lunedì 28 aprile 2014

Teorema (1968)

di Pier Paolo Pasolini


Regia, Soggetto, Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Fotografia: Giuseppe Ruzzolini. Montaggio: Nino Baragli. Musiche Originali: Ennio Morricone (Edizioni Musicali Curci). Direzione Musiche: Bruno Nicolai. Tema Musicale: Messa di Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart, eseguita da Accademie Russian Chorus e Orchestra Sinfonica Filarmonica di Mosca. Scenografie: Luciano Puccini. Costumi: Marcella De Marchis. Operatore alla Macchina: Otello Spila. Tecnico del Suono: Dino Fronzetti. Aiuto Regista. Sergio Citti. Direttore di Produzione: Paolo Frascà. Produttori: Franco Rossellini, Manolo Bolognini. Teatri di Posa: Elios Film (Roma). Interpreti: Silvana Mangano, Terence Stamp, Massimo Girotti, Anne Wiazemsky, Laura Betti, Andres José Cruz Soublette, Ninetto Davoli, Carlo De Mejo, Adele Cambria, Luigi Barbini, Ivan Scratuglia, Alfonso Gatto.

 
Teorema è uno dei lavori più politici di Pier Paolo Pasolini, intriso di cultura sessantottina, di messaggi rivoluzionari e antiborghesi, costruito fondendo parabola e pamphlet in una struttura impensabile ai giorni nostri. Tutto deriva dal romanzo lirico Teorema che Pasolini aveva pubblicato per Garzanti, un’opera interessante e insolita, composta di brani poetici che lasciano il posto a lunghe parti in prosa. Il racconto per immagini non si discosta dal contenuto narrativo e la volontà di trasmettere un messaggio antiborghese resta intatta. In poche parole la trama. Un giovane bellissimo e inquietante (Stamp) irrompe nel quotidiano di una famiglia borghese, annunciato da un gioioso portatore di telegrammi (Davoli), fa innamorare la serva (Betti), i figli, la madre (Mangano) e il padre (Girotti), sconvolgendo le loro esistenze. Quando il giovane lascia la famiglia nessuno può tornare alla vecchia esistenza, perché i riti quotidiani sono ormai lettera morta. La serva decide di rientrare al paese natio dove finisce per vivere un’esperienza di santità, cibandosi di ortiche ed elevandosi al cielo; la figlia si ammala di nervi e viene ricoverata in un ospedale psichiatrico; il figlio scopre la vocazione artistica ma le sue parole sono una critica al genio dell’autore; la madre decide di rimorchiare ragazzi e non può fare a meno del sesso; il padre scopre la sua diversità, abbandona i beni materiali, persino i vestiti, per lanciarsi a gridare in mezzo al deserto. Il romanzo di Pasolini terminava con la poesia Il grido, significativa della liberazione espressa dal borghese che riusciva a far venire fuori tutta la disperazione e il senso d’impotenza, lasciando dietro di sé una vita di convenzioni.


Teorema parte come un film inchiesta tra gli operai di una fabbrica sulla decisione del padrone di lasciare tutto ai dipendenti rinunciando al ruolo borghese. Ma il film vero e proprio deve ancora arrivare, perché il regista accompagna lo spettatore dal bianco e nero al colore, dalle immagini silenziose ai dialoghi verbosi e poetici, con una colonna sonora (la Messa di Requiem di Mozart) intensa e una fotografia volutamente scialba e sfocata. Indimenticabili molti piani sequenza della fabbrica deserta, di una Laura Betti sconvolta, di Silvana Mangano drammaticamente perversa, di Massimo Girotti in preda alla follia liberatoria. Pasolini alterna le immagini del deserto all’azione vera e propria, per terminare ancora con il deserto e il grido del borghese che si perde nel vento. La parabola contenuta in Teorema consiste nel paragonare il ruolo del ragazzo a quello di un Gesù contemporaneo, variabile impazzita che irrompe nella normalità borghese, irrazionale che sconvolge il razionale, straordinario che distrugge l’ordinario e ogni convenzione borghese. Terence Stamp è bravissimo nei panni del diverso che rappresenta il cambiamento, la scoperta interiore e la consapevolezza del vuoto interiore da superare. La famiglia borghese, messa a nudo e ormai sola con se stessa, non riuscirà a superare la cognizione della propria nullità, imploderà senza scampo in una definitiva deflagrazione. Tutti precipitano nel vuoto di un inutile passato, a parte la serva che accetta un destino di santità e riesce a trovare un vero ruolo nel mondo. Silvana Mangano è bravissima, intensa e partecipe interprete d’un volto inquietante da moglie borghese che scopre il sesso grazie al ragazzo ma finisce per restarne schiava.


Massimo Girotti è un compassato imprenditore, messo alle strette dalla cognizione della sua diversità, terrorizzato dalla consapevolezza di aver condotto un’esistenza inutile, che abbraccia la strada della povertà lanciando un grido di dolore che contiene tutta la sua disperazione. Un film letterario e teatrale, come molte opere di Pasolini, che cita Tolstoj e i narratori russi, Pelizza da Volpedo e il Terzo Stato, ma anche le Sacre Scritture. Pasolini usa il personaggio del ragazzo - artista per fare autobiografia ed esprimere la sua concezione artistica, mettendo in luce la difficoltà di accettare la propria diversità e la finta perfezione dell’artista. Emblematica la sua “piscia d’artista” sul quadro azzurro per criticare le ultime frontiere dell’arte informale. Stupendi i paesaggi padani, fotografati tra casolari, radure erbose, navigli, piccole industrie e nebbiose brume delle periferie. Pasolini usa speso lo zoom, quasi sempre a ragion veduta, inquadra volti espressivi di ragazzi di vita, proletariato e anonimi borghesi, inserisce alcune sequenze fantastiche che ricordano il cinema di Cesare Zavattini. Teorema è un lavoro importante per capire gli anni Sessanta - Settanta e la temperie politica che li caratterizzarono. Da recuperare, senza curarsi di una critica pretestuosa che lo definiva troppo programmatico e ideologico per essere definito una pellicola risolta e perfettamente compiuta.  


Prima pubblicazione su FUTURO EUROPA

Gordiano Lupi su RAI TRE parla di Calcio e acciaio




domenica 20 aprile 2014

Gian Burrasca (1983)



di Pier Francesco Pingitore
 
Regia: Pier Francesco Pingitore. Soggetto: Monica Felt, liberamente tratto da Il Giornalino di Gian Burrasca di Vamba. Sceneggiatura: Roberto Leoni, Gianfranco Bucceri, Pier Francesco Pingitore. Fotografia: Federico Zanni. Montaggio: Alberto Moriani. Musiche: Dimitri Gribanovsky, John Sposito. Scenografia: Maurizio Tognalini. Direttore di Produzione: Cecilia Bigazzi. Casa di Produzione: Nuova Dania Cinematografica. Distribuzione: Medusa, Deltavideo. Interpreti: Alvaro Vitali, Mario Carotenuto, Gisella Sofio, Marisa Merlini, Enzo Robutti, Clara Colosimo, Gianfranco Barra, Tuccio Musumeci, Gigi Reder, Walter Piretti, Toni Ucci, Diana Dei, Luca Sortelli, Roberto Della Casa, Vittorio Ripamonti, Solvejg Assunta, Giovanni Febbraro, Maria Pia Monicelli, Rita Capobianco, Maria Luisa Piselli, Dino Emanuelli. 



Pier Francesco Pingitore (Catanzaro, 1934) è famoso per aver fondato il locale di cabaret Bagaglino insieme a Mario Castellacci (quante commedie e spettacoli portano la loro firma!), Luciano Cirri e Pietro Palumbo. Locale che si chiamava in realtà Bragaglino - come ci ricorda Roberto Poppi nel pregevole I Registi (Gremese) - per commemorare un grande regista come Anton Giulio Bragaglia. Pingitore non porta al cinema lavori di simile portata al suo lavoro teatrale, riproposto anche in televisione con denominazioni diverse. Ricordiamo due farse di ambientazione storica girate insieme a Mario Castellacci come Remo e Romolo (Storia di due figli di una lupa) (1975) e Nerone (1976), seguite da altri Pippo Franco movie: Scherzi da prete (1977), L’imbranato (1979), Ciao marziano (1979), Tutti a squola (1979)e  Il casinista (1980). La ricetta è sempre quella del Bagaglino: comicità da cabaret, recitata da attori simbolo (Pippo Franco), disimpegno totale, divertimento fine a se stesso, farsa pura, avulsa da ogni riferimento socio-politico. Quando la politica fa capolino è all’insegna del qualunquismo più totale: Attenti a quei P2 (1982) è la prova più lampante. Pingitore si ricorda anche per Il tifoso, l’arbitro, il calciatore (1982), Sfrattato cerca casa equo canone (1983), Gole ruggenti (1992) e per un paio di film televisivi: Ladri si nasce (1996) e Tre stelle (1999). 


Gian Burrasca (1983) è un lavoro cinematografico di Pier Francesco Pingitore orfano di Pippo Franco, basato su un soggetto di Monica Felt, liberamente tratto da Il Giornalino di Gian Burrasca di Vamba. La sceneggiatura - scritta dal regista insieme a Leoni e Bucceri - trasforma la pellicola in un sotto prodotto della serie Pierino travestito da Gian Burrasca. Alvaro Vitali aveva spopolato nelle vesti del popolare monello, ma aveva le phisique du rôle anche per interpretare Giannino Stoppani, sebbene il dialetto romanesco non sia il massimo per portare al cinema una storia toscana. Il povero Vamba - da buon pontederese - non sarebbe stato il massimo della felicità se avesse sentito parlare il suo Giannino con la voce di Vitali, ma non avrebbe approvato neppure Mario Carotenuto nei panni del e Marisa Merlini, zia trasteverina, che sembra Bombolo travestito da donna. Non tutto è negativo, comunque, anche se il tono trash della pellicola è innegabile.


Molti personaggi sono ben tratteggiati, prelevati pari pari dal libro: il professor Muscolo, la direttrice (Colosimo), il direttore (Robutti) e il cognato (Barra). Alcuni episodi sono capitoli del Giornalino di Gian Burrasca sceneggiati a dovere: l’occhio lesionato del futuro cognato, la seduta spiritica, la minestra di magro, il fiore della zia… Altre sequenze sono eccessive, stile commedia sexy: Gian Burrasca solleva le gonne alla serva per vederle il sedere, il purgante nella minestra che fa scacazzare i direttori del collegio e il laido cuoco (Sportelli), la pagella corretta, Toni Ucci spazzino che si finge padre ma prende lo stesso Giannino a ceffoni. Molto bravi alcuni comprimari come Gigi Reder (preside), Enzo Robutti (direttore), Gisella Sofio (madre di Giannino), Roberto Della Casa (bidello), Tuccio Musumeci (profesore).  Gian Burrasca è girato a Roma, tra Trastevere, il Pincio e Villa Borghese. Recitato in perfetto romanesco, citando anche il Gian Burrasca televisivo interpretato da Rita Pavone, senza alcun rispetto per l’ambientazione storica del romanzo. Il film diverte e resiste al tempo, ma va preso con la considerazione che merita una farsa sboccata e sguaiata a metà strada tra il Bagaglino e i film di Pierino. Se amate la critica seria, invece, consultate il Mereghetti e accettate la sua misera stella accompagnata da un giudizio sprezzante sulla “pochezza espressiva” di Alvaro Vitali. Amici critici, ma non ridete mai? 

Sing Sing (1983)



di Sergio Corbucci


Regia: Sergio Corbucci. Soggetto: Franco Ferrini, Enrico Oldoini. Sceneggiatura. Sergio Corbucci, Franco Ferrini, Enrico Oldoini. Fotografia: Sandro D’Eva. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Musica: Armando Trovajoli. Scenografia: Marco Dentici. Produttore: Mario e Vittorio Cecchi Gori. Durata: 110’. Interni: De Paolis, Reggia di Caserta. Esterni: Londra, Roma. Genere: Commedia. Interpreti: Enrico Montesano, Adriano Celentano, Paolo Panelli, Vanessa Redgrave, Marina Suma, Rodolfo Laganà, Carla Monti, Franco Giacobini, Angela Goodwin, Lando Fiorini, Pietro De Silva, Ugo Bologna, Gianni Minà, Maurizio Romoli, Mario Cecchi Gori. 


Sergio Corbucci (Roma, 1927 - 1990), dirige un numero incalcolabile di pellicole, spaziando tra i generi più popolari del cinema italiano, ma soffermandosi sulla commedia, rendendo scostumata la commedia di costume e portandovi la parolaccia a ruota libera e il riso di grana grossa (Enrico Giacovelli). Sing Sing (1983) è una commedia farsesca scritta da Franco Ferrini ed Enrico Oldoini, composta da un prologo metacinematografico e da due episodi (Edoardo e Boghy). Il prologo è il momento più originale del film. Vediamo una scena avulsa dal contesto con Celentano e Montesano in fuga dal carcere, vestiti come i galeotti d’un tempo: pigiama a righe e palla di ferro al piede.  Alcuni qui pro quo farseschi, caricature da vecchie comiche del muto e infine le guardie carcerarie uccidono i protagonisti a colpi di fucile. Immagini interrotte. Siamo in sala visione con il produttore (Ugo Bologna) adirato contro l’inetto regista che fa morire i due attori principali. Il regista si difende citando Monicelli che fece morire Gassman e Sordi ne La grande guerra, ma la critica accolse con favore la novità. Corbucci lancia dure frecciate ai critici: “Me ne frego della critica! Ti ho dato i due attori del momento e tu li fai morire! Ora vieni con me e riscrivi il finale!”, fa gridare al produttore. Nel frattempo Montesano e Celentano discutono su come avrebbero fatto il film ed è proprio il surreale dibattito che costituisce l’ossatura di una pellicola in due episodi.  


Il primo episodio - Edoardo, interpretato da Enrico Montesano, Vanessa Redgrave e Paolo Panelli - racconta la storia del figlio adottivo d’un meccanico romano (il fratellastro è Lando Fiorini), generato da un barone spiantato e da una prostituta, anche se lui si crede figlio della regina d’Inghilterra. Per questo motivo si reca a Buckingham Palace, salva per caso la vita alla regina, finisce in ospedale intervistato da Gianni Minà, ma quando capisce che la madre è ben altra persona si leva lo sfizio di andare a letto con la regina che si era invaghita di lui. L’episodio è fiacco, la sceneggiatura stenta a decollare, le battute latitano, gli equivoci sono piuttosto ripetitivi. Si ricorda un duetto volgarissimo ma efficace tra Minà e Montesano: “Ma allora lei è un ardito!”. “Che ar dito. Ar culo so’ stato ferito”. Le scene ambientate a Buckingham Palace sono girati nel Palazzo Reale di Caserta, ma gli esterni sono ripresi a Londra. Vanessa Redgrave è bella ed elegante in un ruolo congeniale da regina d’Inghilterra. 


Il secondo episodio - (Boghy, interpretato da Adriano Celentano, Marina Suma e Rodolfo Laganà) racconta la storia di un’attrice di pellicole sexy - horror perseguitata da un maniaco e protetta da un singolare investigatore. Classica comicità alla Celentano, slapstick e da cartone animato, con ampio uso del surreale, per la prima volta alle prese con un poliziesco comico. Corbucci scrive una parodia del poliziottesco (molte scene acrobatiche e inseguimenti) e di tutto il cinema di genere. Marina Suma è un’attrice che interpreta pellicole dai titoli assurdi: Il morso del vampiro, Gatto Killer, Masha, Il bacio di Drakulo…Non manca una doccia da commedia sexy, insolita nel cinema di Celentano, e apprezziamo un paio di nudi posteriori della bella attrice napoletana. La trama cita Psyco (1960) di Hitchcock e ne costruisce la parodia attraverso la figura del coatto Rodolfo Laganà che si traveste da vecchia madre per continuare a riscuotere la pensione. È lui il maniaco che tormenta la bella attrice per scacciarla di casa e affittare l’appartamento a un prezzo più alto. Adriano Celentano è uno strampalato Tenente Boghy che a un certo punto cita due suoi registi storici: “C’è una rissa in via Pipolo, angolo Castellano...”, che l’hanno diretto in molti film: Asso, Il bisbetico domato, Innamorato pazzo, Mani di velluto, Grand Hotel Excelsior, Il burbero... 


Un episodio felice, più riuscito, meglio sceneggiato e dai tempi comici efficaci, soprattutto divertono le trovate di metacinema, le scenografie e le situazioni da film horror e poliziottesco inserite in una trama farsesca. Il finale riprende i due attori ancora una volta insieme in sala visione con Montesano che imita prima Celentano e poi Totò. I due comici decidono di andare dal produttore per imporre le loro idee, ma escono dal colloquio vestiti da galeotti, camminando come Stan Laurel e Oliver Hardy, per interpretare un finale da comica nel quale sbattono il viso contro una vetrata. I produttori hanno sempre ragione. Tra l’altro il vero produttore del film - Mario Cecchi Gori - interpreta un cammeo da commissario di polizia nel secondo segmento del film. Ottima la musica di Armando Trovajoli, tra pezzi di swing, charleston e tip-tap, un colonna sonora che conferisce ritmo e brio a situazioni comiche montate con sapienza da Ruggero Mastroianni. Nel secondo episodio si nota la mano di Franco Ferrini sceneggiatore per i riferimenti horror e poliziotteschi. Il primo episodio è più nelle corde di Enrico Oldoini.

sabato 19 aprile 2014

Femminilità (in)corporea (2013)



di Roger A. Fratter

Sottotitolo: Preferisco suoni lontani. Regia: Roger A. Fratter. Soggetto e Sceneggiatura: Roger A. Fratter, Lauro Certaldo. Montaggio: Roger A. Fratter. Fotografia: Lorenzo Rogan. Operatori: Stefano Ravanelli, Omar Fratter. Musiche: Massimo Numa, Valerio Ragazzini. Edizioni Musicali: Beat Records (Roma). Brani Musicali: Dammi Tempo, Capitan Coraggio di Michael Vegini; pezzi al piano di Alessandro Fabiani; Touch Me di Malinowska, Puglisi, Toso, interpretrato da Monique. Dipinti: Oliviero Passera. Direttore di Produzione: Lauro Certaldo. Produzione e Distribuzione: Beat Records Company. Durata: 90’. Genere: Introspettivo. Interpreti: Roger A. Fratter (Raffaele), Anna Palko (Paola), Monika Malinowska (Greta), Giulia Marzulli (Gianna), Anthony Paul (Enzo), Valerio Ragazzini (Vanni), Matteo Maffeis (Michele), Rachel Rose Wood, Pietro Mosca (Saggezza).


Roger A. Fratter è un regista indipendente controtendenza. Abbiamo cominciato ad apprezzare la sua opera con Sete da vampira (1998), Anabolyzer (2000), Abraxas (2001), Flesh Evil (2002), Innamorata della morte (2004), quando erano tempi magri per il cinema horror nostrano. Adesso che molti indipendenti sono tornati a fare cinema di genere lui si dedica a pellicole introspettive, commedie erotiche e cinema d’autore. Due film interessanti come Rapporto di un regista su alcune giovani attrici (2008) - una sorta di personale Otto e mezzo - e Tutte le donne di un uomo da nulla (2010) - storia di un nullafacente mantenuto da una moglie ricca - anticipano il sofferto e introspettivo Femminilità incorporea, che presenta il suggestivo sottotitolo Preferisco suoni lontani.



Vediamo la trama. Raffaele, scrittore insoddisfatto della vita materiale e sentimentale che conduce, decide di scappare da moglie, figlia e amante per ricercare il suo mondo interiore, la donna ideale e il senso vero dell’esistenza. Raffaele acquista un quadro che raffigura una figura femminile, sparisce dalla realtà, vive in un mondo onirico dove tutto è possibile e le regole della realtà non esistono. “Quando il nostro microcosmo comincia a diventare incerto è in quel momento che udiamo una voce chiamarci da lontano”, dice il regista nella didascalia iniziale. Il protagonista precipita in un abisso di incomunicabilità, perdendo ogni riferimento con la realtà dopo la rottura di un duplice rapporto con moglie e amante. Scappa dalle sue donne, persino dalla figlia (complice della fuga), si libera da ogni vincolo, anche del suo editore, per intraprendere un viaggio mistico alla ricerca di se stesso e di un donna ideale che è destinato a non trovare. 


Il film è girato in una Bergamo luminosa e spettrale, raffigurata da tersi cieli invernali e cupe giornate cosparse di nuvole intrise di pioggia. La pellicola gode di una fotografia solare, lucida, colorata, ed è girata con movimenti di macchina decisi, soggettive intense, piani sequenza introspettivi. Il messaggio subliminale fa capire che l’arte è sempre una via d’uscita, perché trasforma la realtà, contribuisce a far accettare il mondo interiore, riveste una funzione terapeutica, aiuta a capire se stessi. Il regista calca la mano sul cinema surreale per dimostrare la relatività dell’esistenza e il diverso modo di vedere le cose. Un filmino amatoriale (girato con tecnica da Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato) cambia il contenuto alla seconda visione: prima mostra una famiglia felice, subito dopo la cruda realtà dell’incomunicabilità tra uomo e donna. Il ritorno del marito, infine, non sappiamo quanto sia reale o quanto una costruzione fantastica della moglie, mentre il regista ci fa capire che l’uomo si è perduto dentro un quadro, cercando un donna che forse non troverà mai. Femminilità (in)corporea insiste molto sulle sequenze erotiche, mai così audaci, intense e credibili in un film di Fratter. Il discorso più importante del regista segue la tematica pirandelliana de Il fu Mattia Pascal, tra soggettive nervose e lunghi piani sequenza: la fuga di un uomo dalle donne della sua vita, ma soprattutto da se stesso, alla ricerca di qualcosa che non troverà. “Le due metà non si uniranno mai perfettamente”, dice la didascalia finale, subito dopo i titoli di coda. La donna perfetta non esiste, resterà un sogno impalpabile di un uomo in fuga. Roger Fratter gira con eleganza e sapienza tecnica un film difficile, ben recitato da lui stesso (nei panni del protagonista) e dalle tre donne Anna Palko (Paola), Monika Malinowska (Greta) e Giulia Marzulli (Gianna). Da recuperare nei circuiti Home Video, perché non è un prodotto destinato al cinema.

mercoledì 16 aprile 2014

Appunti sparsi su Luciano Salce



 

Luciano Salce (Roma, 1922 - 1989) è un factotum del cinema italiano, attivo sia come regista che come attore e sceneggiatore. Ricordiamo le sue frequenti apparizioni televisive in trasmissioni popolari come Stasera… Rita! (1965), Studio Uno (1966), Sabato sera (1972), Buonasera con… Luciano Salce (1979), Ieri e oggi (1979) e Due di tutto (1982). È un vero intrattenitore televisivo, un David Lettermann italiano, inventore del talk - show intelligente e ironico. Si ricordano alcuni duetti con Mina, uno scambio di battute sulla bruttezza con Alberto Sordi (“Non ride Salce, ammazza quanto sei brutto!”), i commenti giornalistici con Luttazzi e tante affermazioni sopra le righe (“Non mi prendono sul serio e io mi faccio crescere la barba!”). Non ha una giovinezza facile perché lo chiamano a combattere nella Seconda Guerra Mondiale e viene preso prigioniero dai tedeschi. Nel primo dopoguerra interpreta un piccolo ruolo ne Un americano a Roma (1946) di Luigi Zampa, si diploma all’Accademia d’arte drammatica, lavora nel cabaret parigino dei Tre Gobbi (1949), insieme a Caprioli e Bonucci, quindi si specializza come attore e regista nel teatro leggero. Salce emigra in Brasile per lavorare, dirige un teatro italiano e nel 1953 realizza i suoi primi lavori cinematografici: Una pulga na balança (Una pulce nella bilancia) e Floradas na Serra (Floradas nella Sierra). Sono due pellicole che nessuno ha visto e non sarebbe una cattiva idea recuperarle, per storicizzare un ottimo autore. Salce torna in Italia e riprende a fare l’attore in Totò nella luna (1958) di Steno, ottima spalla comica nei panni di uno scienziato tedesco, forse il ricordo degli ufficiali durante la prigionia è utile per conferire veridicità al personaggio. 



Il debutto italiano come regista arriva con Le pillole d’Ercole (1960), una commedia interpretata da Nino Manfredi e Sylva Koscina, vero e proprio adattamento per il grande schermo di una pochade teatrale di Maurice Hennequin e Paul Bilhaud, la più classica commedia degli equivoci ambientata in uno stabilimento termale. Il malinteso di fondo è nel ruolo di moglie, perché Manfredi non vuole concedere la vera consorte a un ricco americano che deve vendicarsi per le corna subite. La comicità delle situazioni scaturisce da un equivoco, il regista è bravo a rendere la storia con grande cura formale, gli sceneggiatori (Maccari, Scola, Vighi e Baratti) fanno il loro dovere e gli attori sono eccellenti. Vittorio De Sica, Oreste Lionello, ma anche la giovane Jeanne Valérie non sono da meno dei protagonisti principali. Si intuisce la classe del regista che vuole le battute pronunciate sempre in movimento, mai da fermi. Il cinema ha le sue regole. Non è il teatro. 



Luciano Salce lancia nel cinema serio Ugo Tognazzi, in una commedia satirica sul ventennio come Il federale (1961), una feroce critica al fascismo che tira fuori molti scheletri dagli armadi dei vecchi gerarchi. Il suo ruolo di fustigatore dei costumi e di autore incline alla satira viene ribadito ne La voglia matta (1962) e Le ore dell’amore (1963), pellicole che ridicolizzano vizi e difetti dell’Italia del boom. Nel cinema di Salce non mancano i riferimenti erotici e le note ironiche sui vizi degli italiani, mentre spesso vengono fuori tematiche come la caccia alle straniere, la voglia del quarantenne di concupire una sedicenne, la crisi della coppia e i rapporti coniugali che si sfasciano. Ugo Tognazzi diventa un suo attore simbolo, la giovanissima Catherine Spaak è una perfetta lolita, ma anche la sensuale Barbara Steel fa la sua parte come inglesina tutto pepe. 



La cuccagna (1962) è un’altra commedia che ironizza sull’Italia del benessere, ben girata tra spiagge, interni di famiglia con protagonista il televisore, canzoni languide di Luigi Tenco e figli democristiani in odore di omosessualità. 
Luciano Salce si ritaglia spesso una parte nei propri film, a volte sono piccoli cammei, ma molto più spesso ruoli importanti, così come non smette di fare l’attore per film diretti da altri. Non dimentichiamo che la sua vera vocazione e il mestiere per cui studia è proprio quello di attore, soprattutto di teatro. Come regista ha il difetto di non prendersi troppo sul serio, di giocare con il bozzettismo, la macchietta, la battuta facile, da avanspettacolo, ma è dotato di una tecnica notevole, è un ottimo direttore di attori  e sa realizzare opere dotate di grande rigore formale. Enrico Menczer è il suo direttore della fotografia preferito, girano quattordici film insieme, sono una coppia indissolubile, perché esiste grande stima tra i due professionisti.  


Nella carriera del regista romano ci sono anche battute d’arresto come il mediocre Le monachine (1963), interpretato da Catherine Spaak, Didi Perego e Sylva Koscina, che in un primo tempo doveva essere una farsa per far esordire alla regia Castellano e Pipolo. Alta infedeltà (1964) è un film a episodi firmato da Franco Rosi, Elio Petri, Mario Monicelli e Luciano Salce, che dirige La sospirosa e segna il debutto comico di Monica Vitti in una farsa sul tema della gelosia. Oggi, domani, dopodomani (1965) è un altro film a episodi firmato da Marco Ferreri, Eduardo De Filippo e Luciano Salce, che dirige La moglie bionda, con Pamela Tiffin, Marcello Mastroianni e Lelio Luttazzi, ma fa anche l’attore ne L’ora di punta di Eduardo De Filippo. Non è un lavoro memorabile, ma solo un’operazione commerciale di Carlo Ponti che distrugge un film di Ferreri, lo rimonta, lo modifica e lo mette in circolazione come parte di un trittico. Le bambole (1965) è un altro film a episodi e Salce scrive - insieme a Steno - Il trattato di eugenetica, diretto da Comencini. Slalom (1965) è intrattenimento fine a se stesso, una parodia dei film di spionaggio scritta da Castellano e Pipolo, un film di consumo interpretato da Vittorio Gassman, Beba Loncar, Adolfo Celi e Isabella Biagini. Servono pure questi e Salce non ha mai rinnegato i lavori più commerciali che presentano sempre per una marcia in più rispetto ai prodotti simili girati da altri registi. Come imparai ad amare le donne (1966) non merita grande attenzione, perché è una commedia datata sul tema italico donne e motori, che si ricorda soltanto per la presenza di un’acerba Romina Power e di una deliziosa Orchidea De Santis. El Greco (1966) è un film storico che vede in campo l’icona sexy Rosanna Schiaffino accanto a Mel Ferrer. Salce non è esperto di film in costume, racconta l’Inquisizione, ci mette una bella storia d’amore, confeziona un prodotto tecnicamente perfetto e cita pure Goya. Nonostante tutto non è il Salce che preferiamo. Le fate (1966) è ancora un film a episodi a tematica erotica, firmato da Salce, Monicelli, Bolognini e Pietrangeli, ma il regista romano gira solo Fata Sabina con Monica Vitti ed Enrico Maria Salerno. Ti ho sposato per allegria (1967) è un adattamento cinematografico di un lavoro teatrale di Natalia Ginzburg, ben interpretato da Monica Vitti (in gran forma), Giorgio Albertazzi e l’icona sexy Maria Grazia Buccella. La pecora nera (1968) è un’occasione mancata per fare buona satira politica, ma si ricorda per l’ottima interpretazione di Vittorio Gassman (in un doppio ruolo) come onorevole irreprensibile e fratello gemello maneggione. 

 Orchidea De Santis in Colpo di Stato


Colpo di Stato (1969) è un film importante, da riscoprire e rivalutare, un apologo fantapolitico, una pellicola molto quotata all’estero ma poco considerata in Italia. Si parte da un’improbabile vittoria elettorale della sinistra per finire con i comunisti che non se la sentono di governare e restano all’opposizione. Un film strano, incompreso, ma carico di un’intelligente ironia che è un tratto distintivo del regista. Il prof. Dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue (1969) è un fiacco sequel de Il medico della mutua di Luigi Zampa, si basa sulla bravura di Alberto Sordi e amplia vecchi discorsi già letti nel romanzo di Giuseppe D’Agata. Basta guardarla (1970) è un gran bel film che racconta la nostalgia per il teatro di rivista, riporta sul grande schermo molti numero e situazioni tipiche di quel genere di spettacolo. Salce aveva avuto una compagnia teatrale con Franca Valeri e Vittorio Caprioli, con loro aveva lavorato in televisione, si scrivevano i testi e gettavano uno sguardo sulla realtà. In questo film ci sono tutti i ricordi del bel tempo andato, c’è la nostalgia per un teatro che non ritorna, ci sono interpreti ottimi e lo stesso Salce ricopre un ruolo importante che avrebbe dovuto essere di Tognazzi. Si tratta del primo film di Mariangela Melato, ma c’è anche una bellissima Maria Grazia Buccella, contadinella che diventa ballerina, innamorata di un improbabile cantante come Carlo Giuffrè. 


Il provinciale (1971) è soltanto un inno alle bellezze della Buccella, nei panni di una prostituta che fa innamorare Gianni Morandi. Il sindacalista (1972) è un ottimo film con protagonista Lando Buzzanca, sindacalista d’assalto che rivendica i diritti degli operai contro un padrone burbero come Renzo Montagnani. Salce usa la commedia all’italiana per tentare di fare un discorso sociale e in parte ci riesce, ma spesso il film cade nella farsa fine a se stessa. Io e lui (1973) è tratto dall’omonimo romanzo di Moravia e vede ancora all’opera Lando Buzzanca intento a dialogare con il suo membro virile. Salce realizza un film che non piace a nessuno, ma inventa virtuosismi tecnici impensabili per la parte recitata dal pene e si prodiga nella esilarante descrizione di un ambiente cinematografico che pensa solo al sesso. 


Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno (1974) segna l’incontro tra Luciano Salce e Paolo Villaggio, ma ci sono anche Eleonora Giorgi e Orchidea De Santis per una satira grottesca del mammismo e degli ambienti nobiliari. Il sodalizio Salce - Villaggio produce alcuni personaggi storici del comico genovese che passano dalla televisione al cinema e restano nell’immaginario collettivo. Ricordiamo il Professor Kranz tedesco di Germania (prima in tv e poi al cinema, nel 1978), ma soprattutto Fantozzi (1975), l’impiegato frustrato, icona di tutti noi, simbolo della società contemporanea che riduce l’uomo a una stupida macchina da lavoro. Vengono fuori i film più belli della serie: Fantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1976), lavori tratti dall’opera letteraria di Paolo Villaggio, che collabora alla sceneggiatura e in questo caso è molto di più che l’attore principale, quasi un coregista. 

L’anatra all’arancia (1975) è una graffiante commedia all’italiana che spesso deborda in commedia sexy, interpretata da Ugo Tognazzi, John Richardson, Monica Vitti e Barbara Bouchet. Il film è molto teatrale e mostra tutti i limiti di un opera tratta da una commedia, ma la visione di un’icona sexy come Barbara Bouchet salva tutto. La presidentessa (1977) mette in scena un grande cast con Johnny Dorelli, Mariangela Melato, Gianrico Tedeschi, Laura Trotter, Vittorio Caprioli e lo stesso regista in un ruolo divertente. Si tratta ancora una volta di una pochade francese portata al cinema con diligenza e grande cura formale. Salce non si fa pregare per seguire la moda imperante della commedia sexy, realizza diverse scene piccanti e fotografa alcuni nudi parziali della Melato. In questo periodo Salce interpreta molti ruoli come attore comico della commedia sexy, si tratta di parti consistenti e di rapidi cammei dove realizza la caricatura dell’italiano medio pieno di difetti e con in testa solo il sesso. 

Il…belpaese (1977) vede ancora all’opera l’accoppiata Salce - Villaggio per un tentativo non riuscito di satira politica, annacquato dalla penna poco felice di Castellano e Pipolo. Ride bene… chi ride ultimo (1977) è un nuovo film a episodi diretto da Pino Caruso, Marco Aleandri (Vittorio Sindoni), Gino Bramieri e Walter Chiari. Luciano Salce è soltanto attore nel divertente La visita di controllo, vera e propria commedia sexy girata dall’inesperto Aleandri, che racconta una storia di corna e mette in mostra la bellezza di Orchidea De Santis. Tanto va la gatta al lardo…(1977) è ancora un film a episodi interamente girato da di Marco Aleandri (Vittorio Sindoni). Luciano Salce ha un ruolo da protagonista assoluto insieme a Macha Meril, Orchidea De Santis e Valentina Cortese ne Le tre verginelle, storie di tre (splendide) zitelle che non vedono l’ora di farsi violentare. Nello stesso film troviamo Salce nel ruolo di un integerrimo magistrato in Processo per direttissima, satira sul mondo del calcio e i tifosi maleducati. Dove vai in vacanza? (1978) è ancora un film a episodi diretto da Mauro Bolognini, Alberto Sordi e Luciano Salce, che firma Sì buana con Paolo Villaggio e la bellissima Annamaria Rizzoli. Il film è ottimo, uno dei migliori prodotti della commedia sexy, composto da tre memorabili ritratti dell’Italia di fine anni Settanta, tre episodi intrisi di umorismo e trovate geniali. Sì buana è scritto da Continenza e Scarpelli ed è una sorta di parodia di un romanzo d’avventura ambientato in Africa, con un Villaggio scatenato a suon di rutti e circuito dalla bionda Rizzoli. L’episodio racconta le disavventure di Villaggio coinvolto nell’omicidio dell’amante della Rizzoli (Daniele Vargas) e si ricorda anche per il sexy costume panterato della bionda attrice. Villaggio è molto bravo e le scene comiche da allupato cronico alle prese con tanta bellezza sono memorabili. A Mereghetti il film non è piaciuto, forse perché siamo nel campo della commedia sexy, visto che definisce i tre episodi “pecorecci, inutili e qualunquisti”. 

Professor Kranz tedesco di Germania (1978) è ancora un film targato Salce - Villaggio, che porta al cinema una vecchia macchietta televisiva, un personaggio di psicologo tedesco davvero sopra le righe. La storia è ambientata in Brasile, tra le favelas di Rio, racconta le vicissitudini di un gruppo di perdenti, ma non è molto riuscita, resta solo una farsa non molto divertente. Ridendo e scherzando (1978) è un nuovo film a episodi di Marco Aleandri (Vittorio Sindoni) che sceneggia alcune macchiette sul permissivismo della nostra società. Salce interpreta un marito inibito in Nozze d’argento, commedia sexy con la partecipazione di Didi Perego e Licinia Lentini. Riavanti, marsh! (1979) è commedia sexy in versione militaresca, interpretata da Alberto Lionello, Aldo Maccione, Carlo Giuffrè, Renzo Montagnani, Silvia Dionisio, Olga Karlatos, Anna Maria Rizzoli e Stefano Satta Flores. Un film goliardico sul richiamo alle armi di cinque quarantenni che gioca sui soliti doppi sensi della commedia erotica. Salce ha fatto di meglio ma se la cava con dignità. 
Rag. Arturo De Fanti bancario precario (1980) è ancora un Villaggio movie, in edizione extra Fantozzi, ma il suo personaggio è molto simile a quello dell’impiegato imbranato. Ci sono Catherine Spaak, moglie trascurata, Enrica Bonaccorti, servetta tutto pepe che non esita a mostrare tette, cosce e sedere, ma anche la bellezza prorompente di Anna Maria Rizzoli, amante del ragioniere. La casa si trasforma in una comune dove convivono consorti e amanti per superare le difficoltà economiche. Gigi Reder e Anna Mazzamauro non possono mancare, ma c’è pure Carlo Giuffrè per una pellicola che è una via di mezzo tra la pochade e la commedia degli equivoci. 

Vieni avanti cretino (1982) è il film culto di Lino Banfi, l’apoteosi di un comico di razza che interpreta alcune scenette da avanspettacolo in un film senza né capo né coda, ma proprio per questo affascinante. Luciano Salce si ritaglia un cammeo nella parte di se stesso e ridicolizza il povero Banfi nella parte iniziale, come se fosse un novello Derege. Franco Bracardi, Gigi Reder, Michela Miti, Luciana Turina e Paolo Paoloni sono i protagonisti di una farsa che ricorda i tempi passati del teatro comico. Alcune parti del film sono indimenticabili, anche se (o forse proprio per quel motivo) spesso si cade nel trash.  Ci piace ricordare questa pellicola come il vero canto del cigno di Luciano Salce, perché dopo gira controvoglia il modesto Vediamoci chiaro (1984), con Johnny Dorelli nei panni di un finto cieco circondato dalle sensuali Janet Agren ed Eleonora Giorgi. Salce conclude la carriera con il televisivo Gli innocenti vanno all’estero (1984) e con il pessimo Quelli del casco (1988), film giovanilistico che non ha visto nessuno, dove recita pure un cammeo nella parte di un vescovo. Luciano Salce muore a Roma il 17 dicembre 1989.

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi




venerdì 4 aprile 2014

GUALTIERO JACOPETTI SI RACCONTA




La copertina del libro definitivo sul cinema di Jacopetti

“Sono sempre stato un personaggio scomodo e ho filmato la realtà senza cedere a compromessi”, ha detto Gualtiero Jacopetti durante la conferenza stampa di presentazione di una serata in suo onore organizzata dalla Fondazione Cinema per Roma. Niente di più vero. Basta vedere l’accanimento con cui certa critica intellettuale e di sinistra ha sempre distrutto i suoi film innovativi e trasgressivi. Jacopetti ha incontrato la stampa alla considerevole età di novant’anni dopo essere stato per anni vituperato e relegato a un fastidioso ruolo di polemista fascista. Non è cambiato perché la lucidità e l’animosità polemica sono quelle di sempre. Si è scagliato contro il cinema italiano che giudica prigioniero di due mali difficili da estirpare come provincialismo e ideologia.“Il nostro cinema affronta sempre le stesse storie che al di là delle Alpi  non vengono capite. Devo confessare che anche oggi, quando vedo in programma un film italiano, mi passa la voglia di andare a vederlo. È una mia mancanza, lo ammetto, che forse nasce dal ricordo che ho del cinema degli anni Sessanta e Settanta”. 

Il libro si può ordinare qui: 
http://www.libreriauniversitaria.it/gualtiero-jacopetti-graffi-mondo-loparco/libro/9788876064760


Il Comune di Roma ha celebrato un illustre cittadino di adozione, pure se Jacopetti è toscano di Barga, lucchese purosangue, per natura e carattere polemico e scomodo. Il regista vive in via Monte alle Gioie, una stradina che si arrampica su una collina davanti al parco di Villa Ada, la Villa Savoia dei romani meno giovani. La sua casa è all’ultimo piano di una palazzina anni Cinquanta, un piccolo attico con una terrazza piena di fiori e nidi di merli, un vero e proprio rifugio per un regista dimenticato.
“I critici italiani hanno definito il mio cinema come trash. All’estero Mondo cane e Africa addio sono oggetto di culto e di studio. In Italia mi hanno dato del fascista, del razzista, mi hanno accusato persino di strage per le riprese di Africa addio. Fui calunniato, perseguitato, denunciato: impiegai un anno per dimostrare la mia innocenza e alla fine sono stato assolto con sentenze che vennero pubblicate a pagina ventisette dai giornali che mi avevano distrutto. Ero invidiato, credo, perché ero un bell’uomo che piaceva alle donne, ero bravino come giornalista e come cinematografaro, me ne fregavo delle mode.  L’Italia è un paese di provinciali e di conformisti, purtroppo”.
La serata in onore di Jacopetti ha mostrato alcuni film importanti come Mondo cane e Africa addio, che sono una pietra miliare della cinematografia italiana. Andrea Bettinetti ha fatto vedere al pubblico il suo documentario L’importanza di essere scomodo, prodotto da Gabriella Manfrè, ma pare che Jacopetti sia un personaggio ancora scomodo perché il film sulla sua vita non trova distributori. 


Gualtiero Jacopetti che parla a ruota libera è irrefrenabile.
“Quando Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni, gli amici mi hanno chiamato per dirmi che finalmente era arrivato il mio momento e sarei tornato a fare film. Invece nessuno a pensato a me e io non ho mai cercato Berlusconi. Era inevitabile, lui è un apolitico, è uno che fa il suo mestiere. Quando lo conobbi, era il 1981, lo trovai un seduttore, un uomo gradevole, generoso. All’epoca collaboravo con Il Giornale del mio grande amico Indro Montanelli, di cui lui era editore. Voleva offrirmi la direzione delle sue televisioni: mi aveva promesso carta bianca. Andai al Grand Hotel. Lui arrivò, la faccia era cambiata, mi disse: Sa, Jacopetti, i socialisti non la vogliono. Chiuso”.
Parla anche dell’accusa di fascismo che spesso gli è piovuta addosso.
“Non sono mai stato fascista. Ho ancora le lettere dei partigiani ai quali ho salvato la vita. Sono un liberale alla Ostellino…”
Jacopetti ha trascorso una vita avventurosa, piena di colpi di scena, scandali, tradimenti, arresti clamorosi, entrate e uscite dalle prigioni africane, italiane, giapponesi. Accusato per due volte di aver violentato minorenni (Roma e Tokyo), processato per i film, per i documentari e per gli articoli. Jacopetti ritiene di essere stato vittima di assurde macchinazioni. 
“Non ho mai fatto niente a nessuno. Sono sempre stato al centro di calunnie e montature. Non ho rimpianti per quello che ho vissuto. Sono innamorato della vita, del mare, delle piante. Sono amico delle mie ex. Mia figlia vive in Inghilterra ed è il mio vero amore assoluto. Non ho rancori né invidie”.
Gualtiero Jacopetti è un uomo realizzato, anche se per essere celebrato e rivalutato in Italia ha dovuto attendere di compiere novant’anni.

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

mercoledì 2 aprile 2014

Le impiegate stradali (Batton Story) (1976)


di Mario Landi

 
Regia: Mario Landi. Soggetto e Sceneggiatura: Piero Regnoli. Montaggio: Mariano Arditi. Fotografia: Franco Villa. Operatore alla Macchina: Enrico Biribicchi. Scenografia: Claudio Riccardi. Musica: Willy Brezza, Mario Molino (Edizioni Musicali Astra, Milano). Direttore di Produzione: Giuliano Simonetti. Produttore Esecutivo: Gabriele Crisanti. Produzione: Maxi Cinematografica Italiana. Teatri di posa: Icet/ De Paolis - Milano. Colore: Technospes. Durata. 90’. Genere: Commedia sexy. Interpreti: Femi Benussi, Marisa Merlini, Daniela Giordano, Gianni Dei, Toni Ucci, Giorgio Caldarelli, Gianni Cajafa, Mariangela Giordano. 


Trash fin dal titolo questa commedia sexy di Mario Landi, che comincia come uno scolastico, prosegue come un mondo movie all’interno della prostituzione, per finire in pochade alla Feydeau con tanto di bagarre. La pellicola - modesta e girata con poco brio - presenta anche momenti da blando prison movie, o meglio da women in prison, durante il soggiorno in guardina delle prostitute che devono vedersela con perquisizioni eseguite da secondine lesbiche. Tutto è lasciato all’intuizione del pubblico, comunque. 

 
Batton Story è una commedia (meglio dire farsa) sexy molto casta, sceneggiata con poche idee e con ancor meno scene di nudo. Femi Benussi stupisce tutti perché è vestita per l’intera durata della pellicola, nei panni di una professoressa che si prende a cuore i problemi delle prostitute e vuol fondare un sindacato a tutela dei loro diritti. La Benussi si presenta come un’insegnante perbenista che intrattiene gli scolari su quanto sia disdicevole esercitare il mestiere più vecchio del mondo. Cambia idea quando viene arrestata per errore durante una retata di lucciole e deve passare una notte in guardina con le compagne di sventura. 


A quel punto decide di mettersi a capo di una lotta grottesca contro i papponi, stringendo una forte amicizia con Marisa Merlini - la veterana del gruppo - e Daniela Giordano, la più disinibita delle prostitute. Toni Ucci è il capo dei magnaccia, il suo personaggio si caratterizza per l’impotenza, perché non riesce a congiungersi carnalmente con la Giordano neppure recitando, travestito da Sandokan, Antonio, Tarzan e altri personaggi storici. La Benussi ha un fidanzato (Gianni Dei) figlio di un ministro potente (Cajafa) e punta su di lui per rivendicare diritti e regole a favore delle protette. Una delle sequenze più trash vede una riunione di battone che brandiscono cartelli con sopra scritto: “Puttane di tutto il mondo, unitevi!”, “Papponi go home”, “Basta pappare, papponi!”... infine chiedono un referendum per abolire i protettori. 


Pure la riunione sindacale dei papponi non è meno ridicola, divisi come sono tra meridionali (vorrebbero fare un cappottino di cemento alle battone) e veneti (propongono la serrata del sesso). Lo scontro tra puttane e papponi giunge a vie di fatto, con sganassoni mollati a tempo di tango, secondo regole da farsa western, e alla fine sono i papponi ad avere la peggio. Landi cita Roma a mano armata di Umberto Lenzi, nei flani che campeggiano in un manifesto murale, non sappiamo quanto volutamente. 

 
Il film vorrebbe essere un’accusa al perbenismo borghese, ma è troppo fiacco per lasciare il segno, tra liti artefatte e dialoghi posticci che vedono protagonista la coppia Benussi - Dei. La parte finale a casa del ministro è da farsa sexy, grottesca e carente di tempi comici, infarcita di battute qualunquiste sul governo e sulla politica italiana. Spunta fuori anche un arabo che risolverà i problemi del governo solo se potrà disporre di duemila puttane italiane ogni anno. Film di fantapolitica, se si vuole, perché le ultime sequenze presentano un telegiornale dove si dichiara abolita la Legge Merlin e legalizzate le prostitute come “impiegate del sesso”, alle dipendenze dello Stato. Mario Landi è uno dei rari casi di regista che ha dato il meglio di sé in televisione. Batton Story segna uno dei punti più bassi della  sua mediocre produzione. 

Il film non ottiene  alcun successo e viene stroncato dalla critica alta che parla di pochade con qualche seno al vento che crede di scherzare su sesso e politica e invece non si solleva dal più scontato qualunquismo (Paolo Mereghetti). Marco Giusti su Stracult è più buono: “Curiosa, tarda commediola diretta da Mario Landi su un testo non finissimo di Piero Regnoli sul tema delle battone che si vogliono unire in sindacato. Da recuperare solo perché Mereghetti dice di evitarlo con cura…”. Poco in sintonia con il resto della pellicola l'incipit in bianco e nero composto da scene tratte dalla retorica nazista, russa, maoista e fascista, contro la prostituzione. Forse il regista le ha inserite per dare un senso politico a un'operazione commerciale.


Mario Landi gira anche Il viziaccio - Si accomodi signora … questo letto è mio (1977), distribuito nel 1980, da ricordare come ultimo film uscito in sala interpretato da Femi Benussi. Citiamo Supersexymarket (1979), grande titolo per una casta Femi Benussi che si spoglia per consentire furti nei supermarket a Giorgio Ardisson. Penultimo film della Benussi, girato con identico cast del precedente e pochi soldi mentre sta tramontando il cinema di genere. Landi conclude la carriera con il thriller Giallo a Venezia (1979) e con l’horror Patrick vive ancora (1980). 

Per vedere il film: https://www.youtube.com/watch?v=36f5EdR-a9s&feature=share


Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi