi dove leggono un telegiornale privo
di notizie ma ricco di pubblicità alla sola multinazionale che governa il
mondo.
Non molte le parti sexy, in compenso la Fenech è in gran forma come
attrice comica: cambia atteggiamento ed espressione passando da perfida
segretaria ad angelica assistente. Paolo Villaggio tenta di andare a letto con
lei nei panni del cattivissimo Jekill ma non ci pensa neppure quando si
trasforma nel buonissimo Hyde. Gianrico Tedeschi è molto bravo nei panni di un convenzionale
maggiordomo inglese, che si chiama Jeeves proprio come il protagonista di una popolare
serie comica inglese scritta da P.G. Wodehouse. Gordon Mitchell (alias Charles Allen Pendleton) è lo scagnozzo Pretorius, un ruolo che si addice alle
fattezze da duro dell’attore nordamericano. Il film è girato a Londra, con
grande dispendio economico e di energie, molte sequenze sono riprese sul
Tamigi, vediamo Buckingham Palace e il Palazzo Reale, il Big Ben e il centro
cittadino. Titolo originale: Il dottor
Jekill Junior.
Una sequenza del film - la lezione agli studenti
Il mio cinema è su Futuro Europa:
martedì 24 marzo 2020
Sottozero (1987)
di Gian Luigi Polidoro
Regia:
Gian Luigi Polidoro. Soggetto e Sceneggiatura: Rodolfo Sonego. Fotografia.
Roberto Forges Davanzati. Montaggio: Raimondo Crociani, Laura Caccianti. Scenografia.
Luciano Spadoni, Renato Lori. Costumi: Luciana Marinucci, Roberta Guidi Di
Bagno. Trucco: Luciano Giustini. Musiche: Umberto Smaila. Produttore: Claudio
Bonivento. Casa di Produzione. Numero Uno Cinematografica, Reteitalia. Interpreti:
Jerry Calà (Luigi), Angelo Infanti (Antonio), Antonella Interlenghi (Paola),
Annie Papa (Athena). Durata. 93’. Genere: Drammatico.
Luigi
(Calà) lavora in una fabbrica del trevigiano, vive con Paola (Interlenghi), moglie
depressa, sempre sotto psicofarmaci, sogna di comprare un bar (vede l’insegna
sotto casa) e cerca di trovare il modo per guadagnare i soldi che gli servono. Pensa
a un finto infortunio sul lavoro, perdere un braccio gli procurerebbe una discreta
somma, ma quando sente dire che cercano personale in Norvegia per lavorare su
una piattaforma artica, decide di partire. Arrivato sul posto di lavoro,
conosce il connazionale Antonio (Infanti) che gli rende sopportabile la permanenza,
trova Athena (Papa), una donna con cui ingannare la solitudine, infine comprende
diverse cose sul passato del collega che lo riguardano da vicino.
Paola aveva
stipulato una polizza (rivelatasi fasulla) con il presunto amico, pagando il
contratto con l’orologio d’oro del marito (ricordo del padre), quindi era andata
a letto con lui. Tutte cose che Calà, al ritorno, terrà per sé, pur facendo
capire alla moglie di sapere ogni cosa, mostrando il vecchio orologio,
decidendo di mettere una pietra sul passato e ricominciare insieme. Un film
scritto da Rodolfo Sonego, destinato ad Alberto Sordi, girato in mezzo alle
nevi perenni della Norvegia con tecnica a metà strada tra il documentaristico e
il televisivo. Jerry Calà è impegnato in un’interpretazione non strettamente comica,
non se la cava male, ma il soggetto sembra troppo diluito, al punto che
attendiamo il finale sempre dietro l’angolo.
La fine perfetta sarebbe dopo un
grave incidente sulla piattaforma con Antonio che rischia la vita per salvare Luigi;
in ospedale pare che l’amico sia morto, fino a quando (con un labiale vaffanculo) fa capire a tutti di averla
scampata. Regista e sceneggiatore, purtroppo, vanno avanti imperterriti,
allungano un brodo abbastanza insipido, mostrano litigi tra amici, partite a
poker (con carte italiane), vincite milionarie e un ritorno a casa con la consapevolezza
di un tradimento.
Troppo lento il montaggio, anonima la fotografia - nonostante
i paesaggi stupendi -, monocorde la colonna sonora, sceneggiatura in affanno,
il film termina lentamente, tra sbadigli e noia. Un’ambientazione perfetta per
un documentario ma i tempi sono più vicini alla necessità di comunicare informazioni
che ai ritmi spettacolari. Nel grigiore di un’opera trascurabile, si salvano
Calà e Infanti, coppia ben assortita, con qualche battuta d’altri tempi del
primo (Per me vanno bene tutti: froci, lesbiche,
intellettuali!) e un po’ di romanesco alla Milian/Amendola del secondo. Girato
tra Pieve di Soligo (titoli di testa) e la Norvegia (Comune di Alta, contea di
Finnmark). Leitmotiv del film: un
orologio d’oro da tasca, che è la chiave di tutto.
Gian
Luigi Polidoro (Bassano del Grappa, 1928 - Roma, 2000) - allievo di Francesco Pasinetti,
diplomato al Centro Sperimentale, grande vecchio del nostro cinema e ottimo
documentarista - è alla sua ultima prova d’autore. La costante della sua opera
è l’analisi dei comportamenti degli italiani all’estero, cosa che affronta
anche in Sottozero, come aveva già
fatto ne Il diavolo (interpretato da
Alberto Sordi) e ne Le svedesi,
sulla differenza tra italiani e svedesi in tema di sesso. I suoi film non strettamente
documentaristici (Terra di pastori, Gente della laguna, Festa delle gondole …) stigmatizzano il provincialismo della cultura
italiana e approfondiscono argomenti di natura erotica. Tra i lavori di un
certo interesse: Una moglie americana
(1964), Sadik (episodio di Thrilling, 1965), Una moglie giapponese? (1968), Satyricon
(1973), Fischia il sesso (1973), Permette signora che ami vostra figlia? (1973).
Gian Luigi Polidoro
Il mio cinema è su Futuro Europa:
domenica 22 marzo 2020
Bandidos (1967)
di Massimo Dallamano
Regia:
Massimo Dallamano (Max Dillman). Soggetto: Luis L. Moreno, Juan C. Sainz.
Sceneggiatura: Romano Migliorini, Giambattista Musetto. Fotografia: Emilio
Foriscot. Montaggio: Gianmaria Messeri. Scenografia. Jaime Perez Cubero.
Costumi: Carlo Gentili. Trucco: Dante Trani. Produttore Solly V. Bianco. Case
di Produzione: Epic Film, Hesperia Films. Genere: Western. Durata: 91’. Interpreti:
Enrico Maria Salerno (Richard Martin), Terry Jenkins (Ricky Shot), Venantino
Venantini (Billy Kane), Maria Martin (Betty Starr), Marco Guglielmi (Kramer),
Cris Huerta (Vigonza).
Massimo Dallamano
(Milano, 1917 - Roma, 1976), frequenta il Centro Sperimentale, debutta come
operatore di documentari e direttore della fotografia. Per oltre vent’anni
direttore della fotografia, attività nella quale eccelle, dal bianco e nero al
colore, senza soluzione di continuità. Passa alla regia a cinquant’anni, dopo
aver collaborato ai western di Sergio Leone, nel 1967, con lo pseudonimo di Max
Dillman, debuttando con Bandidos.
Tra i suoi lavori migliori, tutti nel cinema di genere, ricordiamo l’erotico Le malizie
di Venere (1969) con Laura Antonelli, il thriller Cosa avete fatto a Solange? (1972), il sexy Innocenza e turbamento
(1974) e il poliziottesco La polizia chiede aiuto (1974). Molto
interessanti due pellicole ricche di suggestioni horror come Il Dio chiamato Dorian (1970) e Il
medaglione insanguinato - Perché?
(1975).
Ci
siamo occupati spesso di Massimo Dallamano, nei libri sul cinema horror
italiano e nei volumi dedicati alla commedia sexy, ma non avevamo avuto modo di
apprezzare Bandidos, il debutto assoluto.
Grazie a Cine 34 abbiamo visto questo western violento e crudo (vietato ai
minori!), interpretato dal grande Enrico Maria Salerno e da due buoni comprimari
come Venantino Venantini e lo sconosciuto americano Terry Jenkins. Un revenge movie - come ben lo definisce
Matteo Macini nel fondamentale Spaghetti
Western (volume 2) - puro cinema della vendetta in salsa western, ricco di
originali soluzioni di regia. Il film, girato in Spagna, prodotto dall’egiziano
Solly V. Bianco, scritto da Luis L. Moreno e Juan C. Sainz, narra la voglia di rivalsa
di un vecchio pistolero (Salerno) nei confronti di un ex allievo (Venantini) che
gli ha distrutto le mani con due colpi di pistola.
Il vecchio crede di aver
trovato in un ragazzo evaso di galera (Jenkins) la persona adatta per compiere
la vendetta, per questo motivo lo prende con sé e lo allena nel tiro al
bersaglio. La vendetta sarà compiuta, alla fine del film, non come il vecchio
avrebbe voluto, perché lui stesso non ne uscirà vivo. Soggetto iberico, sceneggiatura
tutta italiana (Romano Migliorini e Giovanbattista Musetto), abbastanza
prevedibile, anche se un ispirato Dallamano rende godibile il film grazie a carrelli,
panoramiche, soggettive e piani sequenza d’autore. Il vecchio west è descritto
come faceva Sergio Leone, tra polvere e vento, sporcizia e cani randagi,
assalti al treno e risse da saloon in mezzo a procaci ballerine.
Molto
realistico, anche se i personaggi sono appena tratteggiati (soprattutto il
ragazzo e il cattivo), il solo carattere approfondito è quello del vecchio,
reso magistralmente da Salerno. Scene piuttosto crude con inquadrature in primo
piano degli omicidi, molto sangue che per anni ne ha decretato l’impossibilità
di trasmetterlo in televisione, adesso aggirata con qualche rapido taglio.
Tra
le cose migliori: l’assalto al treno con la truce carrellata dei morti, l’uccisione
di un bandito nel saloon sotto il quadro di Sardanapalo, il buco nel cappello
di un pistolero con la mdp che riprende da una singolare ottica visiva e le
originali sequenze del duello finale. Un film ricco di suspense e di tensione
narrativa, da vedere non solo per interessi storici ma anche perché invecchiato
molto bene. Ottimo debutto alla regia di un nostro grande artigiano.
Il mio cinema è su Futuro Europa:
mercoledì 11 marzo 2020
Nude sì ma sotto la doccia
Giulio
Berruti
Nude sì ma sotto la doccia
La censura e il comune senso del pudore in nome del popolo italiano
Il Foglio Letterario - La Cineteca di Caino
Pag. 305 - Euro 15
Nude sì ma sotto la doccia
La censura e il comune senso del pudore in nome del popolo italiano
Il Foglio Letterario - La Cineteca di Caino
Pag. 305 - Euro 15
Tra
i tanti libri di cinema ne consiglio uno scritto da Giulio Berruti - autore de L’albero verde, collaboratore di Corrado
Farina per Hanno cambiato faccia e
valido documentarista - che scandaglia il mondo della censura nel cinema
italiano, compiendo una vera e propria analisi sociologica. Berruti parla di
cinema, cita titoli come Vedo nudo, Signore e signori buonanotte, Tre passi nel delirio, La dolce vita, La grande abbuffata, Rogopag,
La classe operaia va in Paradiso, La moglie più bella, Zabriskie point … Nel suo racconto parla
di dive che hanno avuto vita difficile grazie a solerti censori, attrici come
Sylva Koscina, Stefania Sandrelli, persino Gigliola Cinquetti giovanissima
cantante e Ornella Muti moglie troppo giovane. Registi contrastati dal potere e
dalla censura serva dello stesso potere, gente come Visconti e Pasolini -
emarginati pure per motivi di scelta sessuale - ma anche Antonioni e Fellini (La dolce vita fu definita da Scalfaro
sul quotidiano cattolico L’Avvenire
come La sconcia vita!). Berruti fa
capire l’evoluzione del comune sentimento
del pudore nel corso degli anni, spiegando come una norma inserita nel
codice penale fascista abbia continuato a essere applicata per sequestrare e
modificare pellicole pericolose. Se
in un film si ironizzava troppo sulle forze dell’ordine tutto veniva ricondotto
alla presunta normalità, quando
c’erano esposizioni di epidermide eccessive si limitavano, venivano imposti
tagli e sforbiciate di sequenze erotiche, spesso soprattutto per le
implicazioni religiose e politiche che certe sequenze incriminate comportavano.
Un saggio interessante e documentato, con molte foto d’epoca in bianco e nero,
che racconta la crescita della società italiana del dopoguerra attraverso il
cinema, dal primo neorealismo e i film con Totò (il principe ebbe problemi di
censura politica con la sua Carolina)
ai grandi autori degli anni Sessanta impegnati politicamente come Fellini,
Pasolini e Visconti. Un lungo viaggio muniti di forbici per conoscere tutti i
fotogrammi censurati dal cinema italiano, le immagini e le frasi che non
potremo più apprezzare. Scritto come un romanzo.
Il mio cinema è su Futuro Europa:
Etichette:
carcere,
Carolina,
censura,
Federico Fellini,
Laura Antonelli,
Luchino Visconti,
nude,
nudo,
Ornella Muti,
Pier Paolo Pasolini,
sesso,
Totò
domenica 8 marzo 2020
Il cinema delle tigri
La commedia a episodi è un genere che ha avuto un periodo di buon successo in Italia ed è stato coltivato dai nostri registi migliori. Tra il 1977 e il 1978 escono due film che sembrano l'uno il sequel dell'altro, caratterizzati dal nome tigri. Il collante che li unisce sono tre attori - Villaggio, Pozzetto, Montesano - tre vere tigri del grande schermo.
Tre tigri
contro tre tigri (1977) è una
commedia sexy a episodi di buon livello firmata da Sergio Corbucci e Steno. Il
primo episodio è girato da Steno, gli interpreti sono Renato Pozzetto, Cochi
Ponzoni, Kirsten Gille, Massimo Boldi,
Gabriella Giorgelli e Ugo Bologna. Sceneggiano Pozzetto, Ponzoni ed Enrico
Vanzina. Pozzetto è un prete cattolico che ospita un pastore anglicano
(Ponzoni) e la bella moglie (Gille) con i prevedibili equivoci erotici del
caso. In paese si sparge la voce che il parroco si sia portato a letto la bella
stangona americana, ma non è vero. In ogni caso i parrocchiani comunisti ci
credono, cominciano a stimare il prete e riempiono la chiesa quando celebra
messa. Il secondo episodio è girato da Sergio Corbucci, vede tra gli interpreti
un’affascinante Dalila Di Lazzaro, Enrico Montesano e Nanni Loy. Molte parti di
nudo interpretate dalla Di Lazzaro, finta contessa che abborda un evaso in astinenza come
Montesano. Il terzo episodio è ancora di Corbucci, che guida Paolo Villaggio e
Anna Mazzamauro in una sceneggiatura firmata Castellano & Pipolo nel
consueto personaggio fantozziano. L’episodio firmato da Steno è il migliore, ma
tutto il film è una gustosa e divertente commedia.
Il film Tre tigri contro tre tigri di Steno e Sergio Corbucci
Io tigro, tu tigri, egli tigra (1978) è una commedia a episodi girata da un esperto Giorgio
Capitani e da un debuttante di lusso come Renato Pozzetto. Si tratta di un lavoro modesto tenuto insieme da un esile
filo di comicità sostenuto dalle trovate degli attori. Una sorta di sequel di Tre tigri contro tre tigri (1977), che aveva avuto un buon successo ed era superiore a
livello di comicità. Il primo episodio è il più originale; diretto da Renato Pozzetto,
sceneggiato da Enzo Jannacci e Cochi Ponzoni, interpretato da Renato Pozzetto,
Cochi Ponzoni e Angela Luce. La storia racconta le vicissitudini di una coppia
che si odia al punto di tentare a più riprese la reciproca eliminazione. Elia
(Pozzetto) è il maggiordomo che si accorda con il padrone (Ponzoni) per
eliminare la fastidiosa moglie (Luce); si tratta di uno dei pochi casi in cui
al cinema si ricostruisce la copia comica televisiva. Il secondo episodio,
diretto da Giorgio Capitani, sceneggiato da Castellano e Pipolo, è abbastanza interessante. I protagonisti sono Paolo Villaggio, Nadia Cassini e Ugo Bologna,
per raccontare la storia di uno scrittore di fantascienza che viene catturato da una navicella spaziale.
Nadia Cassini interpreta
la moglie dello scrittore che si traveste da regina aliena per soddisfare il
marito; da notare che il suo costume è identico a quello indossato nel film di Luigi Cozzi girato
nello stesso anno (Starcrash).
Quando lo scrittore Paolo Villaggio viene rapito dagli alieni si rende conto
che la Regina Nera
è un mostro orribile, tra l'altro quando fa ritorno sulla Terra non viene creduto ed è spedito in manicomio. A bordo dell'ambulanza incontra un nuovo extraterrestre mascherato che vuole rapirlo per conto di un altro popolo alieno. Nadia Cassini (al solito) mostra il sedere ben fasciato da collant e
perizoma spaziale, ma sta sulla scena pochi minuti e fa appena in tempo a dire qualche battuta sull'impotenza del marito. Marco Giusti su Stracult definisce l'episodio di culto ritenendolo un fondamentale esempio di fantascienza parodistica. Contento lui ...
Il
terzo episodio, sempre diretto da Capitani, ma sceneggiato da Italo Terzoli ed
Enrico Vaime, vede interpreti Enrico Montesano, Sergio Di Pinto, Walter Valdi,
Erika Blanc, Felice Andreasi e Massimo Boldi. Si tratta di una modesta farsa
che racconta le disavventure di un bersagliere pasticcione che per comprare le sigarette invade la
Svizzera. Erika Blank è la puttana Italia, vecchia compagna di scuola del bersagliere, innamorata persa del suo soldato. I tre episodi sono legati dal solo filo conduttore della presenza dei tre comici, le tre tigri che provengono dal primo film di successo: Pozzetto, Villaggio e
Montesano. Il vero collante è commerciale: si tratta di tre interpreti
in grado di portare al cinema diverse tipologie di pubblico e di garantire un
buon successo al botteghino. Il primo episodio vede la comicità strampalata di
Pozzetto, il secondo mette in scena la consueta imbranataggine fantozziana e il
terzo (il più fiacco) è un esempio della comicità romanesca di Montesano. Passabile ma resiste al tempo.
Io tigro, tu tigri, egli tigra (trailer)
Il mio cinema è su Futuro Europa:
venerdì 6 marzo 2020
Ricomincio da tre (1981)
di Massimo Troisi
Regia: Massimo Troisi. Soggetto: Massimo Troisi. Sceneggiatura: Massimo Troisi, Anna Pavignano, Ottavio Jemma, Vincenzo Cerami. Fotografia: Sergio D’Offizi. Montaggio: Antonio Siciliano. Musiche: Pino Daniele. Scenografia e Costumi: Maria Grazia Pera. Durata: 108’. Genere: Commedia. Produttori. Fulvio Lucisano, Mauro Berardi. Interpreti: Massimo Troisi (Gaetano), Fiorenza Marchegiani (Marta), Cloris Brosca (Rosaria, sorella di Gaetano), Lino Troisi (Ugo, padre di Gaetano), Giovanni Febraro (don Ciro), Renato Scarpa (Robertino), Luciano Crovato (Alfredo), Lello Arena (Lello), Marco Messeri (malato mentale), Carmine Faraco (Salvatore), Marchetta Farinelli (Silvia), Vincent Gentile (Frankie), Jeanne Mas (Jeanne), Michele Mirabella (Ferretti), Marina Pagano (zia), Pino Piccolo (Pasqualino), Patrizio Rispo (Patrizio), Giuliano Santi (Umberto), Laura Nucci (signora Ida), Deddi Savagnone (madre di Gaetano), Marta Bifano (Anna), Giuseppe Borrelli (Luciano), Ettore Carlone (Carlone), Giuseppe Piciccio (Maurizio).
Ricomincio da tre
è il primo film da regista di Massimo Troisi, scritto insieme ad Anna Pavignano,
uscito sull’onda del successo televisivo del gruppo comico La Smorfia. Prima nazionale a Messina con inatteso successo di
pubblico che porta interesse in tutta Italia e un cartellone di repliche interminabili
finire nelle sale più importanti della penisola. Vince due David di Donatello
(miglior film e miglior attore), piace a tutti, sia al pubblico che alla
critica, cosa per niente facile, soprattutto nei primi anni Ottanta. Il motivo
del successo lo si comprende rivedendo il film quarant’anni dopo, scoprendosi a
ridere di battute che si conoscono a memoria, di situazioni note, di monologhi costruiti
benissimo sulle doti mimiche di un attore naturale.
Ricomincio da tre è basato su un soggetto risicato, una storia ai
minimi termini che racconta le vicissitudini di Gaetano, ragazzo napoletano che
decide di andare a vivere a Firenze in casa della zia. Una volta arrivato nel
capoluogo toscano Gaetano si innamora di Marta, una bella infermiera che scrive
romanzi e ha una concezione piuttosto libera dell’amore. Il suo amico Lello,
importuno e inopportuno, lo raggiunge e vorrebbe essere ospitato da lui che non
ha una casa, per tornarsene a Napoli dopo aver dato vita ad alcuni divertenti siparietti
comici. Finale sospeso con la famosa battuta del nome da dare al figlio che
nascerà - non si sa chi è il padre - e che non dovrà chiamarsi Massimiliano, ma
Ugo, tutt’al più Ciro, per motivi di rapidità di rimprovero.
Film che vive di
battute storiche come il dialogo tra Troisi e Arena sulla decisione di ricominciare da zero, con il primo che risponde:
Ricomincio da tre, perché tre cose buone
in vita mia le ho fatte, perché dovrei ricominciare da zero? San Giorgio a
Cremano è il punto di partenza per spiccare il volo, per uscire dalla monotonia
del quotidiano, senza essere un emigrante (un
napoletano che viaggia dev’essere per forza un emigrante?) ma solo per scoprire
il mondo e vedere cosa c’è oltre il solito orizzonte.
Personaggi azzeccati come
Lello (Arena), l’amico ossessivo (spalla perfetta), ma anche Messeri nei panni
di un pazzo (Sì, certamente!),
Mirabella depresso cronico, la bella Marchegiani fidanzata atipica (la sua
carriera si orienterà su televisione e teatro, con poco cinema), Scarpa succube
di una madre protettiva, Lino Troisi (nessuna parentela con Massimo, pure se
interpreta il padre) che attende il miracolo di una mano da ricrescere, Marina
Pagano zia innamorata …
Un film dove funziona tutto, persino le pause e i
momenti fiacchi, perché sembrano messi ad arte, come un piccolo miracolo di
sceneggiatura. Fotografia luminosa di Napoli e di Firenze curata da Sergio D’Offizi,
montaggio di un esperto Antonio Siciliano, colonna sonora del grande Pino
Daniele (sound napoletano), utili consigli di sceneggiatura (non accreditati)
di Cerami e Jemma.
Ricomincio da tre
è un film teatrale, fatto di monologhi e battute, che fa a meno della consequenzialità
logica e della trama, grazie all’interpretazione di Troisi. Piccolo capolavoro irripetibile.
Una scena del film (Robertino):
Il mio cinema è su Futuro Europa:
Iscriviti a:
Post (Atom)