sabato 28 settembre 2013

Com’è bello far l’amore (2012)



di Fausto Brizzi


Fausto Brizzi ha inventato un genere: il television - movie, ovvero il nulla fatto cinema, la televisione su grande schermo, lo squallore della fiction replicata all’infinito, infarcita di finto gergo giovanilistico e di situazioni surreali ai limiti dell’imbarazzante. Inutile perdere tempo a redigere la scheda tecnica di un film ridicolo e dimenticabile  - Com’è bello far l’amore - che si ricorda solo per la divertente sigla di testa e per la scenetta metacinematografica dei Fratelli Lumière intenti a girare il primo film erotico della storia. Brizzi vorrebbe ironizzare sulla commedia sexy, sul cinema porno, sulle pellicole d’autore, sugli italiani che smettono di avere rapporti sessuali dopo anni di matrimonio, sui giovani che si fanno i trombamici. Riesce solo a provocare tanta tristezza in chi guarda il suo cinema e spera di imbattersi anche solo in una trovata degna di una pellicola cinematografica, per poi rendersi conto che sta guardando fiction. Brizzi è televisione allo stato puro, dai movimenti di macchina alla recitazione, dalla fotografia sbagliata al montaggio compassato, dai dialoghi assurdi (davvero bravo Riccardo Cassini!), alle situazioni da fotoromanzo, con tutto il rispetto per i fotoromanzi. 
 
 
Claudia Gerini è l’unica vera attrice del film, bella e sexy, intrigante, un lusso in un cast di zombie stile Fabio Di Luigi che sfoggia sempre la stessa espressione imbambolata. Per non parlare del mago Forest, Salvi, Filippo Timi (improbabile porno star), Virginia Raffaele (cameriera spagnola), Giorgia Wurth e Alessandro Sperduti. Si salva Lillo (Pasquale Petrolo) come divertente farmacista che spiega il funzionamento di profilattici e anelli dell’amore a un imbranato Di Luigi. Brizzi si è fatto aiutare da Martani, Agnello e Cassini per scrivere una sceneggiatura infarcita di luoghi comuni e banalità, prevedibile e scontata, senza un minimo di suspense. Da notare che questo film ha goduto di sovvenzioni statali che avrebbero potuto essere impiegati per produrre cinema invece di un pretenzioso spot giovanilistico. Brizzi afferma che il cinema d’autore è soporifero, serve per pomiciare, svuota le sale, fa scappare il pubblico. Il suo non cinema, invece, pare che le riempia. Tutto questo è sconfortante e la dice lunga sullo stato della nostra cultura, anche se un giorno - temo - ci sarà qualcuno che si prenderà la briga di rivalutare Brizzi. Lasciatemi dire non che preferivamo Pasolini e Antonioni - sarebbe troppo facile e pure ingiusto - ma Nando Cicero, certo non cinema d’autore, ma intrattenimento puro, popolare, consapevole del suo ruolo, senza arroganza e pacchiana supponenza.

Gordiano Lupi
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venerdì 27 settembre 2013

Mamma Roma (1962)



di Pier Paolo Pasolini


Regia: Pier Paolo Pasolini. Soggetto e Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Consulente ai dialoghi: Sergio Citti. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli. Scenografia: Flavio Mogherini. Musiche: Carlo Rustichelli (rimaneggia Antonio Vivaldi). Aiouto Regia: Carlo Di Carlo.Assistente Alla Regia: Gianfrancesco Salma. Produttore: Alfredo Bini. Produzione: Arco Film (Roma). Distribuzione: Cineriz. Interni: Incir De Paolis (aprile - giugno 1962). Esterni: Roma, Frascati, Guidonia, Subiaco. Durata: 115’. Genere: Drammatico. Prima: XXIII Mostra di Venezia, agosto 1962. Premio Mostra di Venezia della FICC (Federazione Italiana Circoli di Cinema). Interpreti: Anna Magnani (Mamma Roma), Ettore Garofolo (Ettore), Franco Citti (Carmine), Silvana Corsini (Bruna), Luisa Orioli (Biancofiore), Paolo Volponi (il prete), Luciano Gonini (Zaccarino), Vittorio La Paglia (il signor Pellisser), Piero Morgia (Piero), Leandro Santarelli (Bengalo, il Roscio), Emanuele di Bari (Gennarino, il Trovatore), Antonio Spoletini, Nino Bionci, Roberto Venzi, Nino Venzi, Maria Bernardini, Santino Citti, Lamberto Maggiorani, Franco Ceccarelli, Marcello Sorrentino, Sandro Meschino, Franco Tovo, Pasquale Ferrarese, Renato Montalbano, Enzo Fioravanti, Elena Cameron, Maria Benati, Loreto Ranalli, Mario Ferraguti, Renato Capogna, Fulvio Orgitano, Renato Troiani, Mario Cipriani, Paolo Provenzale, Umberto Conti, Sergio Profili, Gigione Urbinati. 


Pier Paolo Pasolini realizza il secondo film da regista e aggiunge un importante tassello al suo viaggio nell’umanità dolente delle borgate romane. Accattone (1961) mostra il mondo del sottoproletariato urbano della capitale visto dalla parte del maschio, con un grande Franco Citti, sublime interprete del ragazzo di vita pasoliniano. Pasolini continua l’adattamento cinematografico della sua opera letteraria (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Il sogno d’una cosa, Poesia in forma di rosa…), definendo un discorso aperto da sceneggiature importanti come La notte brava (1959), di Mauro Bolognini, tratto proprio da Ragazzi di vita. Accattone narra la vita quotidiana dei ragazzi delle borgate romane, tra litigi, notti insonni, bravate, giornate all’osteria, piccoli furti e prostitute. La Borgata Gordiani viene messa in primo piano da sapienti movimenti di macchina, carrellate, poetiche panoramiche, primi piani e mirabili piani sequenza. 

Mamma Roma gode della stessa ambientazione borgatara di Accattone, ma la protagonista è una donna, Anna Magnani nei panni di una prostituta romana che vuole cambiare vita per dedicarsi al figlio Ettore. Sergio Citti è fondamentale come consulente per i dialoghi in romanesco, recitati da attori dilettanti, a parte la grandissima Magnani. Le tematiche sono quelle care a Pasolini che accompagneranno tutta la sua vita artistica: gli emarginati, il sottoproletariato confinato in un ghetto di incomunicabilità con le altre classi sociali, la sconfitta del diseredato, l’impossibilità di affrancarsi da un destino di sofferenza. Anna Magnani non lega con il regista, le rispettive visioni del mondo non coincidono, ma nonostante tutto regala un’interpretazione memorabile. 




La sua Mamma Roma è una madre coraggio in pena per la sorte d’un figlio ribelle, in preda alle tempeste adolescenziali, che contraccambia il suo amore ma non lo sa esprimere. “Mia madre? A me che me frega di mia madre? In fondo credo di volerle bene, perché se morisse mi metterei a piangere, confessa a Bruna, la ragazza che lo fa diventare uomo. Vediamo in breve la trama. Mamma Roma (Magnani) decide di abbandonare la vita da prostituta quando Carmine (Citti), il protettore, si sposa, liberandola da ogni obbligo. La donna decide di dedicarsi anima e corpo al figlio, Ettore (Garofolo), che non sa niente del suo mestiere ed è cresciuto nella vicina Guidonia. Mamma Roma si mette a vendere frutta e verdura, si trasferisce in un appartamento alla periferia di Roma, segue il figlio, cerca di indirizzarlo nelle scelte femminili e di trovargli un lavoro. Mamma Roma non vuole che il ragazzo faccia la sua fine, che si seppellisca nella periferia romana, ma sogna per lui un futuro di tranquillità, con un lavoro rispettabile. A un certo punto il protettore torna a cercare Mamma Roma e la riporta sulla strada, come il passato che non si può cancellare, l’ineluttabilità del destino. Ettore viene a sapere da Bruna quale sia la vera professione della mamma, per reazione comincia a delinquere, infine viene arrestato dopo per aver rubato una radiolina a un degente dell’ospedale. Finale melodrammatico: il ragazzo muore in carcere, legato a un letto di contenzione, in preda a un delirio febbrile. 


Il film è dedicato allo storico dell’arte Roberto Longhi e certe rappresentazioni scenografiche sono pittoriche, grazie alla collaborazione di Flavio Mogherini, futuro regista di scuola pasoliniana. Il finale, con il ragazzo che muore legato al letto del carcere, ricorda un Cristo del Mantegna, una scena da struggente deposizione. Carlo Rustichelli compone una colonna sonora basata sulle musiche sinfoniche di Antonio Vivaldi che accompagna sequenze poetiche fotografate in un livido bianco e nero. Violino tzigano, di tanto in tanto, interrompe la musica barocca e porta in primo piano note di musica popolare. Il ritmo è lento, cadenzato, tra piani sequenza della periferia, panoramiche, dialoghi in romanesco. Puro cinema, una gioia per gli occhi vedere una Roma notturna e seguire le passeggiate logorroiche di mamma Roma che racconta episodi di vita mescolando fantasia e realtà. Pasolini narra per immagini un’umanità dolente che sogna un riscatto impossibile ma deve rassegnarsi a un destino infelice. 


Il regista compie un grande lavoro figurativo, guida con bravura una straordinaria Anna Magnani che recita in mezzo a un gruppo di attori dilettanti. Pasolini ci tiene a sviscerare il complesso rapporto madre - figlio, secondo canoni psicanalitici, facendo capire la difficoltà di un adolescente a rivelare il suo amore per la madre. Un tema caro al poeta, anche per vicende biografiche, che lo vedono molto legato alla madre, anche se il loro è un amore borghese, non certo borgataro. Ricordiamo poesie come Ballata delle madri e Supplica a mia madre, contenute in Poesia in forma di rosa, che ricalcano identica tematica. L’educazione sentimentale di un adolescente è un altro tema caro a Pasolini che lo inserisce nella pellicola ricorrendo al personaggio di Bruna, la ragazza che introduce Ettore ai misteri del sesso. Non possono mancare i volti del sottoproletariato urbano, i ragazzi di vita che tanto interessano Pasolini, fotografati nelle espressioni naturali e nella sofferenza quotidiana. Il regista indugia sui campetti di calcio sterrati, inventati dai ragazzini di borgata, con le porte segnate da giacchetti e maglioni, simbolo di un modo di giocare tipico degli anni Sessanta. Anche i rapporti tra donne che fanno la vita, segnati da amicizia e spirito di colleganza, sono in primo piano. Le parole di denuncia di Mamma Roma: “E allora di chi è la colpa? Se avevano i mezzi erano tutti brave persone”, pesano come macigni, anche se il regista non interferisce con le immagini, non dà mai un giudizio morale o politico, ma si limita a fotografare la realtà. Fantastico il finale, vero che sembra uscito da un racconto di Cuore, ma vero anche che la rappresentazione del dolore materno e delle sofferenze del figlio è drammatica e commovente. La galera non è acqua che passa, ma dolore che resta, dolore infinito. La pellicola termina con la disperazione materna e la macchina da presa si ferma alcuni istanti su quel volto dolente, da Madonna straziata per la morte del figlio, senza dissolvenze o inutili lungaggini, per lasciare il posto alla parola Fine in campo bianco. 


Accattone e Mamma Roma sono pellicole non ascrivibili a un genere, si tratta di lavori molto letterari dai quali scaturisce l’intera poetica del regista. Se mi è concessa una definizione personale, senza voler essere blasfemo, parlerei di neorealismo corretto da un pizzico di melodramma pascoliano e deamicisiano, due autori molto cari a Pasolini.  


Alcune curiosità. Il debuttante Ettore Garofolo viene scoperto da Pasolini mentre fa il cameriere in una trattoria, e in alòcune sequenze del film lo vediamo all’opera nel suo vero mestiere, quando è assunto per servire ai tavoli di un ristorante. Lo scrittore Paolo Volponi, amico di Pasolini, interpreta il prete al quale Mamma Roma chiede un aiuto per trovare lavoro al figlio. Gli esterni del film sono girati alla periferia di Roma, al palazzo dei Ferrovieri di Casal Bertone, al villaggio INA - Casa del Quadraro, al Parco degli Acquedotti e a Tor Marancia. Altre scene sono girate a Frascati, Guidonia e Subiaco. Notiamo spesso sullo sfondo la cupola della Basilica di San Giovani Bosco, così come si vedono le borgate con le baracche dove vive la povera gente. Un piccolo escamotage di Pasolini riesce a far convivere recitazione impostata con interpretazione spontanea. Anna Magnani non recita quasi mai in diretta insieme a un attore dilettante, ma il dialogo viene realizzato ricorrendo a primi piani uniti in sala montaggio. 


Rassegna critica. Paolo Mereghetti (tre stelle e mezzo): “Il tema dell’incoscienza, o della diversa coscienza, proletaria è al centro del secondo film di Pasolini, dove il regista nobilita i suoi personaggi con richiami alla pittura rinascimentale (il Cristo mori del Mantegna), e tocca vertici di pathos senza versare una lacrima: Mamma Roma rappresenta la femminilità dolente ma indistruttibile, mentre Ettore, scettico e prematuramente deluso dalla vita, è fratello ideale di Accattone, senza esserne una scialba replica. Quella della Magnani (che pure non s’intese con Pasolini, che la accusò di voler dare al personaggio tratti piccolo - borghesi) è una delle sue migliori interpretazioni”. Morando Morandini (tre stelle e mezzo per la critica, tre stelle per il pubblico): “L’esperimento di fondere la recitazione di Anna Magnani con quella dei ragazzi di vita è parzialmente riuscito, ma contro scompensi e intemperanze e zone sorde, il film ha momenti di coinvolgente vigore stilistico”. Tre stelle anche per Pino Farinotti, ma senza motivare. Il nostro giudizio, da pasoliniani convinti, raggiunge le quattro stelle, non trova difetti a un film riuscito, che unisce dramma psicologico a scene di vita quotidiana, recitazione spontanea a impostazione tecnica, sceneggiatura priva di difetti a dialoghi realistici.  


Gordiano Lupi
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mercoledì 25 settembre 2013

La pelicula de Ana (2012)



di Daniel Díaz Torres


Regia: Daniel Díaz Torres. Soggetto: Tamara Morales. Sceneggiatura: Eduardo Del Llano, Daniel Díaz Torres. Fotografia. Raúl Pérez Ureta. Montaggio: Manuel Iglesias. Musica: Lucía Huergo. Suono: Esteban Vázquez, Osmany Olivare. Scenografia: Aramís Balebona. Costumi: Alicia Arteaga. Trucco: Magdalena Alvarez. Effetti Speciali: Reynier Cepero Perez. Produzione: Daniel Díaz Ravelo per ICAIC (Cuba). Altri produttori: SK Films, Jaguar Films S.A., Ibermedia.  Distribuzione: ICAIC (Cuba). Durata: 100’. Genere: Commedia. Interpreti: Laura de la Uz, Yuliet Cruz, Tomás Cao, Michel Ostrowski, Tobias Langhoff, Blanca Rosa Blanco, Paula Ali, Yerlin Perez, Rodolfo Faxas, Enrique Molina. Premi: Festival Internazionale del Nuovo Cinema Latinoamericano 2012: Miglior Interpretazione Femminile, Miglior Sceneggiatura, Miglior Distribuzione in Latinoamerica, Premio del Circolo di Cultura della UPEC. 


Ana (Laura de la Uz) è un’attrice di scarso successo e di modeste possibilità economiche che si adatta a lavorare per modeste produzioni televisive. Per un caso del destino si presenta l’opportunità non solo di recitare la parte di una jinetera (prostituta per turisti, una sorta di escort cubana) in un documentario tedesco, ma anche di girare buona parte del lavoro all’interno del povero quartiere in cui vive. 


Ana filma un vero e proprio reportage all’interno del mondo della prostituzione, scavando sulle motivazioni profonde, mettendo in luce mancanze e ristrettezze del periodo speciale. Si scopre grande attrice, al punto di affermare che la parte della jinetera è il miglior ruolo della sua vita, ma anche ottima regista, superando il marito che sogna il successo girando cinema surreale. Il film di Ana è realistico e crudo, mette in primo piano la vita quotidiana di una Cuba in ginocchio per colpa di embargo, restrizioni e scelte sbagliate del governo. La storia assume aspetti melodrammatici e sentimentali, quando vediamo l’amore del regista tedesco per Ana e la rabbia del produttore raggirato dalla furba cubana che non ha filmato cinema verità, ma si è limitata a far recitare amici e conoscenti. 

Daniel Díaz Torres, scomparso il 16 settembre 2013, ci lascia il suo testamento spirituale, girando forse il suo primo film realistico, ispirato alla lezione della miglior commedia latinoamericana ma anche al neorealismo italiano di Zavattini e De Sica. La pelicula de Ana è cinema nel cinema, i protagonisti sono una coppia che vive nel mondo della celluloide: la moglie è attrice, il marito un regista in crisi di ispirazione. Operazione di metacinema in più parti, quando la troupe tedesca filma l’intervista alla finta jinetera interpretata da Ana, istruita da un’amica che fa la vita, ma anche quando il regista indugia su sequenze di telenovelas e riprende una sala montaggio improvvisata in un appartamento. 

 
Il realismo delle situazioni è sottolineato da un scelta linguistica ben precisa: i protagonisti cubani non parlano castigliano, ma avanero de barrio, uno slang poco comprensibile per un orecchio non allenato. Laura de la Uz è interprete straordinaria che raffigura l’orgoglio della donna cubana, indomita e battagliera, disposta a tutto pur di risolvere le situazioni difficili. Non ha bisogno di un uomo, che comunque è al suo fianco, sa fare senza di lui, è un’attrice che s’improvvisa regista e risulta migliore del maestro. La vita quotidiana è sempre in primo piano: storie di liti tra vicini, parenti che vivono all’estero e tornano in patria a fare gli spacconi, ragazzine che fanno la vita per campare, giovani donne sposate con stranieri brutti e vecchi pur di fuggire. Vediamo un’amica jinetera che vive in un quartiere poverissimo, ma la sua casa è ben arredata ed è zeppa di souvenir europei perché è stata sposata con un tedesco. Al contrario, Ana, attrice in televisione, con il misero stipendio non riesce neppure a comprare un frigorifero. Sono le incredibili contraddizioni della società cubana. 


Daniel Díaz Torres e lo sceneggiatore Eduardo del Llano compongono un affresco veritiero della Cuba quotidiana, senza dare giudizi moralistici, senza prendere posizione, ma solo facendo parlare le immagini, documentando la realtà. Il film è un coacervo di generi, la commedia si lascia contaminare dal realismo drammatico, dal sentimentalismo, da un pizzico di erotismo e dal crudo documentario. Il regista riprende con dovizia di particolari la vita di un quartiere della capitale: il ballo all’aperto, la caldosa (un minestrone saporito) cucinata per le feste del CDR (Comitato di Difesa della Rivoluzione), i palazzi cadenti, lo spettacolo del lungomare che lascia debordare le acque sulla lunga carreggiata. Un poetico finale suggella una pellicola che rappresenta bene la poetica di un regista scomparso troppo presto. Fotografia anticata, luce ocra color pastello, una macchina corre sul Malecón, qualcuno grida frasi sconvenienti ad Ana, che prima alza il dito indice della mano sinistra, poi piega il pollice come a indicare libertà, quindi fa il solito gesto con la mano destra e compone una macchina da presa surreale con la quale sogna di filmare la scena. Ana ha deciso il suo futuro, mentre alle sue spalle compare la bandiera cubana e si vedono due bambini, speranza per un futuro migliore.


Gordiano Lupi
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domenica 22 settembre 2013

Uomini & donne, amori & bugie (2003)



Ornella Muti diretta da Eleonora Giorgi


Un recente lavoro che Ornella Muti interpreta è molto importante ed è stato sottovalutato dalla critica. Sto parlando dell'esordio alla regia di Eleonora Giorgi con Uomini & donne, amori & bugie (2003). Sono lontane le tempeste giovanili, le risse sul set di Appassionata (1974) e le polemiche televisive sui nudi adolescenziali. Le amiche - rivali di un tempo si ritrovano per lavorare a una pellicola che racconta il rapporto genitori - figli dal punto di vista di una figlia. 


Il film è buono, anche se la ricostruzione dell’atmosfera anni Sessanta non è perfetta, ma la Muti ricopre a dovere il ruolo di madre abbandonata che alleva i figli in assenza del marito. Eleonora Giorgi scrive, sceneggia e dirige un confortante film d’esordio, anche se il suo lavoro vero resta quello di produttrice. Paolo Giommarelli è il peggiore del cast nei panni di un marito fedifrago, sempre assente, interessato solo a lavoro, carriera e denaro.  Il suo personaggio è monodimensionale, troppo fumettistico ed esageratamente negativo per essere credibile. Aggiungiamo anche una recitazione troppo impostata e priva del necessario coinvolgimento. 




Ornella Muti è fantastica, il tempo pare non essere passato su un fisico perfetto, ma in questo lavoro dimostra soprattutto di essere una buona attrice drammatica. La bella attrice romana interpreta una donna sola, che a un certo punto della vita si rende conto di non possedere niente, perché non ha un lavoro, si trova senza amiche e le restano soltanto i figli. 

 
All’improvviso, però, trova la forza di ribellarsi e dà un taglio netto con il passato: molla un marito che non la merita e si dedica al lavoro di pittrice a tempo pieno. Eleonora Giorgi racconta la netta divisione dei ruoli tra uomini e donne tipica degli anni Sessanta - Settanta, le prime ribellioni femministe, le proteste studentesche, i turbamenti e gli amori giovanili, la famiglia che si sfalda, i divorzi sempre più frequenti. In una parola, compone un affresco interessante degli ultimi quarant’anni di storia italiana, con umiltà, ma senza sbagliare un colpo. 
 

Da ricordare il racconto al femminile di un tentativo di violenza carnale non denunciato, perché nessuno dà importanza alla cosa e l’amico di famiglia colpevole continua a frequentare la casa. Il primo uomo sbarca sulla luna, le donne pretendono uguaglianza e libertà sessuale, ma i tempi non sono ancora maturi per ottenere rispetto. Il film presenta alcune parti troppo didascaliche, litigi sforzati e scenate che stonano nel contesto della narrazione, momenti morti, ma nel complesso la prova è incoraggiante. 
 

La voce fuori campo - della stessa regista - spesso è invasiva e tende a raccontare ciò che non viene mostrato per immagini. La fotografia è ottima, la scrittura fin troppo lineare, raccontata spesso dall’esterno come un lungo flashback della bambina. Da riscoprire.

venerdì 20 settembre 2013

Jus primae noctis (1972)



di Pasquale Festa Campanile

 

Regia: Pasquale Festa Campanile. Soggetto: Ugo Liberatore. Sceneggiatura. Luigi malerba, Ottavio Jemma, Pasquale Festa Campanile. Montaggio: Nino Baragli. Fotografia. Silvano Ippoliti. Scenografia e Costumi: Ezio Altieri. Produttore: Silvio Clementelli. Musiche: Riz Ortolani. Organizzazione della Produzione: Giorgio Adriani. Segretario di Produzione: Neri Parenti. Produzione: Clesi Cinematografica, Verona Produzione. Aiuto Regista: Marcello Crescenzi. Operatore alla Macchina: Enrico Sasso. Maestro d’Armi: Remo De Angelis. Colore: Spes (dir. E. Catalucci). Negativi: Eastmancolor. Teatri di posa: De Paolis. Durata: 100’. Genere: Commedia (decamerotico). Interpreti: Lando Buzzanca, Renzo Montagnani, Marilù Tolo, Felice Andreasi, Roberto Antonelli, Giancarlo Cobelli, Ely Galleani, Franco Latini, Guido Lollobrigida, Gino Pernice, Alberto Sorrentino, Guglielmo Spoletini, Toni Ucci, Paolo Stoppa, Sergio Ammirata, Luigi Basagaluppi, Enrica Bonaccorti, Bruno Boschetti, Clara Colosimo, Ria De Simone, Gianni Magni, Loredana Martinez, Franco Pesce, Elena Puatto, Enzo Robutti, Bruno Vaerini.  




Jus primae noctis rappresenta un’incursione di Pasquale Festa Campanile nel decamerotico, genere che va di gran moda nel 1972, subito dopo il successo de Il Decameron (1970) di Pier Paolo Pasolini. Non è la sola, perché nel 1973 gira La Calandria, son Lando Buzzanca e Salvo Randone. Festa Capanile era stato quasi un precursore del genere con La cintura di castità (1967), girato sull’onda del successo de L’armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli. Il regista sceneggia un soggetto di Ugo Liberatore, con la collaborazione di Luigi Malerba e Ottavio Jemma, dirigendo con eleganza un decamerotico alto, che non si limita a riproporre una serie di situazioni erotiche a base di corna, frizzi e lazzi. Un cast di attori in buona forma, una perfetta ricostruzione storica e una divertente colonna sonora di Riz Ortolani completano il quadro. 

                                                        Il castello dove è ambientato il film

Lando Buzzanca è Ariberto da Ficulle, che diventa Signore di un piccolo feudo (Partanna) grazie al matrimonio con la bruttissima Matilde di Montefiascone (Colosimo), ma esercita il suo potere con arroganza e dispotismo. Impone tasse e gabelle assurde, escogita privilegi sempre nuovi, per pagare un esercito di mercenari tedeschi guidati da un comandante omosessuale.  Alle sue dipendenze c’è anche un laido frate (Andreasi) che dispensa perdoni, sacramenti e indulgenze dietro congrua retribuzione.  Tra le tante prevaricazioni spicca lo jus primae noctis sui vassalli esercitato sulle coppie che si sposano, a meno che il marito non paghi il controvalore in denaro stabilito dal Signore. I sudditi sono piuttosto sciocchi ma Ariberto incontra un rivale furbo come Gandolfo (Montagnani) che si prende gioco di lui e finisce per guidare la rivolta dei sottoposti contro il dispotico padrone. Il film è tutto improntato sulla rivalità tra Ariberto e Gandolfo, mettendo in primo piano un’insolita coppia comica Buzzanca - Montagnani. 
 Marilù Tolo

Veneranda (Tolo) è la bellissima compagna di Gandolfo, che Ariberto fa sottostare allo jus primae noctis per umiliare il rivale, ma nella sequenza finale vediamo la vendetta del popolo sulla seconda moglie del Signore (Galleani), deflorata da ben dodici persone. Ariberto viene abbandonato in groppa a un asino, incontra il Papa (Stoppa) mentre rientra a Roma e ingaggia una corsa assurda con l’Antipapa per arrivare primo al soglio pontificio. Il film è vietato ai minori di anni quattordici perché ci sono diverse scene di nudo, quasi mai integrale, ma è una farsa divertente e piena di ritmo ambientata nel Medio Evo che tenta di fare un discorso critico sul potere. 
 
Ottimo incasso, anche perché il genere va di moda e prelude alla nascita della commedia sexy di ambientazione contemporanea. Attori molto bravi, su tutti Renzo Montagnani nel ruolo di un villano che lotta contro il potere, ma anche Lando Buzzanca come Signore dispotico non è da meno. Paolo Stoppa è un papa romanesco rozzo e cafone, Felice Andreasi un frate innamorato del denaro e ossequioso verso i potenti. Toni Ucci è un burino che per ingannare il tempo ruba le galline, affermando: “A tutto c’è rimedio meno che alla rottura de cojoni!”. 
  Ely Galleani

Marilù Tolo, mora con gli occhi azzurri, è dotata di grande personalità, affronta un paio di scene che la vedono nuda senza particolari problemi. Il cast femminile è interessante, le interpreti non sono ancora famose ma i loro nomi saranno importanti nella commedia erotica e nel cinema di genere: Ely Galleani, Ria De Simone, Enrica Bonaccorti (nuda in una scena a letto con il Signore per lo ius primae noctis). 



Il film è girato per gli esterni al Castello Caetani di Sermoneta, dalle parti di Latina, mentre le cascate dove fa il bagno nuda Marilù Tolo sono quelle della Mola di Formello, nei pressi del Parco di Veio a Formello (Roma). Il grande duello (Giancarlo Santi, 1972) e Sogni mostruosamente proibiti (Neri parenti, che in questo film è Segretario di Produzione, 1982) sono altre due pellicole che vedono le cascate di Formello in primo piano. Una caratteristica della pellicola è il linguaggio usato, una sorta di italiano antico inventato dagli sceneggiatori, a metà strada tra il latino volgare e la lingua usata dal Boccaccio nel Decameron



Molte le sequenze memorabili: il piscio al posto del vino, la gogna, il pubblico ludibrio con Montagnani che balla sulle lamiere roventi, la Tolo che gira a seno nudo per sottostare a un ordine del Signore, la gallina che becca il granturco nel sedere di Montagnani, Buzzanca che fa l’amore con trenta donne consecutivamente per dimostrare il suo potere, il finto matrimonio di Montagnani con un uomo travestito, l’amico di Buzzanca castrato da un morso di cane, il duello a bastonate tra i due rivali, la corsa delle bighe papali con Buzzanca che si sorregge a entrambe e corre verso Roma. I difetti più evidenti della pellicola sono un eccesso di uso dello zoom (andava di gran moda) e alcuni strani movimenti di macchina per passare da un personaggio all’altro. Il montaggio non è molto serrato, la fotografia cambia colore da una scena all’altra, come se fossero sequenze riprese in momenti diversi e inserite in sala montaggio. Jus primae noctis resta comunque un decamerotico scritto con passione, dotato di una vera sceneggiatura e di una struttura solida, molto al di sopra della media del periodo storico. 

 
Rassegna critica. Paolo Mereghetti (due stelle): “Le risate grasse sono bilanciate da ambizioni quasi alte da apologo sul potere. Discreto ritmo e cast divertente: soprattutto Montagnani nella parte di un Bertoldo con coscienza di classe, e Stoppa in quella di un papa romanesco ben più greve del Pio VII de Il marchese del Grillo. Incredibili musichette di Riz Ortolani”. Morando Morandini non ne parla, mentre Pino Farinotti conferma le due stelle, senza fornire un giudizio critico. Davinotti on line: “Un decamerotico di un certo gusto, valorizzato dalla valida performance dei due protagonisti, meno sopra le righe del consueto e alle prese con una sceneggiatura che una volta tanto esiste”. 

Gordiano Lupi
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mercoledì 18 settembre 2013

Mio figlio Nerone (1956)



di Steno
 
 
Regia: Steno (Stefano Vanzina). Soggetto: Rodolfo Sonego. Sceneggiatura: Alesandro Continenza, Diego Fabbri, Ugo Guerra, Rodolfo Sonego, Steno. Fotografia: Mario Bava. Montaggio: Mario Serandrei, Giuliana Attenni. Effetti Speciali: Mario Bava. Musica: Angelo Francesco Lavagnino. Scenografia: Piero Filippone. Costumi: Veniero Colasanti. Produttore: Franco Cristaldi. Case di Produzione: Titanus/ Vides - Les Films Marceau. Distribuzione: Titanus. Durata: 94'. Colore. Produzione: Italia/ Francia. Interpreti: Alberto Sordi (Nerone), Vittorio De Sica (Seneca),Gloria Swanson (Agrippina), Brigitte Bardot (Poppea), Ciccio Barbi (Aniceto), Arturo Bragaglia (senatore), Giorgia Moll (Lidia), Amalia Pellegrini (Acerronia), Amedeo Trilli (soldato), Mino Doro (Corbulone), Giulio Calì (carpentiere), Agnese Dubini (Ugolilla), Memmo Carotenuto (Crepereio), Mimmo Poli (costruttore teatro), Barbara Shelley (ospite), Mario Mazza (Tacito). Doppiatori: Tina Lattanzi (Bardot), Fiorella Betti (Swanson), Luigi Pavese (Barbi), Glauco Onorato (Carotenuto).


Mio figlio Nerone (1956) è una sorta di peplum comico con protagonista Alberto Sordi, che mette in evidenza la bellezza giovanile e discinta di Brigitte Bardot (Poppea), ma anche la bravura di Vittorio De Sica (Seneca) e di Gloria Swanson (Agrippina). Le follie di Nerone, il suo amore per il canto, i rapporti con le donne e la presunta codardia vengono messi alla berlina, ma il film delude le attese. Non è un kolossal, come si pensava, ma una semplice commedia, divertente, persino erotica (per i tempi), ma niente di trascendentale. Nerone vive circondato da amici fannulloni, vessato da una madre invadente, consigliato da un furbo Seneca e amato dalla fidanzata Poppea. 




Gli amici lo illudono di essere un grande cantante e lo esortano a occuparsi di arte invece di governare l’Impero. Agrippina richiama il figlio al dovere e vorrebbe farlo partire per la guerra, cosa che Nerone aborrisce al punto di tentare di liberarsi della madre. Nerone tenta di avvelenare Agrippina ma non ci riesce e finisce per prendersela con i suoi amici, che vorrebbe sterminare, ma Seneca rimedia in extremis. Nerone torna a cantare, organizza orge nel palazzo, con la bella Poppea che fa il bagno nel latte per conservare la pelle morbida. Tenta di far affogare la madre sabotando una nave, ma Agrippina si salva e torna a palazzo per fare un accordo con Seneca e Poppea. La madre promette che Nerone sposerà Poppea se gli amici riusciranno a farlo smettere di cantare. Quando Nerone sente dire che non sa cantare, in preda alla follia, brucia la città, fa fuori Agrippina, Poppea e Seneca. Nel finale vediamo Nerone soddisfatto tra i busti di cemento che immortalano le persone uccise.

 
Un film che le cronache raccontano di difficile gestazione. Anita Ekberg era la prima scelta per il ruolo di Poppea, ma alla fine si optò per la poco nota Brigitte Bardot, che è di una bellezza conturbante. Tutti la ricordiamo quando fa il bagno nel latte, ma anche in numerose scene dove mostra le lunghe gambe, mentre in un frammento di sequenza si intravede un seno. 


Gloria Swanson pretendeva attenzione, si dava arie da attrice inglese di gran classe, relegata a un set di attori non internazionali. Steno ebbe il suo bel da fare per convincerla a recitare le battute previste dal copione; si può dire che - visto il suo carattere - fosse perfetta per interpretare la perfida Agripina. Vittorio De Sica si limitò a recitare il suo ruolo, con grande classe, come sempre, senza interferire nella direzione del film. Il ruolo di Seneca gli calza a pennello, soprattutto quando fa sfoggio di abilità oratoria. Alberto Sordi regala un’interpretazione perfetta parodiando un Nerone imbelle, dedito al vizio, un po’ folle, strampalato, bambinone, ossessionato da piccole manie. Un’interpretazione memorabile. Per molto tempo, noi ragazzi degli anni Sessanta, abbiamo avuto in mente il Nerone di Sordi ogni volta che dovevamo fare i conti con il personaggio storico. Il soggetto di Sonego è ironico, farsesco, leggero, pesca dalle leggende e non si cura di rispettare la verità storica, realizzando un ritratto caricaturale dell’Imperatore romano. Fotografia ed effetti speciali sono di Mario Bava: lo spettatore smaliziato se ne rende subito conto dai colori intensi e dai trucchi artigianali. 


Rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella): “Fiacchissimo tentativo  di mettere in farsa le follie di Nerone e i suoi complicati rapporti con le donne. Sordi recita con il pilota automatico, anche quando compone una sinfonia con accompagnamento di maiale, coniglio, capra e gufo; la Swanson pensa evidentemente solo all’ingaggio e la Bardot è sempre tropo vestita”. Morando Morandini (una stella per la critica, tre stelle per il pubblico): “Voleva essere forse una satira: è la più bolsa e scadente delle farse”. Pino Farinotti, controcorrente, concede tre stelle, ma non motiva. Proviamo a farlo noi che siamo dalla sua parte. Il film gode di un’ottima fotografia, una sceneggiatura impeccabile, una recitazione perfetta, ergo il divertimento è assicurato. La critica alta non sopporta la farsa, che, con buona pace di Mereghetti e Morandini, presenta antecedenti nobili, basti pensare alle commedie di Plauto.  Da recuperare.






Gordiano Lupi
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lunedì 16 settembre 2013

Daniel Díaz Torres (1948 - 2013)

Un omaggio a Daniel Díaz Torres, scomparso oggi, grande regista cubano contemporaneo, uomo libero.
 
  
Daniel Díaz Torres è un regista, critico, insegnante di cinema, nato all’Avana nel 1948 e morto nel 2013. Nel 1961 entra a far parte delle brigate per la lotta all’analfabetismo che insegnano a leggere e a scrivere ai contadini della Sierra dell’Escambray. Nel 1978 si laurea  in Scienze Politiche all’Università dell’Avana e attualmente fa parte dell’Unione degli Scrittori e degli Artisti di Cuba (UNEAC). Dal 1968 lavora nell’Istituto Cubano dell’Arte e Industria Cinematografica (ICAIC). Scrive articoli di critica cinematografica per le principali riviste e periodici, spesso partecipa alla direzione di seminari sul cinema nelle Università di Oriente e dell’Avana. Nel 1971 intraprende il suo lavoro come assistente regista e al tempo stesso realizza alcuni programmi televisivi. Nel 1975 comincia la carriera di documentarista girando Libertad para Luis Corvalán (1975), mentre - tra il 1977 e il 1981- come vice direttore realizza circa un centinaio di edizioni del Noticiero ICAIC Latinoamericano, molte delle quali ricevono riconoscimenti da parte della critica nazionale specializzata. Il suo debutto come regista di lungometraggi di fiction avviene nel 1984 con il film Jíbaro. La notorietà internazionale di Daniel Díaz Torres si deve alla satira pungente e surreale di Alicia en el pueblo de Maravillas (1990), che suscita polemiche e divide la critica cinematografica cubana. Daniel Díaz Torres è membro del Comitato dei Cineasti dell’America Latina e Membro Fondatore del Consiglio Superiore della Fondazione Nuovo Cinema Latinoamericano. Dal 1986 lavora presso la Scuola Internazionale di Cinema e Tv di San Antonio de los Baños, della quale è uno dei fondatori. Ha partecipato come giurato a molti eventi cinematografici internazionali in Spagna, Ungheria, Russia, Germani, Colombia Messico e Svizzera.
 

Vediamo in breve alcuni suoi lavori fondamentali.
Tra i documentari segnaliamo Madera (1980), premiato tra i più significativi dell’anno, che racconta la vita dei lavoratori forestali nelle montagne di Baracoa, nella parte orientale di Cuba, un paesaggio selvaggio e incontaminato dove si confondono alberi, uomini e macchine. Vaquero de montaña (1982) è abbastanza simile come struttura perché ricostruisce il difficile e rischioso lavoro dei vaqueros cubani che portano al pascolo il bestiame sulle montagne dell’Escambray.  
 

Jíbaro (1984) è il primo lavoro di fiction, premiato al Festival di Bogotà (1986) per il miglior montaggio e per il miglior suono, ma anche al Festival di Mosca dalla rivista Pantalla Sovietica (1985). La pellicola racconta i primi anni della Rivoluzione, caratterizzati da trasformazioni sociali e lotta di classe. Al tempo stesso la pellicola descrive la sfida tra l’uomo e l’animale e la vita di un cacciatore che - abituato al suo mondo - non si adegua facilmente a un contesto in rapida evoluzione. Un conflitto personale contribuirà ad approfondire le sue contraddizioni e anche le sue virtù come cacciatore saranno messe a dura prova. Il film è scritto da Norberto Fuentes che lo sceneggia insieme al regista. Interpreti: Salvador Wood, René de la Cruz, Adolfo Llauradó, Flora Lauten, Ana Viña, Alejandro Lugo e Miguel Gutiérrez. 
 

Otra mujer (1986) è un altro interessante lavoro di fiction, scritto da Jusús Díaz, che riflette la trasformazione di una donna di fronte alla crisi di realizzazione personale che investe il marito. All’interno di un complesso processo, intriso di contraddizioni e insuccessi, crescerà ed esprimerà la sua indipendenza come essere umano. Sarà un’altra donna, decisa a continuare la difficile e anonima lotta quotidiana. Interpreti: Mirta Ibarra, Jorge Villazón, Susana Pérez, Raúl Pomares, Alejandro Lugo e Dagoberto Gainza. Nel 1987, Mirta Ibarra ha vinto il premio per la miglior interpretazione femminile assegnato dalla sezione arti sceniche dell’UNEAC. 
 
 
Alicia en el pueblo de Maravillas (1990) segna il successo internazionale del regista che scrive soggetto e sceneggiatura della pellicola insieme a un non ben definito Grupo Nos-y-Otros. Il film è una satira surreale della società cubana che comincia con una ragazza che lancia da un altissimo ponte un uomo, ma il supposto cadavere scompare. A partire da questo evento entriamo nella storia di Alicia, una ragazza che si reca a Maravillas de Noveras per insegnare teatro. Nel fantasioso paese le situazioni più assurde vengono accettate come normali, ma soprattutto ogni abitante si trova in quel luogo perché ha commesso un presunto crimine contro i valori della patria. Maravillas è abitato da una serie di persone destituite dai loro incarichi e confinate in un mondo surreale sempre percosso dal vento e sottoposto agli incitamenti che provengono da altoparlanti. Una commedia singolare, a metà strada tra l’assurdo e l’orrore, ma che realizza una critica pungente della realtà. Interpreti: Thais Valdés, Reynaldo Miravalles, Alberto Pujol, Carlos Cruz, Raúl Pomares, Alina Rodríguez, Jorge Martínez ed Enrique Molina. L’argomento del film è così scabroso che in patria non ottiene nessun riconoscimento, ma viene premiato con menzioni speciali al Festival di Berlino (1991) e al Festival di Montevideo (1993). 
 

Kleines Tropicana (1997) è un lavoro scritto e sceneggiato da Eduardo del Llano e Daniel Díaz Torres con la partecipazione di Jorge Goldenberg e Manuel Pérez. Il cadavere di un turista tedesco compare in un centrale quartiere avanero. Un ambizioso poliziotto di provincia, in visita nella capitale, cercherà con ogni mezzo di farsi assegnare lo strano caso che considera l’occasione ideale per scappare dal suo remoto paesino. Si tratta di una storia poliziesca e di spionaggio la cui origine risale a un piccolo cabaret degli anni Quaranta. Interpreti: Peter Lohmayer, Vladimir Cruz, Corina Mestre, Thais Valdés, Enrique Molina e Tamara Morales. Segnaliamo, tra gli altri, il Premio del pubblico al Festival di Innsbruck (1998), anche se questo film ha avuto riconoscimenti anche in patria durante il Festival del Nuevo Cine Latinoamericano (1997). 
 

Camino al Edén (2007) è una produzione molto ricca realizzata dalla spagnola Antenna 3. Il film è scritto e sceneggiato dal regista insieme ad Arturo Infante e si tratta di una lavoro di argomento storico. Ci troviamo a Cuba alla fine del 1895, in piena Guerra di Indipendenza. Leanor è una donna spagnola con la vita segnata da un matrimonio infelice, una precaria situazione economica e adesso, dalle insistenze di un vecchio pretendente. Trova sollievo solo nella sua amicizia con la giovane schiava che svolge mansioni di domestica. Nella dura realtà la comparsa di un rivoluzionario ferito farà risorgere in lei illusioni amorose che la condurranno verso un paradossale destino che segnerà in modo drammatico tutti coloro che la circondano. Daniel Díaz Torres afferma nel corso di un’intervista: “Il film consta di due parti, la prima Camino al Edén e la seconda El Edén perdido, diretta dal regista spagnolo Manuel Estudillo. Nessuna delle due dipende dall’altra, perché si possono vedere in modo indipendente, ma entrambe si completano. La prima storia si sviluppa all’interno del paese nel 1896 e la seconda si svolge al principio degli anni Trenta, due periodi effervescenza rivoluzionaria nella storia di Cuba. I due film sono girati in 16 mm. e sono concepiti come telefilm. La fiction comincia quando la guerra si estende in tutta l’Isola. Leanor e Cándido - una coppia di spagnoli - prendono possesso della fattoria El Edén, insieme alla serva Natividad. Il film si sviluppa tra sentimenti contrastanti e tipiche situazioni umane che vengono fuori quando Leanor rimane vedova e accetta come compagno il vecchio Don Antonio, importante proprietario della zona. Leanor vuole proteggere e far crescere tranquilo il bambino che porta nel ventre, figlio di un rivoluzionario mambí. La parte più interessante del film arriva quando la donna decide di consegnare il mambí alle autorità spagnole. La guerra sconvolge anche la fattoria El Edén; Don Antonio e Leonor vengono espropriati dagli umili contadini spagnoli e durante la fuga sono scoperti dai rivoluzionari. Don Antonio finisce impiccato. Leanor si redime da una vita piena di errori restando come infermiera nell’esercito mambí e si trasforma nella celebre Flor de Manicuripe. Non è un film sulla Guerra di Indipendenza, ma racconta in forma intimista la vita dei tre protagonisti: una spagnola, la sua serva e un mambí. Si basa sui sentimenti umani e può essere definito una storia d’amore, pure se troviamo altri sentimenti come la lealtà e il tradimento. Il tema bellico è visto secondo la personale prospettiva di ogni personaggio. Per me sono importanti le contraddizioni psicologiche e voglio che si percepisca la profonda incomprensione culturale tra cubani ed europei. La sceneggiatura di Arturo Infante si ispira ad alcuni parti di un libro scritto dal General Enrique Loynaz del Castillo, in cui compare un personaggio per certi elementi simile alla nostra protagonista, anche se abbiamo cercato di attingere ad alte fonti.  Il film è stato girato in tempi record, nonostante sia una pellicola in costume e non sia stato facile ricostruire ambienti e situazioni d’epoca”. 

Lisanka (2009) è un lavoro di argomento storico - fantastico, una commedia ambientata a Veredas, paese immaginario della Cuba al principio degli anni Sessanta, dove sono stati installati missili sovietici. Due giovani, Sergio e Aurelio, si contendono l’amore di Lisanka, la ragazza più bella della zona. La Crisi dei Missili sta per cominciare quando arriva sul posto un gruppo di soldati sovietici, tra di loro c’è anche Volodia che diventa un pericoloso rivale dei due cubani. La vita quotidiana di Veredas e la stessa esistenza di Lisanka non saranno più le stesse. Il regista afferma: “Questo film vuole riuscire a trasmettere tutto lo spirito di meravigliosa follia che si viveva in quel periodo storico. Ho scritto la sceneggiatura insieme a Eduardo del Llano e Francisco García”. Miriel Cejas, nei panni di Lisanka, si è meritata il premio per la miglior interpretazione femminile al Festival Iberoamericano che si è tenuto a Fortalezza, in Brasile, nel 2010. Si tratta di un film importante e interessante che ripercorre i tempi della guerra fredda con il dovuto distacco. 
 

La pelicula de Ana (2012) vince il premio come miglior lungometraggio di ficton assegnato dall’ dall’Associazione Cubana della Stampa Cinematografica. La protagonista, Laura de la Uz, interpreta un’attrice che interpreta solo ruoli mediocri, avventure per adolescenti, telenovelas per casalinghe e pellicole senza spessore. La necessità di comprare un frigorifero e i numerosi problemi economici la convincono a interpretare una prostituta per un documentario girato da una produzione austriaca. Non sarà uno ei soliti ruoli, pieno di stereotipi e di eccessi, la sua miglior interpretazione. 
 

Abbiamo l’interpretazione critica di Yoani Sánchez: “Come un gioco di specchi, il film sovrappone realtà e finzione, emozione e interpretazione. Neppure l’umorismo e le battute scherzose tolgono gravità al dramma della doppia personalità come strumento di sopravvivenza. Ana si complica la vita, si trova coinvolta completamente in un mondo che in realtà non conosce, ma che la esalta e la attrae fino in fondo. Fa posare i familiari a loro insaputa; filma i vicini di casa per dare corpo a un’improvvisata sceneggiatura e mente in continuazione. Diventa la vera e propria regista di una pellicola realizzata su diversi piani, pensati per assecondare le aspettative dei produttori stranieri. Tuttavia, a ogni luogo comune si unisce la durezza della sua vita, priva di affetti, senza bisogno di essere troppo drammatizzata. La película de Ana ci provoca una vergogna femminile, nazionale, umana. 
 

 Un senso di fastidio quando pensiamo a tutte quelle persone che cercano di farsi passare per altre. L'uomo che fuma un sigaro - anche se non gli piace - perché i turisti lo fotografino e lo paghino per quel gesto. Il funzionario che indossa la maschera della simulazione ideologica ormai divenuta una cosa sola con il suo volto. Persino coloro che alimentano la simulazione, perchè hanno perso la capacità di distinguere tra la parte di storia che si sono inventati e la realtà. Proprio come Ana che, tolto il trucco e spenta la macchina da presa, continua a recitare e a fingere”. Un film da vedere.
 
FILMOGRAFIA

Los días del agua (1971) (Aiuto Regista - Regista: Octavio Gómez)
Muerte y vida en el Morrillo (1971) (Aiuto Regista – Regista: Oscar Valdés)
El hombre de Maisinicú (1973) (Aiuto Regista – Regista: Dir. Manuel Pérez)
De cierta manera (1974) (Aiuto Regista – Regista: Sara Gómez)
Libertad para Luis Corvalán (1975) (Doc.)
Mella (1975) (Aiuto Regista – Regista: Enrique Pineda)
La Batalla de Jigüe (1976) (Aiuto Regista – Regista: Rogelio París)
Granma (1977) (Noticiero monotemático - Año 12, No. 285)
Encuentro en Texas (1977) (Doc.)
Río Negro (1977) (Aiuto Regista – Regista: Manuel Pérez)
La casa de Mario (1978) (Doc.)
Madera (1980) (Doc.)
Los dueños del río (1980) (Doc.)
Noticiero ICAIC Latinoamericano (1975 – 1981: 90 emisiones)
Vaquero de Montaña (1982) (Doc.)
Jíbaro (1984) (Fiction)
Otra mujer (1986) (Fiction)
Crónica informal desde Caracas (1989) (Doc.)
Alicia nel pueblo de Maravilas (1990) (Fiction)
Quiéreme y verás (1995) (Fiction)
Kleines Tropicana (1997) (Fiction)
Hacerse el sueco (2000) (Ficc.)
Los cuatros años que estremecieron al mundo (2004) (Serie Doc. Cuba: Caminos de Revolución)
Una isla en la corriente (2004) (Serie Doc. Cuba: Caminos de Revolución)
Camino al Edén (2007) (Fiction)
Lisanka (2009) (Fiction)
La pelicula de Ana (2012) (Fiction)


 
Gordiano Lupi 
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