lunedì 31 ottobre 2011

I due pezzi da 90 (1971)

di Osvaldo Civirani


Regia: Osvaldo Civirani. Soggetto e Sceneggiatura: Osvaldo Civirani. Fotografia: Walter Civirani. Musica: Viostel. Montaggio: Mauro Contini. Produzione: Cine Escalation. Interpreti: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Enzo Andronico, Franco Balducci, Marcello Di Paolo, Teresa Franceschini, Mara Krupp, Margaret Rosekeil e Andrea Scotti.

Il dvd in edicola uscito per Hobby & Work

Franco e Ciccio interpretano la loro pellicola numero 103 - per alcuni critici con il vezzo della statistica sarebbe la 104 - ma non è tra le più memorabili. I due pezzi da 90 esce nel 1971, come decimo film della stagione di una coppia comica molto amata che non rifiuta niente e non seleziona soggetti. “Tutto è lavoro. Perché non accettare?”, dice Franchi, che più di Ingrassia aveva fatto la fame nei teatri di periferia e recitando per strada. Per questo i due comici accettano cose ignobili che incassano molto e fanno felici i produttori. Franco e Ciccio girano un film al mese e sono sempre campioni d’incasso, scalzando loro stessi dal podio, grazie a una comicità strampalata e mimica che affascina grandi e piccini. I due pezzi da 90 non ha una vera e propria sceneggiatura, ma un canovaccio sul quale si innestano le consuete gag della coppia che riempiono con abilità le consuete carenze di soggetto.


Osvaldo Civirani (Roma, 1917 - 2008) è il classico regista tuttofare, artigiano come pochi, figlio d’un fotografo che segue le orme del padre impiegandosi alla Cines (1933), diventando apprezzato fotografo di scena. Ricordiamo Civirani fotografo di Ossessione (1943) di Luchino Visconti, Prima comunione (1950) di Alessandro Blasetti, Cronache di poveri amanti (1954) di Carlo Lizzani e di tutta la serie Don Camillo. Il primo film da regista è datato 1962 (Sexy proibito) e segna l’inizio di una carriera zeppa di titoli, spesso di buon successo commerciale ma sempre stroncati o ignorati dalla critica. Altri autori dicono che il primo titolo di Civirani sarebbe Tentazioni proibite (1963), un film che adesso manderebbe in galera il suo improbabile autore. Infatti nella pellicola si vedono ripresi molti volti noti, soprattutto Brigitte Bardot, rigorosamente senza contratto, catturati in atteggiamenti provocanti ed esibiti per soddisfare il voyeurismo del pubblico. Civirani gira film di genere di ogni tipo, senza alcuna preoccupazione estetica: erotico (Sexy proibito, 1962 - La ragazza dalla pelle di corallo, 1976), decamerotico (Lucrezia Borgia, l’amante del diavolo, 1968), western (Il figlio di Django, 1967 - Uno sceriffo tutto d’oro, 1967 - T’ammazzo, raccomandati a Dio!, 1968), comico (Ric e Gian alla conquista del west, 1967 e quattro titoli con Franco e Ciccio), peplum (Ercole contro i figli del sole, 1964 - Kindar l’invulnerabile, 1964), spionaggio (Operazione poker, 1965),  e persino thriller (Il pavone nero, 1975). Troviamo il suo nome anche come produttore e direttore della fotografia, molte volte persino soggettista e sceneggiatore. In alcune occasioni si firma Richard Kean. Prima di dare vita a un proficuo sodalizio con Franco e Ciccio lo ricordiamo alla guida di un’altra coppia comica televisiva nel pessimo Ric e Gian alla conquista del West (1967). Sono quattro le pellicole dirette da Civirani che vedono interpreti i due comici siciliani: I due della formula 1 (1971) - girato lo stesso anno de I due pezzi da novanta - I due figli di Trinità (1972), I due gattoni a nove code… e mezza ad Amsterdam (1973). L’ultimo film con Franco e Ciccio lo firma Richard Kean, pseudonimo che serve a conferire un tocco anglofono. Il suo ultimo film in carriera è un thriller erotico stile Dario Argento, con molto sangue e un po’ di sesso morboso: La ragazza dalla pelle di corallo (1976).

L'ultimo film di Civirani

Parliamo un po’ de I due pezzi da 90. Franco e Ciccio sono due salumieri siciliani costretti a chiudere bottega per alcune irregolarità dopo un’ispezione della guardia di finanza. Franco ha un padrino mafioso che invita i due amici in montagna, ma li mette in un problema più grave, perché sulle piste dell’Abetone è in corso una guerra tra bande per il possesso di una partita di cocaina. I due salumieri diventano inconsapevoli corrieri della droga e devono affrontare una banda di criminali al femminile capitanata dalla bella Margaret Rosekeil. Enzo Andronico, spalla abituale della coppia, è un uomo di fiducia del padrino, pronto a uccidere i due amici se non faranno il loro dovere. La polizia indaga e cerca di arrestare i criminali. La trama è più che inconsistente, pare improvvisata scena dopo scena, tra siparietti da avanspettacolo, smorfie, battute ingenue e comicità di grana grossa. Osvaldo Civirani cita persino una scena di un vecchio film di Chaplin quando una baita di montagna viene spinta sul ciglio di un burrone, ma sono sequenze così mal fatte da gridare vendetta. Tutto è realizzato in studio, la casa è una sorta di pessimo cartone animato, un disegno su sfondo bianco e celeste. Il tema portante della pellicola ricalca Due mafiosi nel Far West (1964), ma la storia non esiste e si fatica non poco per arrivare al ritorno al paese di Franco e Ciccio. La polizia li arresterà comunque perché al negozio sono arrivati - non si sa come - i salami ripieni di polvere bianca.


Tra gli attori spicca il caratterista Enzo Andronico (1924 - 2002), sempre accanto a Franco e Ciccio, spalla impeccabile e volenterosa. Enzo Andronico conosce Ciccio fin dall’infanzia, compone con lui e Ciampolo il Trio Sgambetta, che non dura molto e non riscuote alcun successo. Andronico debutta al cinema ne I vitelloni (1953) di Federico Fellini, ma è una parentesi d’autore irrilevante in un mare di Franco & Ciccio movies. Recita anche con Franco Franchi nel breve ciclo del Sergente Rompiglioni e in un sacco di film di genere, sia poliziotteschi che commedie sexy. Un anno prima di morire rientra nel cinema d’autore con I cavalieri che fecero l’impresa (2001) di Pupi Avati.

Enzo Andronico, grande caratterista

Condividiamo il giudizio di Paolo Mereghetti: “I comici siculi ripropongono stancamente i soliti lazzi: Franco va in giro con un maialino al guinzaglio e abbondano i qui pro quo sulle droghe (alimentari e stupefacenti). E Civirani (anche sceneggiatore) segue il motto buona la prima”. Un mafia movie che vira in farsa, giustificato solo dalla presenza di Franco e Ciccio che ricordiamo in alcune scene acrobatiche, alle prese con una criminale affamata, intenti a racchettare con la bella Margaret Rose Keil, impegnati in battute ai limiti del consentito (“Sputa fuori!” - nel senso di Parla! - mentre Franco sputa la saliva…). Poliziottesco farsesco che ha brevi momenti di ilarità durante un ballo stile mazurka e quando Franco beve un litro di whiskey e diventa un lanciafiamme umano. Abbiamo già detto dell’orribile modellino di casa retto con un filo che pende dal soffitto, ma pure molto triste è la piuma che finisce in bocca a Ciccio mentre dorme, ancora una volta legata da un evidente filo bianco. Girato alla De Paolis ed esterni (limitati) all’Abetone. Lento, prevedibile, fiacco. Non consigliato, se non per motivi storici.

Per ricordare Franco e Ciccio: http://www.youtube.com/watch?v=qzhqNGbx_9w

Gordiano Lupi

domenica 30 ottobre 2011

Breve Storia del Cinema Italiano - 14

Quattordicesima Puntata 
Nuovi registi e influenza neorealista

Il cinema italiano non può fare a meno dell’esperienza neorealista e i nuovi registi che cominciano a lavorare nei primi anni Sessanta devono fare i conti con i maestri.

Ermanno Olmi

Ermanno Olmi (1931) è autore originale che proviene dal documentario ed esordisce nella fiction descrivendo gesti e volti di gente comune (Il tempo si è fermato, 1959). L’influenza neorealista si nota perché il film è girato in presa diretta, è interpretato da attori non professionisti, racconta la povera vita di una famiglia e l’incontro con una grande città. Il posto (1961) è una pellicola girata con la macchina a mano e con stile diretto che racconta le esperienze di un giovane nel mondo del lavoro, ma è anche un ritratto dell’Italia piccolo borghese ai tempi del boom. I fidanzati (1963) è un film pessimista sull’umanità che lavora in pieno boom economico, ma è anche il ritratto della solitudine di un operaio, un racconto sui sentimenti e sulla perdita dell’innocenza. Olmi va citato anche per l’importanza di alcuni film successivi come L’albero degli zoccoli (1978), ambientato nelle campagne bergamasche e realizzato da attori non professionisti che parlano in dialetto stretto. La pellicola vince la Palma d’oro a Cannes ed è un sentito omaggio al mondo contadino che va scomparendo, descritto con poesia e rigore. L’albero degli zoccoli è il capolavoro di Olmi, un film autobiografico e cattolico girato con toni da apologo fiabesco ma al tempo stesso facendo attenzione alle psicologie dei personaggi. Uno dei temi principali di Ermanno Olmi è l’attenzione all’umanità che lavora, vista e rappresentata nei gesti del quotidiano. Ritroviamo la religiosità di Olmi anche in Cammina cammina (1983), Lunga vita alla signora! (1987) e La leggenda del santo bevitore (1988). Il mestiere delle armi (2001) è una riuscita sintesi della sua poetica morale, compiuta raccontando la storia del mercenario Giovanni dalle Bande Nere. Ermanno Olmi è un regista che meriterebbe una trattazione approfondita, che è stata tentata da Charles Owens (Gremese, 2001) e Daniela Padoan, in un interessante libro intervista uscito nel 2008 per Editrice San Raffaele. Non sono comunque testi aggiornati ai suoi ultimi lavori, alcuni davvero interessanti come Centochiodi (2007), Terra madre (2009) e il recentissimo Il villaggio di cartone (2011). Il regista riceve il Leone d’Oro alla carriera, a Venezia, nel 2008.

Banditi a Orgosolo di Vittorio De Seta

Vittorio De Seta (1923) è un buon documentarista che dirige alcune opere ambientate in Sardegna e Sicilia, ma firma il suo capolavoro con Banditi a Orgosolo (1961), drammatica e concreta analisi di una civiltà arcaica. Un uomo a metà (1966) è pellicola introspettiva di altro tenore che affronta la crisi di un intellettuale di fronte all’impegno politico.

Ugo Gregoretti

Ugo Gegoretti (1930) comincia con la radio e approda al cinema con I nuovi angeli (1962), una sorta di film inchiesta sulla vita dei ventenni italiani. Gregoretti è un abile documentarista e un regista impegnato politicamente, come dimostrano i successivi Omicron (1963) e Il pollo ruspante (1963 - episodio contenuto in Ro.Go.Pa.G/ Laviamoci il cervello). Il suo lavoro più emblematico è Apollon, una fabbrica occupata (1969), che miscela realtà e finzione per raccontare con crudo realismo il mondo degli operai e della lotta di classe. Maggio musicale (1989) lascia una traccia di autobiografia nel raccontare le avventure di un regista.

Elio Petri

Elio Petri (1929 - 1982) è un altro regista impegnato politicamente che non può prescindere dal neorealismo e nasce critico cinematografico sulle colonne de L’Unità. Il suo cinema polemico e rigoroso prende il via con I giorni contati (1962), storia di un idraulico che non vuol farsi omologare dalla società moderna.  Petri gira anche film commerciali, commedia all’italiana (Il maestro di Vigevano, 1963 - con Sordi), persino un horror inquietante come Un tranquillo posto di campagna (1968) e un fantascientifico originale come La decima vittima (1965), ma è nel film politico che mostra tutta la sua bravura. Gian Maria Volonté diventa il suo attore di riferimento per A ciascuno il suo (1967), Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), La classe operaia va in Paradiso (1971), La proprietà non è più un furto (1973) e Todo modo (1976). Elio Petri compie un’opera di denuncia dell’alienazione contemporanea in fabbrica, mette in scena anche dei lucidi spaccati di corruzione e realizza una polemica antigovernativa senza precedenti. 

Bernardo Bertolucci

Bernardo Bertolucci (1941) è un’altra presenza importante del cinema italiano, che comincia a frequentare da documentarista fino al debutto de La commare secca (1962), tratto da un racconto di Pasolini. Prima della Rivoluzione (1964) è un lavoro autobiografico che racconta le vicissitudini di un intellettuale borghese attratto dalle istanze sociali progressiste. Realizza una trilogia sul fascismo con Il conformista (1970), Strategia del ragno (1970) e soprattutto con il kolossal Novecento Atto I e Atto II (1976), unico caso nella storia del cinema di proiezione a puntate. Novecento è il capolavoro di Bertolucci, cinque ore di proiezione per raccontare 45 anni di storia italiana attraverso l’analisi di diverse esistenze contemporanee. Una pellicola confezionata con cura e interpretata da attori di grande livello internazionale. Ultimo tango a Parigi (1972) è il film dello scandalo, un cult movie mondiale che in Italia i cattolici vorrebbero bruciare per alcune scene di sesso esplicito. Per fortuna il negativo viene salvato, ancora oggi ne possiamo apprezzare tutta la bellezza drammatica e la descrizione di un rapporto basato sul sesso tra un uomo maturo in crisi e una ragazzina disinibita. Bertolucci prosegue sulla strada del film introspettivo e problematico con La luna (1979) e La tragedia di un uomo ridicolo (1981), per arrivare al kolossal storico L’ultimo imperatore (1987), che vince nove Oscar per la cura con cui descrive il passaggio dalla Cina medievale alla democrazia popolare. Il tè nel deserto (1990) è un altro capolavoro di perfezione formale, soprattutto per la fotografia del deserto africano e i suggestivi scenari. Piccolo Buddha (1993) è un suggestivo affresco che da un punto di vista iconografico non si può che apprezzare. Bertolucci è un regista tecnicamente ineccepibile e nei suoi lavori ci sono sempre alcune scene indimenticabili. Nell’ultima parte della sua carriera si dedica all’analisi di psicologie intime e costruisce storie delicate come Io ballo da sola (1996), L’assedio (1998) e The Dreamers (2002).

Berlinguer ti voglio bene, di Giuseppe Bertolucci

Un buon cineasta è anche Giuseppe Bertolucci (1947) che comincia collaborando con il fratello e si ricorda per l’originale debutto di Roberto Benigni in Berlinguer ti voglio bene (1977) e per il successivo TuttoBenigni (1983). Nel momento in cui scriviamo sta girando Io e te, tratto dal romanzo di Niccolò Ammaniti, pensato inizialmente come lavoro in 3D. Ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera a Venezia (2007) e la Palma d’Oro alla Carriera a Cannes (2011).  

Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini (1922 - 1975) è un intellettuale a tutto tondo che spazia in ogni campo della cultura italiana, ma non è azzardato affermare che proprio nel cinema lascia i lavori più convincenti. Il suo legame con il neorealismo è innegabile, soprattutto nei primi film ambientati nella Roma delle borgate e del sottoproletariato urbano. Citiamo Accattone (1961), Mamma Roma (1962), La ricotta (1963 - episodio di Ro.Go.Pa.G), Uccellacci  e uccellini (1966), ma anche un Vangelo secondo Matteo (1964) che presenta i volti dei ragazzi di vita romani. Pasolini è un intellettuale marxista non molto ortodosso, inviso al partito comunista a causa di una non taciuta omosessualità, ma è anche un acuto osservatore del nostro tempo. I suoi film sono un atto di accusa nei confronti di una società moderna che rinuncia ai valori tradizionali e alle identità regionali in favore di un consumismo sfrenato. Pasolini utilizza attori ingenui e veraci, spesso non professionisti, racconta la vita quotidiana con pessimismo, cercando di conciliare marxismo e spiritualità cristiana. La ricotta è un film quasi blasfemo, Uccellacci  e uccellini è un apologo surreale sul marxismo interpretato da un grande Totò che fa coppia con lo spontaneo Ninetto Davoli. Altre opere importanti sono di derivazione letteraria e mitica come Edipo re (1967), Appunti per un’Orestiade africana (1970) e Medea (1970). Non dimentichiamo neppure gli apologhi antiborghesi di Teorema (1968) e Porcile (1969), pellicole grottesche, metaforiche e a tratti violente. Molto importante anche la Trilogia della vita, che consiste nell’adattare al cinema erotico capolavori letterari come Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974). Pasolini successivamente rivede la sua opera e abiura la Trilogia, ma ha già dato il via a un sottofilone commerciale come il decamerotico che caratterizza alcuni anni di cinema bis italiano. Il modello colto di Pasolini fa nascere la commedia scollacciata medioevale, vero e proprio antesignano della commedia sexy. Non è certo lo scopo dell’intellettuale che dà sfogo alla delusione nell’opera postuma Salò o le 120 giornate di Sodoma  (1975), apocalittico apologo contro il potere, film violento e nichilista che non lascia speranza. Nonostante tutto anche questo film d’autore, unito a Salon Kitty di Tinto Brass genera cloni commerciali nel cinema bis e produce i sottogeneri women in prison, nazi-erotico e moto cinema sadico fine a se stesso. Pasolini muore nel 1975, ucciso da uno di quei ragazzi di vita che ha raccontato in tanti romanzi, articoli di opinione, poesie e pellicole cinematografiche.

Totò e Ninetto davoli interpreti di Uccellacci e uccellini

Il neorealismo è un fenomeno concluso, ma senza quella fortunata corrente cinematografica non avremmo avuto le esperienze successive di impegno sociale, politico e storico. Il neorealismo influenza le nuove idee cinematografiche che vengono espresse da autori come Marco Ferreri, Mauro Bolognini, Antonio Pietrangeli, Valerio Zurlini, Nanni Loy, Francesco Maselli e Mario Monicelli. Tutti questi registi seguono strade originali che vanno dagli apologhi grotteschi e inquietanti di Ferreri per arrivare alla commedia all’italiana impegnata socialmente di Monicelli e Loy.

Gordiano Lupi

venerdì 28 ottobre 2011

Ubaldo Terzani Horror Show (2011)

di Gabriele Albanesi


Regia: Gabriele Albanesi. Soggetto e Sceneggiatura: Gabriele Albanesi. Effetti speciali: Sergio Stivaletti. Musiche: Valerio Lundini. Fotografia: Francesco Collinelli. Montaggio: Alessandro Marinelli. Scenografia: Noemi Marchica. Produttore Associato: Francesca Manno. Produttori esecutivi: Manetti Bros. Produttore: Gianluca Curti. Produzione: Minerva Pictures con il sostegno della Film Commission Torino. Interpreti: Giuseppe Soleri, Paolo Sassanelli, Laura Gigante, Stefano Fregni, Antonio Iuorio, Francesco Mastrorilli, Zsuzsanna Ripli.


Alessio Rinaldi è un giovane regista che ama scrivere e realizzare storie condite di eccessi splatter. Un giorno cede alle pressioni del produttore e accetta di realizzare la sceneggiatura del prossimo film con la collaborazione di Ubaldo Terzani, importante autore di romanzi horror. Il rapporto tra il giovane regista e il maturo scrittore diventa sempre più complesso, fino a quando Ubaldo Terzani non rivela la sua vera natura di omicida psicopatico. Alessio Rinaldi precipita in un abisso di orrore, non comprende la differenza tra incubo e realtà, si lascia soggiogare dalla forte personalità del maestro. Terzani ha un segreto inconfessabile: scrive avvincenti romanzi horror perché  vive in prima persona le sue storie, uccide, fa a pezzi le vittime e ne conserva le parti anatomiche in formalina. Lo scrittore trascina in un gioco perverso il regista e la fidanzata, massacra alcune donne, uccide la ragazza, ma alla fine il giovane allievo si libera del maestro e torna a fare cinema ancor più ispirato.  


Il film avrebbe dovuto intitolarsi Nelle fauci di Ubaldo Terzani, ma in fase di post produzione si è optato per un titolo di maggior presa sul mercato internazionale. Al cinema non è mai uscito, se non in pochissime sale e alcuni festival, ma la Minerva Pictures - Rarovideo ha messo in commercio un interessante dvd, ricco di extra (provini, trailer, making of con interviste) e impreziosito dal corto Braccati, girato dallo stesso regista.


Il secondo lavoro di Albanesi è molto professionale, gode di un budget superiore rispetto a Il bosco fuori, viene girato in quattro settimane e si avvale degli ottimi effetti speciali del grande Sergio Stivaletti. Si tratta di un’opera di metacinema, infarcita di citazioni, che rivela tutta la cultura cinematografica del giovane regista. Abbiamo l’accenno allo splatter di Bava, le inquadrature alla di Leo, alcuni brani tratti da Un gatto nel cervello di Lucio Fulci e molte citazioni gore tratte dai film di Joe D’Amato. In alcune sequenze apprezziamo la locandina de Il boss di Fernando di Leo, ma anche Opera di Dario Argento, così come un incubo splatter del protagonista ci riporta alle atmosfere di Nightmare. La trama è in parte autobiografica, perché alcuni anni fa Albanesi provò a scrivere un film insieme a Eraldo Baldini, che non è mai riuscito a girare. Il regista immagina che Eraldo Baldini (trasformato in Ubaldo Terzani) sia uno scrittore demoniaco, mette in scena uno scontro tra caratteri (remissivo il regista, dominante lo scrittore) all’interno di un thriller claustrofobico ricco di eccessi splatter e gore. Albanesi inserisce nella trama la sua idea di cinema, torna indietro di alcuni anni, rivive tramite il suo personaggio le prime esperienze a contatto con il mondo della celluloide, le frustrazioni dovute alla scarsità di produttori e alla difficoltà di girare horror in Italia. In primo piano c’è il mondo dei registi underground e la loro voglia di emergere, provando in molte direzioni, ma senza arrendersi alla televisione.


Il personaggio principale - ben interpretato da Giuseppe Soleri, che “sfodera un’espressione da Peter Parker imbranato” (Albanesi) - è un alter ego del regista alle prime armi, quando la sua intransigenza purista era pari alla sua ingenuità. In definitiva è un film di formazione, iniziatico, perché un ragazzino incontra un essere perverso e pericoloso, di fronte al quale l’alternativa è tra crescere o morire. Albanesi afferma che questo film rappresenta la sua catarsi come autore, perché si tratta di una storia precedente a Il bosco fuori, sedimentata dentro di lui e girata al momento opportuno. Si tratta di un film ascrivibile al filone degli scrittori e dei falsi libri, che ha antecedenti illustri in opere come Misery non deve morire, La metà oscura, Il seme della follia, Trappola mortale… tutte pellicole che il regista dimostra di conoscere a fondo.
Gli attori sono molto bravi. Abbiamo già detto di Giuseppe Soleri, ottimo nella caratterizzazione di un regista giovane e idealista. Paolo Sassanelli si ispira ai cattivi di Shakespeare per dare vita a un Ubaldo Terzani sempre sopra le righe, sigaro in bocca, momenti di lucida follia e atteggiamenti sornioni, a metà strada tra il tragico e il buffonesco. Si tratta di un criminale complesso, un letterato contraddittorio, un incantatore dotato di grande personalità.  Sassanelli interpreta il primo cattivo della sua carriera, ma lo fa con grande bravura, rendendo credibile un criminale geniale. Laura Gigante è la ragazza del regista, una ninfetta dal temperamento bipolare, molto sexy in alcune scene erotiche, gelosa del fidanzato ma pronta a tradirlo con Ubaldo Terzani. I Manetti Bros la presentano ad Albanese, dopo aver interpretato Albachiara come protagonista e aver partecipato alla serie televisiva Ispettore Coliandro. Laura Gigante ha un volto angelico che contrasta con una personalità controversa ed è brava a interpretare un ruolo che la vede sedotta da un demoniaco scrittore, squartata e fatta a pezzi.


La fotografia di Torino è ottima, sia nelle sequenze girate in città che nel bosco nebbioso, la colonna sonora contribuisce a creare un clima di suspense. Piccoli difetti della pellicola li riscontriamo in alcuni dialoghi troppo impostati e un’eccessiva lentezza nella parte centrale. Ben fatte alcune sequenze erotiche che vedono protagonista Laura Gigante e Zsuzsanna Ripli, come da tradizione dell’horror italiano. Antonio Tentori - critico e sceneggiatore cinematografico - interpreta un breve cammeo da amico ubriaco di Ubaldo Terzani. Sergio Stivaletti realizza ottimi effetti speciali a base di gambe mozzate (il sangue è marmellata di lamponi!), arti segati, sangue che schizza da labbra morsicate e interiora che fuoriescono da incisioni toraciche. Ubaldo Terzani Horror Show è meno splatter de Il bosco fuori, ma la quantità di sangue contenuta nelle sequenze estreme è notevole. Albanesi conosce bene il cinema italiano del passato, ama l’horror alla Lamberto Bava (soprattutto la saga Dèmoni), ripropone una colorazione in sintonia con le citazioni gotiche e realizza un’interessante commistione di generi. Ubaldo Terzani Horror Show è al tempo stesso horror splatter, action pura, thriller claustrofobico, commedia grottesca e cinema introspettivo ricco di parti oniriche.


Gordiano Lupi

mercoledì 26 ottobre 2011

La morte ha sorriso all'assassino (1973)

di Aristide Massaccesi


La morte ha sorriso all’assassino è del 1973 e ha come sottotitolo Sette strani cadaveri. Si tratta di un lavoro importante, la prima tappa dalla quale cominciare a  parlare della figura di Aristide Massaccesi, perché si tratta di un film horror classico.  Come faccia Marco Giusti su “Stracult” a parlare di porno-horror resta un mistero. Ci sono poche scene erotiche e nella maggior parte dei casi si lascia soltanto intuire. Niente di porno, ve lo assicuro. Un film molto gotico condito di numerosi effetti splatter. Cominciamo a capire che cosa è l’horror per Massaccesi: la rappresentazione di qualsiasi avvenimento estremo, viscerale e raccapricciante, ma anche lo splatter commisto alla tensione psicologica e alle atmosfere angosciose (cfr. Antonio Tentori “Horror made in Italy” vol. 2, Profondo Rosso Editore).

La bella Ewa Aulin in una sequenza del film

La sceneggiatura è dello stesso Massaccesi con la collaborazione di Romano Scandariato e Claudio Bernabei. La fotografia è di Massaccesi, le musiche sono di Berto Pisano, il montaggio di Piera Bruni e Gianfranco Simoncelli, le scenografie e i costumi di Claudio Bernabei. Produzione di Franco Gaudenzi per la Dany Film. Distribuito da Florida. Da notare che Aristide Massaccesi per la prima volta si firma con il suo vero nome. A livello di curiosità c’è da dire che il produttore Franco Gaudenzi era un ex avvocato del cinema amico di Massaccesi che più tardi (1988) produrrà Zombi 3. Qui è accreditato pure alla cura degli effetti speciali.  

Ancora Ewa Aulin

Il cast: Ewa Aulin (Greta), Klaus Kinski (dottor Sturges), Angela Bo (Eva), Sergio Doria (Walter Ravensbrook), Giacomo Rossi Stuart (Herbert), Attilio Dottesio (commissario Dane), Marco Mariani, Luciano Rossi (Franz), Fernando Cerulli, Carla Mancini e Giogio Dolfin.

Il sorriso della morte

Questa pellicola ricalca molto da vicino le atmosfere del cinema gotico anni Settanta e fa proprie reminiscenze argentiane frammiste a tematiche magiche e oscure. Non solo: a un’attenta visione non può sfuggire la notevole ispirazione narrativa da Edgar Allan Poe e Le Fanu (la trama ricorda Carmilla). Il film è girato in un’atmosfera oscura e si svolge tra castelli e cripte, parla di amuleti e maledizioni, infine la musica di Berto Pisano lo rende ancora più inquietante. Ci sono alcune sequenze erotiche e vediamo le prime scene splatter del cinema italiano, con occhi strappati alla Fulci (Zombi 2) e visi dilaniati. Per la prima volta Joe D’Amato si avvicina al cinema di sexploitation e mostra il mostrabile senza remore o tabù di sorta. Il dualismo orrore-erotismo, due generi una volta separati da uno steccato invalicabile, tornerà spesso nei lavori di Massaccesi. Il regista romano è il primo a tentare una commistione tra i due generi che più ama senza farsi prendere la mano dall’uno o dall’altro. Il critico cinematografico è in difficoltà quando va a classificare certi film di Massaccesi, perché non sa mai a quale dei due generi ascriverli. Come fa Pino Farinotti nel suo monumentale “Dizionario di tutti i film” (si noti bene il sottotitolo dell’opera: dalla parte dello spettatore) a liquidarlo come “un giallo condotto con la tecnica del documentario”? Non è da meno Piero Mereghetti nel suo Dizionario: “contorta e risibile la sceneggiatura... di atmosfera ce n’è pochina giusto qualche effettaccio... il gotico italiano era già morto e sepolto...”. Stronca Massaccesi pure come direttore della fotografia perché “eccede in grandangoli e zoom”. Ed è tutto dire. Ci risolleva la lettura di Antonio Tentori che ha visto il film proprio come noi: “In questo primo thriller del regista sono presenti omicidi a colpi di rasoio, atmosfere gotiche, violenza esasperata. Un crescendo di tensione e inquietudine, saturo di un clima malsano e morboso che conferisce alla pellicola il suo strano fascino”.

La locandina tedesca

Vediamo in breve la trama che non è affatto confusa e contorta. Solo un tantino complessa, serve un po’ d’attenzione durante la visione e soprattutto la mente libera da pregiudizi.
La storia si svolge all’inizio del secolo e fa dell’atmosfera gotica la sua arma migliore. Si comincia con il fratello deforme di Greta in lacrime: “Povera sorellina, ti hanno strappata a me. Povero amore, così dolce e così romantico…”. Greta è morta e giace su di una lapide. Il fratello ricorda quando erano piccoli e lui è sempre stato innamorato di lei. “Ti hanno uccisa e io non ho fatto niente per impedirlo. Sono colpevole anch’io”. Il fratello l’amava di un amore morboso, era geloso di lei e del suo uomo, non avrebbe voluto neppure che si sposasse.

La locandina giapponese

D’improvviso si cambia scena. Sono passati gli anni.
Una donna che pare in tutto e per tutto Greta (ed infatti è lei) ha un’incidente alla carrozza sulla quale sta viaggiando e accetta l’ospitalità nella villa di Walter ed Eva Ravensbrook, una coppia di sposi. Il conducente muore orrendamente sfigurato e qui assistiamo alla prima scena cruda del film. Un medico (un ottimo Klaus Kinski) visita la donna e si accorge che qualcosa non va. Lui sta studiando la resurrezione dei morti e si affascina a uno strano gioiello che Greta porta al collo. Prima che possa scoprire altro però viene assassinato insieme al suo assistente. Viene uccisa con un colpo di fucile in pieno volto anche una serva della villa, prima che possa fuggire spaventata. Da notare in questa parte del film un grande utilizzo di primissimi piani e un uso smodato di inquadrature sugli occhi dei personaggi. Si sottolinea in questo modo il crescendo di tensione e di angoscia. 


Greta ha perso la memoria e la coppia le chiede di restare alla villa, danno feste in suo onore e bandiscono una caccia al fagiano. Poco a poco Walter si innamora di lei e anche sua moglie Eva è irretita dal fascino torbido della strana ospite. Greta va a letto con entrambi e qui ci sono alcune scene che giustificano un discorso di contaminazione tra generi horror ed erotico (non certo porno!). Eva a questo punto viene colta da un raptus di folle gelosia e mura viva Greta in uno scantinato. Quando il marito fa ritorno a casa chiede notizie della ragazza, ma la moglie si limita a rispondere che Greta è andata via. Walter chiama la polizia ma il commissario non sa che fare perché nessuno ha visto la ragazza. Pochi giorni dopo, a una festa in maschera,  Greta compare di nuovo e si vendica della donna che l’ha rinchiusa nello scantinato. Il suo volto si trasfigura in una maschera orribile (notevole il trucco della maschera che terrifica al punto giusto) ed Eva si getta nel vuoto suicidandosi. Queste sono sequenze ad alta tensione con il volto della morte in primo piano, prima sorridente e poi terribile, che colpisce senza pietà. Horror puro. Al funerale arriva anche il padre del marito di Eva e ci rendiamo conto che era il marito di Greta, il padre di quel figlio che l’ha fatta morire di parto. Lui vede quella che un tempo è stata la sua donna e ricorda. “Non sono morta” gli dice Greta e lo chiude in una tomba dove lo uccide senza pietà. A questo punto si libera di Walter. “Sono tornata” dice. E fa l’amore con lui, ma sul più bello appare il volto orrendo della morte. Lo uccide attaccandolo a dei ganci infissi nella parete. Infine è la volta del servo che conosce il segreto di Greta. “Vieni a prenderti la tua ricompensa” dice lo spettro. E massacra l’uomo con numerose coltellate al volto. Quando arriva il commissario vede quell’orrore e trova la medaglietta di Greta. Uno studioso gli dice che quel tipo di amuleto veniva usato dagli Incas per far tornare in vita i loro re e che proprio il fratello di Greta stava studiando quel mistero. Il commissario va a casa del fratello ma lo trova cadavere in decomposizione avanzata: è morto da anni. In realtà è stato la prima vittima della sorella, che dopo resuscitata lo ha ucciso gettandogli un gatto tra gli occhi. Questa è un’altra scena splatter molto ben fatta e il mazzo di fiori che in volo si tramuta in gatto infuriato è un’altra cosa tecnicamente pregevole. La spiegazione del mistero è a inizio pellicola: Greta era morta di parto alcuni anni prima e per mezzo dell’amuleto il fratello innamorato l’aveva richiamata in vita. Per finire il commissario si accorge che la tomba di Greta è vuota e si domanda davanti alla moglie: “Mi chiedo se riuscirò mai a risolvere questo caso”. Per tutta risposta nella scena finale la moglie appare al commissario con le sembianze di Greta.

Un bel dossier Nocturno dedicato a Joe D'Amato

Klaus Kinski e Giacomo Rossi Stuart sono interpreti eccellenti di una storia cupa, ben fotografata e arricchita dalla suggestiva colonna sonora di Berto Pisano. Meno brave le attrici Ewa Aulin e Angela Bo che sembrano poco calate nella parte, soprattutto la Aulin che deve recitare un insolito ruolo di zombi assassina.

Il mio libro su Joe D'Amato, edito da Profondo Rosso

Il film non ebbe molto successo. Secondo Massaccesi e Scandariato la colpa fu della produzione che inserì qua e là scene erotiche girate da controfigure (ma nemmeno più di tante) e soprattutto un pessimo sottotitolo: il primo splatter romantico. In ogni caso resta un film da vedere e da ricordare perché è da questo lavoro che cominciano i film di Massaccesi che amiamo di più: quelli in cui lo splatter erotico contamina l’horror.

La colonna sonora di Berto Pisano (Greta): http://www.youtube.com/watch?v=TU3308ihMA0


Gordiano Lupi

Gli eredi di King Kong (1968)

di Ishiro Honda


Regia: Ishiro Honda. Soggetto e Sceneggiatura: Ishiro Honda e Takeshi Kimura. Effetti speciali: Eiji Tsuburaya. Musica: Akira Ifukube. Interpreti: Akika Kubo, Jun Tazaki, Yukiko Kobayashi, Yoshio Tsuchiya, Kyoko Ai, Andrew Hughes. Titolo originale giapponese: Kaiju Soshingeki).


Nono film della serie Godzilla che torna nelle mani del regista originale, il grande Ishiro Honda, futuro collaboratore di Akira Kurosawa. Siamo di fronte a un’opera di fantascienza ad alto livello, non paragonabile ai successivi prodotti di imitazione, puerili e simili a fumetti manga. Siamo nel 1999 (allora era fantascienza!), gli alieni invadono la Terra, liberano i mostri che gli uomini avevano confinato nella loro isola e li spediscono a distruggere le più importanti capitali del mondo. Il popolo alieno sono i Kilaak, una razza di cristalli rocciosi viventi che si adatta a sembianze umane, ma torna allo stato primitivo quando sente il freddo. La genialità di un astronauta ferma l’invasione e riporta i mostri terrestri al luogo di origine. Ishiro Honda, per la gioia dei ragazzi, mette in campo ben undici mostri: Godzilla, Mothra, Rodan, King Ghidorah, Anguirus, Spiega, Baragon, Gorosaurus, Manda, Varan e Minya (il figlio di Godzilla). Le scene di battaglia tra mostri terrestri e spaziali sono esilaranti, recitate dai soliti attori in costume che ne combinano di tutti i colori, distruggendo modellini di carri armati e plastici di intere città. Hishiro Honda è talmente bravo che rende credibile una fantasmagoria di eventi surreali anche per un pubblico adulto. Non ci sono solo combattimenti tra mostri, perché la storia fantascientifica è originale e permeata di un messaggio ecologista molto forte. Gli alieni sono in fuga da un pianeta reso invivibile dagli scarichi industriali, dove l’aria è irrespirabile, i corsi d’acqua sono putridi e i mari sono diventati immensi cimiteri di pesci. Il progetto originale è scritto come film conclusivo della saga di Godzilla, ma non è così, visto il successo del personaggio. Il titolo italiano, al solito, è assurdo. King Kong non c’entra niente, ma serve solo a sfruttare il ricordo del precedente King Kong, il gigante della foresta (1967) di Hishiro Honda, un film della Toho che funge da apripista per l’invasione cinematografica dei mostri giapponesi. Hishiro Honda gira subito dopo Gojira, Minira, Gabara – Oru kaiju daishingeki (1969), ma da noi è rimasto inedito.


lunedì 24 ottobre 2011

Gli imbroglioni (1963)

di Lucio Fulci


Gli Imbroglioni è uscito in edicola per www.hobbyework.it

Regia: Lucio Fulci. Soggetto e Sceneggiatura: Lucio Fulci, Mario Guerra, Vittorio Vighi, Castellano e Pipolo. Fotografia: Alfio Contini e Tino Santoni. Musica: Carlo Rustichelli, con brani di Giorgio Gaber, Pietro Garinei, Riccardo Giovannini, Ennio Morricone, Pilantra, Umberto Simonetta e Armando Trovajoli. Montaggio: Gisa Radicchi Levi. Produzione: Sergio Iacobis e Dario Sabatello. Interpreti: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Walter Chiari, Luciana Gilli, Raimondo Vianello, Aroldo Tieri, Antonella Lualdi, Dominique Bosquero, José Luis Lopez Vásquez, Pietro De Vico, Xan Das Bolas, Alberto Bonucci, Franco Giacobini, Giampiero Littera, Umberto D’Orsi, Elio Crovetto, Margaret Rose Keil (Margaret Lee), Nino Terzo, Pepe Calvo, Lucia Modugno, Anna Maria Bottini, Mario Scaccia, Xenia Valderi, Stefania Sandrelli, Oreste Lionello e Claudio Gora. 

Edizione De Agostini del film

Lucio Fulci, dopo aver scritto e sceneggiato Un giorno in pretura (1954), girato da Steno insieme al futuro regista de paura come assistente, realizza una sorta di sequel apocrifo interpretato da attori comici che vanno per la maggiore nei primi anni Sessanta. Un giorno in pretura aveva come interpreti Sophia Loren, Alberto Sordi, Walter Chiari, Silvana Pampanini e Peppino De Filippo. Gli imbroglioni (1963) segna la continuità con il precedente per la presenza di Walter Chiari e per la tematica processuale delle piccole beghe da pretura, ma si differenzia per il rilievo concesso ai due comici del momento: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Si deve a Domenico Modugno e a Lucio Fulci se negli anni Sessanta - Settanta i due popolari attori siciliani hanno segnato l’immaginario comico degli spettatori italiani. Il cantante siciliano li ha scoperti e lanciati in teatro, ma Lucio Fulci ne ha decretato il successo cinematografico definendo i ruoli all’interno della coppia, decidendo che il presunto furbo doveva essere Ciccio Ingrassia e lo sciocco integrale Franco Franchi.


Gli imbroglioni è il nono film di Franchi & Ingrassia, il terzo con Lucio Fulci, ma ne seguiranno altri sei, per un totale di tre anni di lavoro che caratterizzano un sodalizio abbastanza duraturo. Non avevano un carattere facile, né i due comici, né Lucio Fulci, quindi la lunga convivenza è quasi un record. Il primo film di Lucio Fulci con Franco e Ciccio è I due della legione (1962), parodia della legione straniera e debutto al cinema del nuovo schema comico. Il secondo è Le massaggiatrici (1963), nono film della coppia comica interpretato nel 1963.

La Ballata degli Imbroglioni di Giorgio Gaber

Gli imbroglioni è un lavoro giovanile di Fulci, molto divertente, dotato della classica struttura a episodi, nascosta da varie cause decise dal pretore di un tribunale romano. I due amici sono in fuga dalla Sicilia in cerca di fortuna, ma si cacciano in una serie di guai e sono artefici di piccoli imbrogli che li portano ad accumulare diverse condanne e parecchi anni di galera. Sono i protagonisti assoluti di tre episodi e tutti li ricordiamo per caratteristiche espressioni: “Innocenti siamo!”, “C’è un equivoco giudiziario!”, “Abbonati siamo!”, per finire con l’esilarante “Ricorreremo ad Assisi!”. Altri interpreti di episodi divertenti sono Raimondo Vianello, procuratore calcistico bolognese innamorato delle donne, e Walter Chiari, fidanzato vessato dalla suocera ma innamorato della sua donna. Castellano e Pipolo scrivono solo l’episodio che vede protagonista Walter Chiari, mentre Vighi e Guerra si dedicano alle peripezie di Franco e Ciccio che conoscono dai tempi di Gerarchi di muore (1961) di Giorgio Simonelli. La pellicola è girata in quattro settimane, come abitudine di Lucio Fulci e caratteristica delle pellicole interpretate dalla coppia comica siciliana. Ma non è tirato via, non presenta buchi di sceneggiatura né problemi di regia. Il 25 settembre 1963 debutta all’Astor di Torino, nel corso della stagione incassa 523.455.000 lire ed esce in Spagna con il titolo de Los Mangantes.

Franco e Ciccio alla sbarra

Franco e Ciccio sono gli imbroglioni principali, Walter Chiari e Raimondo Vianello rivestono ruoli importanti, ma si ricordano con piacere molti comprimari. Tra questi il marito geloso Aroldo Tieri, la moglie disponibile e disinibita Dominique Boschero, la suora ricamatrice Antonella Lualdi (episodio più debole tra i sei che compongono il film), un avvocato invadente come Pino Scaccia, una bella e docile fidanzata come Luciana Gilli, una suocera terribile come Xenia Valderi, un politico spernacchiato come Alberto D’Orsi, un vigile urbano imbranato come Nino Terzo,  per finire con le rapide apparizioni di bellezze acerbe come Stefania Sandrelli e Margaret Lee. Memorabile la scena del funerale nell’episodio interpretato da Walter Chiari, quando tutti ascoltano la partita della nazionale alla radio, al goal dell’Italia la carrozza parte al galoppo e i partecipanti al corteo funebre la inseguono di gran carriera. Divertente anche Franco Franchi truccato da mummia nel corso di un’improbabile truffa archeologica a un turista tedesco che crede alle mummie in una tomba etrusca. Il film anticipa molti temi della commedia sexy, appena accennati e giustificati da indovinate parti oniriche. Margaret Lee è una sexy infermiera, Stefania Sandrelli una paziente che indossa un seducente due pezzi sul lettino del medico Walter Chiari.

Alcune sequenze del film

Giorgio Gaber canta La ballata degli imbroglioni mentre scorrono i titoli di testa, ma durante il film ascoltiamo con piacere anche il tema di Roma nun fa’ la stupida stasera e Go-Kart Twist cantata da un giovanissimo Gianni Morandi.

Per ascoltare la sigla di testa di Giorgio Gaber: http://www.youtube.com/watch?v=bM6m7bmk_PE

Per vedere questo e altri film di Franco e Ciccio: http://www.hobbyeworkpublishing.it/opere/cinema/franco-e-ciccio-collection

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

mercoledì 19 ottobre 2011

Monica Vitti - La commedia al femminile


Monica Vitti è nata a Roma il 3 novembre del 1931 e sta per compiere ottant’anni, ma da molto tempo non la vediamo in pubblico, protetta dai familiari, in un periodo difficile della sua vita. Il suo vero nome è Maria Luisa Ceciarelli, ma sono in pochi a saperlo, a parte i dizionari di cinema e le enciclopedie pubblicate su Internet. Nasce da una famiglia borghese, frequenta il Pittman’s College, quindi l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, dove nel 1953 si diploma attrice. Monica Vitti è una ragazza alta, bionda, lentigginosa, dagli occhi azzurri, non si considera bella, ma non è vero, perché la sua figura elegante e algida emana sensualità. Dal 1954 al 1957 recita in teatro, dove interpreta alcuni ruoli, prima modesti, quindi sempre più impegnativi: Ifigenia in Aulide, La mandragola, L’avaro, L’isola dei pappagalli e Madre coraggio e i suoi figli, Senza rete, Bella e Amleto. Monica Vitti alterna con disinvoltura personaggi drammatici a caratterizzazioni comico - brillanti, una costante della sua vita artistica.

Monica Vitti con Alain Delon

La svolta decisiva per la carriera della bella attrice romana è datata 1957, quando avviene l’incontro professionale con il grande  Michelangelo Antonioni. Il regista ferrarese si innamora - in tutti i sensi - di Monica Vitti, la vuole interprete di opere teatrali come Io sono una macchina fotografica e Scandali segreti. In questo periodo la Vitti recita in teatro anche Ricorda con rabbia e I caprici di Marianna.


Il cinema entra nella vita di Monica Vitti prima come impegno di secondo piano, poi come momento fondamentale della professione. I primi lavori non sono eclatanti, ma modeste commedie di maniera riconducibili al neorealismo rosa: Ridere! Ridere! Ridere! (1954) di Edoardo Anton, Adriana Lecouvreur di Guido Salvini (1956), Una pelliccia di visone (1956) di Glauco Pellegrini e Le dritte (1959) di Mario Amendola. Monica Vitti lavora come doppiatrice, prestando una voce calda e appassionata a Dorian Gray (Il grido) e a Rossana Rory (I soliti ignoti). Michelangelo Antonioni la trasforma in diva e ne fa la sua musa ispiratrice, un modello di donna tormentata, facendola recitare in alcuni lavori fondamentali del cinema italiano, dove esprime il difficile rapporto uomo - donna e l’incomunicabilità tra simili. L’avventura (1960) è il film simbolo della prima parte della carriera di Monica Vitti, che disegna il suo carattere “nevrotico” seguendo alla lettera le indicazioni di Antonioni. Molto bravo anche l’alter ego maschile, Gabriele Ferzetti, che contribuisce a creare una serie di situazioni simboliche per stigmatizzare il male di vivere. L’avventura è un trionfo al Festival di Cannes, che vuol dire notorietà internazionale. Michelangelo Antonioni dirige Monica Vitti anche ne La notte (1961) - Nastro d’Argento come attrice non protagonista -, L’eclisse (1963) e Deserto rosso (1964). Altri suoi film di questo periodo sono: Le quattro verità (1963) di Antonio Blasetti - episodio La lepre e la tartaruga -, Il castello in Svezia (1963) di Roger Vadim e Confetti al pepe di Jacques Baratier.

Monica Vitti e Gabriele Ferzetti ne L'avventura

Monica Vitti continua a fare cinema, ma non vuole limitarsi a recitare parti drammatiche e - come aveva fatto con il teatro - dà alla professione una svolta comico brillante. Si tratta di una decisione epocale, che la impone all’attenzione di critica e pubblico come un’attrice capace di far ridere, un’interprete di un genere fino a quel momento - a parte eccezioni come Franca Valeri - esclusivo appannaggio degli uomini. La donna nella commedia all’italiana prima di Monica Vitti aveva solo un ruolo sexy, mentre la bella attrice romana confeziona molti personaggi tragicomici al femminile.


Ricordiamo alcuni titoli: Alta infedeltà (1964) - episodio La sospirosa - di Luciano Salce, Il disco volante (1965) di Tinto Brass, Le bambole (1965) - episodio La minestra - di Francesco Rossi, il fumettistico Modesty Blaise, la bellissima che uccide (1966) di Joseph Losey, Le fate (1966) - episodio Fata Sabina - di Luciano Salce, Fai in fretta a uccidermi… ho freddo! (1967) di Francesco Maselli, La cintura di castità (1967) di Pasquale Festa Campanile e Ti ho sposato per allegria (1967) di Luciano Salce.


La ragazza con la pistola (1968) di Mario Monicelli è il film che lancia definitivamente Monica Vitti come attrice comica. Commedia all’italiana pura che racconta le vicissitudini di una siciliana sedotta e abbandonata a caccia di vendetta nella metropoli londinese. Film che anticipa la lotta per l’emancipazione femminile e molte commedie post 1968, ma che mostra la corda per via di una fiacca prevedibilità. L’antagonista maschile è un buon Carlo Giuffrè, perfetto nel ruolo. Nomination all’Oscar come miglior film straniero. Nastro d’Argento come miglior attrice protagonista.


Non è da meno l’ottimo Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca (1970) di Ettore Scola, che la vede accanto a Marcello Mastroianni, Giancarlo Giannini e Marisa Merlini. Monica Vitti è una fioraia innamorata di un muratore (Mastroianni), gelosissimo di un pizzaiolo (Giannini) che da un po’ di tempo gira intorno alla sua ragazza. Commedia all’italiana aggiornata al feuilleton e al gusto per il romanzo popolare. Monica Vitti comincia a far coppia con Alberto Sordi per una serie di interpretazioni comiche all’interno di film che rendono grande la commedia all’italiana. Tra tutti citiamo Amore mio, aiutami (1969), diretto dallo stesso Sordi, ma anche il nostalgico e sentimentale Polvere di stelle (1973), sul teatro d’altri tempi che non può tornare (chi non ricorda il motivetto Ma ‘ndo Hawaii?), diretto dal comico romano. L’anatra all’arancia (1975) di Luciano Salce è una graffiante commedia all’italiana che spesso deborda in commedia sexy, interpretata da Ugo Tognazzi, John Richardson, Monica Vitti e Barbara Bouchet. Il film è molto teatrale, mostra tutti i limiti di un’opera tratta da una commedia, ma un’icona sexy come Barbara Bouchet e una grande Monica Vitti (Nastro d’Argento come miglior attrice protagonista) salvano tutto.


Monica Vitti nel corso di una lunga carriera vince cinque David di Donatello, sempre assegnati ex aequo con altre attrici, a parte l’ultimo conferito per Amori miei (1978) di Steno, che la incorona migliore attrice della stagione 1978 - 79. Uno dei suoi ultimi premi è l’Orso d’Argento al Festival di Berlino per Flirt (1983) di Roberto Russo, attuale compagno di vita. La Vitti collabora a soggetto e sceneggiatura, ma soprattutto presta volto e carattere a una donna di mezza età in piena crisi coniugale. La routine rende difficile il rapporto tra moglie e marito e allora l’uomo si inventa un’amante immaginaria. Interprete maschile Jean-Luc Bideau. Francesco De Gregori realizza la colonna sonora, uno dei suoi pezzi più gettonati: La donna cannone.

Monica Vitti e Roberto Russo in Flirt

Le apparizioni sul grande schermo di Monica Vitti si fanno sempre più rare, tra queste va citato un poco riuscito ritorno con Michelangelo Antonioni ne Il mistero di Oberwald (1980), dove veste i panni di una regina invisa al popolo. Antonioni usa il film per un esperimento tecnico: girare in video, intervenire elettronicamente sul colore e riversare su pellicola. Non è un lavoro degno del grande regista, una stucchevole storia d’amore tra un rivoluzionario (Franco Branciaroli) e la regina, tra giochi di colori che dovrebbero esprimere i sentimenti dei personaggi.


Altre commedie brillanti interpretate da Monica Vitti non riscuotono grande successo di pubblico: Camera d’albergo (1981) di Mario Monicelli, Il tango della gelosia (1981) di Steno, Io so che tu sai che io so (1982) di Alberto Sordi, Scusa se è poco - episodi Gli ultimi cinque minuti e Trenta minuti d’amore (1982) di Marco Vicario. Le ultime prove d’attrice di Monica Vitti sono dirette dal compagno  Roberto Russo: Flirt (1983) e Francesca è mia (1986). Scandalo segreto (1990) è il suo ultimo film, dove oltre a recitare debutta alla regia con risultati modesti, lasciando all’occhio della macchina da presa il compito di raccontare una crisi coniugale. Soggetto e sceneggiatura sono di Roberto Russo. 


Monica Vitti resta una grande attrice brillante e drammatica, di cinema e di teatro. Ricordiamo altre interpretazioni teatrali come Dopo la caduta (1964), diretta da Franco Zeffirelli, La strana coppia (1986), di Franca Valeri - con Rossella Falk -, e Prima pagina di Giancarlo Sbragia. Non manca la televisione nella carriera di Monica Vitti, dove appare fin dagli albori in commedie come Questi ragazzi (1956), Fermenti (1957), La tredicesima sedia (1958), L’imbroglio (1959), Le notti bianche (1962) e Il cilindro (1978).


Partecipa a diversi sceneggiati televisivi di successo come L’alfiere (1956) e Mont Oriol (1958), oltre a molti spettacoli di varietà e intrattenimento come Mille volti di Eva (1978), La fuggidiva (1983) - scritto da lei stessa -, e Passione mia (1985), un omaggio al cinema diretto da Roberto Russo. Monica Vitti la vediamo anche nello sceneggiato televisivo Ma tu mi vuoi bene? (1982), di Marcello Fondato, al fianco di Johnny Dorelli. Conduce Domenica In dal 1994 al 1996. Nel 1995 riceve il Leone d’Oro alla Carriera, momento importante che segna una lunga storia d’amore con il cinema.


Monica Vitti trova il tempo per scrivere anche due buoni romanzi: Sette sottane e Il letto è una rosa. “Scrivere è libertà assoluta. Un foglio di carta, una penna, gli appunti… Ho scoperto la pace, il silenzio, la felicità”, dice in un’intervista. Nel 2000 sposa in Campidoglio Roberto Russo, fotografo di scena, ultimo amore della sua vita dopo il regista Michelangelo Antonioni e il direttore della fotografia Carlo De Palma. “Con Roberto siamo amici, fratelli, amanti, compagni di giochi, antagonisti… Roberto è segreto, attento, intelligente e sottile, scopre da un mio sguardo, da un gesto, quello che penso”, afferma in un’intervista. Proprio Roberto Russo le sta vicino e la protegge nei lunghi anni della malattia, quando deve ritirarsi dalle scene, dimostrandosi compagno fedele e amorevole. 

Per vedere La ragaza con la pistola: http://www.youtube.com/watch?v=HON2XYn8Q2w

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi