mercoledì 31 dicembre 2014

Chiedo asilo (1979)

di Marco Ferreri


Regia: Marco Ferreri. Soggetto: Marco Ferreri. Sceneggiatura: Marco Ferreri, Gérard Brach, Roberto Benigni (collaborazione). Fotografia. Pasquale Rachini. Montaggio: Mauro Buonanni. Suono: Jean Pierre Ruh. Musiche: Philippe Sarde. Scenografia: Enrico Manelli. Costumi: Nicoletta Ercole. Aiuto Regista: Cesare Bastelli. Operatore: Giuseppe Tinelli. Mixage: Fausto Ancillai. Fotografo: Paul Pellet. Direttore di Produzione: Roberto Giussani. Produttore Esecutivo: Jaqueline Ferreri. Case di Produzione: 23 Giugno srl (Roma), A.M.S. Production srl (Parigi), Pacific Business Group (Thaiti). Produttore Associato: Ettore Rosboch per la Best International Film. Paese di Produzione. Italia/ Francia. Genere: Commedia grottesca. Durata: 110’. Colore/ Suono: Cinecittà. Negativi: Eastmancolor. Effetti Sonori: Aldo Ciorba & C. Macchina da Presa: Panavision. Mezzi Tecnici: Cime srl. Teatri di Posa: Rizzoli Palatino. Esterni del Film: Argentiera; quartiere Corticella (Bologna). Interpreti: Roberto Benigni, Francesca De Sapio, Dominique Laffin, Luca Levi, Girolamo Marzano, Carlo Monni, Guia Jelo, Chiara Moretti, Roberto Amaro, Franco Trevisi, Samuele Sbrighi. Partecipano i bambini della Scuola Materna P.e.e.p. Bentini di Bologna.


Marco Ferreri (Milano, 1928 - Parigi, 1997) è un regista colto e raffinato, più amato in Francia che in Italia, dove è stato quasi dimenticato dopo la sua morte. Ripercorrendo la sua carriera - con l’ausilio dell’indispensabile manuale di Roberto Poppi - scopriamo che si avvicina al cinema dopo un’esperienza come rappresentante di liquori, comincia dalla pubblicità e dalla produzione (con Zavattini), conosce il giovane umorista Rafael Azcona e grazie a lui dà un svolta alla sua carriera. I suoi tre film di esordio sono realizzati in Spagna con la collaborazione di Azcona e segnano i tratti fondamentali della sua vena autoriale: il sarcasmo e il grottesco. Ricordiamo i titoli: El pisito, Los chicos, El cochecito (1958 - 60), che sconvolgono e rinnovano il cinema europeo. In Italia segnaliamo, in piena sintonia con l’esordio iberico: L’ape regina (1962) , La donna scimmia (1963), Il professore (in Controsesso) (1964). Ferreri realizza le cose migliori quando usa sarcasmo, metafora e paradosso, gira film dissacranti basati sul pessimismo nei confronti di uomo e società, polemizza contro le istituzioni e attacca un sistema che non condivide. Roberto Poppi definisce Ferreri: “Autore fondamentale del cinema degli ultimi trent’anni”. Tra i suoi film memorabili citiamo: La cagna (1971), L’udienza (1971) - in corso di restauro -, La grande abbuffata (1973), Non toccare la donna bianca (1974), L’ultima donna (1975), Dillinger è morto (1968), Ciao maschio (1977), Storie di ordinaria follia (1981), Storia di Piera (1982), Il futuro è donna (1986), Come sono buoni i bianchi (1986), La carne (1991). Trenta film in carriera, l’ultimo - mai visto - Nitrato d’argento (1995), lavoro - testamento dedicato a un cinema che non esiste più.


Abbiamo rivisto Chiedo asilo (1979), interpretato da un Roberto Benigni prima maniera proveniente dal dissacrante Berlinguer ti voglio bene (1976) e da esperienze televisive come Televacca e L’altra domenica, mentre dovevano ancora arrivare Il Pap’occhio e FFSS. Ferreri utilizza il comico toscano non in funzione dissacrante e provocatoria, ma lo convince ad abbandonare la maschera del contadino fiorentino (Cioni Mario) che l’aveva avvicinato a un certo tipo di pubblico. Ferreri utilizza Benigni in funzione poetica e lunare, anticipando una fertile vena successiva sfruttata fino in fondo grazie a Vincenzo Cerami. Ferreri non è regista da prendere un attore e assecondarlo, ma - come Pasolini con Totò e con Franchi e Ingrassia - utilizza Benigni in funzione di un progetto intellettuale.


Vediamo la trama, per quel poco che c’è da raccontare di un film che fa del grottesco e dell’apologo morale la sua arma migliore. Siamo nella scuola materna del quartiere bolognese di Corticella, dove Roberto viene nominato maestro - novità rispetto ai tempi in cui nelle scuole materne il maestro doveva essere di sesso femminile - e stabilisce un ottimo rapporto con i bambini. Roberto è un educatore non convenzionale, come il suo personaggio prevede e come la poetica di Ferreri esige, ma gli alunni sono molto legati al loro insegnante. Il maestro instaura una relazione affettiva con Isabella (Laffin), madre di un’alunna, che resta incinta e mette in crisi il maestro di fronte alla prossima paternità. Un altro rapporto complesso lega Roberto a Gianluigi, bambino affetto da disturbi comportamentali, ricoverato in una clinica specializzata. Il finale della pellicola vede Roberto e Isabella trasferirsi in Sardegna per vivere la maternità in una grande casa sul mare, vecchio cinema dismesso. Insieme a loro si recano in vacanza alcuni bambini, tra questi Gianluigi che proprio mentre Isabella sta per partorire sembra migliorare di salute, perché comincia a mangiare e a parlare.


Chiedo asilo vince l’Orso d’argento, gran premio della giuria, al Festival di Berlino del 1980. Condividiamo la posizione di Paolo Mereghetti: “Apologo morale sul contrasto tra uomo naturale e uomo storico e sulla distruzione della spontaneità e della poesia da parte di un mondo alienato e alienante”. Il cinema di Ferreri non si può valutare per coerenza di sceneggiatura, va visto per immagini, come se fosse un collage simbolico di sensazioni fiabesche. Chiedo asilo è intriso di simbolismi vitali, come i bambini che recitano in modo naturale, nella più completa spontaneità; ma sono molti pure i simboli di morte: le lenzuola nere, i girini deceduti nell’acquario, l’albero cadente e decrepito. Il finale aperto lascia libere molte interpretazioni. 


Siamo in una spiaggia della Sardegna, Benigni e il bambino per mano si dirigono verso il mare, la macchina da presa li riprende contro luce dall’angolo visuale di una rana in una boccia di vetro, sentiamo in lontananza il pianto del neonato mentre i due protagonisti scompaiono. Metafora della nascita, forse, accettazione della paternità, l’uomo che scompare di fronte al mistero dell’esistenza, oppure la morte che lascia il posto alla vita. Tutto è possibile e in fondo non è compito di un autore come Ferreri dare certezze. 


Chiedo asilo è una favola struggente, interpretata con delicatezza e spontaneità da un Benigni sincero, quasi naif, voluto da Ferreri nel ruolo del protagonista proprio per la caratteristica di attore naturale. Citiamo alcune sequenze che ritraggono Benigni in un ruolo quasi clownesco, da folletto uscito da un libro di fiabe: l’apparizione in classe sbucando da un oblò di cartone, il vagare per la scuola di notte in cerca di ricordi e sensazioni, il finto pancione mentre dice ai fanciulli che deve partorire, un asino portato a scuola per far giocare i bambini, il carro di Carnevale con il gigantesco Ufo Robot … La storia d’amore tra Roberto e Isabella prende buona parte del film, narrata con poesia e spontaneità, senza forzature e concessioni al commerciale, in maniera simbolica, persino surreale. 


Altri momenti grotteschi raffigurano un commissario che indaga sui metodi educativi di Roberto che accoglie nel suo asilo un bambino in fuga dalla famiglia. “Siete un po’ tutti impazziti voi maestri di questi tempi”, mormora il poliziotto. Vediamo alle spalle della scrivania del commissario una gigantografia di Che Guevara al posto della foto del Presidente della Repubblica, alcune riviste giudicate sovversive vengono sequestrate al maestro e si conclude con un dialogo surreale sull’interpretazione buona o cattiva di Che Guevara.


La macchina da presa di Ferreri passa dal piano sequenza intenso e poetico, ai primi piani, particolari di occhi, non abusa mai dello zoom, inquadra paesaggi degradati, periferie urbane, fabbriche cadenti, grigio squallore di miniere diroccate, anfratti di mare e case costruite su scogliere. Benigni è campione di “non recitazione”, così come lo sono i bambini, quando vagano per una fabbrica alla ricerca dei genitori, occupano l’asilo e gridano: “Ora e sempre resistenza!”. 


Nel film ricordiamo l’attore toscano sfoggiare un’espressione ingenua, imbracciare la fisarmonica, intonare valzer e motivi del passato, prendere per mano i bambini, abbracciare la sua donna.  Tra gli altri interpreti, interessanti le caratterizzazioni di Carlo Monni (il burbero amico che recita Montezuma a teatro) e Luca Levi (il lunare educatore di bambini), così come è ben calata nella parte Dominique Laffin (la venditrice di libri innamorata del maestro). Chiedo asilo è un film da riscoprire, come gran parte della filmografia di Marco Ferreri.

lunedì 29 dicembre 2014

Ingrid sulla strada (1973)

di Brunello Rondi


Regia, Soggetto, Sceneggiatura: Brunello Rondi. Aiuto Regista. Alessandro Perrella. Fotografia: Stelvio Massi. Montaggo: Marcello Malvestito. Musica: Carlo Savina (composta e diretta). Scenografia, Costumi: Carlo Leva. Direttore di Produzione: Pietro Nardi. Produttore: Carlo Maietto per Thousano Cinematografica. Collaboratore alla Produzione: Dino Mattielli. Organizzazione Generale: Vincenzo De Leo. Interpreti: Janet Agren, Francesca Romana Coluzzi, Franco Citti, Fred Robsahm, Bruno Corazzari, Marisa Traversi, Luciano Rossi, Enrico Maria Salerno, Rosario Borelli, Silvana Panfili, Gino Cassani, Mariama Camara, Franco Garofalo, Patrizia Mayer, Ivana Pepe, Tony Askin, Ignazio Bevilacqua, Fulvio Mingozzi, Antonio Luigi Guerra, Alessandro Perrella, Mauro Vestri.


Ingrid sulla strada (1973) è un film molto curato che si avvale della fotografia di Stelvio Massi e delle musiche intense e suadenti di Carlo Savina. Janet Agren è l’affascinante e tormentata interprete principale, ma sono degni comprimari la prostituta tutta cuore Francesca Romana Coluzzi e il borgataro neonazista Franco Citti. Bravissimo Enrico Maria Salerno nei panni del borghese vizioso che si eccita con donne di strada, fingendo una resurrezione della moglie durante una seduta spiritica. Completano il cast un allucinato Fred Robsham, pittore informale di taglio sessantottino, Bruno Corazzari e Franco Garofalo. 

Ingrid sulla strada dimostra ancora una volta le intenzioni psicologiche di Rondi che vanno di pari passo alla condanna delle convenzioni borghesi, a un netto anticlericalismo e all’analisi pasoliniana delle borgate romane. Ingrid è una ragazza finlandese che scappa di casa dopo essere stata violentata dal padre (lo scopriamo soltanto alla fine grazie a un ottimo flashback onirico) e decide di fare la puttana per vivere. Rondi è attento ai particolari, regista formalmente pregevole, dotato di un preciso stile, realizza sin dalle sequenze iniziali una pregevole fotografia nordica. Janet Agren è in fuga verso Roma, si rifà il trucco nel bagno, toglie gli slip (“Non li metterò mai più”, dice), indossa stivaloni alla moda e vistosa minigonna. 


La scena durante la quale si fa possedere in piedi nel bagno dal suo primo uomo e subito dopo esige una forte somma di denaro è molto cruda, anche se poco realistica. Ingrid è una puttana sui generis, acquista riviste porno per documentarsi, non vuole confidenze dai clienti, non si spoglia completamente, si vende agli uomini e festeggia la sua scelta di vita. Rondi insiste sui particolari erotici ma la visione delle nudità della bella svedese non è gratuita. Ingrid incarna lo spirito ribelle e anticonformista tipico del periodo storico, scandalizza una signora anziana, paga il biglietto sul treno con i primi soldi guadagnati e si ritrova a Roma. Stelvio Massi realizza una bella fotografia di Roma, il regista ci conduce per mano in piazza del Vaticano, scopre la scalinata di piazza Navona e gli angoli più suggestivi della capitale. L’incontro con la prostituita Claudia (Francesca Romana Coluzzi) avviene in modo surreale, ma Rondi non si cura di rendere credibili le situazioni, quanto di comunicare l’idea che ha in mente. 


Ingrid salta a bordo di un calesse ed entra a far parte di un gruppo di donne che fanno la vita sotto la vecchia circonvallazione. Claudia dorme da un amico che fa er pittore, uno de quelli che insozzeno le tele ed è proprio a casa sua che la porta dopo essersi liberata di alcuni ragazzini che la seguono in vespa. Il pittore è un ottimo Fred Robsham, allucinato quanto basta, convinto di essere un artista anche se dipinge incomprensibili quadri informali, amante della prostituta che dorme sotto lo stesso tetto della moglie. Rondi ironizza sull’arte informale e sui presunti capolavori che certa critica contemporanea non esista a incensare. Il personaggio del pittore allucinato serve anche a questo ed è divertente la sequenza del lancio di una bambola che si appiccica alla tela e va a far parte di un nuovo capolavoro. L’ambientazione della pellicola nelle borgate romane e nel mondo della prostituzione di strada è molto pasoliniana. Le puttane lavorano sotto il raccordo anulare, ognuna ha il suo settore, un protettore, un giro di clienti.  


Rondi critica il perbenismo piccolo borghese con battute come: “Che vergogna! E che cosce…”, della serie i passanti disprezzano ma vorrebbero comprare. Ingrid è troppo bella, nessuno si ferma, spaventa i possibili clienti che non la credono donna di strada. Enrico Maria Salerno interpreta un piccolo ruolo importante nell’economia della pellicola. Il suo personaggio serve a puntare l’indice accusatore sui vizi privati e le pubbliche virtù della borghesia romana. Salerno ingaggia le due prostitute per un rituale erotico con la complicità della moglie, ma prima mette in scena un monologo poetico a bordo della Mercedes. “Sono solo in una città è vecchia… ci sono più fantasmi che uomini… ci sono molte luci anche in un cimitero… è una città piena di niente”. Tutto molto teatrale, anche se la recita si conclude con la scoperta che le sue parole fanno parte di un gioco erotico. Franco Citti è il capo di una banda neonazista (si ripete un tema caro a Rondi come in Una vita violenta), protegge Claudia e concede ospitalità alle due ragazze. 


Ingrid non lo sopporta e lo sfida apertamente. “Io sono libera! Vado con chi voglio! Odio i papponi”, dice. Citti non la fa lavorare, interrompe un rapporto con un cliente, fa accerchiare l’auto dalla sua banda di borgatari e cerca di imporre le sue regole. Franco Citti interpreta un rude capo banda che punisce i traditori con assurdi metodi. La scena della tortura al colpevole Luciano Rossi è un esempio di come si faceva il cinema negli anni Settanta, in piena libertà e senza costrizioni televisive. Il traditore è costretto a mangiare la merda con il volto immerso in un pitale e subito dopo Citti gli taglia la lingua in un trionfo di sangue. Ingrid sulla strada si ricorda tra gli amanti del cinema di genere soprattutto per questa parte eccessiva che sta a metà strada tra il cinema di Pasolini (Salò e le 120 giornate di Sodoma, 1975) e quello di Joe D’Amato. Brunello Rondi è un regista interessante proprio perché non decide mai del tutto per un cinema d’autore ma resta prigioniero di alcune convenzioni del genere. La parte finale è ancora più dura e vede protagonista Ingrid, rapita e stuprata dal gruppo neonazista. 


Gli eccessi si susseguono a un ritmo forsennato con la ragazza denudata, drogata, portata a cavalcioni e infine violentata dal branco. “Perché sei venuta in Italia?” grida Citti. In quel preciso momento lo spettatore assiste alla scena della violenza carnale subita da parte del padre e rivissuta come un flashback onirico. La ragazza viene violentata mentre sta dipingendo, si sente sicura perché è in casa con il padre, ma è proprio lui a tradirla mentre si dedica alla sua passione. Lo spettatore comprende soltanto adesso perché Ingrid era sconcertata vedendo dei quadri nella casa del pittore. Rondi ironizza anche sui registi poco abili. Citti impugna una videocamera e riprende la scena di Ingrid violentata dal branco. “Non usate lo zoom che è roba da dilettanti!”, grida. La banda riprende il film della violenza per rivenderlo a peso d’oro, ma in quel momento irrompe Claudia e Citti la uccide con una coltellata. Il finale è melodrammatico, perché il nazista non voleva ucciderla, si è trattato di un tragico errore. Ingrid, violentata ancora una volta, cerca di tornare sula strada, ma è sempre più sola, cacciata dalle altre puttane, decide per il suicidio. Sente la voce di sua madre. “Ora vengo…”, dice. Una scavatrice che rimuove enormi pietre le fa cadere addosso materiale inerte e lei resta schiacciata, come lapidata dalla sua stessa vigliaccheria. 


Mereghetti dice che premesse e finale gridano vendetta, inoltre Rondi mescola con disinvoltura il patetismo con il grottesco, indovinando solo qualche caratterizzazione. Per Marco Giusti è una storia di perdizione e mignotte alla Brunello Rondi, ma anche un melò erotico anni Settanta (Stracult). Concordo sul fatto che sia un film da recuperare.


Per vedere il film: https://www.youtube.com/watch?v=2SUx87S-_xY&feature=share


domenica 28 dicembre 2014

sabato 27 dicembre 2014

Il Vangelo secondo Matteo (1964)

di Pier Paolo Pasolini


Regia: Pier Paolo Pasolini. Soggetto: Testo del Vangelo Edizione Pro Civitate Christiana Assisi. Sceneggiatura. Pier Paolo Pasolini. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli. Aiuto Regista: Maurizio Lucidi. Assistente alla Regia: Paolo Schneider. Operatore alla Macchina: Giuseppe Ruzzolini. Aiuto Operatore: Gianni Canfarelli Modica. Assistente Operatore: Victor Hugo Contino. Fotografo: Angelo Novi. Fonico: Mario Del Pezzo. Costumi: Danilo Donati. Architetto Scenografo: Danilo Scaccianoce. Aiuto Architetto: Dante Ferretti. Truccatore: Marcello Ceccarini. Direttore di Produzione: Eliseo Boschi. Produttore: Alfredo Bini. Ispettore di Produzione: Enzo Ocone. Organizzatore Generale: Manolo Bolognini. Case di Produzione: Arco Film (Roma), Lux Cie Cinematographique de France (Parigi). Distribuzione. Titanus. Negativi e Positivi/ Effetti Ottici: Spes (Dir. E. Catalucci). Pellicola: Ferrania P. 30. teatri di Posa. Incir/ De Paolis. Registrazione Sonora: Nevada. Doppiaggio: C.D.C. Mixage. Fausto Ancillai. Musiche: Johann Sebastian Bach, Wolfgang Amadeus Mozart, Sergej Prokofiev, Anton Webern. Musiche Originali: Luis Enriquez Bacalov. Edizioni Musicali RCA Italiana. Voce di Cristo: Enrico Maria Salerno.


Interpreti: Enrique Irazoqui (Cristo), Margherita Caruso (Maria giovane), Susanna pasolini (Maria adulta), Marcello Morante (Giuseppe), Mario Socrate (Giovanni Battista), Settimio Di Porto (Pietro), Alfonso Gatto (Andrea), Luigi Barbini (Giacomo), Giacomo Morante (Giovanni), Giorgio Agamben (Filippo), Guido Cerretani (Bartolomeo), Rosario Migale (Tommaso), Ferruccio Nuzzo (Matteo), Marcello Galdini (Giacomo, figlio di Alfeo), Elio Spaziani (Taddeo), Enzo Siciliano (Simone), Otello Sestili (Giuda), Rodolfo Wilcock (Caifa), Alessandro Clerici (Ponzio Pilato), Amerigo Bevilacqua (Erode I), Francesco Leonetti (Erode II), Franca Cupane (Erodiade), Paola Tedesco (Salomè), Rossana Di Rocco (Angelo del Signore), Renato Terra (indemoniato), Eliseo Boschi (Giuseppe D’Arimatea), Natalia Ginzburg (Maria di Betania), Ninetto Davoli. Premi: Premio Speciale della Giuria XXV Mostra Internazionale di Venezia; Premio Office Catholique International du Cinema; Premio Cineforum; Premio Città di Imola; Premio Unione Internazionale della Critica. 


Il Vangelo secondo Matteo è il quarto film di Pier Paolo Pasolini, quello che conclude il primo ciclo della sua filmografia, la ricerca dei modelli e di uno stile, compiuta da un fantastico dilettante, per aprire il periodo del cosiddetto cinema d’élite. Un film come sempre prodotto da Alfredo Bini, che aveva creduto in Pasolini sin dai tempi di Accattone, quando Fellini lo respinse e altri dissero che il suo cinema era troppo sgrammaticato - intriso di immagini fisse e silenzi - per poter ritagliarsi un posto nella produzione italiana. Il Vangelo secondo Matteo racconta con fedeltà al testo sacro la parabola di Cristo, dall’Annunciazione alla Resurrezione, utilizzando primi piani, sguardi, silenzi, panoramiche e intere parti del Vangelo, senza aggiungere elementi iconografici o romanzati. Pasolini si immedesima nella figura di Cristo al punto di far impersonare Maria in età adulta dalla madre Susanna, affida il ruolo principale a uno studente catalano (Irazoqui), venuto a Roma per conoscerlo, dopo aver scritto un saggio su Ragazzi di vita. Pasolini avrebbe voluto il poeta Evtusenko, in alternativa Kerouac o Ginsberg, in quel ruolo, ma non fu possibile, perciò ripiegò su un dilettante che aveva un volto simile ai Cristi dipinti da El Greco. 


Voce del Cristo di uno straordinario Enrico Maria Salerno, che doppia da grande attore di prosa le espressioni intense di Irazoqui, recitando brani evangelici. La pittura entra ancora con prepotenza nel cinema di Pasolini, che non ha frequentato il Centro Sperimentale e vede il cinema più da un punto di vista poetico - pittorico che cinematografico. Lo spettatore noterà che i fondali del Vangelo - sapientemente ambientato tra i Sassi di Matera, nelle Puglie e in altre zone depresse del meridione d’Italia - ricordano i quadri di Piero della Francesca. Il Cristo di Pasolini non è stalinista - come ha scritto qualche critico poco accorto - ma è intriso di profonda religiosità e senso del sacro, un Cristo rivoluzionario perché nella Palestina del tempo portare un messaggio non violento era di per sé rivoluzionario. Il Cristo di Pasolini divinizza l’uomo come figlio di Dio, segue l’idea del culto della personalità, contesta il potere (i cappelli da nazista, i copricapo giganteschi, l’ottusità), aborrisce la violenza, chiede la purezza di cuore tipica dei bambini. Il film è girato con una tecnica che il regista definì magmatica: primi piani, campi lunghissimi, carrello a mano e uso caotico delle musiche (Bach, Mozart, canti popolari russi, messa congolese). Gli attori sono rigorosamente non professionisti; Pasolini si trovava male con i veri attori che inserivano altro dalla sua poetica nel film, anche se in diverse occasioni ha fatto ricorso a grandi interpreti come Silvana Mangano, Anna Magnani, Maria Callas, Totò (reinventandolo). 


Nel Vangelo servono dilettanti, amici scrittori come Alfonso Gatto, Giorgio Agamben, Francesco Leonetti, Natalia Ginzburg ed Enzo Siciliano, immortalati in silenzi e sguardi, con una poetica che ricorda Ejzenstejn, vera fonte d’ispirazione per Pasolini. Debutto di Paola Tedesco, nei panni di Salomé, appena dodicenne, quasi irriconoscibile. Ninetto Davoli si intravede in una breve sequenza. Il silenzio è il tratto stilistico del film, oltre a un’intensa fotografia in bianco e nero curata da Tonino Delli Colli, prodigio tecnico - pittorico difficilmente eguagliabile. La critica marxista non comprese la portata rivoluzionaria del Cristo pasoliniano, ma neppure i cattolici più oltranzisti che avevano già dato battaglia per La ricotta, trascinando il poeta in una causa per vilipendio della religione di Stato


Un successo di pubblico, comunque, e una soddisfazione per Pasolini che si vide tributare dai cattolici più aperti il premio dell’Officio Cattolico Internazionale del Cinema. Premio della Giuria a Venezia, nonostante gli sputi e i fischi dei fascisti che osteggiavano Pasolini per la sua dichiarata omosessualità. Dedicato alla memoria del Papa buono, Giovanni XXIII. Un piccolo capolavoro da rivedere nel tempo. 

mercoledì 24 dicembre 2014

Arrapaho (1984)

di Ciro Ippolito


Regia, Soggetto, Produzione: Ciro Ippolito. Sceneggiatura: Ciro Ippolito, Daniele Pace, Silvano Ambrogi. Fotografia: Giuseppe Berardini. Montaggio: Carlo Broglio. Mixage: Romano Checcacci. Costumi: Valeria Valenza. Architetto: Ricardo Buzzanca. Suono Presa Diretta. Primiano Muratori. Aiuto Regista/ Organizzazione Generale: Gianfranco Pasquetto. Ispettore Di Produzione: Mario Olivieri. Trucco: Mario Di Salvo. Operatore alla Macchina: Fabio Conversi. Assistente Operatore: Sandro Grossi. Fotografo di Scena: Roberto Calabrò. Animazioni: Alberto Della Vedova. Esterni: Campagne laziali, Arena di Verona (finale). Distribuzione: Lux International. Musiche: Totò Savio. Edizioni Musicali: C.G.D.. Teatri di Posa: Incir/ De Paolis. Durata: 98’. Genere: Commedia Demenziale, Musicale. Interpreti: Squallor, Urs Althaus, Tinì Cansino, Armando Marra, Benedetto Casillo, Renato Rutigliano, Maurizio Governa, Luigi Morra, Mario Olivieri, Diego Cappuccio, Marta Bifano, Gregorio Gandolfo, Roberta Fregonese, Clara Bindi, Fiore De’ Rienzo, Guendalina Giovannucci, Laura Lasorella, Max Turilli, Domenico La Macchia, Prudencia Molero, Giuseppe Antonucci, Ciro Ippolito. Voce Narrante: Alferedo Cerruti.


Arrapaho (1984) di Ciro Ippolito è un film basato sulle canzoni degli Squallor (Daniele Pace, Totò Savio, Alfredo Cerruti e Giancarlo Bigazzi) ambientato in un villaggio di indiani da avanspettacolo. Morandini definisce il film come “la pellicola più brutta della storia del cinema” e non ha tutti i torti, ma dimentica che un simile lavoro non può essere criticato secondo i canoni dell’estetica cinematografica. 


Ippoliti rincara la dose, accetta la definizione come un vanto: “Ho fatto il peggior film nel peggior momento storico del cinema italiano!”. La pellicola è un mito del trash, tra l’altro la cosa più memorabile è la campagna pubblicitaria a base di Ciao, vediti Arrapaho! che invitava il pubblico a recarsi al cinema. La trama si riassume in poche righe: Scella Pezzata non vuole sposare Cavallo Pazzo (Marra), ma preferisce Arrapaho (Althaus), per questo la tribù dei Cefaloni è sul piede di guerra. Ciro Ippolito porta al cinema la comicità musicale degli Squallor, l’esperimento non è esaltante, ma rivisto oggi il film conserva un certo fascino goliardico. 


Pace è Palla Pesante, Cerruti è come sempre la voce fuori campo, Bigazzi è il russo che capita per caso nel villaggio indiano, Savio il parente invitato al matrimonio (oltre a comporre le musiche), il regista Ippolito si vede nel finale come direttore d’orchestra. Molta volgarità, battute risapute, alcune inventate di sana pianta, improvvisate e prive di senso, tempi comici dilettanteschi, regia approssimativa, ma nonostante tutto il film si guarda con piacere. Originale la trovata degli spot pubblicitari che interrompono la narrazione, un’idea che a suo modo anticipa Almodovar, segue il grido di dolore di Federico Fellini e critica la pubblicità televisiva invasiva. 


Tinì Cansino è la protagonista femminile, la sua avvenenza da pin up anni Cinquanta aumenta l’interesse: prima la vediamo nuda in una lunga sequenza sotto la cascata e poco dopo le sue lacrime bagnano una florida mammella. Un film girato in 15 giorni, costato appena 135 milioni di lire, dotato di una messa in scena poveristica, realizzato da un regista incapace (ma ne è consapevole) e un direttore della fotografia ancora peggiore. La storia è talmente misera che il regista deve rimpolparla con spezzoni finto pubblicitari e alcune gag ispirate alle canzoni del gruppo (Berta, Pierpaolo a Rio…) con il solo scopo di raggiungere i 98’ previsti. Un anno prima era uscito il disco Arrapaho, ma anche Uccelli d’Italia era stato un successo e nel film abbiamo molti riferimenti a brani canori e alla produzione degli Squallor.


Arrapaho è un musicarello atipico, un musical demenziale interrotto da gag improvvisate, da canzoni come La pioggia per invocare l’acqua dal cielo, da apparizioni trash di Cesare Ragazzi (si cita un tormentone pubblicitario in voga negli anni Ottanta) che si è messo in testa un’idea meravigliosa. In realtà non si tratta di Cesare Ragazzi, ma di una controfigura che interpreta il ruolo del caratterista. Da un film così assurdo si accetta anche una ripresa contro luce, perdoniamo persino le sfocate contro sole e la totale improvvisazione delle gag. 


Tra le cose migliori le allusioni alla tribù dei Frocheyenne con il gay indiano Latte macchiato (“Quanto macchiato?” - “Abbastanza, grazie”), la scritta finale The Gay After, un trailer della telenovela Anche i ricchioni piangono, un buffo individuo che rincorre un tram (chiamato desiderio?) e finisce per beccarsi uno sputo in un occhio dal guidatore (Tranvel Trophy). Un’altra battuta indimenticabile vede Capo di Bomba, figlio di Palla Pesante (Pace), affermare che tra papà e mamma vuole più bene a Pippo Baudo. Assurdo il finale all’Arena di Verona durante una messa in scena dell’Aida con Ciro Ippolito nei panni del direttore d’orchestra e gli attori che sfilano in costume egizio. Da notare che gli esterni del film sono girati quasi tutti nelle campagne romane, persino alle famose cascate del fiume Treja di Monte Gelato, nel comune di Mazzano Romano, vero tempio del cinema di genere italiano. Inutile parlare di recitazione in un film simile che vede gli attori interpretare ruoli sopra le righe, ai limiti della pura cialtroneria. I titoli di coda rincarano la dose ringraziando una serie di attori invisibili che ovviamente non hanno interpretato il film: Marlon Brando, Woody Allen… Un lavoro impensabile, ai giorni nostri, consigliabile a chi non conosce la vera comicità surreale, figlia di Arbore, Boncompagni, Bracardi, Marenco, Squallor e Ciro Ippolito. Rendiamo omaggio a un certo tipo di genialità.


Arrapaho si ricorda anche come il primo film interpretato da Tinì Cansino, nome d’arte dell’attrice greca Photina Lappa, nata in un paesino nei presi di Atene nel 1959, anche se lei gioca per anni su presunti natali statunitensi. Alcune fonti la danno nata a Lecce - si veda 99 Donne di Davide Pulici e Manlio Gomarasca - ma è Cosmo de La Fuente - cantante venezuelano molto amico dell’attrice - a confermare le origini greche. Studia danza classica, debutta in televisione nel sexy show Playgirl, insieme a Minnie Minoprio, dove esibisce la sua prorompente bellezza. Tinì diventa famosa nel 1983 per la partecipazione come ragazza fast food nel programma più seguito dai giovani, quel Drive in di Antonio Ricci che va in onda ogni domenica su Italia 1 - dal 1983 al 1988 - per la regia di Giancarlo Nicotra. La fortuna della showgirl è l’incontro con il manager Alberto Tarallo, che le suggerisce il nome d’arte di Tinì Cansino per sfruttare la somiglianza con Rita Hayworth, il cui vero cognome era Cansino. Il manager fa di meglio, s’inventa una finta parentela con l’attrice americana, sulla quale la showgirl vive di rendita per anni, al punto che in molti pensano di trovarsi di fronte la nipote della Hayworth. 


La somiglianza con l’attrice statunitense sta nella fluente chioma rossa e in un buffo accento americano inventato da registi e produttori. In questa pellicola - trattandosi di un’indiana - i suoi capelli sono nerissimi. L’attrice vanta una serie di relazioni con vip del mondo dello spettacolo: Warren Beatty, Vasco Rossi, Kashoggi jr. e Saverio Vallone, ma non sappiamo se tutte queste storie sono vere. La parentela con Rita Hayworth alla fine viene smentita, Tinì scrive una sorta di biografia - confessione per il periodico Blitz dove ammette che il secondo marito di sua madre (Peter Cansino) è il nipote della Hayworth, ma pure questa notizia va presa con beneficio d’inventario. 


martedì 23 dicembre 2014

Saggisti o cazzari?

Capita che compri diversi libri di uno scrittore - in questo caso un saggista - e ti rendi conto che sono pieni zeppi di errori. Libri scritti con uno stile personale, arguto, persino divertente. Ma libri che non possono essere considerati saggi e neppure divulgazione, ché divulgano errori. Sono narrazioni tra il serio e il faceto che vagamente parlano di cinema e cazzate, ecco, questa forse è la giusta definizione. Un po' ti rompe perché certi errori li hai fatti anche tu nei tuoi libri, perché ti sei fidato di lui (e non dovevi, ora lo sai). Capita che quel saggista lo incroci su Facebook e glielo dici, papale papale, colpa tua se non appartieni alla schiera dei leccaculo? Lui ti risponde piccato come un bimbo piccino: "Io i tuoi libri non li ho mai letti e non m'interessano", dice. E chi te l'aveva chiesto? Sono io che ho letto i tuoi, purtroppo. Ed era meglio se i miei soldi li spendevo in fumetti. Della serie: non solo parlano di cose che non conoscono, sono pure arroganti. (Gordiano Lupi)

giovedì 18 dicembre 2014

Roberto Benigni in TV


Roberto Benigni è un nostro vanto, una gloria artistica nazionale, un attore così unico che se Woody Allen viene a Roma per girare un (modesto) film pensa prima di tutto a lui come possibile interprete italiano. Benigni è un regista - attore che ha vinto un Premio Oscar per un film delicato e tragico come La vita è bella. Nonostante tutto leggo in rete e sulla stampa giudizi sferzanti sulla sua ultima interpretazione: I Dieci Comandamenti. Davide Guadagni, un giornalista de Il Tirreno che firma scadenti elzeviri in prima pagina come se fosse Gramellini, dice che il pubblico ama quel che Benigni è stato, facendo capire che non apprezza il nuovo corso. Altri - che non è il caso di citare - aggiungono che Benigni ha riscosso tanti soldi dalla Rai per fare un lavoro che la Chiesa svolge da anni, in parrocchia, gratuitamente.
A nostro modo di vedere Benigni non ha perso lo smalto dei tempi migliori, perché reggere tre ore di spettacolo (in due puntate), da solo, tenendo incollati al video gli spettatori parlando di Dio, amore, regole da rispettare, leggi eterne, non è per niente facile. Benigni è un grande attore che ha subito una logica evoluzione, come ogni persona, come ogni artista. Non poteva continuare a impersonare il Cioni Mario di Tele Vacca, né la sua controfigura autobiografica di Berlinguer ti voglio bene, e neanche il comico strampalato di Tu mi turbi. Benigni non poteva limitarsi a fare il guastatore televisivo con irruzioni incontrollabili ai danni di Pippo Baudo e Raffaella Carrà. I tempi cambiano, un autore matura e affronta altri temi, cosa che per Benigni accade da anni, almeno da La vita è bella Pinocchio. Pure Diego Abatantuono non ha fatto il terrunciello per tutta la vita ma ha deciso di cambiare registro e di passare alla commedia impegnata. Benigni non poteva continuare con la gag del critico cinematografico surreale inventata da Arbore per L'altra domenica e con il personaggio dello sceicco beige (ironizzando su Fellini) de Il papocchio. Tutti lavori che non vanno rinnegati, si badi bene, e che hanno reso grande il comico toscano, ma oggi è il momento di celebrarlo come fine esegeta di Divina Commedia, Costituzione Dieci Comandamenti. Se non ci fermiamo in superficie, ci rendiamo conto che Benigni non è in contraddizione con se stesso, perché la poetica dell'amore contraddistingue la sua opera fin dagli esordi. Certo, quello del Cioni Mario e di Berlinguer ti voglio bene era un amore fisico, carnale, un vero e proprio desiderio corporale. Oggi, il Benigni maturo, attore e regista di successo, cerca soprattutto l'amore spirituale. Un interprete cambia con il tempo, come è accaduto a Totò e persino a Franchi & Ingrassia, che sono passati dalla farsa pura a interpretare opere di Pasolini e Taviani. Un critico attento deve valorizzare l'intero corpus di un autore - interprete, invece di restare ancorato ai ricordi del passato. Benigni non ha perso la verve d'un tempo, anche nei Dieci Comandamenti - di tanto in tanto - ha citato vecchie emozioni giovanili, consapevole che come attore deve guardare avanti per affrontare nuove sfide. A nostro parere, con i Dieci Comandamenti Benigni compie un passo avanti nella sua produzione artistica e tocca le giuste corde per unire in un solo abbraccio laici e credenti.  Uno spettacolo che parla di argomenti scomodi, intenso e commovente, che riporta la televisione ai tempi in cui faceva cultura. Grazie di esistere, Benigni. 

domenica 7 dicembre 2014

Il giardino dei Finzi - Contini (1970)


di Vittorio De Sica


Regia: Vittorio De Sica. Soggetto: Giorgio Bassani (Il giardino dei Finzi - Contini, 1962) Sceneggiatura. Vittorio Bonicelli, Ugo Pirro. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Adriana Novelli. Musiche: Manuel De Sica, Bill Conti. Direzione Musiche: Carlo Savina. Produttori: Arthur Cohn, Gianni Hecht Lucari. Scenografia: Giancarlo Bartolini Salimbeni, Mario Chiari. Costumi: Giancarlo Bartolini Salimbeni, Antonio Randaccio. Genere: Drammatico, Sentimentale. Durata: 94’. Interpreti: Lino Capolicchio (Giorgio), Dominique Sanda (Micol), Helmut Berger (Alberto), Fabio Testi (Giampiero), Romolo Valli (padre di Giorgio), Alessandro D’Alatri (Giorgio bambino), Barbara Leonard Pilavin (madre di Giorgio), Camillo Cesarei, Cinzia Bruno (Micol bambina), Edoardo Toniolo, Ettore Geri, Franco Nebbia, Giampaolo Duregon, Inna Alexeievna, Katina Morisani, Marcella Gentile, Michael Berger, Raffaele Curi.


Il giardino dei Finzi Contini è l’ultimo lavoro memorabile di Vittorio De Sica, premio Oscar per il miglior film straniero e Orso d’oro a Berlino, tratto da una delle più intense storie ferraresi di Giorgio Bassani, incentrata sulle vicissitudini di una famiglia ebrea, un vero e proprio atto di accusa contro le leggi razziali. De Sica è un regista che è rimasto prigioniero dei suoi capolavori, perché la critica ha sempre snobbato l’artigianato di pellicole interessanti girate nel corso degli anni Sessanta - Settanta. Non questa, però, che vide persino l’iniziale coinvolgimento di Bassani a livello di dialoghi e sceneggiatura, ritirato quando lo scrittore si rese conto che la storia prendeva strade diverse da quelle del romanzo. Bassani pretese che il suo nome venisse tolto dai titoli di coda del film.


La storia si svolge a Ferrara nel periodo 1938 - 1943 e racconta l’amore non corrisposto tra Giorgio (Capolicchio) e Micol (Sanda), due ebrei amici d’infanzia ma di diversa estrazione sociale. Vengono emanate le leggi razziali e gli ebrei espulsi dal circolo del tennis finiscono per radunarsi nel giardino dei ricchi Finzi - Contini, che apre le porte a tutti i connazionali. Conosciamo il debole Vittorio (Berger), fratello di Micol in odore di omosessualità, il rude proletario Giampiero (Testi), ma soprattutto osserviamo i giorni dell’amore non colto di Giorgio per Micol, che abbandona la ragazza nelle mani di Giampiero. Il rapporto tra Micol e Giampiero - che Giorgio spia dalla finestra scorgendo la sua amata seminuda - non è citato esplicitamente nel romanzo di Bassani e questo fu uno dei motivi per cui lo scrittore  abbandonò la lavorazione della pellicola. 


Ma De Sica - come Bassani - non vuol scrivere un film sentimentale, anche se la cornice racconta le vicissitudini di un amore non corrisposto. Il tentativo (riuscito) è quello di descrivere - narrando una piccola storia - il dramma della guerra e la vergogna delle leggi razziali con la successiva deportazione degli ebrei. Morirà anche l’amico - rivale Giampiero, soldato nella campagna di Russia e Giorgio lo verrà a sapere in un triste Luna Park, poco prima di decidersi a scappare. Commovente la scena finale in cui il padre di Giorgio (Valli) si ritrova insieme a Micol, in una scuola, in attesa di essere deportato in campo di concentramento. Uno straordinario ralenti onirico rievoca giorni felici, giocando a tennis nel giardino dei Finzi - Contini. Adesso quei ragazzi sono tutti morti.


I protagonisti principali sono molto bravi, ma sia Lino Capolicchio che Dominique Sanda non avevano interpretato molte pellicole e possono essere considerati due rivelazioni. Vale la pena ricordare che De Sica avrebbe voluto la cantante Patty Pravo per vestire i panni di Micol. Fu lei a rifiutare per i troppi impegni. Helmut Berger è un grande attore di scuola Visconti, mentre Fabio Testi è un giovanotto brianzolo alle prime armi. La storia è raccontata come un lungo flashback di Giorgio (nel romanzo si immedesima nell’io narrante di Bassani) ma in presa diretta e con molti dialoghi. Un colloquio padre - figlio è straordinario, riferito alla delusione d’amore di Giorgio ma esteso agli errori di una generazione: “Per capire bisogna morire almeno una volta ed è meglio farlo da giovani, che poi da vecchi non c’è più tempo. La nostra generazione ha preso troppe cantonate”. Romolo Valli è un grande interprete, molto teatrale, adatto a una storia raccontata grazie a suggestivi interni e dialoghi evocativi. Ricostruzione d’epoca perfetta, sceneggiatura priva di pecche, fotografia anticata, tra color ocra e nebbiosi panorami ferraresi. 


Manuel De Sica realizza una delle colonne sonore più ispirate della sua carriera, tra pianoforte e tromba, citando la nota canzone Vivere in una breve sequenza. Il film è stato girato per gli esterni quasi interamente a Ferrara, si riconoscono il Castello Estense, alcune vie centrali (l’ingresso del giardino è corso I Ercole d’Este), le mura, il Palazzo dei Diamanti e la Cattedrale di San Giorgio. Per le scene del giardino, invece, fu scelta una villa presso Roma e per la Villa Finzi - Contini, villa Litta Bolognini di Vedano al Lambro, nei pressi del Parco di Monza. Tecnica di regia sicura e senza sbavature, massiccio uso dello zoom secondo i gusti del tempo, messa in scena teatrale, tono languido e struggente reso a dovere dalle note della colonna sonora. Alcune immagini d’epoca si fondono bene con la storia, cinegiornali, discorsi del duce, tutto serve a creare un clima drammatico tra dolore personale a tragedia nazionale.


La critica del tempo non fu uniforme nel giudicare il film un capolavoro, alcuni fecero notare il tono troppo melenso, altri una rappresentazione didascalica. Grande successo di pubblico, comunque, per un film che ancora oggi resiste al passare degli anni e racconta un periodo buio della nostra storia che molti hanno sempre cercato di nascondere.

sabato 6 dicembre 2014

La moglie in vacanza… l’amante in città (1980)

di Sergio Martino


Regia: Sergio Martino. Soggetto: Sergio Martino, Francesco Milizia. Fotografia: Giancarlo Ferrando. Montaggio: Eugenio Alabiso. Sceneggiatura: Ottavio Jemma, Jean Louis, Giorgio Mariuzzo, Sergio Martino, Francesco Milizia, Michele Massimo Tarantini. Scenografia: Adriana Bellone. Musiche: Detto Mariano. Durata: 94’. Genere: Commedia Sexy. Interpreti: Renzo Montagnani, Barbara Bouchet (doppiata da Solvejg D’Assunta), Edwige Fenech (doppiata da Rita Savagnone), Tullio Solenghi, Lino Banfi, Marisa Merlini, Renzo Ozzano, Pippo Santonastaso, Jacques Stany, Alessandra Vazzoler, Maria Teresa Ruta, Marcella Petrelli.


Sergio Martino è uno dei nostri migliori autori di commedie sexy ed è uno dei registi che meglio ha saputo sfruttare la bellezza di Edwige Fenech, attrice simbolo della commedia erotica italiana.


La moglie in vacanza… l’amante in città è una ricca produzione italo-francese che si avvale di un cast molto interessante. La pellicola è girata tra Parma e Courmayeur e sembra pensata per reclamizzare le vacanze sulla neve in tale località nota per gli sport invernali. Sono finiti i tempi d’oro della commedia scollacciata: in questa pellicola la Bouchet e la Fenech, le due attrici culto del cinema sexy italiano, mostrano poco o niente. Le lunghe gambe della Bouchet escono allo scoperto fasciate da sensuali calze nere e la Fenech mostra di sfuggita il seno. Ci consoliamo con una giovanissima Maria Teresa Ruta che funge anche da controfigura della Bouchet. Marcella Petrelli, invece, si concede alla vista degli spettatori nei panni della pornoconduttrice di uno spettacolo televisivo. 


La sceneggiatura è del regista che scrive il canovaccio e collabora con una vera propria squadra di autori: Ottavio Jemma, Jean Louis, Michele Massimo Tarantini, l’immancabile Francesco Milizia (coautore del soggetto) e Giorgio Mariuzzo. Produce il compianto Luciano Martino, compagno di Edwige e fratello del regista. La storia non si può raccontare, tanto è contorta e basata sul gusto della pochade fine a se stessa, il regista tenta di portare la commedia erotica sui binari della commedia all’italiana classica, realizzando un prodotto ibrido ma interessante. Ricordiamo una Fenech vestita da gatta sui tetti di Parma (si cita La gatta sul tetto che scotta), fasciata da una sensuale tuta aderente, capelli neri con una messa in piega dal taglio corto. Subito dopo l’attrice sfoggia una mise da sexy cameriera stile Malizia e Montagnani non ci pensa due volte a metterle le mani sotto le gonne. Il solo fugace nudo della Fenech arriva alla fine del primo tempo, quando la suocera irrompe in casa di Montagnani e lei deve scappare sotto il letto. Un seno e niente più. 


Segnaliamo una Barbara Bouchet più bella che mai, nonostante il correre degli anni, poco spogliata dalla macchina da presa ma molto sexy in un paio di sequenze insieme a Lino Banfi. La Bouchet si trasforma da anonima moglie modello con occhialoni spessi in amante mignotta che se la fa con un dipendente del marito. Lino Banfi si spaccia per omosessuale e si produce in un invidiabile sexy massaggio delle natiche di Barbara Bouchet. Ricordiamo la bionda attrice spogliarsi a bordo di un taxi sotto gli occhi di un infoiato Pippo Santonastaso e pure quando indossa una pelliccia nera sopra un completo di biancheria intima di pizzo. Per le strade di Courmayeur il solito striptease a bordo del taxi manda Santonastaso fuori carreggiata e la Bouchet deve fare l’autostop in biancheria intima. 


Come non detto esce di corsia pure un’auto con due preti a bordo distratti dall’insolito spettacolo. La Fenech e la Bouchet finiscono entrambe nel letto di Renzo Ozzano, un superdotato violinista russo che si presenta mettendo in mostra il meglio di sé. Alla Bouchet si rompono le lenti degli occhiali di fronte a tanta abbondanza, noi invece non vediamo niente e immaginiamo soltanto il rapporto sessuale. Le due attrici simbolo dell’erotico all’italiana in questo film sono utilizzate più per le doti comiche che per la bellezza fisica. Non si limitano a mostrare le grazie, ma recitano davvero. Un bel passo avanti per entrambe. 


Barbara Bouchet aveva già fatto cose interessanti come L’anatra all’arancia (1975) di Luciano Salce, Per le antiche scale (1975) di Mauro Bolognini e Liquirizia (1979) di Salvatore Samperi. La Fenech, invece, stava cominciando a prendere contatto con il cosiddetto cinema di serie A. Le commedie di Sergio Martino presentano sempre qualcosa in più delle altre, sono meglio rifinite e ben recitate, perché il regista ottiene più tempo per girare rispetto ai colleghi. È il vantaggio di avere un fratello produttore. La moglie in vacanza… l’amante in città  è una commedia degli equivoci che vede protagonista indiscusso Renzo Montagnani nella parte di un industriale del prosciutto affamato di sesso. Montagnani tiene a banda la gelosissima amante Edwige Fenech, è convinto di aver spedito la moglie Barbara Bouchet in vacanza sulla neve, invece lei se la fa con Tullio Solenghi. Dopo innumerevoli equivoci e situazioni al limite del paradossale, si ritrovano tutti a Courmayeur, suocera (Merlini) compresa. 


Una commedia all’italiana con il ritmo e le situazioni della pochade di Feydeau, basata su scambi di coppie e situazioni al limite del paradosso dove l’equivoco la fa da padrone. Si vorrebbe elevare il livello della commedia sexy ma ci si riduce alla pochade con poca verve, anche se un bravissimo Montagnani solleva il tasso comico di un film che stenta a decollare. La pochade termina come tradizione in bagarre, nel caos più totale, con i protagonisti che finiscono all’ospedale quasi assiderati. Montagnani si ritrova congelato il pistolino e deve rimanere inattivo, la Fenech sposa Solenghi, la Bouchet si consola con lo stesso Solenghi che si trova costretto a soddisfare due donne. Godibile, ma Sergio Martino ha fatto di meglio.