sabato 25 maggio 2024

Aldo Lado – Rivediamo il suo cinema

 Il regista e sceneggiatore italiano muore il 25 novembre 2023 a Roma all’età di 89 anni

Aldo Lado (Fiume, 1934 - Roma, 2023) comincia come aiuto tra il 1962 e il 1971, fa lo sceneggiatore, debutta alla regia negli anni Settanta e spesso firma le proprie opere con lo pseudonimo di George B. Lewis. Il suo primo film è un giallo a tinte horror: La corta notte delle bambole di vetro (1971). Chi l’ha vista morire? presenta elementi macabri e misteriosi, soprattutto un’atmosfera cupa e angosciosa messa in risalto da un’ottima colonna sonora. Il limite di Lado è la discontinuità: alterna melodrammi e modesti ritratti della vita di provincia a opere di qualità come L’ultimo treno della notte (1975) e L’ultima volta (1976).

 La corta notte delle bambole di vetro (1971) è un thriller misterioso, scritto dal regista e ambientato in una imprecisata città dell’Est, interpretato da Barbara Bach (Gregorini), Jean Sorel, Mario Adorf, Ingrid Thulin, Hrvoje Svod, Petar Dumcic, Fabian Sovagovic, José Quaglio e Piero Vida. Collabora alla sceneggiatura Ruediger Von Spiehs, la fotografia è di Giuseppe Ruzzolini, il montaggio di Mario Morra, le scenografie di Gisella Longo e Zeliko Senecici.

 Il giornalista americano Gregory Moore (Sorel) viene ritrovato apparentemente privo di vita in un giardino pubblico di Praga, ma non è morto, perché rivive la sua disavventura sul tavolo dell’obitorio. Il regista rende palpabile lo stato di disperazione della vittima che non riesce a muoversi e a comunicare, ma vorrebbe gridare al mondo che è ancora vivo. Tutto è cominciato con la scomparsa di alcune ragazze e soprattutto di un’amica (Bach) che per Gregory era molto importante. Lado inserisce elementi di romanticismo per far capire l’affetto che stava nascendo tra i due giovani. Ingrid Thulin è perfetta nell'interpretare una donna gelosa del nuovo amore di Gregory, mentre Mario Adorf è un ottimo collega di lavoro. Le giovani donne scomparse erano appassionate di musica, Gregory aveva capito che nella faccenda rivestiva un ruolo importante il Club 99, un equivoco locale notturno. Nella sede insospettabile si svolgevano i rituali di una setta capitanata dal dottor Kartin (Sovagovich), intenzionata a sovvertire l’ordine sociale. Le giovani vittime servono a tutti coloro che vogliono conservare il potere, che cercano il sangue per sopravvivere, fa dire il regista al capo dei satanisti. Il film procede alternando i ricordi dell’uomo alla sua sofferenza, dovuta al fatto di non riuscire a dire che è ancora vivo. Il Club 99 ha sedi in tutto il mondo, è un covo di satanisti dove si pratica la magia nera. Lo scopo finale è la conquista del potere. Notevole la scena del sabba: il giornalista vede per l’ultima volta la sua donna, che è completamente nuda e distesa sul talamo mentre sta per accoppiarsi con un essere che indossa una maschera demoniaca. Gli adepti sono invasati, danzano nudi, gridano, fanno l’amore nel corso di un’orgia sfrenata, ma alla fine scoprono l’intruso e lo eliminano. Gregory viene ritrovato nel parco, in corpo ha una sostanza che lo fa sembrare morto. Il finale non è tranquillizzante: il giornalista finisce nelle mani di un medico adepto alla setta satanica che pratica sul suo corpo un’autopsia. Il grido di una terrorizzata Ingrid Thulin chiude la pellicola. Il male trionfa.

 L’elemento horror è costituito dal satanismo che imperversa dall’inizio alla fine della pellicola ed è il sale dell’atmosfera thriller, caratterizzata da una statua demoniaca a forma di farfalla. Il film è noto anche come Malastrana, nome di un antico quartiere di Praga e rappresenta un esordio più che promettente per Aldo Lado. Per alcuni critici è il suo film migliore, che il regista ha saputo replicare solo in sporadiche occasioni. Si tratta di un thriller orrorifico pieno di metafore, in parte pure politico perché si scaglia contro i ricchi e il loro sistema di potere. Ottimo il cast degli attori, eccellenti le musiche di Ennio Morricone, studiata la suspense e suggestiva l’ambientazione tra Praga e Zagabria in un’atmosfera da regime comunista. La pellicola è un po’ lenta, ma inquietante, cupa, elegante e ricercata nei buoni effetti visivi. Resta impressa a lungo nella memoria.

 Chi l’ha vista morire? (1972) è un thriller psicologico ambientato a Venezia, il cui protagonista è un prete assassino (Alessandro Haber) che uccide solo bambine con i capelli rossi perché gli ricordano la madre. Un serial killer vestito da donna ammazza la figlia (Elmi) di un pittore (Lanzeby) che comincia a indagare sul mistero, scoprendo il meccanismo dell’omicida seriale. Non ravvisiamo elementi da horror soprannaturale, ma solo momenti di terrore nella descrizione degli omicidi. La musica di Ennio Morricone valorizza un film interessante, che contiene canzoncine per bambine composte da Maria Morricone. Il film è scritto e sceneggiato dal regista con la collaborazione di Francesco Barili e Massimo D’Avack. Tra gli interpreti George Lanzeby, Anita Strindberg, Dominique Bosquero, Adolfo Celi e l’immancabile Nicoletta Elmi. Sepolta viva (1973) è la trasposizione cinematografica di un popolare romanzo d’appendice scritto da Francesco Mastriani. La pellicola dà origine a un sottogenere di breve durata, una vera e propria moda cinematografica anni Settanta. Il successo di pubblico produce un sequel e una serie di modesti film analoghi. Interpreti: Agostina Belli e Alessandro Bonuglia. Sceneggiatore Claudio Masenza e Antonio Troisio. Musica del solito Ennio Morricone. Aldo Lado frequenta episodicamente la commedia sexy con La cugina (1974), un sottoprodotto di Malizia tratto da un romanzo di Ercole Patti, interpretato da Dayle Haddon e Massimo Ranieri.

 Il suo ritorno ad atmosfere horror si registra con L’ultimo treno della notte (1975), scritto da Roberto Infascelli e Ettore Sanzò, sceneggiato dal regista con la collaborazione di Renato Izzo. La fotografia è di Gabor Pogany, le suggestive musiche di Ennio Morricone, il montaggio serrato di Alberto Gallitti e i costumi di Franco Bottari. Interpreti: Laura D’Angelo, Irene Miracle, Flavio Bucci, Macha Meril, Gianfranco De Grassi, Marina Berti, Enrico Maria Salerno, Dalila Di Lazzaro, Franco Fabrizi, Daniele Dublino, Francesco D’Adda e Gianni Di Benedetto. La pellicola è molto più che un horror metropolitano ed è sbrigativo definirla un thriller sadico, mentre è più corretto dire che siamo di fronte a un rape & revenge (cinema della vendetta), sullo stile de L’ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972). Il film piace a Quentin Tarantino perché incarna la sua filosofia cinematografica. La trama si sviluppa attorno alle gesta di due personaggi negativi (Bucci e De Grassi) che a bordo di un treno per Verona proveniente dalla Germania violentano e uccidono due ragazze (D’Angelo e Miracle). La vendetta successiva allo stupro è a cura del padre della D’Angelo, il chirurgo borghese interpretato da Enrico Maria Salerno, che uccide a colpi di spranga e a fucilate i due teppisti.

 Lisa Stradi e sua cugina Margaret vogliono tornare in Italia per passare il Natale, aiutano due teppisti senza biglietto a nascondersi dal controllore, ma diventano loro vittime. A un certo punto cambiano treno perché si sparge la voce di una bomba messa sul convoglio da un commando di terroristi. I due malviventi fanno lo stesso, ritrovano le donne e le obbligano a subire prolungate e sevizie. Insieme ai farabutti c’è una donna borghese (Meril), che dopo essere rimasta vittima di uno stupro si è unita alla coppia e guida le scorribande con sadico piacere. Le ragazze fanno una brutta fine: una muore dissanguata dopo essere stata sverginata con un coltello, l’altra si getta dal treno per salvarsi ma finisce per sfracellarsi al suolo. Per una serie di circostanze il terzetto infernale diventa ospite di Enrico Maria Salerno, che si rende conto di avere a che fare con gli assassini della figlia, e li massacra. La signora borghese la fa franca, riesce a convincere tutti della sua innocenza, abbassa il velo nero al cappellino e riprende la sua vita fatta di vizi privati e pubbliche virtù.

 Il film è crudele, claustrofobico, senza speranza, quasi compiaciuto nell’esibizione della violenza. Lo spettatore si trova precipitato in un crescendo angoscioso e morboso scandito dalle ossessive inquadrature di un treno che corre nella notte. All’interno dei vagoni si consuma la tragedia. Le parti più dure descrivono lo stupro nei minimi dettagli e nel terribile finale assistiamo alla vendetta paterna a colpi di fucile e di spranga. Aldo Lado cerca di comporre un apologo antiborghese, anche se una visione del film basata solo sull’esibizione della violenza lo identifica come reazionario. Uscito come Violenza sull’ultimo treno della notte e in Germania come Night Train – Der letze Zug in der Nacht. Si tratta di un film che vive di contrasti, a partire dalle prime sequenze sottolineate da una musica suadente e da un’atmosfera natalizia che prelude a un’esplosione di violenza. Aldo Lado descrive bene il carattere dei personaggi con una serie di immagini quotidiane: un padre borghese - irreprensibile chirurgo- e una madre annoiata da un rapporto stanco, e politici, preti, neonazisti, seminaristi, emigranti che tornano a casa per le feste. Risultano un po’ retoriche e datate alcune parti in cui vengono inserite discussioni sociopolitiche, ma servono per fare un discorso antiborghese. La pellicola è girata con perizia a bordo di un treno e il rumore ossessivo dei vagoni sulle rotaie accompagna la suspense e il crescendo di violenza. Il rapporto erotico che riguarda Bucci e Meril è da manuale, perché comincia come violenza carnale da parte del teppista e finisce con la donna che prima prende l’iniziativa e subito dopo assume un potere assoluto sulla coppia di sbandati. Il personaggio negativo del film di Lado è proprio lei, che sarà la sola a non subire conseguenze, così come uscirà indenne il voyeur interpretato da Franco Fabrizi, che approfitta della situazione e torna alla sua vita irreprensibile. L’accusa alla borghesia che presenta valori di facciata è la costante del film, sottolineata nel corso di una simbolica cena di Natale, dove si difende la proprietà e si mettono in primo piano i valori tradizionali. Gli attori sono bravissimi, ma su tutti dobbiamo citare Macha Meril, perfetta borghese perversa. Irene Miracle e Laura D’Angelo sono due ottime ragazzine terrorizzate, che precipitano in una spirale perversa a base di orrore e morte. La lunga sequenza dello stupro ideato e guidato dalla signora borghese è un capolavoro di tensione morbosa. Alla fine i teppisti sembrano pentiti e sconvolti, mentre la Meril è sadicamente contenta, soddisfatta del perverso contributo. Molto bravo Enrico Maria Salerno come padre sconvolto dal dolore che si fa giustizia da solo. Aldo Lado ambienta bene la pellicola in Germania, sul treno e in un paesaggio veneto invernale, che rappresenta la spettrale scenografia dell'eccidio finale.

 L’ultimo treno della notte è un clone de L’ultima casa a sinistra, ma - come dice Rudy Salvagnini - gode di una precisa originalità. Lado fa un discorso sociopolitico, non dà un nome ai personaggi negativi, ma li indica con la categoria di appartenenza. Macha Meril interpreta il peggior elemento del trio: è la signora per bene che, dopo essere stata violentata, si unisce al perverso gruppo e ne diventa la mente. La borghesia manipola il sottoproletariato per compiere turpi vizi privati, che nasconde dietro pubbliche virtù. Un film interessante, girato con maestria ed eleganza, spietato e terribile nel cupo realismo.

 La carriera di Aldo Lado prosegue con La disubbidienza (1981), un film insolito che rappresenta un momento di rottura rispetto alla precedente produzione, caratterizzata da una grande attenzione verso il thriller violento. Un prodotto indefinibile, tra il drammatico e l’erotico, come La disubbidienza, liberamente ispirato a un buon romanzo di Alberto Moravia. Aldo Lado ambienta la storia a Venezia e racconta il dramma interiore di Luca (Diemunch), un ragazzo in conflitto con il padre (Adorf), borghese fascista, e con la madre (Nat), una cantante che si serve dei tedeschi per sfondare nel mondo della musica lirica. Luca diventa partigiano e solo per merito suo la famiglia scamperà alla persecuzione comunista del dopoguerra. Il ragazzo resta profondamente deluso da quel che accadrà dopo la liberazione. La delusione di Luca nei confronti di una rivoluzione mancata è così grande da cercare l’autodistruzione, fino a rifiutare di farsi curare quando si ammala di polmonite. Il sesso è la salvezza di tutto, questo il messaggio desunto dall’opera di Moravia e rappresentato dalle due figure femminili, simbolo dell’educazione sentimentale di Luca. Therese Ann Savoy e Stefania Sandrelli danno vita a due personaggi intensi che riescono a riportare il ragazzo sulla strada maestra.

La carriera di Lado termina con due film televisivi come Delitto in via Teulada (1980) e La città di Miriam (1983). Scirocco (1987), Rito d’amore (1989), Alibi perfetto (1992), La chance (1994), Il notturno di Chopin  (2012) sono i suoi ultimi e poco memorabili lavori.

venerdì 2 febbraio 2024

Si può fare ... amigo (1972)

 di Maurizio Lucidi


Il fiorentino Maurizio Lucidi (1932 - 2005), ottimo montatore e discreto regista, mette in scena un soggetto di Ernesto Gastaldi per una storia western molto nelle sue corde, per lui che in vita sua ha fatto soprattutto cinema di genere leggero e senza implicazioni d’autore. Si può fare … amigo si caratterizza per essere un Bud Spencer movie con Pedersoli (doppiato da Glauco Onorato) orfano di Terence Hill, ma in buona compagnia di un Jack Palance (doppiato da Renato Turi) in insolite vesti comiche. La storia si racconta in poche battute. Coburn Thompson (Spencer) è un ladro di cavalli, di fatto buono se non lo si stuzzica troppo, che si trova a far da tutore al piccolo Chip Anderson (Cestiè) - che si vede morire lo zio per arresto cardiaco - e deve proteggerlo da chi vorrebbe trafugargli una fattoria ereditata, perché sotto c’è un giacimento di petrolio. Sonny (Palance) è un pistolero che gestisce un gruppo di prostitute da saloon e vorrebbe far sposare la sorella Mary (l’attrice francese Dany Saval) a Coburn, perché pensa (ma non è vero) che abbia attentato al suo onore. Il film vive tutto su questa comica rivalità e sugli scontri tra i due - uno con le pistole, l’altro con i cazzotti - che in fondo (ma proprio in fondo!) sembrano volersi bene. Un altro personaggio straordinario è lo sceriffo Franciscus, impersonato da un Francisco Rabal (pure prete e giudice) in eccellente versione comica, doppiato da Paolo Ferrari. Si può fare … amigo è un film divertente e scanzonato, ideale per famiglie, poco programmato sulle reti generaliste rispetto al valore reale, ma che per fortuna è stato restaurato per la sua definitiva conservazione. Cast tecnico d’eccezione, la colonna sonora è del grande Luis Enriquez Bacalov, al tempo solo un giovane di belle speranze, così come la fotografia è curata da Aldo Tonti e il montaggio da Renzo Lucidi. Sceneggiatura di Rafael Azcona, autore di grandi film d’autore con Marco Ferreri, ottimo scrittore di cinema che riesce a sviluppare con dialoghi incisivi un soggetto di Ernesto Gastaldi di tipo comico - grottesco.  



Ernesto Gasladi mi confida di non aver mai avuto a che fare con Azcona: “Mai conosciuto Azcona, usarono il suo nome per obblighi di coproduzione. La sceneggiatura l’ho scritta io con Lucidi sulla spiaggia di Sperlonga. Bud fece quel film per i fratelli Sansone per evitare una causa: aveva letto un mio soggetto e lo aveva raccontato a Barboni, era Trinità. I Sansone erano falliti ma il soggetto l’avevano comprato. Bud credeva che Barboni l’avesse comprato”. La commedia western è un genere che in Italia riesce da sempre molto bene, almeno da Barboni in poi (Cloucher), per tacere di Pino Colizzi, con Lucidi che si pone sulla scia e si dimostra capace di sfruttare le doti mimiche di Bud Spencer. Immancabili le risse nei saloon, le scazzottate, gli sguardi allibiti e le reazioni violente del protagonista, con il personaggio caratterizzato dal fatto che quando deve menare le mani inforca gli occhiali. Ci vedo benissimo, solo che mi aiutano a pensare, risponde al piccolo Cestiè che chiede quante diottrie gli manchino (va da sé che non sa cosa siano le diottrie), dopo aver spiegato che intende i gradi di vista. Interessante la presenza di Renato Cestiè, volto del lacrima movie e bambino prodigio, rivisto a fine anni Ottanta ne I ragazzi della Terza C e negli anni Duemila come concorrente di un quiz televisivo. Resta indimenticabile la sua interpretazione ne L’ultima neve di primavera, ma anche in questa versione comica se la cava da attore spontaneo e naturale. Tra le altre cose da citare la canzone di Rocky Robert che apre il film (Can be done), la sequenza della morte dello zio di Chip che muore per davvero dopo la terza volta che Coburn gli chiude gli occhi, la borraccia di Coburn forata dalla pallottola di Sonny, la scena del tacchino conteso in prigione e quando Coburn entra nella stanza della prostituta ed è così impacciato da spaccare tutto quel che trova. Tempi dilatati per accogliere a dovere le tante gag comiche, soprattutto la classica parte di Bud Spencer come duro dal cuore d’oro, uomo tutto d’un pezzo e dagli sganassoni facili. Nel cast ricordiamo una giovanissima Dalila Di Lazzaro, mascherata come Dalila Di Lamar, poco visibile e per niente valorizzata nei panni di un’anonima ballerina. Girato in Almeria, regione andalusa della Spagna, come la gran parte delle coproduzioni western italo - franco - spagnole. Da recuperare.






Regia: Maurizio Lucidi. Soggetto: Ernesto Gastaldi. Sceneggiatura: Rafel Azcona. Fotografia: Aldo Tonti. Montaggio: Renzo Lucidi. Musiche: Luis Bacalov. Scenografia: Eduardo Torre De La Fuente, Rosalba Gristina. Costumi: Mario Giorsi, Silvano Giusti. Trucco: Luciano Giustini, Antonio Maltempo. Produttori: Henryk Chroscicki, Alfonso Sansone. Case di Produzione: Sancrosiap, Terza Film Produzione Indipendente, Atlantida Films, Les Productions Jacques Roitfeld. Distribuzione (Italia): Cineriz. Lingua Originale: Italiano, Spagnolo, Francese. Paesi di Produzione: Italia, Spagna, Francia, 1972. Durata: 109’. Genere: Western, Commedia. Interpreti: Bud Spencer (Coburn Thompson), Jack Palance (Sonny Bronston), Francisco Rabal (sceriffo Franciscus), Renato Cestiè (Chip Anderson), Danny saval (Mary Bronston), Luciano Catenacci (James), Franco Giacobini (uomo che mangia la terra), Roberto Camardiel (ubriaco), Marcello Verziera (vice sceriffo), Riccardo Pizzuti (pistolero), Giancarlo Bastianoni (pistolero), Poalo Figlia (pistolero), Franco Ukman (pistolero), Serena Michelotti (vedova Warren), Luciano Bonanni (barista), Dalila Di Lazzaro (come Dalila Di Lamar - ballerina), Dante Cleri (medico), Manuel Guitián (zio di Chip).

giovedì 1 febbraio 2024

L'uomo e il mare di Stefano Tamburini, Il Foglio Letterario Edizioni


2 febbraio 1989 - 2 febbraio 202435 anni fa
a Piombino un sub fu ucciso da uno squalo
Prossimamente in libreria un romanzo-verità
di Stefano Tamburini (Edizioni Il Foglio)

L’UOMO E IL MARE

Storia (vera) di un sub ucciso da uno squalo
e dei tentativi (falliti) di ucciderlo ancora
Stefano Tamburini, giornalista e scrittore, nel 1989 era uno dei redattori del quotidiano “Il Tirreno” e, insieme con gli altri colleghi della redazione piombinese, seguì ogni evoluzione di questa storia che sembrava impossibile: un sub ucciso da uno squalo. E non fu semplice, soprattutto quando ci fu da fronteggiare l’ondata di menzogne con la quale altri colleghi tentarono di alimentare una verità alternativa. Di fatto tentarono di uccidere due volte quel sub: dopo quelli dello squalo, i denti ancora più aguzzi della menzogna.Il libro, edito da Edizioni Il Foglio, sarà disponibile nella primavera del 2024.

Estratto dall’introduzione del libro “L’uomo e il mare” di Stefano TamburiniMorte e terrore emersero dal mare appena increspato e tiepido di un insolito inverno che sembrava maggio. Morte e terrore: le fauci di uno squalo in un attimo si presero la vita di un sub di 47 anni, Luciano Costanzo, e fecero precipitare Piombino, l’Arcipelago e mezza costa toscana in un film dove tutti erano attori e spettatori. Solo che non era un set cinematografico: in quella mattinata del 2 febbraio del 1989 tutto quanto era drammaticamente e spaventosamente vero. Era la realtà che aveva sorpassato in curva fantasie ardite e timori ancestrali. E purtroppo non era che l’inizio di una storia assurda, con la vittima di quella morte atroce trasformata in un bersaglio per le menzogne più infamanti. La straordinarietà di quegli accadimenti veniva presa a pretesto per metterli pesantemente in dubbio, per costruire una narrazione tossica, devastante, infamante. In quello scenario, infatti, non c’era solo l’uomo e non c’era solo il mare dove aveva trovato la morte. C’erano altri uomini ben più feroci di quello squalo che cercavano di ucciderlo una seconda volta attribuendogli una fuga per incassare una polizza o una battuta di pesca con gli esplosivi finita male. Era la malafede che cercava di prendere il posto di una verità che da sola faceva già tanta paura. I giorni del lutto e del terrore si intrecciarono così con quelli di una caccia allo squalo che, più che altro, era una caccia alle paure. Quel bestione da tirare fuori dal mare non era una vendetta, era il modo migliore per far emergere dagli anfratti più intimi dell’animo paure e ansie che altrimenti rischiavano di diventare eterne. Pur sapendo che di squali ne sarebbero rimasti altri, catturare proprio “quello” sarebbe stato l’unico modo per placare le ansie.Purtroppo furono scritte fin troppe pagine di pessimo giornalismo, successivamente rese meno ignobili dalle querele trasformate in condanne. Ma in prima battuta, contro quell’ondata di melma mediatica fu decisiva l’energica contrapposizione di cronache di qualità e onesta ricerca della verità. E al tempo stesso animate dal rispetto per familiari e amici di quel sub di 47 anni, padre di due figli che non sapevi neanche come guardarli negli occhi. Il ragazzo aveva visto il padre morire nel modo più atroce, la sorella si rifugiava fra le braccia del marito e guardava un punto indefinito nelle acque davanti alle banchine, quasi come a sperare che potesse restituirgli il padre perduto. E poi c’erano i tanti amici di Costanzo. Con loro l’ingegnere che era sulla barca e si era visto portare via l’amico-compagno di avventura nelle ispezioni ai cavi sottomarini dell’Enel. Sono facce che ricordo ancora in modo netto, nitido. Perché come quelle non ne avevo mai viste prima e dopo non ce ne sono state altre. Erano diverse da quelle di qualsiasi dolore: l’incredulità veniva prima della disperazione, lo shock precedeva il lutto e le due cose si fondevano in modo apparentemente illogico. Ogni risveglio a Piombino era come nel film “Il giorno della marmotta”, dove si ricominciava sempre da capo, con la stessa narrazione. E che la data che si ripete nel film americano sia proprio quella del 2 febbraio assume interpretazioni che vanno oltre la casualità. L’industria della disinformatija era molto efficiente anche se un po’ cialtrona. Non era epoca di social e di siti internet disinvolti, altrimenti sai che tempesta di post fetidi pieni di menzogne ma pronti a far presa sulla massa dei creduloni?Questo di fatto è un romanzo ma nel leggerlo bisogna sempre aver presente che nulla è stato lasciato alla sceneggiatura più comoda. Oggi, 35 anni dopo, rimettere in fila quei fatti può essere d’aiuto anche per affrontare vicende meno “enormi” di queste e per rivalutare l’importanza di poter contare sull’onestà di chi va a vedere, racconta, analizza, fa le domande giuste. Un testimone della verità come lo sono stati tutti quei colleghi che animavano la redazione piombinese del quotidiano “Il Tirreno”. Era possibile allora e mi piace pensare che possa esserlo ancora oggi.