sabato 25 febbraio 2012

Cesare Canevari

Il regista di Io, Emmanuelle


Cesare Canevari (1927) è un regista - sceneggiatore, autore di fotoromanzi e persino attorer, che si ricorda soprattutto per l’erotico - sociale Io, Emmanuelle (1969), interpretato da Erika Blank. Tutta la sua produzione viene ricompresa nell’arco temporale 1964 - 1982, dopo di che il regista scompare nel nulla e torna nell’oblio. Il debutto alla regia avviene con un western all’italiana all’insegna del risparmio, girato nelle Prealpi lombarde: Per un dollaro a Tucson si muore (1964), un film dilettantesco firmato con lo pseudonimo D. Browson, pure interpretato con il nome d’arte di C. Iravenac.

Il secondo lavoro, Una jena in cassaforte (1967), è un modesto lavoro drammatico incentrato sulla storia di sei rapinatori che si contendono il bottino di una rapina e finiscono per diventare vittime e carnefici di loro stessi. Budget modesto, scrittura poco originale a quattro mani con Alberto Penna, montaggio frammentario e svolazzi psichedelici che conferiscono un tono d’epoca. Il regista tenta un primo scavo psicologico dei personaggi e si dimostra un abile artigiano. Io, Emmanuelle è del 1969, ma lo affrontiamo in separata sede, perché si tratta del suo lavoro più importante, alle prese con un’icona erotica modificata in chiave politico - sociale.


Matalo! (1970) è uno coproduzione italo - spagnola che segna il ritorno di Canevari al western, ma questa volta in chiave più originale, quasi pop e psichedelica, creando situazioni, ambienti e personaggi ai limiti del fumettistico. Lou Castel e Corrado Pani sono gli interpreti principali. Il romanzo di un giovane povero (1974) è la versione canevariana del romanzo di Feuillet, scritta e sceneggiata da Mino Roli e Daniele Del Giudice, che verrà riproposto nel 1995 da Ettore Scola con interprete Alberto Sordi. Raffaele Curi è del tutto inespressivo. Il film è odiato dallo stesso regista che lo giudica “brutto” e non vuole neppure sentirne parlare.


La principessa nuda (1976) è un film insolito da recuperare perché supera i limiti del trash. Ajita Wilson, un trans di colore scomparso prematuramente, è l’interprete principale, ma divide la scena con Tina Aumont che si abbandona a tentazioni lesbiche. Ricordiamo anche Luigi Pistilli e Walter Valdi. Si parte con intenzioni satiriche ma poi predominano erotismo e voyeurismo, orge, comicità involontaria, sequenze assurde ispirate a Fellini, ma quel che interessa a Canevari è mostrare il mostrabile.


Non poteva mancare un nazi-porno nella breve carriera di Canevari, che nel 1977 gira il modesto L’ultima orgia del Terzo Reich, che si ricorda per le belle interpreti Daniela Poggi (al suo secondo film, si fa chiamare Daniela Levy) e Antiniska Nemour. I nazi - porno nati sulla scia dello scandalo del pasoliniano Salò sono un po’ tutti uguali, un sottogenere triste partorito dalla degenerazione di una pellicola che calca la mano soltanto su erotismo e perversione. Allarme nucleare (1979) viene firmato da un certo Leslie Martinson, ma pare un film di Canevari, un fantanucleare improbabile e dimenticato, interpretato da Karin Schubert e John Carradine.


Delitto carnale (1982) è l’ultimo film di Canevari, uno dei pochi che non si produce da solo, in ogni caso povero e girato in dieci giorni in un albergo di Monopoli. Si tratta di un giallo classico, non molto originale, memorabile solo per alcune sequenze erotiche che vedono protagoniste Moana Pozzi e Sonia Otero. Tra l’altro Delitto carnale viene rimontato in versione hard e incassa molto sul mercato Home Video con il titolo Moana la pantera bionda. La storia porno che funge da cornice non è girata da Canevari e le scene aggiunte sono inserite malamente. In ogni caso il regista disconosce la versione porno da lui mai autorizzata.


Io, Emmanuelle (1969) è un film amato dalla critica, ma forse sopravvalutato, anche perché rivisto oggi pare irrimediabilmente datato. Il film rappresenta la noia di vivere di un’affascinante signora borghese che cerca nel sesso uno spiraglio di vitalità, ma vorrebbe anche criticare i vizi privati e le pubbliche virtù della classe dirigente e della piccola borghesia. Atmosfere psichedeliche, stile figli dei fiori, inquadrature azzardate tra specchi giganteschi e scenografie spoglie, personaggi assurdi e ridotti a macchiette, sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti.


Riconosciamo a Canevari di aver anticipato Emmanuelle di Just Jaeckin (1973) e tutti gli apocrifi targati Albertini, D’Amato, Pinzauti, Vari, Mattei e Fragasso. Diciamo che il film non ha niente a che vedere con il personaggio del libro di Emmanuelle Arsan, se non l’intenzione di sfruttare il successo di pubblico riportato dopo la sua uscita. Proprio per questo la Arsan cerca di ostacolarne l’uscita ma riesce solo a impedire che i flani riportino il titolo in lavorazione: Emmanuelle. Resta il fatto che questa borghese milanese, interpretata da una conturbante Erica Blank (perennemente annoiata) che passa da un letto all’altro mettendo in luce i difetti degli uomini, non convince. Il finale è ancora più patetico, perché dopo una giornata di sesso sfrenato per dimenticare il suo unico amore, Emmanuelle si rende conto che il suo uomo è morto. Adolfo Celi è un ridicolo giornalista di sinistra e soltanto la sua bravura salva il personaggio da uno schematismo spicciolo. Paolo Ferrari è un borghese succube della moglie che tradisce ma non vorrebbe essere tradito, ridicolo come commesso in calore di un negozio di biancheria intima. Sandro Luporini che mette a cuocere i libri di Marx e Marcuse è un intellettuale sessantottino che oggi fa tanto sorridere. Walter Valdi è un compassato medico che opera a un dito senza anestesia il giornalista Celi mentre lui fischietta Bandiera rossa. Erica Blank (Erica Bianchi Colombatto) viene scelta dal regista al posto di Edwige Fenech perché costa poco, ma da un punto di vista erotico è ineccepibile. Ottime le musiche di Gianni Ferrio, con la bella canzone Emmanuelle cantata niente meno che da Mina. Il film, tratto dal romanzo Disintegrazione 68 di Graziella Di Prospero (anche sceneggiatrice), rispecchia gusti e problemi di quella generazione. Incomprensibile per un giovane di oggi che non abbia studiato a fondo la storia contemporanea. 


Alcune sequenze del film: http://www.youtube.com/watch?v=E4mpfxLdcmg

Gordiano Lupi

venerdì 24 febbraio 2012

Marnie - Il cinema di Claudia 5

di Alfred Hitchcock


Regia : Alfred Hitchcock
Sceneggiatura: Jay Presson Allen
Direttore della fotografia: Robert Burks,
Montaggio: George Tomasini
Costumi: Edith Head
Musica: Bernard Herrmann
Cast: Sean Connery, Tippi Hedren, Diane Baker, Martin Gabel, Louise Latham
Anno di produzione: 1964
Durata: 129 minuti 


Il pubblico e la critica cinematografica non gradirono “Marnie” al momento della sua uscita nelle sale ma, a distanza di quasi cinquant’anni, possiamo rivalutare questa avvincente pellicola nella quale una impeccabile Tippi Hedren  recita accanto a  Sean Connery, allora trentaquattrenne, reduce dal successo dei due suoi primi “007”.  L’abile cleptomane Margaret Edgar, Marnie, (Tippi Hedren) è appena scappata con il contenuto della cassaforte del suo ultimo datore di lavoro, Mr. Strutt di New York, che ha nel suo portafoglio clienti la facoltosa ditta di Mark Rutland (Sean Connery) di Philadelphia. Mark aveva notato la donna durante una visita agli uffici di Strutt. Margaret mette al sicuro il malloppo, cambia il colore dei capelli ma, prima di cercarsi un nuovo lavoro dove mettere a segno un altro colpo, va a trovare il suo amato purosangue Florio che tiene in pensione presso una scuderia, e sua madre zoppa, che la crede segretaria di un facoltoso milionario. Tra la madre poco espansiva e la figlia esiste un muro di tensione le cui ragioni ci sono ignote, ma capiamo che Marnie, non si sente amata e scopriamo che è terrorizzata dal colore rosso e dai temporali. Marnie si trasferisce a Philadelphia dove viene assunta con il nome di Mary Taylor, presso la ditta di Mark Rutland, non sapendo dei rapporti tra la ditta Rutland e Strutt.  Mark è vedovo, vive nella sua lussuosa tenuta con l’anziano padre e la giovane cognata, Lil, innamorata di lui e rimasta a vivere con il cognato  anche dopo la morte della sorella. Il facoltoso uomo d’affari ha riconosciuto la ladra, ma l’ha assunta perché attratto e incuriosito  da lei. Un sabato pomeriggio, mentre Marnie sta facendo degli straordinari nell’ufficio di Mark, scoppia un temporale che provoca nella donna un attacco di panico. Mark l’aiuta a ritrovare la calma e  la bacia. I due cominciano a vedersi e Marnie sembra attratta da Mark, pur rimanendo alquanto fredda. Quando Mark la presenta a suo padre e alla cognata, la cleptomane decide che è arrivato il momento di svaligiare la cassaforte di Rutland e di scappare. Questa volta però Mark la trova subito e la obbliga a restituire il denaro e a sposarlo, per non andare in prigione. Ha intuito che alla base del comportamento di Marnie c’è un trauma e la vuole aiutare, anche perché è interessato a tutte le patologie della psiche. Ma Mark non ha valutato in pieno la gravità della situazione che verrà fuori durante il viaggio di nozze: Marnie è frigida e non può neanche essere toccata dagli uomini. Il marito per qualche tempo asseconda la moglie cercando di conquistarla ma poi, in un momento di frustrazione e di rabbia, la violenta. Marnie tenta il suicidio e la coppia torna a casa prima del tempo.


Mark per guadagnare la fiducia e l’affetto della moglie, le porta Florio, il suo amato cavallo, e visto che lei non si vuole far curare, diventa il suo analista e scopre l’esistenza della madre a Baltimora, una donna che si guadagnava da vivere facendo la puttana, e che ha ammazzato un marinaio durante una colluttazione, quando la figlia aveva cinque anni.  Dopo questo incidente la madre è rimasta zoppa. Il padre di Mark e Lil organizzano una festa e una caccia alla volpe per presentare Marnie “in società”. Lil di nascosto ha invitato Strutt che riconosce subito la ladra. Mentre Mark decide di convincere Strutt a ritirare la denuncia, Marnie, impegnata nella caccia alla volpe, ha un incidente, cade da cavallo e ammazza Florio. Sconvolta Marnie  cerca ancora di scappare, va presso gli uffici della Rutland per rubare il denaro, ma non ci riesce, viene raggiunta da Mark che la porta dalla madre a Baltimora. Sarà la scena finale e il confronto tra madre e figlia a farci scoprire, insieme alla protagonista, il grande segreto della sua infanzia: è stata lei ad ammazzare il marinaio per difendere la madre che l’uomo stava picchiando. Finalmente la madre non deve più nascondere la verità, abbassa le sue difese e spiega alla figlia cosa effettivamente è successo facendole capire che le ha sempre voluto bene. Non sappiamo se Marnie sia definitivamente guarita, intuiamo dei rapporti futuri  più sereni tra madre e figlia, anche se non facili, e il film si conclude con la protagonista che esprime il desiderio di stare accanto al marito.    


Il film è tratto da un romanzo di Winston Graham   ed ha avuto una realizzazione  laboriosa. Il copione, rimaneggiato più volte da sceneggiatori diversi, prenderà la sua forma definitiva con Jay Presson Allen, una scrittrice di teatro. Hitchcock aveva chiesto a Grace Kelly di recitare la parte di Marnie, e l’allora principessa di Monaco aveva dapprima accettato per poi rifiutare qualche mese dopo. La parte fu dunque data a Tippi Hedren, che aveva già recitato ne “Gli uccelli” l’anno precedente. La pellicola viene anche considerata l’ultimo film della “età d’oro” di Hitchcock e segna la fine delle storiche collaborazioni con George Tomasini, Robert Burks e Bernard Herrmann. Nonostante le critiche spietate che accolsero il film nel 1964, ancora oggi la pellicola ci emoziona e ci tiene incollati allo schermo  per più di due ore. Forse si tratta proprio di magia la capacità del regista di coinvolgere lo spettatore nelle vicende della protagonista, al punto di farci desiderare la sua “salvezza” fin dall’inizio, anche se sappiamo che si tratta di una ladra. Chi è questa donna così bella ed elegante? È impeccabile, eppure è fragile. È una ladra ma è anche una vittima. Ma una vittima di che cosa? Che cosa le è capitato per avere una così profonda repulsione per gli uomini? Sembra attratta da Mark, eppure vuole scappare da lui. Marnie è un  film complesso e intenso, come la sua protagonista, che vuole indagare sul problema dei traumi infantili e le loro conseguenze sulla vita di chi li subisce. È anche un film che indaga sui  rapporti  madre - figlia e uomo – donna, che rimangono instabili e angoscianti per tutto il film. Marnie vuole l’amore di sua madre. Come una bambina desiderosa di piacere porta a quest’ultima regali costosi, le invia dei soldi, vuole apparire come il modello di donna “decente”, frigida e impeccabile che la madre le ha dato, ma tutti i suoi sforzi risultano vani, perché sua madre neanche riesce a toccarla. Il suo amore frustrato allora si tramuta in odio e Marnie sfoga la sua rabbia provocando una reazione violenta nella madre che la tocca solo per darle uno schiaffo. Ma questa madre zoppa,  così fredda all’apparenza, ha anche lei un atteggiamento ambivalente: quando la figlia si ripresenta a casa, immaginiamo dopo un periodo di tempo abbastanza lungo, sembra sinceramene felice di vederla, dapprima la loda per “non avere bisogno degli uomini” e poi la critica ferocemente per il colore troppo chiaro dei suoi capelli che serve solo a “dare la caccia agli uomini”. Si erge così un muro d’incomprensione e risentimento tra le due donne impossibile da scalfire, e dovremo aspettare la scena finale per capire le ragioni di questa costruzione tanto assurda quanto inquietante. Lo spettatore rimane coinvolto, incuriosito e affascinato dai due infelici personaggi femminili, non riesce a giudicarle, prova inquietudine e desidera scoprire quel “qualcosa” di importante che appartiene presumibilmente al passato e che è il responsabile dei loro comportamenti.
I rapporti di Marnie con gli uomini sono anche loro ambigui. Questa donna sembra aver capito alla perfezione come usare la sua bellezza, come muoversi a “piccoli gesti” (si tira la gonna  verso le ginocchia quando si sente osservata) per stimolare le fantasie sessuali nel sesso opposto. Si guadagna la fiducia sul posto di lavoro rimanendo riservata e lavorando in modo ineccepibile per poi rubare con più facilità. Eppure intuiamo sin dall’inizio che Marnie non è solo una semplice furbissima ladra. Forse percepiamo che dietro al sorriso di convenienza stampato sul viso della protagonista ci sia “dell’altro”, o forse il personaggio derubato Strutt, che la descrive all’inizio del film, ci rimane da subito antipatico, o ancora l’amore di Marnie per il suo cavallo ci rende accondiscendenti, sicuramente affascinati.  Fatto sta che quando  Marnie incontra Mark desideriamo che s’innamori, e  durante la scena del furto da Rutland rimaniamo dalla sua parte, non vogliamo che venga scoperta anche se sta commettendo un crimine.


Mark, interpretato da un bravissimo Sean Connery, è un uomo solido e sicuro ma anche eccentrico, forse feticista. Si innamora della ladra perché è ladra, perché rappresenta un tipo di donna fuori dal comune che lui deve “domare” più che dominare, perché sia contraccambiato il suo amore e la sua passione. E Marnie lo capisce benissimo. Infatti quando Mark dichiara il suo amore la protagonista risponde: “Tu non sei innamorato di me, sono qualcosa che hai catturato, un specie di animale che hai intrappolato.”
Ma ad un’analisi più approfondita dei gesti della protagonista,  Marnie non è poi una frigida irrecuperabile. Anche lei è attratta da Mark, lo capiamo ad esempio dall’espressione del volto che ha perso il sorriso “stampato” quando lavora nell’ufficio di Mark, da come si lascia baciare dopo l’attacco di panico, che ha demolito tutte le sue “difese” e da come, realizzato che Mark si sta innamorando di lei, e che lei prova attrazione per l’uomo, decida in tutta fretta di derubarlo e di scappare. Per la prima volta nella sua vita, a dispetto di se stessa, un uomo è riuscito a scalfire  l’imponente muro di protezione che lei stessa aveva fabbricato. Infatti quando Mark la trova e la riporta a Philadelphia, lei gli spiega la sua fuga così: “Avevo bisogno di scappare, scappare da Rutland,  non lo capisci? Le cose erano… noi eravamo…”, a significare che i due si stavano innamorando. Poi aggiunge: “Dovevo andarmene prima di farmi del male.”  Ma purtroppo questa iniziale attrazione viene risucchiata dai problemi più profondi della protagonista e si dovrà aspettare la rivelazione finale perché la donna infine riesca a vivere le sue emozioni e ad avere, si spera, rapporti più sereni con suo marito.
Il film viene classificato tra i “classici” di Hitchcock. Lo spettatore è sempre coinvolto nelle vicende dei personaggi grazie ai numerosissimi primi piani e ai movimenti della cinepresa che annunciano con sapienza l’imminente avvenimento drammatico. Uno dei migliori esempi è l’entrata in scena di Strutt durante la festa, annunciata solo con i movimenti della cinepresa. Strutt riconoscerà Marnie, aumentando ulteriormente la tensione nel film e accelerando l’arrivo del punto culminante della storia.  Il regista inquadra l’ampio ingresso dall’alto, con gli invitati che Lil accoglie sorridendo, e poi si avvicina lento e inesorabile, alla porta d’ingresso. Lo spettatore intuisce subito che da quella porta entrerà qualcuno di importante per la storia e riconosce poi all’istante l’antipatico personaggio dell’inizio del film in un conseguente primo piano. Altra scena memorabile è quella del furto, che si svolge nel totale silenzio. La scena è divisa in due dal muro basso  che divide la stanza della cassaforte dalla stanza degli impiegati. Mentre Marnie, sulla parte destra dello schermo,  apre la cassaforte e prende i soldi, entra sulla sinistra dello schermo la donna delle pulizie che lava il pavimento con la schiena rivolta al pubblico.  Marnie la vede solo alla fine, mentre sta per scappare. Per non fare rumore si toglie le scarpe e le infila nella tasca del cappotto, scappa in punta di piedi, ma la telecamera si concentra sulla scarpa che sta uscendo dalla tasca. Tutti sappiamo che quella scarpa cadrà a terra e farà rumore, eppure desideriamo ardentemente che ciò non accada rimanendo col fiato sospeso. E sospiriamo di stupore e di sollievo con la protagonista quando, caduta la scarpa, la donna delle pulizie non si gira perché è sorda. Penso che Hitchcock, nel programmare la scena, si sia divertito a sorprendere lo spettatore. 
La sceneggiatura è anche molto particolare per delle “incongruenze” di trama che, in modo sorprendente, non disturbano la narrazione e non tolgono credibilità alla storia o ai personaggi. Questo film a mio avviso proprio per questa particolarità, è un “piccolo gioiello”.
Mark violenta Marnie. Eppure lo spettatore non riesce a vedere Mark come una persona ripugnante. Come può su di un grande schermo, un atto così terribile essere tollerato  dal pubblico? Eppure è una donna malata che viene stuprata. Perché lo spettatore non riesce a  provare indignazione? Perché non riesce a condannare il personaggio maschile? Come può un personaggio redimersi da un atto così brutto? Che cosa succede nella mente degli spettatori mentre la scena si dipana davanti ai loro occhi? Avviene secondo me un “piccolo miracolo” per metà dovuto alla regia e per metà al carisma e alla bravura di Sean Connery. Marnie strilla brevemente quando capisce che cosa succederà. Mark arrabbiato spoglia Marnie con violenza, la donna rimane in piedi, nuda, muta e pietrificata davanti al marito. L’inquadratura centra Mark la cui espressione del viso si addolcisce. Il personaggio espira, c’è rimpianto nei suoi occhi, ma c’è anche una forza inesorabile che non può combattere. Mark  si scusa stringendo le mascelle, parte il tema musicale in sottofondo mentre l’uomo si toglie la vestaglia e copre la moglie, ancora immobile e nuda davanti al marito. La telecamera si avvicina, l’uomo carezza i capelli biondi della donna e avvicina il suo viso a quello di lei, la bacia sulla tempia, la stringe e, anche se il profilo di Marnie sta in primo piano, e vediamo solo parte della guancia e di un occhio di Mark, sentiamo che lui la stringe con impeto, passione e dolcezza. La telecamera si sposta adesso e riprende la coppia sempre da vicino ma dall’alto e, mentre la musica diventa più forte, la cinepresa cambia angolatura, per riprendere i personaggi di profilo, si avvicina ancora mentre il volume della musica cresce. Mark bacia l’attaccatura del naso e poi la fronte della moglie, chiude gli occhi in una mossa tanto delicata quanto appassionata ed infine cerca la bocca della donna. Mentre la musica si fa più pressante ecco che  abbiamo un primo piano di Marnie inespressiva che  si adagia sul letto, e poi un primissimo piano degli occhi di Mark, carichi di desiderio e di passione. La telecamera infine si sposta per riprendere le tende scure mentre la musica diventa sempre più alta e più inquietante.
Ma si trattava di stupro? E come non essere attratti da quest’uomo che sì ha usato la violenza all’inizio, ma che freme di passione e di amore?  La sapiente regia che sposta la telecamera nel momento in cui avviene un cambiamento nell’espressione dei personaggi, che si avvicina per cogliere i minimi gesti è magnificamente supportata dall’interpretazione di Sean Connery, prima arrabbiato, poi dispiaciuto, poi inesorabilmente vittima della sua attrazione per la donna che ama e che cerca di coinvolgere con dei gesti lenti e impetuosi, pieni di passione e di carica sessuale. Il personaggio si redime perché ha amato, ha violentato perché non ha saputo resistere alla bellezza della moglie, ha ceduto all’impulso primario ma ha anche cercato un modo per raggiungere la moglie, coinvolgerla e salvarla. E lo spettatore nei pochi minuti in cui è testimone dell’atto efferato, capisce e perdona. 


In questo film il personaggio del marito funge anche da analista psichiatra. E, benché lo spettatore venga informato molto preso nella storia che Mark ha uno spiccato interesse per la zoologia e la psicologia, sembrerebbe alquanto inverosimile che un marito riesca ad aiutare una moglie con problemi così gravi come quelli di Marnie. Nel primo copione sembra ci sia stato il personaggio dello psichiatra  che poi venne eliminato durante l’ultima stesura.  Ma nel mondo del cinema, con una sceneggiatura accorta, una regia magistrale e l’interpretazione di Sean Connery e di Tippi Hedren, mai sopra le righe,  tutto diventa non solo possibile, ma anche avvincente. Piano, piano Mark riesce a conquistare la fiducia della moglie, portandole Florio, il suo cavallo, rassicurandola, proteggendola e affermando che non permetterà che vada in prigione. Il marito ammira questa moglie e la sua attrazione  per lei è palpabile durante tutto il film e palese durante la scena della festa, prima che entri Strutt. Mark vuole capire la moglie, viole che guarisca perché possano avere insieme una vita felice, per questo motivo indaga sul suo passato con l’aiuto di un investigatore, cosa che  uno psicoanalista non avrebbe fatto.  E Marnie forse per la prima volta si sente protetta e amata e chiede aiuto. Anche Marnie sembra crescere e desiderare un rapporto più felice, si lascia analizzare, accetta di “giocare” alle libere associazioni, tecnica usata dagli psicoanalisti e, quando il gioco si rivela devastante per lei, per la prima volta chiede aiuto al marito. Un personaggio in più, uno psichiatra, in questo film, con queste premesse sarebbe non solo stato inutile, ma avrebbe intralciato l’evoluzione dei rapporti interpersonali che permettono poi alla storia di risolversi nella scena finale. Paradossalmente la scelta di fare di Mark un  marito- psichiatra si è rivelata giusta anche se insolita.
Potrei ora fare i collegamenti tra questo film e altri film dello stesso regista che, per tematiche e personaggi, sono in qualche modo simili, come Vertigo, La donna che visse due volte, e Psyco. Potrei anche parlare del rapporto di Hitchcock con la psicoanalisi e di come abbia usato le teorie di Freud per costruire le trame di alcuni suoi film. Credo che sia stato scritto tantissimo al riguardo e dunque decido di terminare qui questa recensione perché non potrei aggiungere niente di veramente nuovo.
Concludo invitando chi mi legge a rivedere questa pellicola che ha conservato, a distanza di quasi mezzo secolo, ancora tutta la sua tensione narrativa, il suo fascino, e la magia della narrazione per immagini. 


Claudia Marinelli

giovedì 23 febbraio 2012

Sotto il vestito niente – L’ultima sfilata (2011)

di Carlo Vanzina
Tardo remake di un thriller di successo


Regia: Carlo Vanzina. Soggetto e Sceneggiatura. Carlo Vanzina, Enrico Vanzina, Franco Ferrini. Fotografia: Carlo Tafani. Montaggio: Raimondo Crociani. Musica: Pino Donaggio. Scenografia: Serena Alberi. Costumi: Grazia Matera. Produzione: International Video 80, Medusa Film, Sky Italia. Interpreti: Francesco Montanari, Vanessa Hessler, Richard E. Grant, Alexandra Burman, Giselda Velodi, Virginie Marsan, Paolo Seganti, Claudine Wilde, Ernesto Mahieux, Mario Cordova, Alexander Doetsch, Elena Cotta, Vincenzo Zampa, Francesco Barilli, Stefano Molinari.

Francesco Montanari nei panni dell'ispettore

I Vanzina producono un tardo sequel di Sotto il vestito niente, film uscito nel 1985, che già aveva avuto un seguito nel 1989, diretto da Dario Piana, su soggetto e sceneggiatura dei figli di Steno. La pellicola gode di un buon budget ed è girata in suggestive location internazionali (Stoccolma, Fjallbacka, Davos, Cernobbio, Milano e Roma), ma il ritorno al thriller non soddisfa il pubblico, ormai abituato alla commedia.

Richard E. Grant e Vanessa Hessler

Federico Marinoni (Grant) è uno stilista milanese di successo. Muore Alexandra (Burman), la modella più nota del suo atelier, travolta da un pirata della strada, proprio mentre si reca a una festa in suo onore. Indaga l’ispettore Vincenzo Malerba (Montanari), che nutre molti dubbi e non crede a un incidente stradale. Non è la prima modella della casa di Marinoni a morire, cinque anni prima si era suicidata un’altra importante vedette, lanciandosi da un palazzo. Britt entra a far parte dell’atelier e prende il posto della comparsa, anche se è soltanto una giovanissima fioraia svedese priva di esperienza, scoperta da Heidi, talent scout di Marinoni. Il suo arrivo crea rivalità e tensioni fra le modelle che speravano di prendere il posto di Alexandra. L’ispettore Malerba continua a indagare e trova conferma alle sue ipotesi: Alexandra è stata uccisa in maniera premeditata. Muoiono altre persone vicine alla casa di moda: la modella Cris, amica di Alexandra, e Bruce, un modello amante di Marinoni. I sospettati sono molti, secondo buona regola del thriller: Daria, la sorella di Marinoni; Beppe Luini, ex marito coinvolto nello spaccio di droga; Max Liverani, socio dello stilista; Giorgio Viganotti, giornalista di moda; Tanino Andò, stilista rivale; lo stesso Marinoni. Forse il segreto è nell’appartamento di Alexandra, dove vive Britt…

Vanessa Hessler, bellissima...

Sotto il vestito niente - L’ultima sfilata non ha la stessa atmosfera del vecchio film, ma è un buon esercizio di stile che omaggia la tradizione del giallo all’italiana. I limiti dell’operazione sono evidenti: molto sa di già visto, l’ambientazione è sfruttata, il ritmo è poco serrato, la storia è prevedibile e non esce dai soliti schemi.  In ogni caso abbiamo elementi positivi. I personaggi sono ben caratterizzati e non scadono mai al livello di macchiette. Francesco Montanari è ottimo nei panni di un ispettore di polizia tutto cuore, innamorato della moglie e della figlia che rifiuta l’avventura e preferisce la famiglia. Richard E. Grant interpreta molto bene lo stilista Marinoni, pieno di difetti ma umano, in definitiva un personaggio positivo nella sua voglia di avere un erede e nel rimpianto del tempo che passa. Le attrici sono molto belle, vere e proprie modelle internazionali. Francesco Barilli, indimenticato regista de Il profumo della signora in nero (1974) e di Pensione paura (1978) regala un cammeo come commissario di polizia. Ottima la musica di Pino Donaggio - quasi a tutto film - come sono ben fatte alcune scene ad alta tensione che ricordano il thriller argentianio, Mario Bava e persino analoghe sequenze de Le foto di Gioia (1987) di Lamberto Bava. La mano guantata in nero del killer è un marchio di fabbrica del thriller italiano, così come la donna folle che irrompe sulla scena con il suo delirio di maternità.

Una delle vittime

Marzia Gandolfi su My Movies distrugge l’operazione nostalgia targata Vanzina, ma si vede che non ama il cinema dei figli di Steno: “Disinteressato a ciò che è altro da sé e fuori da sé, l’ultima fatica glamour dei Vanzina non finge nemmeno di criticare il culto dell’apparenza figuriamoci poi di mordere il reale. Svilendo e diminuendo di pregio lo smalto di attori singolari e incisivi come Ernesto Mahieux e Giselda Volodi, Sotto il vestito niente - L’ultima sfilata è un’allucinazione bizzarra che non ha riscontro nella realtà e che produce suo malgrado effetti umoristici. È di nuovo lo sgradevole ripresentarsi di un materiale di partenza scadente e pienamente scaduto, che indossa un vestito solo formalmente più raffinato. Vanessa Hessler, protagonista senza carattere e insidiosità, non spunta nemmeno una stella”. Non è tutto così nero. 


Gordiano Lupi

sabato 18 febbraio 2012

Sledge (1970) e il mistero di Giorgio Gentili

Regia: Giorgio Gentili e Vic Morrow. Soggetto e Sceneggiatura: Massimo D’Avack, Vick Morrow, Frank Kowalsky. Fotografia. Luigi Kuveiller. Montaggio: Renzo Lucidi. Musica: Gianni Ferrio. Scenografia: Mario Chiari. Costumi: Elio Micheli. Effetti Speciali: Pasquino Benassati. Assistente alla Regia. Fabrizio Gianni. Produzione: Dino De Laurentiis. Interpreti: James Garner, Fausto Tozzi, Laura Antonelli, Riccardo Garrone, Orso Maria Guerrini, Tiberio Mitri, Laura Betti, Didi Perego, Paola Barbara, Bruno Corazzari, Ken Clark, Steffen Zacharias, Lorenzo Piani, Franco Balducci, Franco Giornelli,  Wayde Preston, Barta Barry, Dennis Weawer, John Marley, Lorenzo Fineschi, Mario Valgoi, Claude Akins, Tony Young. 

Il film è uscito anche in Giappone!

Giorgio Gentili è un segretario di produzione (Camicie rosse di Alessandrini, 1952) e aiuto regista molto attivo sin dagli anni Cinquanta. Lavora con molti registi dal 1966 al 1972, prediligendo la collaborazione con Carlo Lizzani. Firma come regista solo tre pellicole: Un dollaro per sette vigliacchi (1967), con lo pseudonimo di Dan Ash che vede tra gli interpreti Dustin Hoffman, Bang Banga Kid (1968), con il nome di Stanley Pragor e Sledge (1970), dove sarebbe regista insieme a John Sturges (ma i titoli parlano di Vick Morrow). Molti critici attribuiscono Sledge al solo Sturges, affermando che Gentili sarebbe solo un prestanome per l’edizione italiana. Roberto Poppi, da noi interpellato, afferma che le testimonianze riconducono la regia a Vick Morrow, attore  e regista televisivo nordamericano, che ricordiamo interprete di un paio di film di Enzo G. Castellari (L’ultimo squalo e I guerrieri del Bronx). 


Gentili è aiuto regista dal 1959 al 1976: Jovanka e le altre, I tartari, Sodoma e Gomorra, Io, Semiramide, Maciste all’inferno, Le quattro giornate di Napoli, A 001 operazione Giamaica, I quattro inesorabili, Se tutte le donne del mondo…, Un fiume di dollari, Requiescant, Banditi a Milano, Lo sbarco di Anzio, Barbagia, Una lucertola con la pelle di donna, Boccaccio, All’onorevole piacciono le donne, Roma bene, Torino nera, L’arbitro, Zanna bianca, Il bacio di una morta, Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, L’anticristo, Colpita da improvviso benessere e Il marito in collegio.


Vediamo la trama del terzo e ultimo film, girato prima di tornare al mestiere di assistente. Sledge è un bandito ricercato che decide di impossessarsi di un carico d’oro. Si fa arrestare da un complice, che si finge ispettore di polizia, riesce a introdursi nella fortezza che custodisce l’oro e a impossessarsene. Tra i malviventi si scatena una feroce battaglia per accaparrare il bottino durante la quale viene uccisa la donna di Sledge. Il bandito si vendica eliminando gli assassini e alla fine se ne va rinunciando all’oro.

James Garner con Laura Antonelli

Sledge è un film che gode di un buon budget, prodotto da De Laurentiis, girato negli Stati Uniti (Garrone afferma che alcune scene sono state realizzate in Spagna) e interpretato da un ottimo attore di western come James Garner, perfetto nel ruolo del bandito. Il resto del cast è quasi tutto italiano, ma si ricorda soprattutto la presenza di una biondissima Laura Antonelli, nei panni della donna del gangster, che si vede solo per poche sequenze. Didi Perego e Laura Betti sono altre due interpreti femminili di rilievo, così come vanno citati Orso Maria Guerrini e Riccardo Garrone. Buona la musica di Gianni Ferrio, così come è imponente la ricostruzione d’epoca e l’intera costruzione scenografica. Il montaggio è lento.


A nostro avviso non si tratta di un western all’italiana, come  scrivono molti critici, ma il film presenta tutte le caratteristiche di un lavoro statunitense, sia per l’interprete principale, sia per la confezione elegante che non ha niente a che vedere con la nostra concezione del genere. Si tratta di un film prodotto da un imprenditore italiano, girato da un regista statunitense che si avvale di maestranze italiane, pensato per il doppio mercato, ma la concezione western è classica, tipicamente nordamericana.

Laura Antonelli in una scena simbolo di Malizia

Pino Farinotti è il solo autore che cita il film e concede tre stelle. Troppe per una pellicola convenzionale, compassata, pulita e priva di sbavature, ma con pochi elementi di interesse e di originalità. Merita la visione solo la curiosa presenza di Laura Antonelli (impegnata in una casta scena erotica) alle prese con la sua nona pellicola in carriera. Malizia uscirà tre anni dopo.

Gordiano Lupi

giovedì 16 febbraio 2012

Bowfinger - Il cinema di Claudia 4

BOWFINGER
Di Claudia Marinelli

Regia: Frank Oz
Soggetto: Steve Martin
Sceneggiatura: Steve Martin
Montaggio: Richard Pearson
Fotografia: Ueli Steiger
Musica: David Newman
Genere: Commedia
Cast: Steve Martin, Eddie Murphy, Heather Graham, Christine Baranski, Robert Downey Jr.
Produzione: U.S.A. 1999

Se volete passare una piacevole e divertente ora e trentasette minuti, vi consiglio vivamente di guardare questa esilarante commedia, che sembra voler solo essere una satira tanto simpatica quanto spietata di Hollywood. 
Bobby Bowfinger è un produttore e regista cinematografico sull’orlo della bancarotta. Ma ecco che a sorpresa si ritrova tra le mani la sceneggiatura che reputa eccellente di un film di fantascienza dal titolo “Pioggia cicciosa”, scritta da Afrim, un ragioniere di origini arabe. Bobby cerca di convincere il  celebre produttore, Jerry Renfro (Robert Downey Jr.) a produrre il fiolm, e Renfro gli assicura la produzione a condizione che nel film reciti il conosciutissimo attore di colore Kit Ramsey (Eddie Murphy). Kit Ramsey però non vuole neanche leggere la sceneggiatura e così Bobby Bowfinger decide di girare il film comunque all’insaputa dell’attore stesso. 
L’impresa sembrerebbe impossibile, ma non con il gruppo di attori che Bobby ha ingaggiato, disposti a credere a tutto ciò che Bobby s’inventa: il film sarà girato con uno stile del tutto nuovo, Kit, conosciuto per le sue paranoie, è disposto a fare un solo ciak, non vuole vedere la cinepresa per paura di perdere la concentrazione, e non vuole contatti con il resto del cast.
Bobby Bowfinger con l’assistente alla regia tutto-fare, Slater, unico a sapere la verità sulle riprese, ingaggiano quattro immigrati clandestini scappati all'ufficio immigrazione come cineoperatori e filmano con delle telecamere nascoste un Kit dalle reazioni confuse e spaventate, mentre gli attori recitano come da copione in luoghi pubblici. Tutto sembra procedere per il meglio, ma Kit, recitando senza saperlo la sua parte nel film di fantascienza, crede veramente di essere perseguitato dagli alieni e decide di nascondersi presso l’organizzazione “Mind Head” (una parodia di Scientology) di cui fa parte, per ritrovare la serenità mentale persa. 
Sparito Kit, Bowfinger si trova costretto a ingaggiare una controparte per il suo ruolo e assume Jiff, (sempre Murphy), buono e un po’ tonto, che poi si scoprirà essere il fratello dall’attore. Jiff tappa bene i buchi e Bowfinger lo usa per trovare Kit e girare la scena finale in cui Kit deve gridare la battuta conclusiva agli alieni: “Beccati stronzacchioni”. Kit, impaurito dai finti alieni del film, quasi recita la battuta finale, mancano solo pochi istanti alla conclusione delle riprese quand’ecco che gli ufficiali della “Mind Head” appaiono e fermano tutto, perché hanno finalmente scoperto che gli alieni visti da Kit non erano frutto dell’immaginazione malata dell’attore. A questo punto le riprese si interrompono e Bowfinger dovrebbe rinunciare al film, ma ecco che Slater trova una ripresa esterna al set in cui si vede Kit mettersi un sacchetto in testa e mostrare i suoi genitali alle cheerleaders dei L.A.Lakers. Bowfinger mostra il filmato al direttore della “Mind Head” e ottiene così l’autorizzazione a filmare con Kit l’ultima scena del film, che verrà poi regolarmente portato nelle sale con successo. Infine Bowfinger riceve un contratto da Taiwan per girare un film di arti marziali nel quale reciterà l’intero cast e Jiff. 
Il film riunisce per la prima volta sul set Eddie Murphy e Steve Martin che recitano entrambi con una “verve” poco comuni. Più o meno tutti i personaggi rappresentano degli stereotipi riusciti del “popolo” del cinema, in una satira divertente e sottile che non sfocia mai nel volgare.   
Il successo ha completamente allontanato dalla realtà il paranoico Kit Ramsey. Parla come una “macchinetta” blaterando una serie di battute demenziali come se fossero verità assolute, mentre il gentile e docile Jiff, interpretato dallo stesso attore, se ne esce con delle risposte che non hanno né capo né coda senza battere ciglio e ci fa sbellicare dalle risate. L’omaggio al teatro dell’assurdo è quasi palese.    
Il simpatico imbroglione e “venditore di fumo” Bowfinger, innamorato del cinema e dei suoi sogni, è disposto a fare  il possibile e l’impossibile pur di realizzare la sua pellicola e riuscirà nel suo intento a coinvolgere un intero cast promettendo fama e successo.
La falsa ingenua Daisy altro non è che una ragazza scaltra, con le idee molto chiare, disposta a tutto pur di diventare famosa e probabilmente lo diventerà.
Carol, attrice che non ha mai sfondato, crede ancora che potrà diventare una stella anche se ormai non essendo più giovanissima si avvia al declino.
Afrim lo sceneggiatore, viene dal "nulla", ha prodotto un copione di supporto a un film che avrà poi successo, senza mai aver studiato sceneggiatura.
I quattro messicani cineoperatori, reclutati appena oltre la frontiera e scampati ai poliziotti dell’ufficio immigrazione, sono figure vincenti perché imparano il mestiere in un baleno dimostrando capacità del tutto insospettate.
E il direttore della ricchissima organizzazione “Mind Head” non esita ad arrivare a patti con Bowfinger pur di non perdere un facoltoso socio come Kit Ramsey.
Non tutti sanno che Steve Martin, non è solo un bravo attore comico, ma anche uno scrittore  e sceneggiatore di successo ricevendo già nel 1969 all’età di 24 anni un Emmy Awards per la serie televisiva “The Smothers Brothers Comedy Hour” e che ha studiato Filosofia alla California State University prima ancora di studiare teatro.
E questa esilarante commedia, con i suoi brillanti dialoghi, interpretati con allegria, non manca di una sua sottile “filosofia”.
L’ambientazione è Los Angeles, ma non siamo a Hollywood, bensì in quartieri molto più poveri che gravitano intorno al mondo “dorato” del cinema, e i personaggi sono sì attori, produttori sceneggiatori, ma di quel tipo che non è mai riuscito veramente a “sfondare”, e che si arrabatta alla soglia della povertà senza smettere di sognare. Ed è proprio l’amore per il cinema e   la caparbia capacità di credere nei propri sogni che spinge Bowfinger a inventare storie, scuse, bugie e sotterfugi per realizzare la pellicola nella quale lui crede  e che dovrà portargli il successo. E gli attori che potremmo giudicare magari in modo affrettato e superficiale dei “creduloni” un po’ stupidotti, non saranno forse  anche loro innamorati del loro mestiere al punto da non voler più distinguere il possibile dall’impossibile? Credono alle assurde giustificazioni di Bowfinger perché vogliono credere nei loro sogni. Infatti, quando si scopre che Bowfinger ha ingannato tutti, e tutti sono costernati e arrabbiati, il personaggio Carol, la bravissima Cristine Baranski, afferma sognante: “Era una bella bugia.”
E facendoci ridere il film ci domanda: a cosa siamo disposti a credere, a cedere, e a rinunciare per i nostri sogni?

sabato 11 febbraio 2012

Camerieri (1994)

di Leone Pompucci


Regia: Leone Pompucci. Soggetto e Sceneggiatura: Filippo Pichi, Leone Pompucci, Paolo Rossi. Aiuto Regista: Donatella Botti. Suono in Presa Diretta: Gaetano Carito. Costumi. Gianna Gissi. Scenografia: Maurizio Marchitelli. Montaggio: Mauro Bonanni. Fotografia: Massimino Pau. Organizzazione Generale: Massimo Ferrero. Musica: Paolo Rossi, Carlo Di Blasi. Produttore Delegato: Rita Cecchi Gori. Produttore Esecutivo: Marco Risi, Maurizio Tedesco per Sorpasso Film. Produzione: Vittorio Cecchi Gori per CGG Tiger Cinematografica. Interpreti: Paolo Villaggio, Diego Abatantuono, Marco Messeri, Antonello Fassari, Antonio Catania, Enrico Salimbeni, Regina Bianchi, Ludovica Modugno, Carlo Croccolo, Ciccio Ingrassia, Enza Maria Aliseo, Mario Bianco, Ugo Conti, Domenico Di Quanto, Sergio Di Pinto, Christiana Gajoni, Giorgio Gobbi, Giovanni Pellegrino, Oreste Antonio Rotundo, Monica Sallese, Danilo Tesoro, Pia Velsi.

Villaggio, Messeri, Salimbeni

Leone Pompucci (1961) è un regista che proviene dalla fotografia, si dedica soprattutto alla regia televisiva e debutta nel cinema con Mille bolle blu (1993), che vince il David di Donatello come miglior regista esordiente, seguito da Camerieri (1995), con il quale si aggiudica il Nastro d’Argento (insieme a Filippo Pichi e Paolo Rossi) per la migliore sceneggiatura. Regina Bianchi vince un Nastro d’Argento come migliore attrice non protagonista. Il suo terzo e ultimo lungometraggio per il cinema è Il grande botto (2000), dopo di che lo troviamo solo in fiction televisive (Don Matteo, La fuga degli innocenti, Il sogno del maratoneta), ormai nuova frontiera del cinema di genere, e come autore di spot pubblicitari.

Marco Messeri

Ciccio Ingrassia è il vecchio e malato proprietario del glorioso e fatiscente Ristorante Eden, una rotonda sul mare in decadenza, che decide di vendere per ritirarsi a vita privata. Il nuovo proprietario è il figlio di un mobiliere (Antonello Fassari), cafone arricchito, che nel giorno del passaggio di consegne festeggia le nozze d’oro del padre e della madre. Il pranzo si trasforma in una sorta di esame per i rissosi e squinternati camerieri che compongono il nucleo storico del ristorante e temono di essere licenziati.

L'ultimo film di Leone Pompucci

Il film è una commedia umana, di caratteri, interessante sotto l’aspetto dello scavo psicologico, meno riuscita come soggetto e sceneggiatura, anche se vince un Nastro d’Argento proprio per quello. Ciccio Ingrassia entra in scena da grande vecchio, sospinto dal vento di mare, sole alle spalle, cappotto grigio, barba bianca incolta e capelli radi: “La primavera arriva sempre prima sul mare”. Abbandona il ristorante perché è stanco, non ce la fa più, recita in fondo la parte di se stesso, purtroppo, dell’attore che sta per lasciare. Ciccio Ingrassia soffre persino a recitare, ma in questo ruolo è perfetto: i primi piani sul suo volto scavato e macilento, le mani ossute, i capelli mossi dal vento danno tanta tristezza. Non è più il Ciccio Ingrassia compagno di Franco Franchi che allietava i nostri pomeriggi infantili in un cinema di terza visione, ma è un attore felliniano, drammatico, una maschera pirandelliana. L’intero film è una commedia di maschere: Diego Abatantuono è un marito fallito, separato, con un figlio che vede poco e male, un’amante nera che fa la prostituta, il vizio del gioco che lo porta in rovina e un passato di calciatore da rimpiangere. Antonio Catania è il cuoco permaloso, beghino, in perenne lite con il capo cameriere, genio incompreso che pretende solo di essere lodato. Paolo Villaggio è un arrogante capo cameriere che racconta la sua vita al servizio di celebrità, ma in fondo è un uomo piccolo che si è giocato tutto alle carte, non vede da anni il figlio e ha internato la moglie in ospedale perché non riesce a mantenerla. Marco Messeri è uno schizzato cameriere che rimpiange di aver abbandonato la fisarmonica, amore della sua vita, vive nella cucina del ristorante perché non ha una casa. I nuovi padroni sono dei cafoni arricchiti. Carlo Croccolo è il vecchio festeggiato che nel giorno delle nozze d’oro invita a pranzo persino l’amante (Sandra Milo).


Antonello Fassari si diverte a umiliare i camerieri, li minaccia con arroganza, facendo capire che il vento è cambiato, non è più il tempo di un padrone comprensivo e vecchio stampo. Regina Bianchi è la moglie festeggiata, perfetta nel ruolo drammatico e consapevole di come la festa sia soltanto una messa in scena. Il film vive sui litigi dei camerieri, spesso eccessivi, che rischiano di mandare tutto in malora, anche se il finale è fin troppo lieto. Il regista tira le corde del dramma per poi cadere nel luogo comune di una vincita al Totocalcio che risolve i problemi e che permette ai camerieri di comprare il ristorante. Il ragazzino, nipote del capo cameriere, rappresenta la speranza per il futuro, il giovane ingenuo che ancora non è corrotto dalla vita. Il regista mette alla berlina l’ipocrisia borghese, pone in primo piano la dissoluzione della famiglia e i fallimenti personali di una serie di personaggi che non riescono più a sognare. Di tanto in tanto ci sono sentori felliniani, ma anche pasoliniani, soffocati da molta ridondanza. Le cose migliori della pellicola sono una fotografia marina intensa, l’atmosfera decadente e squallida della periferia di mare, la musica che unisce boleri cubani come Quisás a Violino Tzigano, Mamma, brani da balera e un sottofondo di musica da ballo. I difetti: un’eccessiva pretenziosità che porta il regista ad abbondare in piani sequenza, spesso inutili, la voglia di fare Antonioni a tutti i costi, senza esserlo, la mano calcata su certi aspetti drammatici dei protagonisti, le soluzioni facili di sceneggiatura, i primi piani sugli insetti che Villaggio schiaccia per abitudine e l’originalità esibita.


Il film è realizzato negli studi di Cinecittà, ma gli esterni sono girati a Ostia e Anzio. Il ristorante Eden esiste davvero e si trova in riviera Zanardelli ad Anzio, mentre il Luna Park dove nella prima sequenza del film vediamo Abatantuono all’interno di una mitica Fiat 500 con una prostituta nera è in viale Danimarca, a Pomezia.

Ciccio Ingrassia con il regista

Paolo Mereghetti concede una stella e mezza e stronca la pellicola: “Tutti i difetti della cosiddetta nuova commedia all’italiana: protagonisti senza consistenza ridotti a macchiette somatiche, sceneggiatura fintamente cattiva che non spiega l’eterna litigiosità tra i camerieri ma la esaspera solo con la matita di un Grosz all’amatriciana (Sesti), personaggi che fluttuano nel nulla e spariscono senza ragione (il figlio di Abatantuono, l’amante di Croccolo interpretata da una garrula Sandra Milo) e un disprezzo per la materia raccontata che svela una punta di fastidioso razzismo. Giustamente ignorato dal pubblico”. Morando Morandini concede due stelle ma pure lui stronca: “Sotto il segno della ridondanza e di un compiaciuto nichilismo all’amatriciana, il film si riduce a una passerella di mostri sbattuti in faccia allo spettatore”. Tullio Kezich sul Corriere della Sera: “Il film a tratti s’impone gonfiando i muscoli, ma resta di costituzione gracile. Al di là della prepotenza somatica i personaggi non consistono, non c’è modo non dico di affezionarsi ma nemmeno di interessarsi a nessuno di loro. E poi il fatto che circola una schedina del Totocalcio, giocata in società, lascia prevedere un po’ troppo come si andrà a finire. Ci voleva poco, con un interprete della forza di Villaggio, a creargli delle occasioni che andassero oltre i monologhi ingenuamente evocativi dei tempi d’oro della ristorazione di classe; e certo il copione andava lavorato di più”. Pino Farinotti si pone fuori dal coro, concede due stelle e giudica Camerieri “una commedia italiana al di sopra della media”. Il Davinotti - Dizionario on line scritto a mano - è entusiasta dell'interpretazione di Diego Abatantuono, meno delle molte e inutili carrellate: "Un film lento in molte parti, con qualche buona impennata, un cast notevole e diretto sufficientemente bene". A nostro giudizio ci sono luci e ombre in una pellicola che riveste motivi di interesse e che merita una visione non prevenuta, perché a tratti sa mostrare con tristezza quel che siamo diventati. L’entrata in scena di Ciccio Ingrassia vale l’intero film ed è un piano sequenza indimenticabile. 

A questo link si può vedere il film: http://www.youtube.com/watch?v=SFd_cufO-fI

Gordiano Lupi