giovedì 29 agosto 2013

La ragazzina compie quarant'anni

Gloria Guida comincia così, quasi per caso, è il regista Mario Imperoli che la cerca dopo aver notato alcune foto della giovane cantante alla CHD che dovevano servire per delle copertine dei suoi dischi. A Imperoli la ragazza pare perfetta per un film che vuol girare, gli serve una diciassettenne dall’aria ingenua, inesperta e soprattutto bella. Gloria Guida risponde a tutte le caratteristiche. Mario Imperoli (Roma, 1931 - 1977) è un regista poco noto al grande pubblico, anche perché è morto proprio quando iniziava ad avere un certo successo. Di professione giornalista, diventa sceneggiatore cinematografico e subito dopo produttore. Si mette in proprio come regista nel periodo 1972 - 1977 dirigendo alcune commedie erotiche e tra queste due film con Gloria Guida (l’altro è Blue Jeans). La ragazzina è sceneggiato da Mario Imperoli (pure regista e soggettista), Arpad De Riso, Nino Scolaro e Giorgio Piferi. La fotografia è di Alvaro Pianezzi, mentre Sandro Lena cura il montaggio. Aiuto regista è Silvia Silvani. Le musiche sono di Nico Fidenco, eseguite dall’Orchestra di Giacomo Dell’Orso e dal complesso La Rosa dei Venti. Il primo film di Gloria Guida è prodotto da Roma International Film e da Screen Film e viene distribuito da Seven Arts. Interpreti: Gloria Guida, Paolo Carlini, Gian Luigi Chirizzi, Andres Resino, Colette Descombes, Lucia Catullo, Gianni Bortolotti, Piera Vidale, Umberto Scaglioni, Gian Carlo Cosma, Sonja Burron, Maria Grazia Turco, Leonora Puppo, Luigi Antonio Guerra, Mariano Arnosti, Armando Vecchio, Ada Arnaldi, Nadia De Minicis, Mario Di Girolamo, Andrea Gregoretti, Ornella Masciotti, Fiorella Piron, Giacomo Raffo, Maja Rimini, Augusta Sannini, Claudia Schiff, Alison Swaisaland e Germana Varini. Gloria Guida è giovanissima, come abbiamo detto, non però così giovane come dicono Marco Giusti in Stracult e Manlio Gomarasca in un articolo comparso su Nocturno Cinema nell’estate del 1996. Non aveva quindici anni, ma diciotto compiuti al momento delle riprese. Marco Giusti non è nuovo ad approssimazioni, Gomarasca sorprende perché è fonte sempre molto attendibile. Il film non è un capolavoro e l’unico motivo per consigliarne la visione è il cult della prima apparizione sul grande schermo di Gloria Guida, dotata di un fisico ancora acerbo ma già capace di toccare sapientemente le corde della malizia. La Guida è Monica, una studentessa sedicenne di Lignano Sabbiadoro ancora illibata che vive il problema della verginità e vorrebbe perderla soltanto con l’uomo giusto. Il film si sviluppa stancamente seguendo una sceneggiatura prevedibile e caratterizzata da dialoghi poco credibili. La trama è confusa, spesso si fatica a comprendere l’utilità di certe sequenze che sembrano girate solo per raggiungere la lunghezza canonica. Si pensi alla visita medica di Monica che serve a dare il via a una serie di palpeggiamenti da parte del dottore sul corpo della ragazzina. Oppure alle sequenze in cui Monica acquista il vestito per la festa di compleanno con il padrone del negozio intento a spiarla mentre si spoglia. Infine ci sono diverse scene che si perdono in dialoghi pseudo sociali e che tentano di dare spessore alla storia. Si affronta il tema dell'incomunicabilità tra genitori e figli, descrivendo il padre di Monica come un uomo tutto d’un pezzo che pensa soltanto a lavorare e che non rientra a casa neppure per il compleanno della figlia. La mamma è una borghese annoiata che dice di non riuscire a fare un discorso con la figlia. Di contorno abbiamo gli amici dei genitori che sono messi ancora peggio. L’avvocato Moroni (Paolo Carlini) se la fa con le ragazzine e vorrebbe a ogni costo portarsi a letto Monica, sua moglie invece è la classica borghese ricca e annoiata della vita che alla fine si trova un amante. La trama non è di facile ricostruzione.
Il regista presenta subito Monica che corre libera e sorridente sulla spiaggia di Lignano, icona perfetta di gioventù e spensieratezza, lolita stupenda dotata di ingenuo candore e straripante sensualità. Le corse di Gloria Guida sulla spiaggia sono il leitmotiv del film e costituiscono il pretesto ideale per far ascoltare in sottofondo l’ottima colonna sonora di Nico Fidenco. Nella scena successiva si comprende che Monica è l’oggetto dei desideri di alcuni compagni di classe, soprattutto di Leo (Gianluigi Chirizzi) che ci prova spesso ma viene tenuto a bada dalla ragazza. Il film presenta, con una stilizzazione eccessiva, i vizi borghesi e i pensieri degli studenti che sembrano avere in testa soltanto il sesso. Leo è il personaggio più negativo perché fa innamorare le ragazze per poi consegnarle nelle mani del depravato avvocato Moroni (Paolo Carlini) che preferisce le studentesse alla moglie (Colette Descombres). Il regista presenta subito dopo la villa dell’avvocato, inquadrando la moglie mentre nuota nuda in piscina. Facciamo conoscenza con il professor Bruno De Angelis che ha affittato la mansarda della villa. Monica si innamora proprio del giovane professore di storia dell’arte interpretato da Andres Resino. Lui se ne va in giro con una potente moto giapponese e un giaccone di pelle alla moda. La ragazzina è affascinata dai modi gentili e dalla sua tenerezza. Intanto Leo continua l’attività di magnaccia e vorrebbe conquistare Monica solo per inserirla in quel torbido giro. Vediamo i due a bordo della decappottabile di Leo sulla spiaggia di Lignano e Monica guida l’auto seduta sopra il grembo del ragazzo in una posa provocante. Gloria Guida indossa sempre minigonne ascellari e gli slip multicolori fanno capolino a più riprese. Era il periodo delle gonne a ruota vivaci con camicetta scollata e la bella attrice ne sfoggia un intero guardaroba. Nella scena sulla spiaggia, girata con la tecnica del ralenti, c’è un tentativo di approccio da parte di Leo che viene subito scoraggiato dalla ragazza. Con una perfetta sintesi di malizia e finta ingenuità prima provoca Leo e poi lo disillude. Subito dopo la coppia si ferma a un distributore di benzina e Monica guarda con insistenza un signore di mezza età, soprattutto mette in mostra le cosce per provocarlo. Monica sa che quell’uomo è un amico di famiglia e lo fa soltanto per scatenare la sua reazione. Leo continua nei suoi loschi affari e il cliente più assiduo del ragazzo è proprio l’avvocato che paga fior di quattrini per portarsi a letto le ragazzine. Il suo sogno proibito resta Monica. La studentessa si innamora del professore, va in moto con lui sul lungomare e ammira i suoi dipinti. “Bisogna credere in quel che si fa, pure nell’amore”, dice il professore. E aggiunge: “Vedrai che anche tu troverai la giusta combinazione di colori”. Il dialogo è tra i peggiori dell’intera pellicola. Intanto il professore se la fa con la moglie dell’avvocato Moroni, che tutto preso dal vizio e dalle attività che rasentano lo strozzinaggio non se ne rende conto. Leo lo ha reso schiavo e adesso le offre pure Monica (“Sedici anni e ancora nuova…”). A questo punto Gloria Guida ci delizia gli occhi con uno spogliarello sensuale all’interno del bagno di casa. Rimane a seno nudo con un paio di mutandone bianche per niente sexy che in seguito sfila ma senza mostrare niente allo spettatore. Per il nudo integrale si dovrà attendere il film successivo. La scena è troppo lenta e precede una ridicola telefonata tra padre e figlia. L’avvocato Moroni comincia a insidiare Monica, la incontra e le offre un passaggio con la sua auto che dispone niente meno che di un registratore Geloso per ascoltare musica (le autoradio in Italia dovevano ancora prendere campo). Sull’auto c’è un’altra scena sensuale con Gloria Guida che accavalla le gambe e mette in mostra le cosce abbondanti da ragazzina. Si finisce ancora sul mare a correre sulla sabbia di Lignano (l’azienda turistica sponsorizza il film) con lei che si fa toccare le gambe ma poi respinge l’avvocato. Ancora una perfetta sintesi di malizia e ingenuità. Il regista con poca continuità mostra una discussione familiare con la moglie che rimprovera l’avvocato di pensare soltanto al denaro. L’uomo capisce che la moglie ha un amante ma non gli interessa, basta che le apparenze siano salve e che non si sappia in giro.
Arriva il gran giorno del compleanno di Monica con la ragazzina che resta senza mutandine, vittima di uno scherzo di Leo che le sfila gli slip rossi e le fa volteggiare in mezzo alla stanza con la complicità di altri amici. L’avvocato prende l’occasione per lanciarsi in accuse verso i ragazzi che non hanno un’educazione e una morale (come se lui fosse migliore). Poi passa a contestare i professori sessantottini e capelloni come Bruno De Angelis. Imperoli tenta (con risultati sconcertanti) di mettere il dito sulla piaga dell’ipocrisia borghese. Monica è sempre più innamorata del professore e lo va a confessare proprio alla moglie dell’avvocato, non sapendo che lei è la sua amante. In ogni caso è con il professore che perde la verginità, al termine di una scena erotica abbastanza spinta che fa intuire più di quanto lascia vedere. La ragazza era vergine e lui non lo sapeva, ma lei non è pentita perché è davvero innamorata. Da segnalare alla fine del rapporto la stupidità del dialogo. “Abbiamo davvero fatto l’amore?” chiede lei. “Su questo non c’è alcun dubbio”, risponde serio il professore. Come si possono scrivere battute così ridicole? In ogni caso Monica viene a sapere che il tanto idealizzato professore è l’amante della moglie dell’avvocato che da tempo la insidia. L’avvocato tenta di consolare Monica, la conduce in una casa al mare che definisce “il nostro rifugio” e cerca di portarsela a letto. Lei resiste, lui prima tenta di violentarla, poi arriva a offrirle cinquecentomila lire. L’avvocato le consegna l’assegno, mentre la ragazzina lo ridicolizza rivelandogli che il professore è l’amante di sua moglie. L’uomo, umiliato e deriso, la prende a ceffoni e la fa fuggire, ma poi si pente e la insegue in pineta. Il finale drammatico è l’ultima cosa improbabile di un pessimo film: l’avvocato muore travolto da un camion in corsa mentre insegue Monica. Al cimitero le malelingue confabulano e dicono che la moglie dell’avvocato si è già consolata con un ragazzo più giovane. In ogni caso l’apparenza è velata della solita ipocrisia, a parte Monica, spontanea e vestita con provocanti abiti multicolori (ha persino un ombrellino azzurro). Mentre in sottofondo partono le note dell’ottima colonna sonora di Nico Fidenco vediamo Monica immaginare i morti distesi sulle loro pietre tombali. Lei è stata tradita dalla vita e vorrebbe vendicarsi del mondo. La pellicola si conclude con un primo piano del suo volto che si apre in un sorriso non più tanto ingenuo.
Pur con tutti i suoi limiti La ragazzina lancia Gloria Guida nel ruolo che le sarà più congeniale: la studentessa sexy e maliziosa che fa perdere la testa a compagni di classe e professori. La sola cosa che davvero merita la visione è il suo corpo, acerbo ma già notevole, esibito con generosità ricorrendo a minigonne vertiginose. Gloria Guida recita con freschezza e naturalezza una parte che risente dei pessimi dialoghi e di una sceneggiatura non all’altezza. Il film ha un buon successo di pubblico e il destino della ex cantante viene segnato da pellicole all’insegna dell’erotico-malizioso. La critica accoglie bene La ragazzina, caso strano per pellicole simili. Paese Sera scrive: "Il film ha delle buone intuizioni e la commedia è riuscita". Pure Il Borghese, giornale di destra, in un articolo del 14 luglio 1974 a firma Claudio Quarantotto, salva Gloria Guida e le ritaglia un posto particolare nell’affollato panorama delle lolite cinematografiche. "Ragazzona, più che ragazzina, bionda, con le sue cosciotte muscolose, il suo viso un po’ duro e ossuto, i gesti impacciati dell’adolescente che non sa ancora bene usare tutto il ben di Dio che le è stato regalato, la Guida è forse, più di tutte, una Lolita ancora nabokoviana. In lei, cioè nel suo personaggio, ingenuità e malizia si confondono, insieme ad amoretti che durano lo spazio di un amplesso e che sono subito seppelliti con un incosciente cinismo. Statuetta di carne, niente turba eccessivamente quella sua espressione di appagamento sensuale, naturale, che la isola dal mondo circostante, nel quale provoca soltanto guai. Meno bamboleggiante della Muti, meno programmaticamente sexy della Giorgi, è una specie di vikinga nostrana del genere acqua, sapone e perversione ed è l’unica in ogni modo che si distingua nel gruppo delle Lolite". Condivido in pieno questa analisi. (tratto da Gloria Guida - La Marylin Monroe degli anni Settanta - Il Foglio E-Book - disponibile su AMAZON) Gordiano Lupi

venerdì 23 agosto 2013

Nonhosonno (2001)



di Dario Argento
 

Regia: Dario Argento. Soggetto: Dario Argento, Franco Ferrini. Sceneggiatura. Dario Argento, Franco Ferrini, Carlo Lucarelli. Montaggio: Anna Rosa Napoli. Fotografia: Ronnie Taylor. Effetti Speciali: Sergio Stivaletti. Musiche: Goblin. Scenografie: Massimo Antonello Geleng. Costumi: Susy Mattolini. Trucco: Alfredo Marazzi, Graziella Tosti. Produzione: Dario Argento, Claudio Argento (Produttore Esecutivo). Case di Produzione: Medusa, Opera Film, in collaborazione con Tele Più. Durata: 112’. Genere: Thriller. Interpreti: Max Von Sydow (doppiato da WalterMaestosi), Stefano Dionisi, Chiara Caselli, Roberto Zibetti, Paolo Maria Scalondro, Gabriele Lavia (doppiato da Rodolfo Bianchi), Roberto Accornero, Rossella Falk, Barbara Lerici, Guido Morbello, Massimo Sarchielli, Diego Casale, Alessandra Comerio, Elena Marchesini, Aldo Massasso, Barbara Mautino, Linda Giumento, Elisabetta Rocchetti, Conchita Puglisi, Brian Ayres, Daniele Angius, Robert Camerio, Claudio Coreno, Luca Fagioli, Daniela Fazzolari, Aldo Delaude, John Pedeferri, Francesco Benedetto, Renato Liprandi, Antonio Sarasso, Piero Marcelli, Rossella Lucà, Giuseppe Minutillo, Giancarlo Colia, Francesca Vettori, Antonio Rec.
 
  Stefano Dionisi e Chiara Caselli

Nonhosonno è un ottimo thriller orrorifico a tinte forti, ricco di effetti speciali, ambientato a in una Torino cupa e notturna, che a tratti ricorda (volutamente) Profondo rosso (1975). 
 
 Max Von Sidov

Raccontiamo la trama. La prima scena ci porta a Torino, nel 1983. Vediamo il commissario Moretti (Von Sydow) accanto a Giacomo, che ha assistito inerme alla barbara uccisione della madre da parte di un sadico killer, ma non l’ha visto in volto. Eccessivo l’omicidio, in puro stile Argento - Stivaletti: un corno inglese usato per sfondare la trachea della donna. Salto temporale di diciassette anni. Il killer - chiamato il nano assassino - non è morto come si pensava, ma torna a colpire, uccidendo due prostitute. Il vecchio commissario Moretti è in pensione ma si occupa del caso insieme a Giacomo (Dionisi), che torna a Torino per capire chi ha ucciso sua madre. Riprendono gli omicidi, tutti bizzarri, e il commissario si rende conto che seguono le strofe di una vecchia filastrocca, ripresa da La fattoria degli animali e contenuta nel libro scritto dal presunto killer (La fattoria della morte), che era un autore di gialli. Il colpevole, come regola, è il meno prevedibile, dopo che il regista ci ha fatto sospettare di tutti, persino del fantasma del vecchio killer (il nano Vincenzo), un fantoccio esposto dal barbone Leone (Sarchielli) alla finestra. Muoiono il commissario per un attacco cardiaco, la madre di Vincenzo, dopo aver confessato che il figlio non si era suicidato ma era stata lei a ucciderlo per liberarlo, infine l’avvocato Betti (Lavia), il padre di Lorenzo (Zibetti), che era il più indiziato. Il killer psicopatico è proprio Lorenzo, amico d’infanzia di Giacomo, non era un nano a uccidere ma un ragazzino schizofrenico, protetto dal padre, che per non farlo scoprire l’aveva mandato all’estero per diciassette anni. Lorenzo aveva sfruttato il nano Vincenzo, incolpandolo dei suoi delitti, utilizzando le idee che il primo scriveva sui libri. 
 

Nonhosonno presenta molte analogie con Profondo Rosso. Gabriele Lavia (avvocato Betti, padre di Lorenzo) è ancora una volta il presunto colpevole e recita identica battuta, nel solito modo (“È tutta colpa tua!”). Lavia, in Profondo rosso era il figlio che proteggeva la madre assassina, qui è il padre che protegge il figlio serial killer. Argento gira di nuovo una lunga scena al Teatro Carignano: l’omicidio della ballerina che interpreta il canto del cigno. Unica eccezione con la restante opera di Argento, al punto che era diventata una sorta di stile, una firma d’autore: non è lui a guidare l’assassino, non indossa i guanti, non sono sue le mani che uccidono. In compenso presta la sua voce in falsetto all’assassino quando da sotto le coperte dice: “Ne ho ammazzate tante… tante… tante…”.   
 
 il disco dei Goblin

Nonhosonno ha il limite di essere la solita storia sul killer psicopatico che uccide, ma presenta molti elementi di originalità e alcune sequenze girate in maniera perfetta. La tensione è sempre ai massimi livelli e non ci sono cali di suspense. La lunga scena a bordo del treno con il massacro delle due prostitute è da antologia del brivido, una delle migliori cosse girate nel campo del cinema thriller. Soggettive della vittima e dell’assassino si alternano in un crescendo angoscioso e claustrofobico. Il terrore della donna è palpabile e conduce a un’inevitabile finale gore con il taglio del dito e l’efferata uccisione. Molto eccessivo anche il delitto della prostituta in attesa del treno, trucidata nella sua auto, sotto gli occhi di un ubriacone.  Le soggettive si sprecano, ma non sono mai inutili, anzi, servono a costruire un clima di terrore e di tensione narrativa. 

 
Altro delitto ben costruito vede una donna affogata nell’acqua con il taglio delle unghie dopo morta. Non sono da meno il delitto in ascensore con la testa schiacciata alla parete e i denti che schizzano fuori dalle gengive. Una ballerina viene decapitata e muore come un cigno durante le prove per il balletto, in una sequenza stupenda che vede i piedi rialzati da terra in un terminale gesto danzante. Gli ultimi omicidi sono efferati ma più ordinari, a parte una trapanazione del cranio con una penna stilografica. Il killer muore cadendo dal finestrone proprio mentre arriva la polizia, che scopre i reperti dei vecchi delitti e i corpi trucidati del padre e di Leone. Originali i titoli di coda che scorrono mentre il regista imposta le sequenze finali. Alcuni flashback riportano al passato, il ragazzo ricorda la morte della madre con tutte le orribili sequenze della morte. 
 
 
Le parti con il nano fantasma  sono ottime, ricordano Profondo rosso e i pupazzi animati di cui Argento ama circondarsi. Non mancano i giochi dei bambini, il suono di un carillon, le filastrocche, la musica intensa dei Goblin, che cercano di citare il loro capolavoro. Ottimi gli attori, cosa insolita in un film di Argento. Max Von Sydow (1929) è il migliore, nei panni di un compassato commissario perseguitato da insonnia e vuoti di memoria. Tutti ricordano lo svedese come attore feticcio di Ingmar Bergman e per la sua grande interpretazione ne L’esorcista (1973) di William Friedckin. Rossella Falk (1926 - 2013), recentemente scomparsa, è una perfetta madre del presunto assassino, angosciata e preoccupata per la sorte del ragazzo deforme. Gabriele Lavia (1942) è intenso attore teatrale e regista di alcuni interessanti film erotici interpretati dalla compagna Monica Guerritore. La sua presenza è un elemento di continuità con Profondo rosso (1975) e con Inferno (1980). Non si vede molto, ma recita la sua parte con efficacia. Stefano Dionisi e Chiara Caselli sono diligenti, belli a vedersi, ma non entusiasmano, anche se interpretano una credibile scena erotica prima della sequenza decisiva. Il peggiore del cast è Roberto Zibetti, un killer troppo impostato; la colpa non è tutta sua, ma anche delle banalità che la sceneggiatura gli impone di pronunciare in una scena finale che non è indenne da pecche. 
 

 Altri pregi del film: un’intensa fotografia (Ronnie Taylor) - soprattutto notturna - di Torino, ripresa sotto la pioggia, in stazioni deserte e quartieri periferici, con la Mole Antonelliana sempre sullo sfondo. Terzo film di Argento con Ronnie Taylor, uno dei più importanti esponenti della fotografia inglese, che risolve il problema più grande: girare quasi venti minuti a bordo di un treno. Ottime le scenografie di Antonello Geleng, ma non sono da meno trucco ed effetti gore a cura di Sergio Stivaletti. I Goblin, guidati da Claudio Simonetti, ci regalano alcuni pezzi interessanti. Il complesso è composto anche da massimo morante, Fabio Pignatelli e Agostino Marangolo. Nelle sequenze musicali del film vediamo impegnato anche il gruppo torinese dei Miu - Miu. Asia Argento scrive la filastrocca (originale) che ispira l’omicida.
 

Rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Argento sembra aver dato ascolto ai suoi fan, tornando al genere che gli è riuscito meglio: il thriller con colpi di scena e tanti ammazzamenti. Di fatto gira una specie di remake di Profondo rosso,con qualche citazione di Tenebre nelle tecniche degli omicidi (gore ma non troppo grazie agli effetti di Sergio Stivaletti), confermando una mancanza d’ispirazione che mette malinconia. Oggi, poi, non c’è neanche più la tecnica (malgrado la fotografia di Ronnie Taylor); le musiche dei Goblin sono fiacche e risultano più che mai evidenti le inverosimiglianze della sceneggiatura, il ridicolo involontario dei dialoghi, la mancanza di una direzione degli attori”. Non concordo su niente, ma riporto il giudizio dell’illustre critico per dovere informativo. Morando Morandini (due stelle per la critica, tre stelle per il pubblico): “Sceneggiatura sghemba per tornare agli inizi con un thriller a enigma, pur non rinunciando all’abituale eccedenza di ammazzamenti (una dozzina abbondante), tutti mostrati con la solita efferatezza di particolari gore. È un film di paura che ha l’imperdonabile torto di far ridere per i dialoghi maldestri, la logica latitante. All’attivo almeno due sequenze e la cornice di Torino. Ingombrante la musica dei Goblin”. Valutazione più accettabile, ma non condivisibile. Pino Farinotti conferma le due stelle: “Storia complicatissima, con il rito della morte troppo frequente. Certo, funziona, ma un po’ a buon mercato”. 
 

I critici “alti” rimproverano a Dario Argento un eccesso di ammazzamenti, chi conta dodici, chi quindici omicidi, affermano che si tratta di un rituale furbo, tradizionale, eterno, senza rendersi conto che è soltanto uno stile. Un film di Argento si riconosce anche da questo, per il confine labile tra thriller e horror, per gli eccessi splatter e gore, con buona pace degli esteti e dei critici con l’idiosincrasia per gli italiani che fanno horror. Dario Argento dà il giudizio più obiettivo: “Il film ha una partenza sprint che dura tantissimo. I primi venti minuti sono fortissimi, quasi insostenibili. Mi pento di non aver fatto un finale altrettanto forte. Credo che quella partenza avrei dovuto sfruttarla per il finale”. (Dario Argento - Libro intervista a cura di Fabio Maiello, Alacran). La scelta di Torino: “Conosco Torino come se fosse la mia città. Non mi servivano soltanto gli appartamenti belli ed eleganti, ma anche posti periferici abitati da povera gente. Per esempio la zona residenziale degli ex operai della Fiat. Per trovare la villa ho dovuto girare parecchio. In studio ho girato pochissime scene, tra cui quella finale”. 
 

Nonhosonno vale tre stelle, non fosse altro per un inizio sfolgorante, intenso, insostenibile. I primi due delitti e l’inseguimento sul treno valgono da soli il prezzo del biglietto.



Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

mercoledì 21 agosto 2013

I fichissimi (1981)



di Carlo Vanzina


Abatantuono e Calà miti giovanili anni Ottanta
(tratto dal mio libro inedito: Gli eredi della commedia all'italiana - Il cinema dei Vanzina)

 

Regia di Carlo Vanzina. Soggetto e sceneggiatura: Carlo ed Enrico Vanzina. Fotografia: Alessandro D’Eva. Montaggio: Raimondo Crociani e Lidia Pascolini. Musica: Detto Mariano. Scenografia: Giuseppe Mangano ed Emita Frigato. Costumi: Marina Straziota. Interpreti: Jerry Calà, Diego Abatantuono, Simona Mariani, Mauro Di Francesco, Ugo Bologna, Loris Zanchi, Renato Cecchetto, Carmine Franco, Annabella Schiavone, Jimmy il Fenomeno, Barbara Herrera e Fabio Grossi.  



La trama non è certo la cosa più importante di questo quinto film dei Vanzina che decreta il successo cinematografico di Diego Abatantuono e Jerry Calà. Alla fine resta solo un patrimonio di battute, mimica e trovate assurde interpretate da due attori che condizioneranno i comportamenti giovanili dei primi anni Ottanta. Jerry Calà (Romeo) è un milanese purosangue che fa il posteggiatore di auto, mentre Diego Abatantuono (Felice) è un immigrato pugliese (ma afferma di essere milanese ciento pe’ ciento) che sbarca il lunario trasportando frutta. Romeo e Felice sono a capo di due bande rivali che sin dalle prime scene girate in metropolitana si sbeffeggiano a colpi di battute razziste. In questa situazione si inserisce un complesso rapporto amoroso tra la sorella di Felice (Simona Mariani) e Romeo, che il fratello osteggia con tutte le sue forze. Romeo finisce addirittura in galera per aver tentato una rapina al Banco dei Pegni e resta a consolarlo solo l’amico Mauro Di Francesco, collega posteggiatore con la fissa degli States. Romeo scrive lettere su lettere alla sua bella, ma Felice non gliele fa leggere e convince Giulietta a sposare un ricco pretendente. Risolve la situazione il brillante avvocato Colombo (Ugo Bologna), vecchio cliente di Romeo, che con una brillante arringa fa assolvere il ragazzo. Il finale strappa gli applausi al pubblico femminile, perché il sogno d’amore viene coronato. Romeo irrompe in chiesa con un comico ralenti, rapisce la sposa, finge di disonorarla e obbliga Felice ad acconsentire a un matrimonio riparatore. 



Il modello colto di riferimento è lo shakespeariano Giulietta e Romeo, anche se la trama resta un modesto racconto confezionato a uso e consumo dei giovani anni Ottanta. I Vanzina imitano i modelli statunitensi, inseriscono una spruzzata di rock e di disco-music, puntano sull’antagonismo tra settentrionali e meridionali, ma soprattutto inventano uno slang giovanilistico che fa furore.

Marco Giusti su Stracult parla di “evidenti echi dei Guerrieri della notte”, ma obiettivamente non sembra che il film di Walter Hill (1979) venga citato più di tanto, se non in forma molto farsesca. I fichissimi lancia il primo Abatantuono e dimostra che Jery Calà può far cinema popolare da solo, senza l’ingombrante presenza de I Gatti di Vicolo dei Miracoli che lo costringevano a interpretare un cabaret più colto. Rivisto oggi è un film che si segue con interesse, diverte e soprattutto rappresenta un quadro veritiero di un mondo giovanile anni Ottanta. Sono evidenti tutti i limiti semplificatori del cinema vanziniano, ma questo è un difetto di base con il quale dobbiamo convivere. Le pretese non sono alte e gli scopi di regista e sceneggiatore vengono ampiamente raggiunti. 



Il tema conduttore della pellicola resta l’esclamazione viuuulenz!, una sorta di tormentone del primo Abatantuono, presente in quasi tutti i suoi film. Jerry Calà non è da meno quando tira fuori dal cilindro i suoi allucinati: Ciao!, Libidine! Doppia libidine! e Mi acchiappa un casino… 



Sono molte le battute da citare e i dialoghi assurdi, frutto di una collaborazione intensa tra regista sceneggiatore e protagonisti.

Abatantuono giganteggia dall’inizio alla fine, il suo slang è incontenibile, non c’è giovane che non lo conosca e che non provi a imitarlo, a scuola o con gli amici. Tutto questo è indice di successo.



Citiamo alcune espressioni dove la comicità viene fuori da un’operazione di trasformismo e di storpiamento della frase originale: “Siamo nel deserto di Goblin, quello di Dario Argento”, “Non svegliare il babbo che dorme!”, “Io vedo tutto, sento tutto, c’ho gli occhi dappertutto, pure dietro la testa, come i camaleonti. Anzi, come i Dik Dik!”,  “Ma che c’hai dentro al cervello? Gorgonzola rancido?”, “Tu t’illudi! Illusionista…” (che ricorda la comicità di Totò). Notevole quando si rivolge a mamma e sorella per criticare il pranzo: “Mmmh, che profumino! Che avete cucinato oggi, polpette di mmedda?”. Indimenticabile la canzone di Riccardo Cocciante, modificata in “Io rinascerò, cervo di muntagna/ oppure micrerò come un maiale micratore/ come un purcello da scogliera!/ il peperone non si bagna…”. “So’ milanese al ciento pe’ ciento!” è l’immancabile intercalare accompagnato dalla giustificazione che usa il dialetto perché va di moda, perché acchiappa… 

Diego Abatantuono interpreta una sorta di fratello-padrone originario di Bisceglie, che dopo la morte del babbo e in assenza della madre - in visita alla famiglia in Puglia - si occupa dei fratelli minori. Fabio Grossi presta il volto al fratello gay, vittima delle considerazioni acide di Diego Abatantuono, davanti alla foto del padre defunto. Si ricorda la sequenza dei preparativi per la discoteca. Abatantuono: “Io sono pronto! Ma tu come ti sei conciato? E che è, un vestito di Luigi 113 questo?!”. Grossi: “Perché?”. Abatantuono: “Non andiamo mica a ballare il minuetto, andiamo in discoteca. Guarda che così le galline non ti cacano neanche”. Grossi: “Ah, ma guarda che le galline non mi interessano mica, sai!” Abatantuono: “Maronna babbo, guarda: non è venuto né carne né pesce, né maschio né femmina. È ibrido! C’è il babbo che si sta ribaltando dentro la tompa!”. Felice chiamerà il fratello gay sempre con l’appellativo ibrido e questa è una delle trovate più originali di Enrico Vanzina. Felice è tutto preso dal ruolo paterno, crede di dover proteggere il fratello minore dalla droga (ma poi fuma lui la canna), spedisce la sorella al suo piccolo mondo antico (la cucina), perché le donne non hanno diritto di parola, e sorveglia ogni mossa casalinga come un simpatico despota. A una festa in maschera nella discoteca difende la sorella vestito da moschettiere, a colpi di finta spada in un duello improvvisato con un Romeo - Zorro. “Romeo! Già il nome mi sta’ su e balle… e pesantemente!” esclama. 


Jerry Calà esagera come sempre, balla in metropolitana, si agita, strabuzza gli occhi, recita con una mimica sopra le righe, ma riveste un ruolo efficace. Definisce il posteggiatore come un clown triste, perché vede auto di lusso ma non può comprarle. Sono ottimi anche gli scontri generazionali padre - figlio che tentano di far capire l’incomunicabilità generazionale, pur senza scendere in profondità. Romeo va in discoteca vestito di rosso con un cappello stile far west e il babbo non approva. “Ma come parli? Sembri il babbo di Pertini!” dice Calà al padre. In discoteca vediamo Jerry Calà apostrofare Abatantuono (vestito con un giubbotto di pelle con la scritta Toro Scatenato) con epiteti ironico - razzisti: “Giubbotto ripieno di Puglie! Ti faccio un culo come il promontorio del Gargano!”. L’incontro tra Jerry Calà e Simona Mariani è segnato da una battuta storica. Mariani: “Non ci siamo ancora presentati.


 Giulietta, come Giulietta Masina”. Jerry, di rimando: “Piacere, Romeo: come Romeo Benetti”. L’allusione è al popolare calciatore milanista degli anni Ottanta. Una sequenza da ricordare vede i due comici protagonisti di uno scambio di battute. Calà imita lo slang di Abatantuono in maniera molto efficace e quest’ultimo lo definisce “Gigi Sabani dei poveri”. 


Mauro Di Francesco non ricopre un ruolo di grande rilievo, come collega di parcheggio di Romeo, ma è bravo e interpretare un milanese in preda al sogno americano che si sforza di parlare inglese anche se non conosce una parola. Simona Mariani (Giulietta) è bella ed espressiva, peccato che nel cinema italiano sia stata poco utilizzata. Ricordiamo film come Segni particolari: bellissimo (1983) di Castellano e Pipolo, Al lupo al lupo (1992) di Carlo Verdone, Ti amo Maria (1997) di Carlo Delle Piane e Pazzo d’amore (1999) di Luciano Cadore. Ugo Bologna (l’avvocato Colombo) è un buon caratterista milanese che incontriamo spesso nei film dei Vanzina. Sapore di mare (1983) è il suo film più interessante, ma recita un ruolo di rilievo anche in Yuppies - I giovani di successo (1986). Bologna è morto nel 1998, all’età di ottant’anni.

I Vanzina realizzano un buon affresco di come ci si divertiva negli anni Ottanta, salvaguardando la memoria storica della discoteca, luogo di ritrovo e di sonore scazzottate tra bande rivali. Come sempre nei loro film, anche ne I fichissimi non mancano le citazioni cinematografiche, anche se sono soltanto di maniera e vengono inserite all’interno di battute. Rocco e i suoi fratelli, pellicola di Luchino Visconti (1960) in parte ricorda la situazione della famiglia di Felice, anche se molto estremizzata in farsa. In una breve sequenza si cita L’uccello dalle piume di cristallo (1970) di Dario Argento, ma con finalità comiche. I fichissimi resta uno dei film migliori del primo periodo vanziniano, contribuisce a creare due icone comiche come Abatantuono e Calà, fotografa il mondo giovanile di un periodo storico e regala una serie di modi di dire che costituiranno l’ossatura dello slang giovanilistico in voga negli anni Ottanta.  


Gordiano Lupi
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Stregati (1986) e il cinema di Francesco Nuti






Regia. Francesco Nuti. Soggetto e Sceneggiatura: Francesco Nuti, Vincenzo Cerami, Giovanni Veronesi. Fotografia: Giuseppe Ruzzolini. Musiche: Giovanni Nuti. Produttore: Gianfranco Piccioni. Distribuzione: Columbia. Durata: 100’. Genere: Commedia sentimentale. Interpreti: Francesco Nuti, Ornella Muti, Novello Novelli, Alex Partexano, Sergio Solli, Mirta Pepe, Giovanni Nuti. Titoli estero: Hexerei (Germania), Bewitched (mercato anglofono), Ensorcèles (mercato francofono), Embrujados (mercato ispanico). 
 

Stregati è il terzo film di Francesco Nuti regista, dopo Casablanca Casablanca (1985) e Tutta colpa del Paradiso (1985), il secondo interpretato insieme a Ornella Muti (che avevamo visto nell’ottimo Tutta colpa del Paradiso), sicuramente il suo lavoro migliore. La storia si racconta in poche parole. Lorenzo (Nuti) è un disc-jockey che vive a Genova, nella zona del porto, lavora a Radio Strega dove conduce una trasmissione notturna di musica e parole. Vive alla giornata, insieme al padre (Novelli) - gestore di un cinema a luci rosse - e altri due amici burloni (Alex e Remo 40), tra scherzi, goliardia e donne disponibili. Ha anche un’amante come Clara (Pepe) che riempie i momenti di monotonia. Il film si presenta come una sorta di Amici miei versione genovese, narrando le avventure notturne dei quattro burloni, ma quando compare sullo schermo la splendida Anna (Muti) si trasforma in commedia sentimentale. Lorenzo incontra Anna durante una notte piovosa, mentre guida il taxi dell’amico Remo, ci finisce a letto, si sente attratto da lei in maniera diversa dal solito. Il problema è che Anna deve sposarsi il giorno dopo, ha il vestito bianco in valigia e un treno che l’attende alla stazione, diretto a Verona. Tra i due nasce un rapporto intenso, Anna perde il treno per ben due volte, fa  ancora l’amore con Lorenzo, ma alla fine parte verso il suo destino. Finale a sorpresa. Dopo alcuni giorni Anna torna, in una notte di pioggia, perché ha deciso di stare insieme a Lorenzo e condividere la sua vita bizzarra e sconclusionata. 


Stregati si doveva intitolare Strega, a quel che dicono le cronache, lo stesso Cerami - ottimo sceneggiatore - afferma che il film durante la lavorazione prese una piega diversa, da commedia sentimentale, invece che ironica, perché Francesco Nuti e Ornella Muti si innamorarono per davvero. Il film presenta una trama meno solida e costruita del precedente Tutta colpa del Paradiso, ma si salva per un’intensa fotografia genovese notturna (Ruzzolini) e per una colonna sonora struggente e suggestiva (Giovanni Nuti).  Molti i premi: Nastro d’argento per la migliore musica, nomination al David di Donatello per la miglior canzone originale (Rose), quattro nomination di Ciack d’Oro (miglior film, attore, attrice e fotografia). La location è molto curata: una Genova notturna e deserta davvero straordinaria, le banchine del porto, le zone centrali, la stazione (anche se è quella di Firenze), tutto girato sotto una pioggia battente, riprendendo squarci di alba intensa e tramonti marini suggestivi. 

Molte immagini del film restano indelebili: Ornella Muti che indossa il vestito da sposa tra i docks del porto e le navi attraccate, Nuti ripreso con il panorama di Genova alle spalle, intensi primi piani della bella attrice e squarci di città deserta, in una notte surreale. Lo scherzo di Nuti al padre mentre pulisce la sala del cinema a luci rosse è quasi da horror comico ed è realizzato con un buon crescendo di tensione. La parte sentimentale non annoia, anche se qualche sequenza è eccessivamente diluita e i rapporti erotici sono un po’ ripetitivi. Tutto è salvato da un buon testo, ottimi dialoghi, colonna sonora adeguata, fotografia intensa, recitazione mai sopra le righe. Francesco Nuti è promosso regista a pieni voti, perché dimostra di avere dimestichezza con la macchina da presa. Ornella Muti è attrice bella e sensuale, basta la presenza per far risplendere la scena, ma in questo film i suoi occhi possiedono una luce speciale. Forse la luce dell’amore per Nuti, di cui tanto parlano le cronache rosa dei rotocalchi.

Rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella): “Alla sua seconda regia, Nuti si scopre autore: snocciola massime da Baci Perugina e cerca la poesia della città notturna, memore, secondo alcuni pazzi, delle Notti bianche di Visconti. Ma quello che irrita non sono tanto le ambizioni di girare qualcosa di più di un film comico, o la debolezza dell’intreccio: è il narcisismo con cui Nuti regista contempla e ammira il Nuti attore, e la sua presunzione che anche lo spettatore (o spettatrice) debba associarsi”. Stenderei un velo pietoso su questa recensione falsa e cattiva, inutilmente astiosa, soprattutto lontana anni luce dalla pellicola. Oltre tutto Mereghetti conta male pure le regie di Nuti, perché Stregati è la terza! Morando Morandini (due stelle per la critica, tre stelle per il pubblico): “Struggente e un po’ stupido sullo sfondo di una Genova invernale di bella suggestione, è un omaggio alla notte e al cinema. Qualche sconnessione, un lieto fine improbabile”. Toglierei lo stupido, ma per il resto è condivisibile. Pino Farinotti concede due stelle ma non motiva. A nostro giudizio, il film vale tre stelle, il solo difetto risiede nella frammentarietà e in alcune sequenze troppo diluite.

Due parole su Francesco Nuti (Prato, 1955) vanno dette, anche se per approfondire l’importanza dello sfortunato attore - regista consigliamo lo splendido volume curato da Matteo Norcini e Stefano Bucci “ Francesco Nuti - La vera storia di un grande talento” (Ibiskos, 2009), che vendica troppe ingiustizie critiche compiute ai suoi danni. Nuti nasce come attore nel gruppo de I Giancattivi, voluto da Alessandro Benvenuti e Athina Cenci, il primo film interpretato è il surreale Ad ovest di Paperino (1982), diretto da Benvenuti. Conclusa l’esperienza di cabaret e televisione con il gruppo, Nuti si mette in proprio e interpreta alcune commedie dirette da Maurizio Ponzi, che riscuotono un grande successo di pubblico (soprattutto giovane) e sonore stroncature critiche. 

Ricordiamo: Madonna che silenzio c’è stasera (1982), Io Chiara e lo Scuro (1983), Son contento (1984). Debutta alla regia nel 1985 con Casablanca, Casablanca, prosegue con grandi successi di pubblico (osteggiati dalla critica) come Tutta colpa del Paradiso (1985), Stregati (1986), Caruso Paskoski di padre polacco (1988), Willy Signori e vengo da lontano (1989), Donne con le gonne (1991). La crisi irreversibile arriva con OcchioPinocchio (1994) - non compreso dal pubblico - ma prosegue con Il signor Quindicipalle (1998), interpretato con Sabrina Ferilli, e si aggrava con Io amo Andrea (2000) e Caruso, zero in condotta (2001). Nuti si produce le ultime due pellicole che sono entrambe un insuccesso clamoroso, perché sono cambiati i tempi e portare al cinema una pellicola italiana è sempre più difficile. Il suo tentativo di riprendere un filone di successo negli anni Ottanta si rivela fallimentare. La sua ultima prova cinematografica è come attore nel noir Concorso di colpa (2005) di Claudio Fragasso, che hanno visto in pochi. Nuti non si dà per vinto, nonostante gravi problemi di salute di cui soffre da tempo, annuncia un nuovo film: Olga e i fratellastri Billi, con Sabrina Ferilli e Isabella Ferrari, ma non se ne fa di niente. Il 3 settembre 2006 entra in coma a causa di un ematoma cranico in seguito a un incidente domestico, viene ricoverato d’urgenza, operato e avviato a un processo di riabilitazione. Francesco Nuti migliora, ma è l’ombra di se stesso, la televisione del dolore ne approfitta per fare sfoggio di idiozia e di insensibilità. Per fortuna il fratello Giovanni e l’ex compagnia Annamaria Malipiero (madre della figlia Ginevra) si occupano di lui e lo accudiscono con amore. 

Matteo Norcini rende giustizia al Nuti pubblico pubblicando un libro monumentale e indispensabile per capire il percorso del grande artista toscano. Francesco Nuti sta scrivendo una raccolta di poesie, mentre Giovani Veronesi lavora al progetto di far conoscere al meglio il cinema di Nuti. Nel 2009 la Cineteca nazionale dedica al regista pratese una retrospettiva. Esce anche un documentario: Francesco Nuti… e vengo da lontano (2010), presentato al Festival del Film di Roma. Il videoclip musicale Olga tu mi fai morir (2013), canzone scritta insieme al fratello Giovanni, è la sua ultima cosa. Nuti è stato anche cantante di buon successo (Puppe a pera, Sarà per te…) e ha partecipato ad alcune edizioni del Festival di Sanremo. Ricordiamo l'interessante autobiografia, curata dal fratello Giovanni ed edita da Rizzoli: "Sono un bravo ragazzo" (2011). Roberto Poppi, in tempi non sospetti, sapeva andare oltre le baggianate del Mereghetti: “Nuti ha diretto commedie non prive d’impegno, lontane dal puro intrattenimento, che evidenziano le sue doti di attore e autore portato verso una comicità malinconica, romantica e surreale, ma attenta a cogliere aspetti non trascurabili dell’attuale società italiana”. Addolora sapere che adesso Nuti è muto, sofferente, incapace di comunicare il suo mondo interiore. Addolora perché a noi giovani degli anni Ottanta ha fatto passare momenti allegri e spensierati. Ricordo di essermi innamorato per la prima volta guardando Tutta colpa del Paradiso. Grazie Francesco. 

Link per il libro "Sono un bravo ragazzo": http://rizzoli.rcslibri.corriere.it/libro/5133_sono_un_bravo_ragazzo_nuti.html 

Alcune sequenze di Stregati:



Gordiano Lupi - www.infol.it/lupi  

martedì 20 agosto 2013

Ecce bombo (1978)



di Nanni Moretti
 

Regia: Nanni Moretti. Soggetto e Sceneggiatura: Nanni Moretti. Fotografia: Giuseppe Pinori. Montaggio: Enzo Meniconi. Musica: Franco Piersanti. Scenografia: Gianni Sbarra, Massimo Razzi. Costumi: Fabrizia Magnini. Produzione: Mario Gallo. Durata: 103’. Colore. Genere: Commedia. Interpreti: Nanni Moretti, Luisa Rossi, Glauco Mauri, Lorenza Ralli, Fabio Traversa, Paolo Zaccagnini, Piero Galletti, Lina Sastri, Susanna Javicoli, Maurizio Romoli, Carola Stagnaro, Augusto Minzolini, Cristina Manni, Luigi Moretti, Simona Frosi, Giorgio Viterbo, Age, Mauro Fabbretti, Maurizio De Taddeo, Cristiano Gentili, Vincenzo Vitobello, Giampiero Mughini, Andrea Pozzi,  Sandro Oliva.
 
Ecce bombo è il secondo film di Nanni Moretti, dopo aver debuttato con Io sono un autarchico (1976), in Super 8, gonfiato a 16 mm, film sulle vicissitudini dei giovani della sinistra extraparlamentare, che segue il mediometraggio Come parli frate? (1974), singolare rilettura dei Promessi Sposi dalla parte di Don Rodrigo. Il titolo deriva dal grido di uno straccivendolo che percorre il litorale romano sin dalle prime ore del mattino. Fantastica l’inquadratura, molto felliniana, in campo lungo, di un’alba suggestiva sulla spiaggia di Ostia con un uomo in bicicletta che corre verso il lavoro quotidiano. Altri titoli in lavorazione erano: Sono stanco delle uova al tegamino, Piccolo gruppo, Delirio d’agosto e Senza caviglie.  
 

Ecce bombo è girato in presa diretta, con suono monofonico, in 16 mm e poi ristampato in 35 mm, prodotto grazie ai benefici dell’art. 32 sul giovane cinema d’autore, presentato al Festival di Cannes e ben accolto da pubblico e critica. Segna l’inizio della parabola ascendente di Nanni Moretti, anche se siamo sempre in pieno autobiografismo, con molte manie del regista in primo piano, non ultimo l’amore per le canzoni di Gino Paoli. Amare inutilmente (Agate - Paoli) fa parte della colonna sonora, molto suggestiva, composta da Franco Piersanti. In breve la trama, che non è la cosa più importante, come sempre in un film di Moretti, autore in senso pieno perché scrive, sceneggia e dirige il film. 


Michele (Moretti), Mirko (Traversa), Vito (Zaccagnini) e Goffredo (Galletti) sono quattro amici annoiati dalla vita, dalla scuola, dal solito tran tran del quotidiano, persino dalla politica e dalle donne. Decidono di ritrovarsi per fare un percorso di autocoscienza di gruppo, dove ognuno espone la sua concezione della vita, ma anche questa occupazione non porta a niente di positivo. Si finiscono per esporre problemi di poco conto, logorroiche considerazioni sulla necessità di scopare con le donne, valutazioni poco approfondite sul senso della vita. L’insoddisfazione dei quattro amici resta tale, così come sono difficili i rapporti familiari con i genitori e la comunicazione sessuale con il partner. Michele prepara svogliati ragazzi per l’esame di maturità ma i risultati sono scadenti, non capisce le donne e viene lasciato da diverse fidanzate con le quali non comunica. Al gruppo di giovani si aggiunge Olga (Sastri), una ragazza schizofrenica piena di problemi che alla fine viene lasciata sola da tutti, mentre Michele si reca a farle visita. 
 

Molte sequenze del film sono indimenticabili. Prima tra tutte la scena al bar quando un infastidito Michele non sopporta più il qualunquismo di un avventore e gli grida: “Bianchi e neri sono tutti uguali? Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?”. Quando viene cacciato dal locale rincara: “Te lo meriti Alberto Sordi!”. Massimiliano Bruno riprende la scena in Nessuno mi può giudicare (2011) e la fa interpretare a Rocco Papaleo che in una sorta di ironico omaggio grida: “Ma che siamo in un film di Nanni Moretti?”.   
 
 
Ora, il bersaglio di Nanni Moretti non è certo Alberto Sordi, grande e indiscutibile attore, ma quel che rappresenta: l’italiano medio, il borghese mediocre, l’uomo senza ideali. Altra scena entrata nella mitologia e nel modo di parlare giovanile (di allora), il colloquio con l’amica che non fa niente di concreto: “Giro, vedo gente, faccio cose”. Un’altra fissa di Moretti contro il modo di parlare (in un film successivo - Palombella rossa - dirà: Come parli? Le parole sono importanti!) è molto presente: “Silvia, non la Silvia. Fortunatamente siamo a Roma, non a Milano… Cacare, non cagare. Fica, non figa”. Molti gli attori insoliti, tra tutti Giampiero Mughini (l’intellettuale) e Augusto Minzolini  (uno studente), ma anche il padre di Nanni Moretti, Luigi, nei panni del poeta che cerca un ruolo in un film. 
 

Moretti cita Fellini a più non posso, soprattutto come tecnica di regia e per alcune sequenze poetiche, come il ballo degli anziani sul lungomare, ma anche sequenze di clown e acrobati da circo in sottofondo. Il tema del film è l’incomunicabilità, la difficoltà di avere un rapporto corretto con la famiglia e anche con i coetanei, la mancanza di obiettivi e di un progetto comune, il difficile rapporto con le donne. Un bel quadro dei giovani intellettuali degli anni Settanta, quando non era facile essere extraparlamentari senza rischiare di essere accusati di disfattismo e terrorismo, ma non era semplice neppure dare un senso alla propria vita con l’impegno politico. I quattro amici sono reduci del Sessantotto e hanno perso ogni certezza, ogni riferimento politico, cercano disperatamente qualcosa di nuovo, ma non lo trovano. Pubblico e privato si confondono in un doloroso quadro che ha poco della commedia ma diventa cinema drammatico, amaro, in definitiva molto autocritico. Le radio libere sono uno sfogo sentimentale e una valvola di scappamento per evitare la follia, le riunioni di improbabili collettivi sono soltanto inutili contenitori di parole, i rapporti con le donne sono sempre fallimentari. 
 

Non è importante stabilire se i giovani del 1978 erano davvero così, oppure no, come parte della critica contemporanea ha cercato di fare. Ho vissuto quella generazione e devo dire di essermi riconosciuto, in parte, nella descrizione del regista, che non parla di tutti i giovani, ma dei molti che hanno avuto un’illusione politica e hanno compiuto studi letterari. Un elite di giovani, in definitiva, perché il cinema di Nanni Moretti non si pone il problema di piacere a tutti, è di per sé cinema elitario. Ecce bombo è permeato di iperrealismo, certo, ma molte situazioni sono realistiche, vita vissuta, tante esperienze sono autobiografiche. Cinema che a tratti rinuncia a fare cinema ma si rinchiude in spazi claustrofobici e logorroici, ma subito dopo ripaga con la bellezza di alcune inquadrature romane che dimostrano il valore di un giovane regista pronto ad affermarsi.
 

Rassegna critica. Paolo Mereghetti (due stelle e mezzo): “Un piccolo cult-movie, il film racconta per brevi scene successive la solitudine e la profonda decadenza della mitologia quotidiana di tutta una generazione (Buttafava) incapace di andare al fondo delle proprie contraddizioni ma anche spaventata dalla propria paura dei sentimenti. Caustico e crudele, il film soffre però di una certa frammentarietà e non riesce ancora a trasformare (come Moretti saprà fare in seguito) la sua vitale aggressività e la sua disillusione da rabbia narcisistica in sofferta scelta morale”. Morando Morandini (tre stelle critica, quattro stelle pubblico): “La struttura del film è fatta di una catena di strisce più o meno brevi, attraverso le quali il discorso fila limpido e omogeneo, inducendo alla risata, al sorriso, alla riflessione”. Pino Farinotti (tre stelle): “Roma, desolata e insolita, è il palcoscenico per la rappresentazione della desolazione giovanile, e per la descrizione di una totale assenza di idee e di alternative che il racconto denuncia”. Il film suscita discussioni e dibattiti sulle principali testate dell’epoca, Panorama ed Espresso su tutti, non può dirsi opera del tutto riuscita per un eccesso di frammentarietà, ma resta un lavoro importante per le cose che dice e i problemi che affronta. Moretti si propone come guida di una società allo sbando, soprattutto come mentore di un mondo giovanile alla ricerca di se stesso dopo le delusioni post sessantottine. Il robivecchi che corre sul lungomare è l’emblema di una generazione allo sbando, incapace persino di andare a veder sorgere il sole dalla parte giusta. Il primo film professionale di Nanni Moretti costa 180 milioni e incassa 2 miliardi. Uno dei rari casi in cui un film impegnato piace più al pubblico che alla critica, grazie ai giovani del 1978 che si riconoscono nei personaggi. 


 
Gordiano Lupi
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