domenica 30 novembre 2014

Il saprofita

di Luigi Nasca (1974)


Regia, Soggetto, Sceneggiatura: Luigi Nasca. Aiuto Regista: Maria De Simone. Montaggio: Giuseppe Giacobino, Erminia Marani. Fotografia: Giuseppe Aquari. Scenografia e Arredamento: Giorgio Luppi. Costumi: Mario Giorsi, Fiamma Bedendo. Musiche: Sante Maria Romitelli. Edizioni Musicali: Rolex - Curci. Operatore alla Macchina: Emilio Giannini. Assistente Operatore: Carlo Aquari. Colore: Telecolor. Teatri di Posa: Dear spa (Roma). Presenta: Nicolaas J. D Wit. Distribuzione: Lifeguard. Produttori Esecutivi: Enzo Giulioli, Rinaldo Marsili. Produttore: Roel Bos. Casa di Produzione: Belial Film srl. Interpreti: Valeria Moriconi, Al Cliver (Pier Luigi Conti), Janet Agren, Cinzia Bruno, Giancarlo Marinangeli,  Leopoldo Trieste, Pia Morra, Giancarlo Badessi, Daniele Dublino, Luigi Gatti, Maria Tedeschi, Marina e Franca Chiummarulo, Winni Riva, Carlo Monni, Nerina Montagnani, Valentino Macchi, Orazio Stracuzzi, Luca Sportelli, Barbara Herrera, Clara Colosimo, Rina Franchetti, Marisa Traversi, Dada Gallotti.


Il termine saprofita, dal greco saprós (marcio) phytón (pianta), indica quegli organismi (funghi…) che si nutrono di materia organica morta o in decomposizione. Luigi Nasca, in un convincente esordio, racconta la vita di Ercole (Cliver), un ex seminarista bello e dannato, quasi muto dopo un grave trauma, che viene assunto da una baronessa (Moriconi) e riesce a trasformarsi in un saprofita umano. Ercole diventa l’amante della baronessa, l’amico fidato del figlio paralitico (Marinangeli), la preda maschile da concupire per la figlia (Bruno), assorbendo la linfa vitale dal vuoto e gretto ambiente alto borghese che lo circonda. Sergio Nasca, assistente di Marco Bellocchio, rompe tutte le convenzioni del cinema italiano e realizza un’opera interessante, ricca di personaggi privi di redenzione, ben calati in una decadente e torbida atmosfera meridionale. Primo film di Al Cliver (Pier Luigi Conti), in una parte insolita, visto che dopo interpreterà quasi esclusivamente action movie, horror, western e cinema fantastico. Carlo Monni debutta con la caratterizzazione di un santone - cialtrone e - coadiuvato da Nerina Montagnani - mette in ridicolo la credulità popolare e la fede nei miracoli. 


La pellicola è girata per gli esterni a Ostuni, in Puglia, con molte sequenze rubate a Lourdes, usando lo zoom come si faceva negli anni Settanta, tra i pellegrini in fila per ottenere la grazia. Molte soggettive dei protagonisti, piani sequenza, intensi primi piani e una straordinaria fotografia pugliese, tra case bianche e vicoli stretti di paese. La tecnica del flashback è usata con proprietà per raccontare il passato da seminarista di Ercole, ma anche una gretta famiglia di origine che lo avrebbe voluto prete per risolvere i problemi economici. 


Nasca non salva nessuno: la baronessa è la borghesia terriera priva di scrupoli, ma anche i poveri non sono migliori, ripresi in tutta la loro piccolezza e amoralità. La famiglia baronale è un coacervo di difetti e di rapporti malsani. Il figlio paraplegico, Parsifal, è innamorato della madre (porta a letto una sua gigantesca fotografia), spia la sorella Brumilde mentre si spoglia ma di fatto la odia. Non esiste amore nei rapporti familiari. Il barone - un generale in pensione - si suicida dopo essere stato isolato da tutti e trattato con disprezzo da moglie e figli. Pure lui non è una vittima, perché si è rovinato la salute con le prostitute dei bordelli di città. Il funerale sfarzoso e il finto dolore che la moglie mette in scena è un inno all’ipocrisia borghese e alle convenzioni religiose. Bravissimo Leopoldo Trieste come laido parroco di paese che approfitta della situazione per farsi sovvenzionare un pellegrinaggio a Lourdes. Bene Cinzia Bruno nei panni di una sorella che odia madre e fratello, vorrebbe concupire Ercole, ma non ci riesce, contesta l’ambiente borghese, ma ne fa parte come degna componente. 


Colonna sonora eccellente, composta al piano e al violino, che sottolinea i momenti più drammatici e a tratti confeziona una suspense da film thriller. Alcune sequenze erotiche sono ottime, vedono all’opera Valeria Moriconi - mai così nuda e disinibita - con l’aitante Al Cliver, ma ricordiamo anche Janet Agren - pellegrina a Lourdes - concupita da Ercole nelle sequenze finali. Teresa (Agren) sembra l’unico personaggio positivo della storia, presentata come una donna angelicata, che porta la nonna a Lourdes in cerca di un miracolo - ma il vero miracolo è imparare a convivere con il proprio destino, afferma - e lascia intuire una speranza d’amore per Parsifal. Niente da fare. Pure lei cade nella rete del saprofita, getta nella disperazione il ragazzo e lo spinge verso la morte. Ercole è un personaggio interessante che Al Cliver interpreta con bravura silenziosa, un uomo che si guadagna la fiducia di tutti, soprattutto del ragazzo, ma finisce per ucciderlo facendolo precipitare lungo la tromba delle scale. 


L’ultima sequenza del film vede Ercole riacquistare la voce e gridare al miracolo costringendo alla preghiera gli ospiti dell’albergo. Un dramma erotico - psicanalitico, che mette in scena la rappresentazione del complesso di Edipo, molto bellocchiano (I pugni in tasca), una feroce accusa contro la corruzione della borghesia e una stigmatizzazione della famiglia - inferno quotidiano, ma anche un lavoro polemico nei confronti della religione cattolica e della credulità popolare. Da recuperare, in dvd, visto che è reperibile un’edizione Cecchi Gori. Peccato che il romano Luigi Nasca (1937 - 1989) abbia girato soltanto sei film, perché la sua feroce polemica e la rabbia contro convenzioni e ambienti borghesi avrebbero potuto produrre risultati interessanti. Tra le cose migliori ricordiamo il dissacrante Vergine e di nome Maria (1975), che ebbe qualche problema con la bigotta censura del tempo e il suo ultimo film - La posta in gioco (1988) - girato un anno prima della morte, un interessante atto di accusa contro certa politica corrotta. 


mercoledì 26 novembre 2014

Ragazze in affitto spa (1980)

di Régine Deforges e Mauro Ivaldi


Regia: Régine Deforges (Michel Lemoine), Mauro Ivaldi. Soggetto e Sceneggiatura: Mauro Ivaldi, Régine Deforges. Fotografia: Cristiano Pogany, Alaine Derobe. Montaggio: Michel Valio. Direttori di Produzione: Franco Campitelli, Henri Baum. Scenografia: Paola Marchesin. Musiche: Martial Carceles (Edizioni Art Music France). Trucco: Lamberto Marini, Christine Fornelli. Aiuto Regista: Alessandro Metz, Giuseppe Gargiulo, Pascal Judelewich. Colore: La Microstampa. Edizione Italiana: A. B. Services. Produzione: New Movie Productions (Roma), Belstar Productions e Cathala Productions (Parigi) Titolo originale: Les filles de madame Claude. Genere: erotico. Interpreti: Carina Barone (Jeanne), Francoise Gayat (Doris), Zora Kerova (Nathalie), Carmen Russo (Luciana), Antonio Ferrante, Vito Fornari, Gérard Lauzier, Piero Vivaldi, Domenico Trobu, Maria Rosaria Mafella. 



Ragazze in affitto spa - titolo francese: Les filles de madame Claude - può essere considerato un film erotico italiano, perché si nota la mano esperta di Mauro Ivaldi, come sceneggiatore e coregista (non accreditato). Produzione italo - francese. Il regista accreditato si nasconde dietro lo pseudonimo di Régine Deforges, ma si tratta di Michel Charles Lemoine (1922 - 2013), attore e regista francese, autore di pellicole erotiche, commedie e drammatiche, per finire la carriera nel cinema hard. Mauro Ivaldi (1942 - 1984) è il marito della cantante - attrice Carmen Villani, che ha diretto in alcune pellicole erotiche girate nel periodo 1974 - 1978.



La trama si riassume nello strillo di copertina: “Tre call-girls si ritrovano alle prese con tre richieste stravaganti. Ognuna di loro dovrà cavarsela da professionista. Compresa Carmen Russo che se la deve vedere con un camionista in vena di spese”. Vale la pena dire qualcosa di più, aggiungendo che dovrebbe circolare anche una versione porno, addizionata di inserti, ma che in ogni caso ricordiamo (in gioventù) di aver visto la versione cut.
Il film è strutturato in tre episodi, contrassegnati da nomi femminili: Jeanne (con Carina Barone), Doris (con Francoise Gayat), Nathalie (con Zora Kerova e Carmen Russo). Roberto Cozzuol - nella interessante pagina Facebook Italia Film 1960/ 1980 - afferma: “Tutto è tremendo, al di sotto di ogni più nera previsione. Realizzazione assai misera, Carmen Russo assai prospera. Esempio lampante di film da fast forward”. 



Sarà la nostalgia, sarà che la prima volta l’abbiamo visto a vent’anni (in sala) ma tutto sommato non l’abbiamo trovato così pessimo. Certo, non è un capolavoro, ma l’erotismo è abbastanza raffinato, segue la lezione di Joe D’Amato, a tratti persino di Tinto Brass (il letto con gli specchi), pure se molte sequenze estreme ricordano un porno tagliato. Efficace Carina Barone nei panni della donna europea chiamata a soddisfare le voglie di un miliardario asiatico. Esotico - erotico ambientato ad Hong Kong, tra battelli e case da gioco, grattacieli e scene ai limiti del porno. Memorabile la sequenza con la Barone messa in palio per alcuni giocatori asiatici che dopo ogni sconfitta la possiedono in maniera diversa.



Bene Francoise Gayat, donna oggetto di un torero in pensione che da giovane ha passato del tempo in convento dopo un incidente e sogna di andare a letto con le suore. Straordinarie Zora Kerowa e Carmen Russo, raramente così nude e disponibili, ai limiti del porno in alcune sequenze hot insieme a due focosi camionisti. Certo, non abbiamo visto Riso amaro, né C’eravamo tanto amati, non è un film di Tornatore o di Visconti. Abbiamo visto un film erotico, girato da due professionisti che sanno fare il loro mestiere, perché l’erotismo è ai massimi livelli e lo scopo prefissato può dirsi raggiunto.



Tutte le perversioni possibili vengono passate in rassegna: sadomasochismo, coito anale, fellatio, lesbismo… La confezione è passabile, la musica funzionale alle storie narrate, la fotografia (soprattutto nel primo episodio) abbastanza curata. Poco uniformi i tre episodi che spaziano in contesti e ambientazioni completamente diversi. Consigliamo la visione agli amanti del cinema erotico. 


martedì 25 novembre 2014

Fuga di cervelli (2013)

di Paolo Ruffini


Regia: Paolo Ruffini. Soggetto: Andra Noj, Alessia Crocini, Nicola Gaglianone. Sceneggiatura: Paolo Ruffini, Guido Chiesa, Giovanni Bognetti. Fotografia: Federico Masiero. Montaggio: Caludio Di Mauro. Musiche: Andrea Farri, Claudia Campolongo. Produttori: Maurizio Totti, Alessandro Usai. Casa di Produzione: Colorado Film, Medusa Film, Mediaset Premium. Distribuzione: Medusa Film. Durata: 100’. Genere: Commedia (?). Interpreti: Luca Peracino (Emilio), Paolo Ruffini (Alfredo), Guglielmo Scilla (Lebowski), Frank Matano (Franco), Andrea Pisani (Alonso), Gaia Messerklinger (Claudia), Olga Kent (Nadia), Giulia Ottonello (Karen), Niccolò Senni (Chamberlain), Daniel McVicar (Dean Perry), Biagio Izzo (zio di Franco), Rosalia Porcaro (madre di Franco), Marco Messeri (padre di Alfredo), Michela Andreozzi (madre di Lebowski), Michele Manca (Pino La Lavatrice), Andrea Buscemi.


Fuga di cervelli è un film che vorremmo non aver visto, ma ora che il peggio è passato sentiamo il dovere morale di scriverne. Prima di tutto siamo di fronte a un remake dello spagnolo Fuga de cerebros di Fernando Gonzáles Molina, campione d’incassi nella penisola iberica. Non l’abbiamo visto - e non siamo curiosi di recuperarlo - quindi non azzardiamo paragoni con l’originale. Paolo Ruffini è un regista che si è formato sui sacri testi, roba come American Pie, Una notte al museo, Animal House, persino sulla filmografia di Ciro Ippolito (ma ha imparato poco) e sulla serie dei Cinque matti interpretata da Les Charlots. Il suo esordio alla regia lo vede alle prese con una commedia demenziale che si propone di raccontare le vicissitudini di cinque amici problematici. Incontriamo un cieco logorroico (Ruffini), un gay non dichiarato (Matano), un timido patologico (Peracino), un handicappato (Pisani) e uno strano tipo che gira con una zebra (Scilla). Alfredo, Lebowski, Franco e Alonso sono quattro amici in fuga di studio (si fa per dire) a Oxford, impegnati a far trionfare l’amore tra il timido Emilio (Peracino) e la bella Nadia (Kent), ma durante la permanenza in terra britannica ci sarà per tutti una svolta esistenziale.
 
 
Il film è girato quasi interamente a Torino con una tecnica approssimativa ed elementare, da television-movie, piena di movimenti di macchina avvolgenti, inutili, persino pacchiani. Ruffini inventa un sottogenere per il quale forse passerà alla storia, facendo impazzire i futuri esegeti del brutto: lo stocazzo-movie, declinabile come abbestia-movie, con varianti da puppa-movie e venature di scorreggia-movie del Duemila. Una fastidiosa voce fuori campo (l’onnipresente Ruffini) introduce la storia dei cinque amici imitando pateticamente Virzì con un incipit da Ovosodo trash. Ruffini è anche attore (parola grossa), interpreta il cieco arrogante che s’innamora di una non vedente e tormenta da sempre il povero Emilio con scherzi da caserma. Frank Matano è più insopportabile di Ruffini con la battuta storica riciclata da Zelig: “Ottimismo!”, aprendo le mani e mimando un otto. Si toccano vette di comicità con l’assonanza tra sciopero e Schopenauer, le seghe mentali strusciando le mani alle tempie, i dialoghi assurdi con finti inglesi.
 
 
Battuta memorabile di Ruffini al patetico Peracino: “Secondo me sei uscito dal culo perché di fica non ci capisci una sega!”. Ma anche: “In camera sua si studia e si tromba abbestia!”. Forse la gag migliore è la mancata dissezione anatomica di Peracino che viene scambiato per necrofilo quando si agita in modo innaturale sopra un cadavere. E poi via, tra scorregge, rutti, flatulenze, alcune scene onirico - erotiche con la bella Kent, divagazioni shakespeariane in salsa trash con Romeo e Troietta, cena con Ruffini che colpisce nelle parti basse un cameriere e Peracino che confessa di amare le vecchie in casa della futura fidanzata.
 
 
Vero che siamo di fronte a una commedia demenziale e che il senso non va cercato dove non può esserci, ma anche gli Squallor facevano comicità surreale e il loro Arrapaho è rimasto nella storia, così come Attila di Castellano & Pipolo, interpretato da Abatantuono, è un monumento al trash intelligente. Fuga di cervelli è immune dalle battute spiritose, punta tutto sulla comicità adolescenziale e sulle situazioni volgari degne del Vernacoliere. Viene da chiedersi se servivano ben tre soggettisti e tre sceneggiatori per scrivere una simile sciocchezza.
 
 
Non solo: la fotografia è anonima, la musica orrenda, il montaggio poco serrato e i tempi comici sono inesistenti. In compenso Ruffini pretende di farci la morale ed esprime la sua concezione della vita quando lo sfigato si ribella e accusa gli amici di stare insieme solo perché diversi. Ruffini rincara la dose in uno stucchevole lieto fine: “Nessuno è sfigato se ha degli amici!”. Non perdete i titoli di coda, subito dopo una comparsata di Diego Abatantuono che passeggia con il cellulare, perché sono la cosa migliore del film. Potete gustare una divertente raccolta di errori con le sequenze tagliate da Fuga di cervelli. Cinque milioni di euro d’incasso. Persino troppi. Nonostante tutto Paolo Ruffini è uscito con un nuovo film: Tutto molto bello (2014). Un titolo che presta il fianco a facili battute. Registriamo lo sconforto per un mercato cinematografico in cui giovani di talento faticano a realizzare progetti originali mentre prodotti indefinibili escono sotto l’egida di Colorado Film e Medusa.  

giovedì 20 novembre 2014

Gordiano Lupi racconta i primi 15 anni del Foglio Letterario




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E poi cominciatti a fa’ l’attore


Ezio Cardarelli
E poi cominciatti a fa’ l’attore
Ad Est dell’equatore – Euro 12 – Pag. 170
www.adestdellequatore.com
info@adestdellequatore.com

Mi riprometto di tornare sull’argomento in maniera più approfondita, perché Bombolo – al secolo Franco Lechner – è un caratterista che merita attenzione, ma non potevo fare a meno di segnalare che ho appena finito di leggere un libro fantastico, una vera e propria biografia del comico più naturale del nostro cinema. Ezio Cardarelli è un poliziotto – come Nico Giraldi, precisa nella nota biografica – che si cimenta per la prima volta con la scrittura di un libro, per amore nei confronti del cinema di Tomas Milian e della comicità di Bombolo. Tutto nasce a Miami Beach, dove Cardarelli conosce e intervista er cubbano de Roma, spinta emotiva necessaria a realizzare un’opera importante. Il libro comincia proprio da Milian, ma prosegue con la vita di Bombolo, raccontata con le sue parole, con il suo slang, con tanti episodi di vita in borgata e momenti di cinema. Il libro è anche una storia in piccolo della Roma povera, dove si parla come si mangia, un testo dal quale emerge tutta la genuina spontaneità di Bombolo. Il lettore troverà appagate le sue curiosità: il quartiere natale, il carrettino per vendere piatti e mercanzia per strada, il rapporto stretto con il fratello, l’esordio in teatro, grazie a Castellacci e Pingitore che lo scoprono tra i commensali del ristorante Picchiottino, il lavoro con Tomas Milian, Pippo Franco, Enzo Cannavale. Cardarelli fotografa Bombolo come un irresistibile comico naturale, che non aveva bisogno di recitare, ma bastava mettesse in campo la sua mimica facciale, le sue battute corporali, il suo mitico tzé-tzé, come ricorda Marco Giusti in una brillante prefazione. Il lettore troverà le testimonianze di Pingitore, Martufello, Galliano Juso, Alessandra Cardini, dei familiari e di tutti coloro che hanno conosciuto Bombolo. Interessante apparato fotografico e filmografia completa, da Remo e Romolo (1976) a Giuro che ti amo (1986), senza dimenticare TV e teatro. Cardarelli non è un critico con la puzza sotto il naso, ma un entusiasta del cinema italiano perduto, uno che ama Gloria Guida, Lilli Carati, Edwige Fenech e che non si vergogna a definire W la foca! un capolavoro. Quanto siamo simili… forse proprio per questo metterò il suo libro tra le cose più importanti della mia biblioteca. Complimenti anche all’editore che fa pagare un prezzo onesto per acquistare un’opera che celebra con umiltà e buon gusto il nostro cinema popolare.

domenica 16 novembre 2014

Candido erotico (1978)


di Claudio De Molinis



Regia: Claudio De Molinis (Claudio Giorgiutti). Soggetto: Franca Rodolfi, Luigi Bernardi. Sceneggiatura: Romano Bernardi. Montaggio: Giancarlo Venarucci. Fotografia: Emilio Loffredo (Technicolor). Musica: Nico Fidenco. Direzione Musiche: Guido Dell’Orso (Edizioni Musicali West). Canzone Titoli: Devious Man (Reidcollin - Fidenco), cantata da Mircha Carven. Scenografia: Marco Canevari. Costumi: Massimo Lentini. Produttore: Dino Di Salvo. Casa di Produzione: Polo Film. Presentano: Dante Fava, Francesco Antonelli Incalzi. Direttore di Produzione: Placido Di Salvo. Assistenti alla Produzione: David Pash, Luigi Groppo. Assistente alla Regia: Mario Sigmund. Operatore alla Macchina: Massimo Di Venanzo. Versione Inglese: Marvel Sound (Roma), diretta da Cesare mancini. Interni: De Paolis - Incir (Roma). Esterni: Copenaghen, Milano, Roma. Negativi: Kodak, Eastmancolor.  Titolo Estero: A man for sale. Interpreti: Lilli Carati (Charlotte), Mircha Carven (Carlo), Marco Guglielmi (Paul), Ajita Wilson (sex performer), Maria Baxa (Veronique), Fernando Cerulli (voyeur in treno), Carlos Albert Valles, Lionello Pio Di Savoia, Filippo Perego.

Candido erotico è il miglior film di Claudio Giorgiutti, modesto attore - regista noto come Claudio Giorgi, che spesso si fa chiamare Claudio De Molinis, in onore alla terra natia (Molinis Di Tarcento, Udine, 1944). Melodramma erotico a tinte romantiche pervaso di un erotismo malsano e di graffianti messaggi antiborghesi. Carlo (Carven) è un sexy performer italiano (di Rovigo) che trova lavoro in un porno shop di Copenaghen dove incontra la vecchia fiamma Veronique (Baxa), fotografa perversa che ha sposato il vizioso Paul (Guglielmi), padre di una figlia modello come Charlotte (Carati). Veronique e Paul amano far l’amore in tre con la collaborazione di Carlo, ed è il marito che lo chiede, uomo moralmente rispettabile, che sfoggia alti valori in pubblico ma è il personaggio più depravato. Vizi privati e pubbliche virtù, come da antica lezione della storia. 



Charlotte e Carlo si conoscono, si innamorano e decidono di sposarsi, vanno in viaggio di nozze a Roma, ma si accorgono che il rapporto erotico non funziona. Carlo può possedere Charlotte soltanto in presenza di estranei, ormai è marcio - come dirà Veronique - e non può vivere una storia d’amore normale. Un giorno Charlotte scopre l’intrallazzo erotico tra il padre, la matrigna e il marito, ultimo colpo per la sua traballante psicologia. Carlo e Charlotte riescono a far l’amore in pubblico, durante uno spettacolo, ma è il preludio della fine, perché la ragazza decide di fuggire verso una nuova vita.



Tra gli interpreti segnaliamo la presenza del transessuale Ajita Wilson che si nota in alcuni plastici nudi nel ruolo di sexy performer. Molto bravo lo statunitense Carven, che nel cinema italiano non ha fatto molto (Al di là del bene e del male, Cattivi pensieri, Bluff…), ma che in questo film canta persino la canzone country dei titoli di testa e di coda. Bravissima Lilli Carati, sensuale e ispirata, ben calata nella parte della studentessa innamorata, ottima interprete di sequenze erotiche perverse e piuttosto hot. Maria Baxa è affascinante, una deliziosa slava di Belgrado nata nel 1948 (o nel 1949 secondo altre fonti) che ha lavorato quasi esclusivamente nel campo dell’erotico e del poliziottesco. Convince anche Marco Guglielmi in una parte - per lui insolita - da padre perverso che contempla brevi sequenze erotiche. Fernando Cerulli, invece, è a suo agio in un ruolo consueto da voyeur, che apprezziamo durante un rapporto tra Carven e Carati all’interno di un vagone ferroviario



Il film è ben ambientato in una Copenaghen gelida e nordica, fotografata con toni nitidi che volgono in ocra per immortalare il tramonto. Bravo Emilio Loffredo che riesce a passare dal panorama surreale di un Luna Park in abbandono ai quartieri a luce rossa, divagando per boschi, laghi, fiumi e campagna verdeggiante. Ottima la colonna sonora di Nico Fidenco, suadente e romantica, con pezzi di pianoforte e struggenti assolo di tromba. Le coreografie erotiche sono ben fatte, non disturbano, interpretate con disinvoltura sul palcoscenico di un night. La parte erotica è girata con perizia insolita per De Molinis, soprattutto le sequenze con i guardoni di turno - il pescatore e il viaggiatore - sono intense e perverse al punto giusto. Molti nudi, plastici e decorativi, ma anche tanto erotismo raffinato, patinato, realizzato con gusto. 



Al tempo stesso la parte romantica non lascia a desiderare, ma è confezionata con passione e la storia convince, si lascia seguire con trasporto. Sguardi che s’incrociano, primi piani intensi dei protagonisti, da film romantico, stile Love Story. Luigi Bernardi - scrittore che ci ha lasciati troppo presto - scrive un soggetto interessante e originale, un’insolita storia d’amore impossibile, tra due persone che si amano, con la variante della gelosia della vecchia amante, matrigna della figlia che contrasta il rapporto. Ma il vero rivale è il marcio che cova dentro l’uomo, la corruzione che gli impedisce di vivere una storia normale. 



Candido erotico - rende molto di più il titolo inglese A man for sale - a tratti ricorda il clima dei lacrima movie e infatti l’amore impossibile finisce in lacrime dopo la consumazione del rapporto in pubblico, perché entrambi comprendono di non poter vivere insieme. Melodrammatico il finale che vede Carven specchiarsi con tristezza in camerino e togliersi il trucco di scena, mentre un ispirato montaggio alterna immagini della ragazza che fugge dalla sua vita. Molti messaggi politici in funzione antiborghese, contro l’ipocrisia dei benpensanti, che lasciano il posto a lunghe corse sul mare e passeggiate romantiche, ma anche a intense parti erotiche. 



Non mancano sequenze psichedeliche e oniriche, festini e orge a base di coca, spinelli e sesso che si interrompono in visioni romantiche della donna amata. De Molinis (ma forse è Bernardi) cita persino Hobbes: Non credo in Dio, ma nell’uomo e nella bestia che c’è in lui. Molti piani sequenza struggenti e poetici rendono quasi unico questo melodramma erotico - esistenziale che consigliamo di recuperare e di rivedere senza i pregiudizi tipici della critica con la puzza sotto il naso. Per tutti Mereghetti che lo definisce kitsch e moralistico. Abbiamo visto lo stesso film?



La colonna sonora di Nico Fidenco

giovedì 13 novembre 2014

15 anni del Foglio Letterario

Attila flagello di Dio (1982)

di Castellano & Pipolo

 
Regia: Castellano & Pipolo. Soggetto: Castellano & Pipolo, Mario Cecchi Gori. Sceneggiatura: Castellano & Pipolo. Fotografia: Carlo Carlini. Montaggio: Antonio Siciliano. Scenografie: Franco Vanorio. Operatore alla Macchina: Massimo Carlini. Fotografo di scena: Fabrizio Botteghi. Effetti Speciali: Renato Agostini. Costumi: Luca Sabatelli. Musiche: Franz Di Cioccio, Franco Mussida. Organizzatore Generale: Giorgio Morra. Aiuto Regista: Alessandro Metz. Assistente alla Regia: Federico Moccia. Scene Acrobatiche: Rocco Lerro. Direttore di Produzione: Nico Forte. Trucco: Maurizio Silvi. Produttori: Mario e Vittorio Cecchi Gori. Casa di Produzione: Intercapital srl. Doppiaggio: S.A.S.. Edizioni Musicali: Madimund Slalom. Colore: Technicolor. Teatri di Posa: Elios (Roma). Durata. 97’. Genere. Commedia. Interpreti: Diego Abatantuono, Rita Rusic, Angelo Infanti, Mauro Di Francesco, Armando Marra, Franz Di Cioccio (il Giallo), Luciano Stella, Elsa Vazzoler, Toni Ucci, Vincenzo Crocitti, Iris Margareta Peynado, Francesco Salvi, Anna Kanakis, Giuseppe Castellano, Franco Diogene, Mario Pedone, Armando Celso, Alfio Patanè, Angelo Susani, Flavio Buccianini, Paolo Rita Brazzali, Massimo Pittarello, Tiberio Murgia, Diego Cappuccio.

 
Attila è un film comico che resiste al tempo e che si è guadagnato lo status di cult nel corso degli anni, visto che quando uscì non riscosse grande accoglienza da parte del pubblico. Va da sé che la critica alta è rimasta coerente, ché lo distrugge oggi come lo massacrò in passato. Attila è un film demenziale, zeppo di anacronismi, di battute terra terra, di situazioni assurde, ma funziona proprio per la totale mancanza di logica e per la confezione insolita da prodotto ibrido. Attila non è peplum comico, non è commedia all’italiana, non è farsa nuda e cruda, non è cinema in costume, non è commedia sexy, ma è un po’ di tutto questo: commistione di generi. 


Protagonista assoluto: Diego Abatantuono, utilizzato al meglio delle sue possibilità, all’apice del successo, con il suo slang da terrunciello milanese al ciento per ciento in chiave barbara. La caratterizzazione di Attila versione comico - demenziale è fantastica, nella sua illogica antistoricità, tra dialoghi che sembrano usciti da un film di Totò e baruffe stile fumetto di Asterix. Castellano & Pipolo girano una commedia demenziale ricorrendo agli artifici dei cartoni animati: si pensi all’enorme martello che Attila si porta appresso per punire i nemici, ma anche al barbaro che respinge a testate grossi macigni di pietra. Straordinarie le sequenze con la vespa sul naso schiacciata a martellate, i maiali molto setolosi (cinghiali!) cacciati a mani nude, le risate a comando, la lotta a zampa di ferro e a testate...


Per non parlare dei siparietti musicali: “E noi seguiamo te che sei lo re!” e del rullo funebre con accompagnamento canoro ogni volta che muore un barbaro. Mauro Di Francesco è il polemico vice di Attila che mette in discussione la sua autorità e alla fine viene tolto di mezzo come una zavorra. Francesco Salvi è un giovane attore - cantante che comincia a guadagnare popolarità e si ritaglia un ruolo molto fumettistico. Rita Rusic è una bellissima esordiente - scelta perché Vittorio Cecchi Gori s’innamora di lei - nei panni di Uraia, la compagna di Attila, ma è stupenda l’idea di presentarla come mondina in una sorta d’imitazione - citazione della Silvana Mangano di Riso amaro. Attila avanza contro Roma senza cavalli, ma con i soldati a spingere il carro, dove svetta una bandiera rossonera (battuta trash calcistica: è lo stemma del Milan!), dopo aver sentito il parere della maga Columbia.
Trovata geniale: prima della maga - una bellissima Iris Peynado - compare la sigla della Columbia Pictures. Proprio lei definisce il barbaro con il nome di Attila, flagello di Dio, ma il nostro eroe non comprende: “Attalo? Attalo, fratello de Dio?”. La battuta è storica e si tramanda di padre in figlio. Enzo Crocitti, barbaro diffidente, viene trasformato in asino mannaro, che diventa un quadrupede ogni notte di luna piena. Angelo Infanti è il comandante romano che s’innamora di Uraia e cerca di sposarla dopo averla rapita, ma viene sconfitto da Attila. Altra scena rimasta nell’immaginario giovanile è il dialogo urlato tra Ennio Antonelli (soldato romano) e Abatantuono che fa lo spelling del suo nome: “ A come atrocità, doppia T come terremoto e traggedia, I come ir’ di Dio, L come laco ti sancue e A come adesso vengo e ti sfascio le corna!”.


Altra trovata trash il barbaro francese Renolto che si esprime come una macchina umana e quando muore (trafitto da una lancia!) si spegne il motore, ma anche Anna Kanakis come stupenda sirena tentatrice non è da meno. Castellano & Pipolo realizzano una commistione tra Odissea e storia romana, inserendo Franco Diogene come laido mercante genovese che salva i barbari dal naufragio e li porta in Maremma. L’attacco al castello di Saturnia è anacronismo totale, perché vestiti e scenografie sono da Medio Evo, ma va bene lo stesso, non siamo in un peplum serio.


Altra parte straordinaria vede protagonisti Abatantuono e Di Francesco costretti a subire una lezione di scienze e di storia dal maestro Silone (Marra), che Attila ribattezza Cifone (alla Totò). Toni Ucci è Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore, in un breve cammeo, dove inganna Attila, incapace di imitare Brenno con il gesto della spada sulla bilancia. I barbari bevono il vino drogato dei romani e Abatantuono mormora: “Vedo Anzio, anzi Bisanzio”. Lieto fine per Attila e la Rusic, dopo una comica battaglia tra romani e barbari con uccisioni che fanno ridere da quanto sono fumettistiche. Fuga in pallone aerostatico, grazie al maestro Silone che prima di morire indica un’altra anacronistica via di fuga. “Silone era saputo e mo’ è moruto!”, cantano Abatantuono e De Francesco. La parola Fine scorre sul bacio aereo tra Rita Rusic e Diego Abatantuono. Un film fuori da ogni regola, lunare, surreale, citato da tutti a distanza di anni, un film di culto che può essere definito una variante peplum - comica degli Abatantuono-movie

 
Pipolo (Giuseppe Moccia) riferisce: “Un film difficile da girare, con scene pericolose, per me e Castellano, ma anche per mio figlio Federico (lo scrittore dei romanzi adolescenziali), aiuto regista. Ricordo la sequenza con una tigre, per niente socievole. Abatantuono era un vero divo, sempre in ritardo, faceva il comodo suo e il mio amico Mario andava in bestia perché lui era l’essenza della puntualità. Io meno, non ero tedesco, ma napoletano... mi adattavo ai suoi ritmi. In vita mia sono sempre stato trattato male dalla critica, perché ho sempre fatto film comici, ho lavorato con Totò, Celentano, Abatantuono... La critica italiana ha troppi pregiudizi verso chi lavora per far ridere. In questo film ci sono tanti volti nuovi: Francesco Salvi (un attore - cantante che si stava facendo strada con il pezzo trash C’è da spostare una macchina), Franz Di Cioccio (un bravo musicista), Angelo Infanti... Io e Castellano selezionammo una serie di fusti da far paura. Ricordo che il mio collega - amico espose un cartello con sopra scritto: Non stringo mani. Eravamo molto amici, io e Castellano, entrambi laziali, frequentavamo le stesse trattorie, anche se avevamo caratteri opposti. Adesso che è morto mi manca molto”. Senza Castellano, Pipolo ha diretto Panarea, il suo ultimo film. Adesso è morto anche lui e manca a tutti noi il suo cinema semplice, la sua comicità elementare, a metà strada tra cartone animato e fumetto. Forse sta organizzando in Paradiso una nuova commedia musicale insieme al suo amico Castellano. Protagonisti sicuri Totò e De Filippo.

 

lunedì 10 novembre 2014

Il paramedico (1981)

di Sergio Nasca


Regia: Sergio Nasca. Soggetto: Sergio Nasca, Enrico Montesano. Sceneggiatura: Laura Toscano, Franco Marotta, Sergio Nasca, Enrico Montesano, Gianfranco Manfredi. Fotografia: Giuseppe Aquari. Montaggio: Enzo Siciliano. Musiche: Armando Trovajoli. Produttore: Fulvio Lucisano. Casa di Produzione: Italian International Film. Distribuzione: Medusa. Durata: 105’. Genere: Commedia. Interpreti: Enrico Montesano, Edwige Fenech, Daniela Poggi, Rossano Brazzi, Marco Messeri, Leo Gullotta, Enzo Robutti, Barbara Herrera, Mauro Di Francesco, Enzo Cannavale, Enzo Liberti, Pietro Zardini, Franco Diogene, Carlo Monni, Ugo Fangareggi, Antonia Carmi, Calogero Buttà, Francesco Bagagli, Roberto Ceccacci, Clarita Gatto, Corrado Cartia, Maurizio Gaudio, Gabriele Villa, Nicola Di Gioia.


Il paramedico (1982) è una commedia politico - erotica di poche pretese interpretata con ironia da Enrico Montesano e Edwige Fenech. 
Sergio Nasca (1937 - 1989), come insegna l’indispensabile manuale di Roberto Poppi, è un aiuto regista che dirige una manciata di pellicole di scarso rilievo: Il saprofita, 1973; Vergine e di nome Maria, 1975; Stato interessante, 1976; Il paramedico, 1981; D’Annunzio, 1985; La posta in gioco, 1987. La sua importanza - soprattutto con Il saprofita e Vergine e di nome Maria - sta nel tentativo di sovvertire certe regole, nella volontà di trasgredire e scuotere dal torpore la cinematografia italiana. Il paramedico fa parte del suo periodo meno impegnato ed è una commedia pensata per fare incassi al botteghino, sceneggiata da Manfredi, Toscano e Marotta, su idea di Montesano e del regista. Accenni politici molto stemperati, che torneranno con prepotenza ne La posta in gioco


Vediamo la trama. Enrico Montesano è Mario, un infermiere del Policlinico che lavora come un matto e convive con Nina (Edwige Fenech), moglie fredda e teledipendente. Insolito il ruolo della bella Fenech che con tutto quel ben di Dio che si ritrova non è molto credibile nei panni di una moglie immune da voglie erotiche. La Fenech passa le giornate incollata alla televisione, telefona a trasmissioni di fantascienza, racconta di aver visto gli UFO e si appassiona alle telenovelas. Il suo teleromanzo preferito è Perfidia che narra le disavventure del conte Gondrano e quando passa in tv non è capace di pensare ad altro. Montesano prova ad accarezzarla, le scopre le cosce - per la gioia del pubblico maschile - ma niente da fare. In compenso sogna di portarsela a letto nei panni di un improbabile sultano mentre lei è in abiti da suora e resta vestita di un sensuale babydoll. Edwige Fenech è vestitissima, la sola sequenza sexy è il sogno del marito. Daniela Poggi invece alza il tasso erotico del film, compare nuda in un paio di scene, sedere in mostra e seni al vento, persino cor pelo de fori, come direbbe Fulci. 


Il soggetto è piuttosto debole. Montesano vince a una lotteria una Fiat Argenta 2000 metallizzata (La Fiat è sponsor del film!) e si dà alla bella vita senza dire niente alla moglie. Nina sospetta che lui la tradisca e - seguendo le indicazioni di uno psicologo televisivo - cerca di riconquistarlo coprendolo di attenzioni. Il marito ha ben altro per la testa, per togliersi la moglie di torno racconta la balla della politica notturna, facendole credere di essere entrato a far parte di un gruppo che cambierà l’Italia. Montesano incontra Daniela Poggi, moglie insoddisfatta di un diligente Rossano Brazzi, partecipa a una festa spacciandosi per medico e alla fine va a letto con lei. Le sole scene erotiche sono merito della Poggi che si fa sbirciare le cosce in auto e si concede senza veli al nostro paramedico. 


La trama si ingarbuglia quando l’Argenta viene rubata da alcuni terroristi e la polizia prende Montesano per un bombarolo. Citiamo un ottimo Enzo Robutti nei panni del commissario intransigente e una comparsata di Carlo Monni come agente della DIGOS. Montesano finisce in galera, è tutelato da un avvocato da burletta come Enzo Cannavale (molto bravo) e riesce a ottenere una posizione di privilegio facendo il finto “pentito” e dando nomi di inesistenti complici. La moglie è nel suo centro per via dell’interesse televisivo e giornalistico e si dà da fare raccontando a tutti la sua vita con un terrorista.


Montesano parla e mette nei guai Rossano Brazzi e Daniela Poggi. La verità viene a galla e la moglie del riccone confessa di aver fatto l’amore con l’infermiere proprio la notte dell’attentato. Brazzi fa parte della loggia massonica B2 (ironia sulla P2) e ha molti fratelli che lo tutelano e che lo aiutano. Montesano viene rilasciato, tutti lo evitano come un appestato, ma riconquista la moglie che è diventata ricca dopo aver venduto alla stampa il memoriale. Il finale fa intuire Montesano e la Fenech che fanno l’amore a bordo di una Fiat Argenta, mentre una gru li trasporta a bordo di una nave.


Il paramedico mette in burletta il problema dei delinquenti che collaborano con la giustizia, tenta di fare satira politica, ironizza sulla P2 e sul terrorismo, ma non graffia a dovere. Le gag non sono molto raffinate, la parte sexy troppo limitata e il ritmo modesto. Nasca realizza un prodotto ibrido che non diverte e che si trascina stancamente sino alla fine. Se salviamo le interpretazioni di Enzo Cannavale ed  Enrico Montesano, la pellicola è da dimenticare. 


Per Mereghetti si tratta di “una farsaccia grossolana e sboccata dove Nasca cerca di mescolare comicità e satira sociale con risultati pessimi”. Gianfranco Manfredi, da noi avvicinato, ha riferito: “Sono tra gli sceneggiatori, ma questo film  non sono neanche andato a vederlo. Ho litigato con tutti: attore, regista e produttore, perché ho capito in corsa che sarebbe venuto male, perché se non c’è intesa sul progetto e nemmeno sul set, un film, bene non può venire. Poche cose ho visto e abbastanza da farmi passare la voglia. Per esempio, l’assurda quanto inutile scenetta di Montesano che lega l’utilitaria a un albero con una catena non l’ho scritta io. Una gag buttata lì a caso. Senza senso. E neanche fa ridere. Aggiungo che Lucisano (il produttore) aveva paura di citare la P2 (“Quelli sono importanti”). Risultato? Ha fatto cambiare P2 in B2! Una cosa così sciocca che non vale neanche la pena di commentarla”.

giovedì 6 novembre 2014

C’è un fantasma nel mio letto (1981)

di Claudio De Molinis 


Regia: Claudio De Molinis (Claudio Giorgiutti). Soggetto: Gianni Simonelli. Sceneggiatura: Luis Maria Delgado, Jesus R. Folgar. Fotografia: Raul Perez Cubero. Montaggio: Giorgio Serralonga. Operatori: Emilio Loffredo, Giuseppe Tinelli. Fotografo di Scena: Enzo Savino. Stuntman: Franco Salomon. Scenografia: Gonzalo Garcia Flano. Costumi: Susanna Micozzi. Edizione Italiana: Manlio Camastro. Musica: Piero Umiliani. Edizioni Musicali: Nazionalmusic. Direttore di Produzione: Mauro Ruspantini. Produzione: Italia/ Spagna. Case di Produzione: Telecinema 80 (Italia). Victory Film (Madrid). Teatri di Posa: Incir De Paolis. Effetti Speciali: Mario Bernardo. Distribuzione: Cinedaf. Interpreti: Lilli Carati, Renzo Montagnani, Vincenzo Crocitti, Vanessa Hidalgo, Guerrino Crivello, Alejandra Grepi, Giacomo Assandri, Luciana Turina.

 
Claudio Giorgiutti (1944) è noto (si fa per dire) con gli pseudonimi di Claudio De Molinis, Claudio Giorgi e Claude Miller. Modesto attore, spesso guidato da Bitto Albertini (Poliziotto sprint, Il mondo dei sensi di Emy Wong…), sceneggiatore e regista di uno sparuto numero di pellicole. Si ricorda per due film interpretati da Lilli Carati: Candido erotico (1977) e C’è un fantasma nel mio letto (1981). Il resto della sua produzione è scarso: Ancora una volta… a Venezia (1975), L’unica legge in cui credo (1976), Tranquille donne di campagna (1980) e American Fever (1978). Non lascia il segno nel cinema italiano. Tutt’altro. Se lo ricordiamo è soltanto per commemorare la scomparsa di Lilli Carati, protagonista di C’è un fantasma nel mio letto, ultima pellicola girata da De Molinis. Diciamo subito che non siamo di fronte a un capolavoro e che la critica italo - spagnola è concorde nello stroncare senza prova d’appello questo comico - erotico - fantastico, realizzato partendo da identiche suggestioni del contemporaneo Bollenti spiriti di Giorgio Capitani. Se lo rapportiamo alla restante produzione di De Molinis è comunque il lavoro migliore, forse il solo che si può salvare insieme al drammatico Candido erotico, entrambi interpretati dalla bella attrice varesina.


Vincenzo Crocitti e Lilli Carati sono Camillo e Adelaide, due sposi novelli in vacanza in Inghilterra (ma si vede lontano un miglio che siamo dalle parti di Bolsena), si trovano in mezzo alla nebbia e subiscono un incidente, quindi sono costretti a trovare rifugio in un castello, perché la sola locanda del paese è al completo. Nella magione viveva un barone sessuomane (Montagnani), morto per un eccesso erotico, che insieme al servo deforme (Crivello) tormenta gli ospiti e grazie ad alcuni stratagemmi finisce più volte a letto con la bella mogliettina. Camillo non riesce a consumare il matrimonio, mentre la moglie è convinta di amoreggiare con il marito e si meraviglia della sua virilità. Alla fine grazie a uno scherzo del servo, il fantasma si addormenta mentre Camillo beve una bevanda energetica che gli consente di far l’amore non solo con Adelaide ma anche con le altre donne del castello, baronessa e serva compresa. La conclusione - sfruttata e fumettistica - è che le vicende narrate erano soltanto un sogno di Crocitti, dopo aver battuto la testa, ma al risveglio la visione di un castello in mezzo alla nebbia spinge la coppia a interrompere il viaggio. Tutto potrebbe accadere davvero…


Inutile raccontare altri particolari di una trama che nasce da un soggetto abbastanza scontato di Gianni Simonelli, ma si sviluppa su sentieri ancor più prevedibili raccontati per immagini dagli iberici Luis Maria Delgado e Jesus R. Folgar. Renzo Montagnani è bravo ma può fare poco per sollevare il tasso di comicità di una pochade in salsa fantastica, ricca di nudi integrali ma povera di idee, confezionata a base di fast-motion e sequenze che sembrano prelevate dalle comiche del periodo muto.


Una nota di merito per il coraggioso stuntman Franco Salomon, impegnato in una lunga e pericolosa sequenza a bordo di una moto scatenata, resa indomabile dai poteri magici del fantasma. Vincenzo Crocitti è insolitamente protagonista, ma si limita a svolgere con diligenza il ruolo per cui è noto come caratterista: il marito imbranato. Lilli Carati è doppiata fuori sincronia, non recita male con il corpo, complice una sfolgorante bellezza da venticinquenne, che le permette di mostrarsi nuda mentre fa il bagno in vasca e quando amoreggia con il fantasma. Interessanti da un punto di vista erotico alcune sequenze al tavolino dove la macchina da presa funziona come soggettiva del fantasma e si spinge a perlustrare le zone più recondite del suo corpo. Tra le attrici ricordiamo le iberiche Vanessa Hidalgo e Alejandra Grepi, che non disdegnano nudi integrali, mentre Luciana Turina è più morigerata, ma finisce a letto con il servo del fantasma e - nel finale - con un infoiato Crocitti.


C’è un fantasma nel mio letto è un comico - erotico di modesta fattura, che in ogni caso gode delle buone musiche di Piero Umiliani (persino La cavalleria rusticana) e della presenza di due attori come Renzo Montagnani e Lilli Carati. Molto fumettistico, zeppo di ammiccamenti alle convenzioni di commedia sexy e western, impregnato di soggettive da cartone animato, narrato con tono grottesco e molto sopra le righe. Paragonato a molte commedie italiane contemporanee, il film di De Molinis esce vincitore, ma il suo tasso di comicità è inferiore alla media del periodo. Consigliato soprattutto per chi vuole ammirare ancora la bellezza di Lilli Carati.

sabato 1 novembre 2014

Monnezza amore mio


Manlio Gomarasca trasforma in realtà il libro della sua vita, promesso ai fan di Tomas Milian da almeno quindici anni, dai tempi in cui Nocturno Cinema era soltanto una fanzine. Monnezza amore mio - strutturato come un dialogo tra il personaggio e l’attore - è frutto dei ricordi di Milian e della sua volontà di raccontarsi a ruota libera, ma è soprattutto merito di una scrittura nitida e ammaliante di Gomarasca che ti obbliga a continuare nella lettura come se tu sfogliassi un thriller. Tomas Milian da buon cubano racconta la sua verità, com’è giusto che sia, perché il libro è la sua biografia, non un saggio di cinema. Una verità che non piacerà a Dardano Sacchetti e Umberto Lenzi, che per anni si sono disputati la paternità del Monnezza, perché l’attore afferma di essere l’inventore del personaggio, di aver scritto dialoghi e battute, di aver ideato look, smorfie, parolacce, rime baciate, imprecazioni. Peccato che nel libro non ci sia spazio per Ferruccio Amendola, doppiatore che ha contribuito al successo di Milian, mentre Bombolo e Quinto Giambi sono citati a dovere. Per il resto, non manca niente: il suicidio del padre, l’Actor’s Studio, il successo italiano, il triste ritorno negli Stati Uniti. Pagine che raccontano la bisessualità, il rapporto con la famiglia e con un figlio riconquistato dopo un breve abbandono, il consumo di droga, la crisi provocata da alcol e cocaina, la vocazione mistica e il viaggio in India.


Monnezza amore mio è un libro che mi fa tornare alla memoria la quantità industriale di pellicole viste da ragazzetto in un cinema di seconda visione della mia città. Quella sala, che io ricordo bellissima ma che forse non lo era, si chiamava Cinema Teatro Sempione e la domenica era presa d’assalto da frotte di ragazzini che facevano la ressa al botteghino per acquistare il biglietto. C’ero anch’io tra quei ragazzini, ricordo che ci davamo botte, spinte e calci per entrare e aggiudicarci i posti migliori. Prima di entrare in sala si doveva far provvista al banchetto della signora che vendeva semi, noccioline, duri alla menta, stringhe di liquirizia… Il posto in galleria era il più ambito, ché le bucce dei semi e delle noccioline erano armi di prima scelta per bersagliare quei poveracci della platea. Al Sempione proiettavano due pellicole alla volta, entravi alle tre del pomeriggio e ne venivi fuori che era ora di cena. Di solito passavano film di genere, da sala di seconda visione, un ricordo del passato, sono locali scomparsi, uccisi dalla televisione. Al Sempione mi sono visto il ciclo storico di Godzilla, il peplum all’italiana, spaghetti-western in quantità industriale, poliziotteschi che non vi dico, horror di Bava, Freda, Fulci, D’Amato, pellicole comiche di Totò, Franco e Ciccio, Gianni e Pinotto. Tutto quel che piaceva a noi ragazzini degli anni negli anni Settanta lo programmavano al Sempione. Mi fa una rabbia oggi passare per Corso Italia, che sarebbe la strada principale del luogo dove vivo, e vedere che al posto del Sempione c’è una profumeria. Del Sempione è rimasta la facciata, il ricordo di quel che era, l’insegna è la stessa ma dentro vendono profumi invece che emozioni. E mica è la stessa cosa. Quando ne discussero in Consiglio Comunale non ci fu un assessore contrario, non uno a dire: “Il Sempione sarebbe proprio un bel cinema d’essai”. Nessuno. Va bene, andiamo avanti così. Facciamoci del male, direbbe Nanni Moretti.


Ho scoperto Tomas Milian proprio sulle scomode panche di legno del Sempione. Dal 1968 al 1972 lui era alle prese con lo spaghetti-western e io ero un ragazzino di otto - dodici anni che la domenica andava al cinema con la nonna, grande divoratrice di cinema. Io amavo quei film, mi emozionavano, mi facevano sognare. E poi ero convinto che fossero americani, mica me ne intendevo di cinema, mi bastava vedere film d’avventura. Un bel giorno fu mio padre a distruggere il sogno. Mi venne a dire che erano spaghetti-western e che li giravano in Sardegna, quando andava bene in Spagna, ma in America e in Messico proprio no, erano posti che i registi non avevano visto neppure in cartolina. Forse per questa sorta di choc giovanile ancora adesso mi è rimasta la fissa del cinema italiano.


Tomas Milian ha accompagnato la mia giovinezza pure negli anni che è passato al poliziottesco. Tutti film che mi sono visto in prima visione al cinema più grande della città, che è sopravvissuto alle televisioni commerciali e si chiama Metropolitan. Ero ancora più grande, studente di liceo e universitario, quando andavo a vedere Nico Giraldi e Venticello, sganasciandomi dalle risate seguendo trame improbabili e dialoghi al limite del turpiloquio. C’è stato un lungo periodo che me lo sono perso il buon Tomas Milian, tutti dicevano che se n’era andato negli States, che non ne voleva più sapere di quel personaggio da trucido. Forse aveva anche ragione, mica poteva fare il Monnezza e Nico Giraldi per tutta la vita. Adesso capita che Tomas Milian lo rivedo in televisione quando passano Havana, Arturo Sandoval o JFK, ma non è più lui, è un caratterista di lusso, pelato e ingrassato. Cosa ci posso fare se per me Tomas Milian resta sempre quello che indossava la parrucca da trucido del Monnezza? Ci ho persino scritto un libro (Il trucido e lo sbirro, Profondo Rosso), dedicato a mio figlio, che dieci anni fa s’è rivisto con me tutto il cinema di Tomas Milian. E poi con Cuba e con i cubani ho un legame importante…


Grazie Gomarasca, hai fatto davvero un ottimo lavoro, regalando uno stile impeccabile ai ricordi di Tomas Milian. Un vero gioiello. Imperdibile per gli appassionati.

Tomas Milian
Monnezza amore mio
con Manlio Gomarasca
Rizzoli – Pagine 296 - Euro 18,50
E-Book 10,99