domenica 27 gennaio 2013

Maccheroni (1985)

di Ettore Scola


Regia: Ettore Scola. Soggetto e Sceneggiatura: Ruggero Maccari, Ettore Scola, Furio Scarpelli. Fotografia: Claudio Ragona. Montaggio: Carla Simoncelli. Scenografia: Luciano Ricceri. Costumi: Nanà Cecchi. Trucco: Francesco Freda. Musiche: Armando Trovajoli. Produttori. Luigi e Aurelio De Laurentiis, Franco Committeri. Casa di Produzione: Filmauro. Interpreti: jack Lemmon, Marcello Mastroianni, Daria Nicolodi, Isa Danieli, Maria Luisa Santella, Patrizia Sacchi, Bruno Esposito, Orsetta Gregoretti, Marc Berman, Jean-François Perrier, Giovanna Sanfilippo, Fabio Tenore, Marta Bifano, Aldo De Martino, Clotilde De Spirito, Carlotta Ercolini, Vicenza Gioiosa, Ernesto Mahieux, Giovanni Mauriello, Alfredo Mingione, Daniela Novak, Umberto Principe, Giovanni Riccardi, Corrado Taranto, Franco Angrisano.


Maccheroni non è tra i film memorabili di Ettore Scola, ma se paragonato ai television movie che girano i modesti registi italiani  contemporanei è un vero capolavoro. Scola, Maccari e Scarpelli insegnano come si scrive la commedia all’italiana, un mix di comicità e dolore, passione e dramma, dolcezza e sentimento, sorriso e tristezza. Insomma, la vita. La commedia all’italiana è rappresentazione dell’esistenza, fa sorridere raccontando quel che siamo, non costruendo patetiche storie televisive.


Il film presenta l’insolito incontro di due attori straordinari come Marcello Mastroianni (consuetudine nei film di Scola) e Jack Lemmon (recita in inglese e interpreta un americano) che conferiscono spessore ai personaggi. Il regista racconta l’amicizia tra Robert, un manager americano (Lemmon) e Antonio, un impiegato napoletano (Mastroianni), che risale ai tempi della seconda Guerra Mondiale. L’americano era a Napoli per liberare il paese dalla presenza tedesca e aveva vissuto una breve storia d’amore con Maria (Sanfilippo), sorella di Antonio. Tornato a casa si era dimenticato di tutto, ma Antonio aveva tenuto vivo il ricordo del vecchio amore scrivendo a suo nome lettere ricche di passione. Robert era sempre stato presente nella famiglia napoletana con le fantastiche avventure inventate da Antonio - commediografo dilettante e autore di sceneggiate - anche quando Maria si era sposata e aveva avuto figli e nipoti. L’amicizia tra Antonio e Robert si rinsalda, nonostante uno screzio iniziale, l’americano vive la Napoli dei ricordi, rivede Maria, la sua famiglia, si emoziona pensando alla giovinezza. Nessuno gli chiede soldi, pure se è molto ricco e potrebbe aiutare, ma Antonio è orgoglioso, nobile d’animo, vuole soltanto amicizia. Alla fine Robert salverà il figlio di Antonio dalle mani dei camorristi, staccando un assegno da cinque milioni per rimborsare uno sgarro.


Maccheroni è commedia all’italiana pura, perché il finale è amaro, ma non troppo. Antonio muore d’infarto, ma tutti siedono al tavolino e servono un piatto di pasta al capotavola, sperano che non sia vero, che sia solo una morte apparente, che si alzi dal letto come era accaduto in passato.


Maccheroni è un film sull’amicizia, immutabile nel tempo, capace di rivitalizzarsi se stimolata dal ricordo di momenti vissuti insieme. Scola cita Bergman (Il posto delle fragole) con la sequenza flashback di Jack Lemmon che rivede il suo amore giovanile seduto su una panchina, fotografa Napoli con dovizia di particolari, realizza mirabili piani sequenza con i due attori sul lungomare, indaga la vita dei vicoli di Spaccanapoli, Mergellina, Posillipo, via Caracciolo. Robert trascura il lavoro per compiere un tuffo nel passato, si lascia sedurre dall’amicizia, rischia di perdere il posto di dirigente d’azienda e persino la causa con la moglie che chiede il divorzio. Sceglie di restare a Napoli per aiutare un amico con un figlio in difficoltà e dopo la sua morte improvvisa partecipa alla veglia funebre, sperando che non sia morto ma che si alzi dal letto per mangiare con loro. Scola sfuma sulle immagini di un piatto di maccheroni, i rintocchi della campana indicano le una, ora del possibile risveglio. Non sappiamo se accadrà davvero…


Mastroianni dà vita a un personaggio riuscito di napoletano sognatore, sopporta una modesta realtà da impiegato con velleità artistiche che sfoga nella sceneggiata e nella scrittura popolare. Un uomo che crede nell’amicizia, confida nel figlio e nel futuro, sin troppo credulone e pieno di orgoglio. Lemmon è molto espressivo nella caratterizzazione di un americano alle prese con i ricordi, vinto dalla genuinità di un intero popolo e dall’amore che tutti gli manifestano senza chiedere niente in cambio.  Tra gli attori merita una citazione Daria Nicolodi, in forma smagliante nei panni di una segretaria napoletana, innamorata del suo principale, ma con le idee piuttosto confuse.


Pino Farinotti concede tre stelle: “Attraverso l’antica amicizia, il pragmatico americano riscopre il fascino della magia napoletana e, dopo varie disavventure, arriva persino a sperare nei miracoli. Film intessuto di allegra malinconia”. Soltanto due stelle (ma tre di pubblico) per Morando Morandini: “Nella sua gradevolezza consolatoria è una commedia fiacca, flebile, di scarso spessore, specialmente nell’edizione parlata in italiano, e non bilingue.  Qualche invenzione brillante e finale a sorpresa”. Duetto di bravura”. Paolo Mereghetti è il più caustico. Soltanto una stella e mezzo: “Dalla riflessione amarognola sull’amicizia si passa alla farsa e poi al dramma, con sorpresina finale: Scola lascia spago agli attori e non risparmia i luoghi comuni sulla napoletanità”.
In ogni caso il film è la prima produzione italiana distribuita da una major nelle sale degli Stati Uniti. Armando Trovajoli compone una colonna sonora suggestiva e malinconica, mixando pezzi d’epoca e musica napoletana. Montaggio e fotografia da manuale.


Ettore Scola (1931) è tra i registi della migliore commedia all’italiana, erede anche lui di molte tematiche neorealiste che supera in un discorso filmico moderno e originale. Nasce come sceneggiatore di commedie e debutta alla regia con Se permette parliamo di donne (1964) interpretata da Vittorio Gassman, ma il suo tratto d’autore va ricercato nella commedia sociale che critica il costume e i difetti nazionali. Ne sono esempi film come Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968), Il commissario Pepe (1968) e Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca (1969). Tra i suoi migliori film va citato C’eravamo tanto amati (1974), opera soffusa di malinconica ironia, che attraverso le vite incrociate di tre personaggi innamorati della stesa donna racconta trent’anni di storia italiana, rappresenta il crollo delle ideologie e rende omaggio al cinema italiano. C’eravamo tanto amati va oltre la commedia all’italiana e compone un affresco mirabile che mette al centro il sentimento del tempo che passa analizzando i tanti ideali traditi. Ettore Scola è un regista che difficilmente sbaglia un film e quando esce con una nuova opera ha sempre qualcosa da dire. Sono ottimi anche Brutti, sporchi e cattivi (1976), sgradevole e cinica operazione per presentare i problemi degli immigrati, La terrazza (1980), che segna la fine della commedia all’italiana, e Passione d’amore (1981), insolito film in costume per raccontare una storia di emarginazione. Il capolavoro di Ettore Scola resta Una giornata particolare (1977), una superba interpretazione di Marcello Mastroianni e Sophia Loren in un dramma psicologico consumato durante un breve incontro nel giorno della visita di Hitler a Roma. Sono interessanti alcuni film successivi sulla realtà italiana come La famiglia (1987), racconto di ottant’anni di storia privata, Che ora è (1989), sulla difficoltà di comunicare tra padre e figlio, e Mario, Maria e Mario (1993), storia pubblica e privata ai tempi della fine del partito comunista. Tra i lavori più recenti va citato La cena (1998), pellicola girata in un’unità di tempo e di luogo per raccontare diverse esistenze prese a simbolo della realtà contemporanea. Gente di Roma (2003) è il suo ultimo film, girato in digitale, ma non è all’altezza di tanti lavori precedenti, anche se si sforza di raccontare la società multietnica. Ettore Scola si segnala come regista impegnato e animato da una sincera coscienza civile che realizza cinema da metabolizzare e riflettere per comprendere la nostra storia.

Gordiano Lupi

mercoledì 23 gennaio 2013

Django Unchained (2012)

di Quentin Tarantino


Regia: Quentin Tarantino. Soggetto e Sceneggiatura: Quentin Tarantino. Fotografia: Robert Richardson. Musiche: Mary Ramos. Scenografia: J. Michael Riva. Costumi: Sharen Davis. Trucco: Eba Thorisdottir. Produzione: Reginald Hudlin, Pilar Savone, Stacey Sher, William Paul Clark. Produttori Esecutivi: Bob Weinstein, Harvey Weinstein, Shannon McIntosh, Michael Shamberg, James W. Skotchdopole. Case di Produzione: Columbia Pictures, The Weinstein Company, Super Cool Man Shoe Too, Double Feature Films, Super Cool ManChu Too. Distribuzione: Sony Pictures Italia. Interpreti: Jamie Foxx (Django), Cristoph Waltz (Dr. Schultz), Leonardo Di Caprio (Calvin Candie), Samuel L. Jackson (Stephen), Kerry Washington (Broomhilda), Laura Cayouette (Lara Lee), James Remar (Ace Speck), Don Johnson (Big Daddy), Zoë Bell (Tracker Peg), Walton Goggins (Billy Crash), Jonah Hill (Bag Head), Bruce Dern (Curtis Carrucan), Franco Nero (Amerigo Vassepi), James Russo (Dicky Speck), Tom Savini (Tracker Chaney), Don Stroud (sceriffo Bill Sharp), M.C. Gainey (Big John Brittle), Cooper Huckabee (Lil Ray Brittle), Dennis Cristopher (Leonide Moguy), Quentin Tarantino (Frank), Tom Wopat (maresciallo Gill Tatum), Rex Linn (Tennessee Harry), Amber Tamblyn (cammeo), Nicole Galicia (Sheba). Doppiatori italiani: Pino Insegno (Django), Stefano Benassi (Dr. Schultz), Francesco Pezzulli (Calvin Candie), Massimo Corvo (Stephen), Daniela Calò (Broomhilda), Chiara Colizzi (Lara Lee), Domenico Maugeri (Ace Speck), Mario Cordova (Big Daddy), Andrea Lavagnino (Billy Crash), Simone Crisari (Bag Head), Franco Zucca (Curtis Carrucan), Franco Nero (Amerigo Vassepi), Carlo Valli (Dicky Speck), Dante Biagioni (sceriffo Bill Sharp), Renzo Stacchi (Big John Brittle), Sergio Di Giulio (Leonide Moguy), Franco Mannella (Frank), Dario Oppido (maresciallo Gill Tatum), Maia Orienti (Sheba). Genere: Western. Durata: 165’. USA.


Quentin Tarantino torna a omaggiare il cinema italiano dopo Bastardi senza gloria (2009), ispirato all’omonimo film di Enzo G. Castellari, anche se il soggetto era del tutto diverso. Django Unchained parte dal Django (1966) di Sergio Corbucci e Ruggero Deodato (regista della seconda unità che dirige quasi tutto il secondo tempo), ma sviluppa un discorso originale. Cacciatori di taglie e razzismo ci sono anche nel film di Tarantino, espressi in contesti diversi, mentre non si ripropone la trovata della bara che il pistolero si trascina dietro con una mitragliatrice nascosta. L’omaggio al Django di Corbucci è sottolineato dalla presenza di Franco Nero in un cammeo nelle vesti di un negriero italiano che dialoga con il protagonista Jamie Foxx. Nero: “Come ti chiami?”. Foxx: “Django. Si pronuncia Giango. La D è muta”. Nero: “Lo so”. Come per dire - strizzando l’occhio ai cinefili - che è stato il primo a portare quel nome, quindi deve saperlo per forza. Un’altra citazione esplicita dal Django di Corbucci sono le strade fangose del villaggio dove si svolge l’azione durante le prime sequenze. Infine la musica, perché il tema di Django è il vecchio motivo di Luis Enriquez Bacalov, modificato in salsa moderna, mentre apprezziamo intermezzi musicali curati da Ennio Morricone, con Elisa che canta Ancora qui in italiano. Altre parti della colonna sonora sono tratte da film del passato come Lo chiamavano Trinità, I giorni dell’ira, Città violenta….


Tarantino è un cinefilo, appassionato di spaghetti western e in questa lunga pellicola (165 minuti) - niente affatto noiosa - lo dimostra con particolare evidenza. Il film narra la storia di Django (un convincente Jamie Foxx che non fa rimpiangere la rinuncia di Will Smith), uno schiavo nero che diventa cacciatore di taglie sotto l’abile guida del dottor Schultz, un ex dentista interpretato da un ottimo Christoph Waltz. La seconda parte del film, invece, cambia registro e narra la ricerca della moglie di Django da parte dei due uomini, ormai diventati amici. Altra citazione del cinema western italiano, più sottile, perché Tarantino racconta la ricerca dell’amata come se fosse la storia mitologica di Sigfrido e Brumilde. Chi non ricorda le sceneggiature di film come Il ritorno di Ringo (1965) di Duccio Tessari, ispirate alla mitologia classica? Come gli autori italiani raccontavano l’epopea del vecchio west tenendo presente Omero, così Tarantino ricorre al Cantico dei Nibelunghi. Broomhilda (Kerry Washington) è schiava del perfido negriero Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), ma ancor più terribile di lui è il capo dei servitori neri Stephen (un grandissimo Samuel L. Jackson), che rende la vita dura a Django. La pellicola è scritta con cura, senza buchi di sceneggiatura, vive di grandi colpi di scena e di emozionanti momenti di tensione. Impossibile raccontare la storia per filo e per segno senza sciupare la sorpresa allo spettatore che si vedrà sommergere da sequenze mirabolanti, una vera festa per gli occhi. Django Unchained è un film straordinario sotto tutti i punti di vista: ricostruzione storica, fotografia, scenografia, recitazione, montaggio…Soltanto pretestuose le polemiche razziali sull’uso eccessivo della parola negro (nigger) usata al posto di nero (black), perché il film è antirazzista, sono i bianchi a fare una pessima figura. Tarantino ridicolizza i razzisti con una scena comica ricca di dialoghi trash, al limite del fumettistico, quando un gruppo di proprietari terrieri incappucciati cerca di vendicarsi dei due cacciatori di taglie. La discussione sui cappucci tagliati male che non fanno vedere bene crea una situazione comica per stemperare un crescendo di violenza. La pellicola cita anche il cinema splatter perché il sangue schizza da ogni fotogramma, in maggior quantità che nel vecchio spaghetti western. Non manca anche un accenno al tortur - genere di gran moda - quando Django viene catturato e appeso per i piedi, rischiando di vedersi tagliare gli attributi.
Grande successo di pubblico negli Stati Uniti, il più grande successo di tutti i tempi per Tarantino, ma anche in Italia il film incassa 400.000 euro nel primo giorno di proiezione (17 gennaio 2013). Un successo meritato, comunque, perché siamo in presenza di cinema vero, non di una stupida commedia americana, né di un inutile television movie italiano. Il film è stato girato in California, tra il Melody Ranch di Santa Clarita e Mammoth Lakes, ma anche in Wyoming e a New Orleans (Louisiana). Attendiamo Tarantino alle prese con il prossimo lavoro che dovrebbe completare la trilogia dei tempi moderni: Killer Crow, la storia di un gruppo di soldati di colore che combatte nella Francia del 1944. Non ci deluderà.

Gordiano Lupi

venerdì 18 gennaio 2013

Forbidden Voices (2012)

How to start a revolution with a laptop
di Barbara Miller


Regia: Barbara Miller. Soggetto e Sceneggiatura: Barbara Miller. Produttore Esecutivo: Philip Delaquis. Produttori Associati: Min Li Marti. Stefan Zuber. Reporter: Lucie Morillon. Fotografia: Peter Indergand. Art Director: Matthias Günter. Musica: Marcel Vaid. Montaggio: Andreas Winterstein. Interpreti: Yoani Sánchez (Cuba), Farnaz Seifi (Iran), Zeng Jinyan (Cina). Produzione: Das Kollektiv GmbH (Zurigo). Documentario. Durata: 96’. Versione con sottotitoli in spagnolo. Sito Internet: www.forbiddenvoices.net.

Yoani Sánchez (Cuba)

Forbidden Voices è un ottimo documentario di denuncia sulla repressione e la mancanza di libertà girato con freschezza e originalità dalla regista svizzera Barbara Miller. Abbiamo visto la versione sottotitolata in spagnolo, la sola distribuita, perché il film non ha ancora un’edizione italiana. Peccato, perché Forbidden Voices può essere preso ad esempio per definire un film utile. La regista  (che scrive pure la pellicola) parte dall’analisi della vita quotidiana di tre blogger che vivono in diverse zone del mondo, unite dal comune denominatore della mancanza di libertà. Il film comincia con una frase di Michelle Obama: “Il coraggio è contagioso. Il blog di Yoani Sánchez ha acceso il fuoco su Internet ma il governo lo ha oscurato”.

Zeng Jinyan (Cina)

Barbara Miller racconta la storia di Yoani Sánchez che lotta contro il comunismo cubano, narra le vicissitudini di Farnaz Seifi, costretta all’esilio dal regime iraniano, e la prigionia assurda della cinese Zeng Jinyan, agli arresti domiciliari insieme alla figlia mentre il marito deve scontare tre anni e mezzo di galera. Immagini stupende di Cuba e dell’Avana si alternano a piazze iraniane e parate cinesi, ma non sono mai sequenze - cartolina, la fotografia intensa e la scenografia suggestiva servono a conferire realismo alle storie. Le frasi delle blogger sono spesso scritte nel cielo e nel mare delle città, risaltano come invettive, sono pietre lanciate contro il muro dell’omertà. “Cuba è un’isola che pare toccata dal pensiero monocromatico. Sembra impossibile, ma ciò che per il resto del mondo sarebbe assurdo da noi è verità indiscutibile”, dice Yoani. Barbara Miller documenta alcuni mesi della vita della blogger cubana che comprendono un permesso di uscita negato, le percosse subite dalla polizia, la morte di Zapata Tamayo dopo uno sciopero della fame e le vicissitudini di Guillermo Fariñas, scampato per miracolo alla morte. La regista ha la fortuna (se così possiamo chiamarla) di trovarsi a Cuba mentre accadono momento fondamentali della lotta dissidente ed è capace di filmarli con obiettività e senza retorica. La Miller documenta anche la liberazione dei prigionieri politici grazie alla mediazione della Chiesa cattolica, il successivo esilio in Spagna, la repressione contro le Damas de Blanco, le aggressioni mediatiche del regime che definisce i dissidenti cybermercenari pagati dagli Stati Uniti. Il tono della pellicola è mesto, la musica accompagna le sequenze con andamento lento, le immagini del Cimitero Colón, del lungomare, delle campagne risultano indimenticabili. La vita quotidiana di Yoani si alterna ai momenti cruciali. Vediamo il figlio Teo, il marito Reinaldo (blogger e giornalista espulso da Juventud Rebelde), il cagnolino Chispita, i genitori e la sorella. Alcune scene sono ambientate nella casa dove vive la blogger, tra Piazza della Rivoluzione e i quartieri popolari, ma la regista filma anche le zone più povere della capitale, cadenti solar e case in rovina, corrose da salsedine, distrutte da tornados. Stupenda fotografia di una Cuba reale, lontana anni luce diversa dai documentari patinati girati dai servi sciocchi del regime, dagli occultatori di verità professionisti.

Farnaz Seifi (Iran)

Non c’è solo Cuba nel documentario. Sono altrettanto importanti le testimonianze di Farnaz Seifi (Iran) e Zeng Jinyan (Cina), che vivono due realtà molto più dure di Yoani Sánchez. La rivoluzione iraniana di stampo musulmano ha privato le donne dei diritti civili, riducendole a esseri di nessun valore, sottomesse agli uomini, obbligate a indossare il velo. Farnaz Seifi è una ribelle, nel 2003 apre un blog dove esprime le sue idee, ma viene incarcerata, torturata e infine - nel 2007 - costretta all’esilio. Per lei gli ultimi mesi in Iran sono un vero e proprio calvario, assiste impotente a un infarto del padre, vede la madre in lacrime, infine decide per la fuga. Adesso Farnaz vive in Germania, insieme ad altri profughi, e spera ogni giorno di tornare nella sua Teheran, finalmente libera dalla follia teocratica. La regista filma le proteste di piazza, le immagini strazianti delle ribellioni sedate nel sangue dalla polizia, aggiunge le terribili sequenze di repertorio della morte di Nena, simbolo della rivolta verde.

Fidel e Yoani

La storia di Zeng Jinyan è ancora più toccante e disperata. Parla di una blogger cinese seguita giorno e notte dalla polizia, del marito Hu Jia, imprigionato per aver scritto la verità su un blog indipendente, di una censura feroce che impedisce l’accesso a Internet e i contatti con l’esterno. “I regimi totalitari temono la verità, reagiscono con brutalità”, dice la blogger, che si vede confiscare computer e telefono per aver osato parlare di diritti umani violati e di Aids, temi tabù in Cina. Zeng Jinyan deve restare prigioniera della sua casa con una bambina che cresce e non può uscire, sola, ad attendere che il marito sconti la pena.

Yoani e l'oceano

La differenza che salta agli occhi tra le tre situazioni è quella dell’atteggiamento dei popoli. Cinesi e iraniani soffrono per la mancanza di libertà, tentano di ribellarsi in massa con manifestazioni di piazza, rischiando persino la vita. I cubani no, sembrano un popolo rassegnato e fatalista, annichilito da anni di dittatura, convinto che sia meglio l’opportunismo e il silenzio, scelgono di non occuparsi di politica per non avere problemi. Uno sparuto gruppo di intellettuali, che il governo confina in un ghetto a colpi di diffamazioni, resta solo a lottare. Altra differenza evidente è la diversa ferocia dei regimi, per quanto a Cuba manchi la libertà personale, il governo e la polizia non si sono mai macchiati di atroci crimini come quelli commessi dai regimi iraniani e cinese. 

Lo Stadio Latinoamericano all'Avana

La pellicola è dedicata a tutti i blogger che lottano per costruire un mondo migliore e termina con una suggestiva immagine di Yoani Sánchez di fronte all’oceano, sul muro del Malecón, mentre scrive frasi che parlano di libertà.
Attendiamo con ansia l’edizione italiana.

IL TRAILER DEL FILM


Gordiano Lupi

lunedì 14 gennaio 2013

Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972)

di Lina Wertmüller


Regia: Lina Wertmüller. Soggetto e Sceneggiatura: Lina Wertmüller. Fotografia: Dario Di Palma. Montaggio: Franco Fraticelli. Musiche: Piero Piccioni. Scenografia: Amedeo Fago. Produttori: Romano Cardarelli, Daniele Senatore.  Salvatori. Interpreti: Giancarlo Giannini, Mariangela Melato, Agostina Belli, Turi Ferro, Luigi Diberti, Livia Giampalmo, Elena Fiore, Tuccio Musumeci, Ignazio Pappalardo, Gianfraco Barra. Premi: David di Donatello 1972 e Nastro d’Argento 1973 a Giancarlo Giannini (Miglior Attore). Nastro d’Argento 1973 a Mariangela Melato (Miglior Attrice). 


Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) rappresenta il primo grande successo di Lina Wertmüller che si pone all’attenzione del pubblico con una commedia grottesca e satirica, ambientata nel mondo delle grandi fabbriche, tra operai metalmeccanici, sindacato, assemblee di lavoratori, presa di coscienza femminista e pregiudizi meridionali. La regista proviene da esperienze completamente diverse come Il giornalino di Gian Burrasca televisivo, due film interpretati da Rita Pavone (Rita la zanzara e Non stuzzicate la zanzara), un lavoro d’esordio come I basilischi, vera e propria imitazione del felliniano I vitelloni. Per la prima volta imposta un discorso originale, da commedia grottesca che si pone l’obiettivo di fare satira sociopolitica. La Wertmüller parte dall’analisi della realtà, ma la stravolge secondo i canoni di un modo insolito di fare commedia, almeno per il cinema italiano, che non è farsa ma neppure avanspettacolo. Lo stile della regista può sintetizzarsi nella dicotomia realismo - grottesco, apparentemente contraddittoria ma che ben si presta a definire il suo cinema.


Carmelo detto Mimì (Giannini) è un operaio siciliano che emigra da Catania a Torino per problemi con la mafia, lavora per un’impresa edile che non assicura i dipendenti e se ne liberano con metodi spicci quando subiscono incidenti sul lavoro, infine entra come operaio in una grande industria (la Fiat). Il film racconta la sua presa di coscienza politica, ma soprattutto l’amore adultero per la bella lombarda Fiorella (Melato), oggetto di contestazioni fasciste per i banchetti esposti fuori dalla fabbrica. La regista racconta la mentalità meridionale, la storia della giovane moglie Rosalia (Belli), lasciata a casa ad aspettare, mentre il marito fa il suo comodo a Torino e diventa padre di un figlio avuto da Fiorella. Quando Mimì torna a Catania con la bella conquista torinese e il figlio si rende conto che la moglie ha fatto altrettanto ed è rimasta incinta di un brigadiere (Barra) sposato con cinque figli. Mimì non si comporta secondo le regole del codice d’onore siciliano, è stato al nord, ha cambiato vedute, si considera moderno, ma la ferita d’onore brucia troppo e deve essere vendicata.


Mimì non trova niente di meglio che corteggiare Amalia (Fiore), la bruttissima moglie del brigadiere, e rendere pan per focaccia all’odiato rivale. Mimì mette incinta la moglie del brigadiere come se fosse un compito determinante della sua vita, un impegno inemendabile. Il problema è che la mafia approfitta della sua gelosia per uccidere il brigadiere e far incolpare Mimì, che viene processato e condannato. Scontata la pena (breve, visto il delitto d’onore vigente), Mimì trova ad attenderlo fuori dal carcere otto figli e tre compagne: l’amante torinese, la compagna legittima e la moglie del brigadiere ucciso. Per mantenerle deve lavorare per conto della mafia, fare la cosa che aveva sempre aborrito in vita sua: il galoppino elettorale dei capo bastone. Fiorella - il suo unico vero amore - lo abbandona, perché non riesce a fare quella vita e non capisce un mondo troppo diverso dal suo Nord.


Mimì metallurgico ferito nell’onore ottiene un grande successo di pubblico, lancia Lina Wertmüller come regista capace di fare denuncia sociale ricorrendo alla commedia grottesca, attualizzando la commedia all’italiana, ma anche i due interpreti (Giannini - Melato) che vincono premi importanti. Tra gli attori del cast secondario ricordiamo Turi Ferro nella parte di otto diversi mafiosi, Agostina Belli come giovane moglie in balia dei sensi e Gianfranco Barra, brigadiere ucciso dalla mafia, sposato con una bruttissima Elena Fiore, che ha il coraggio di mostrarsi nuda in una scena divenuta epocale.


Giancarlo Giannini è fantastico nei panni dell’operaio incolto, un meridionale pieno di pregiudizi, comunista senza capire bene che cosa voglia dire, sciupafemmine privo di delicatezza e convinto della superiorità maschile. Mariangela Melato è la donna indipendente, che non cerca marito a ogni cosato, ma pretende l’amore, impegnata politicamente, decisa, determinata, una vera ragazza moderna. Attrice ideale per interpretare il messaggio femminista che la regista vuol trasmettere, oltre a stigmatizzare l’arretratezza della condizione femminile nel meridione d’Italia. Una commedia grottesca, originale ed eccessiva, ma ancora oggi piacevole, che rappresenta lo spaccato realistico di un’epoca e riesce a far pensare con leggerezza. Ottime le musiche di Piero Piccioni, ben fotografate Torino e Catania da Dario Di Palma.


Paolo Mereghetti stronca per principio il cinema di Lina Wertmüller, regola di comportamento poco condivisibile tenuta dal critico nei confronti di gran parte del cinema italiano: “Denuncia civile, satira politico - sindacale all’acqua di rose, spaccato di costume, commedia grottesca: la carne al fuoco è tanta ed è tenuta insieme solo dal gusto per l’eccesso e per la caricatura. Dialoghi urlati, dialetti ridotti a cacofonia incomprensibile, immagini enfatizzate dallo zoom o deformate dal grandangolo: manca vera indignazione o capacità di raccontare l’Italia. Soltanto un stella e mezzo.


Morando Morandini concede tre stelle e registra un successo di pubblico da cinque stelle: “Commedia col turbo, straripante di invenzioni, effetti, effettacci in cui Lina Wertmüller mise  a punto il suo agitato stile grottesco e Giannini il suo personaggio di balordaggine stordita che poi avrebbe ripetuto troppo spesso, in coppia con la duttile Melato e con altere belle e meno brave attrici”. Tullio Kezich afferma: “La metamorfosi di Mimì da sottoccupato del Sud a operaio evoluto del Nord è apparente e nella mobilità dell’aggettivo apparente l’autrice coglie tutto il potenziale comico e drammatico del personaggio”. Tre stelle anche per Pino Farinotti.


Un film che rappresenta un punto di partenza per un nuovo tipo di commedia, un cliché nuovo che avrà il limite di uno sfruttamento eccessivo, ma che serve a raccontare ai nostri figli come eravamo.

Per vedere alcune sequenze:



Gordiano Lupi

domenica 13 gennaio 2013

Film d’amore e d’anarchia (1973)

di Lina Wertmüller


Regia: Lina Wertmüller. Soggetto e Sceneggiatura: Lina Wertmüller. Produttore: Romano Cardarelli. Fotografia. Giuseppe Rotunno. Musiche: Nino Rota e Carlo Savina. Scenografia: Gianni Giovagnoni. Costumi: Enrico Job. Interpreti: Giancarlo Giannini, Mariangela Melato, Lina Polito, Eros Pagni, Pina Cei, Elena Fiore, Giuliana Calandra, Isa Bellini, Isa Danieli, Enrica Bonaccorti, Anna Bonaiuto, Anita Branzanti, Maria Sciacca, Anna Melato, Gea Linchi, Anna Stivala, Josiane Tanzili, Valerio Piaggio, Franca Salerno, Roberto Herlitzka, Anna Maria Dossena, Mario Nandi, Maria Capparelli, Gianfranco Barra, Luigi Antonio Guerra, Lorenzo Piani. Premi: Festival di Cannes 1973 - Palma d’Oro a Giancarlo Giannini (Miglior Interpretazione Maschile).


Film d’amore e d’anarchia reca il lungo sottotitolo: Ovvero “Stamattina alle 10 in via dei Fiori, nella nota casa di tolleranza…”, al tempo una vera e propria moda, marchio di fabbrica per una regista di commedie grottesche e politicamente impegnate come la Wertmüller.


In sintesi la trama. La storia è ambientata nel 1932, in pieno ventennio fascista, con ricchezza di particolari scenografici e dettagli inerenti la vita quotidiana. Il protagonista è Antonio Soffiantini (Giannini), detto Tunin, un incolto contadino lombardo che assiste all’uccisione di un compagno anarchico da parte del carabinieri e decide di andare a Roma ad ammazzare Mussolini. Tunin conosce Salomè (Melato), la prostituta più ricercata e affascinante del bordello gestito da Madame Aida (Cei), amante di un anarchico, che aiuta il contadino a compiere l’attentato. Salomè spaccia Tunin per un cugino, lo ospita nel bordello, va a letto con lui senza chiedere denaro, si affeziona all’uomo, anche se l’amore non fa parte della sua vita. In compenso Tunin si innamora della tripolina (Polito), una giovane prostituta napoletana, la difende dalle offese di un arrogante gerarca fascista (Pagni), si fidanza con lei e insieme sognano il matrimonio. Tunin quando arriva il giorno dell’attentato si sveglia tardi - per colpa delle due prostitute che non vogliono che vada a farsi ammazzare - e si fa prendere da un attacco di follia perché viene meno a un impegno d’onore. Tunin impugna una pistola, scende le scale e si mette a sparare contro una pattuglia di carabinieri che sta compiendo un controllo di ordine pubblico nel bordello di Madame Aida. Grida: “Volevo ammazzare Mussolini!”. L’uomo viene arrestato, picchiato a sangue dalla polizia politica, ucciso a botte in cella, ma la sua morte viene fatta passare per un suicidio con la collaborazione della stampa compiacente.


Lina Wertmüller scrive, sceneggia e dirige un film politico, antifascista, memoria storica di un periodo assurdo della storia italiana, ancora oggi utile e ricco di spunti interessanti. La vita all’interno di una casa di tolleranza è la cosa più riuscita della pellicola, perché la regista realizza un contenitore di dialetti e situazioni, complesso da decifrare, ma realistico. Molto prima di Tinto Brass e del suo Paprika (1991, più spinto sul lato erotico), viene analizzata la vita di un bordello, i rapporti tra donne, le frequentazioni dei clienti, i caratteri delle prostitute. La tematica viene giudicata pericolosa da una censura bigotta e reazionaria e costa al film un assurdo divieto ai minori di anni quattordici. La lunga sequenza del pranzo nel bordello è un piccolo capolavoro. Uno sconvolto Giannini mangia in silenzio mentre prostituite di ogni regione italiana parlano usando il loro dialetto. Giancarlo Giannini è bravissimo a costruire una maschera di mutismo, genuinità, paura, rassegnazione, amore, contenuta nelle espressioni immutabili di Tunin. Vince con pieno merito la Palma d’Oro a Cannes. Mariangela Melato è una credibile prostituta bolognese (si doppia da sola in un dialetto che non è il suo), grande attrice capace di esprimere sensualità, determinazione, dolcezza e passione. Salomè è la vera donna forte della storia, prende decisioni, difende, lotta e - solo quando non resta altro da fare - grida, accusa, si dispera. Lina Polito recita in napoletano la parte della Tripolina, prostituta dolce e innamorata che vorrebbe andarsene con il suo uomo, mentre cerca di difenderlo da una storia più grande di lui. Eros Pagni (doppiato) è la macchietta del fascista toscano, sciupafemmine, frequentatore di casini, arrogante, stupido, innamorato del duce, picchiatore di socialisti. Brava anche Pina Cei nei panni della rigida e interessata maïtresse. Enrica Bonaccorti, giovanissima, è una delle prostitute, come Anna Melato (sorella di Mariangela), che ci delizia con un paio di intermezzi musicali. Nel cast apprezziamo pure Anna Bonaiuto, un’altra prostituta.

Locandina inglese

Film d’amore e d’anarchia ci porta in pieno periodo fascista, la regista ambienta con grande capacità la storia in una Roma degli anni Trenta, tra vicoli angusti e spaccati d’epoca, ricostruisce il rapporto tra gli italiani e le case di tolleranza, raccontando una grottesca storia d’amore dai risvolti drammatici. Commedia all’italiana, in fondo, ma corretta con la regola Wertmüller, composta da un mix di originalità, satira di costume, femminismo e messaggio politico. Formidabile la colonna sonora di Carlo Savina con pezzi d’epoca firmati Nino Rota. Paolo Mereghetti non è entusiasta, ma non ama il cinema della Wertmüller. Due stelle: “Storia di una presa di coscienza annacquata (come sempre nei film della regista) da troppi cedimenti all’istrionismo degli attori e da un sguaiataggine che qui appare solo un po’ più controllata. Comunque è uno tra i migliori film della Wertmüller che firma anche la sceneggiatura”. Conferma le due stelle Morando Morandini (tre di pubblico): “Ghignante quadro di costume. È un’opera ideologicamente equivoca perché il suo contenuto evidente (l’antifascismo) è in contraddizione con il suo contenuto latente (una mescolanza di sentimentalismo e volgarità). Come la bricconata conclusiva mostra, la sua mancanza di rigore rasenta l’isterismo. Attori ineccepibili”. Tre stelle per Pino Farinotti, che ristabilisce il giusto senso delle cose, non confonde tra cinema e ideologia, ma giudica secondo il reale valore un storia ben raccontata.

La locandina del lavoro teatrale

Il film è stato sceneggiato per il teatro dalla regista, interpretato da Elio (del gruppo Elio e le Storie Tese) e Giuliana De Sio per i due ruoli principali. Tra le canzoni più suggestive che ascoltiamo durante la pellicola, frutto di una ricerca nella tradizione popolare anarchica, ricordiamo Canzone arrabbiata (Nino Rota), cantata da Anna Melato e già sentita in Fantasmi a Roma (1961). Anna Melato, sorella di Mariangela, discreta attrice e buona cantante, interpreta anche Antonio Soffiantini detto Tunin, mentre Ninna nanna e Canzone appassionata sono cantate da Isa Danieli.

Lina Wertmüller

Due parole sulla regista. Lina Wertmüller (Roma, 1928) è lo pseudonimo di Arcangela Wertmüller von Elgg, comincia dal teatro con Garinei e Giovannini, entra nel cinema nel 1953 come assistente di Grottini (E Napoli canta) e subito dopo aiuto regista per Fellini ne La dolce vita e Otto e mezzo. Regista e sceneggiatrice radiofonica, ma anche regista televisiva (Canzonissima). Il suo primo film è I basilischi (1963), “satirico e grottesco, sulla falsariga dei Vitelloni”, secondo Roberto Poppi. A parte lavori commerciali come il film a episodi Questa volta parliamo di uomini (1965), Rita la zanzara (1965) e Non stuzzicate la zanzara (1966), ottiene il primo grande successo con Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), che bissa con Film d’amore e d’anarchia (1973). La sua cifra stilistica è una comicità grottesca condita di messaggi politici, satira sociale, femminismo e tematiche dissacranti. Un suo successo televisivo è Il giornalino di Gian Burrasca con Rita Pavone (1965) che tutti noi ragazzi degli anni Sessanta abbiamo visto. Inventa la coppia comica Giannini - Melato, con cui realizza alcune pellicole indimenticabili, anche se la migliore resta Travolti da un insolito destino nel’azzurro mare d’agosto (1974), con lo scontro borghesia - proletariato che si stempera in un’isola deserta e diventa persino amore. Altri titoli: Tutto a posto niente in ordine (1974), Pasqualino Settebellezze (1975), La fine nel mondo nel nostro solito letto in una notte di pioggia (1978), Fatto di sangue tra due uomini per causa di una vedova (1978), Notte d’estate con profilo greco, occhi a mandorla e odore di basilico (1989) e Io speriamo che me la cavo (1992), interpretato da Paolo Villaggio. Lina Wertmüller è sempre attiva per la televisione (Mannaggia alla miseria, 2009, è il suo lavoro più recente), anche se il suo ultimo film per il cinema (Peperoni ripieni e pesci in faccia, 2004), nonostante abbia tra gli interpreti Sophia Loren, è stato poco distribuito e l’hanno visto in pochi. Un flop precedente è l’idea di riproporre la coppia Giannini - Melato interpretata da Solenghi e Piovetti (non è proprio la stessa cosa) in un deludente Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica (1996). David di Donatello alla carriera nel 2010. Meritato, per originalità e impegno.

Per vedere alcune sequenze


Il monologo fascista di Eros Pagni e la risposta di Giannini:
"E' la miseria signor comandante!"


Gordiano Lupi

venerdì 11 gennaio 2013

Per ricordare Mariangela Melato

Mariangela Melato (Milano, 19 settembre 1941 - Roma, 11 gennaio 2013), un'insostituibile interprete della commedia all'italiana ci lascia. Una grande perdita per il cinema, ma soprattutto per noi che l'abbiamo amata, che andavamo a vedere un film solo perchè lei faceva parte del cast, anche se eravamo adolescenti e non capivamo niente di opere importanti come Attenti al buffone o Todo modo. Abbiamo rivisto una sua memorabile interpretazione. Vogliamo ricordarla parlando di un suo film, simbolico mazzo di fiori, rose rosse che nel buio della sala affidiamo allo stupore dei suoi occhi.  


La poliziotta
di Steno (1974)

Regia: Steno. Soggetto: Nicola Badalucco e Giuseppe Catalano. Sceneggiatura: Luciano Vincenzoni e Sergio Donati. Musica: Gianni Ferrio. Aiuto regista: Enrico Vanzina. Interpreti: Mariangela Melato, Orazio Orlando, Renato Pozzetto, Alberto Lionello, Mario Carotenuto, Alvaro Vitali, Gigi Ballista, Armando Brancia, Renato Scarpa, Gianfranco Barra e Umberto Smaila.


La poliziotta (1974) è una commedia diretta da Steno e interpretata da un’ottima Mariangela Melato che fa da precursore a una serie di sequel apocrifi girati da Michele Massimo Tarantini con protagonista Edwige Fenech. Il film di Steno è una commedia di costume ancora di grande attualità, femminista, polemica nei confronti della politica e delle amministrazioni corrotte, capace di puntare il dito accusatore sugli industriali privi di scrupoli che avvelenano l’ambiente con scarichi illeciti. Gli elementi erotici sono limitati a un tentativo di approccio tra Alberto Lionello e Mariangela Melato, durante il quale la bella attrice milanese mostra le lunghe gambe fasciate da calze autoreggenti.


Un buon film che racconta la voglia di non essere più trattata da donna oggetto da parte di Gianna Abbastanzi (Melato), vessata da un fidanzato maschilista (Pozzetto) e da un datore di lavoro dalle mani lunghe (Ballista). Gianna diventa vigile urbano e indossa i panni di un’eroina pronta a difendere tutti dai soprusi e a scoprire magagne e corruzione. Gianna si trova a lottare contro i politici e gli imprenditori che vogliono metterla a tacere con la complicità del sindaco e del capo della polizia (Carotenuto). Resta solo lei e un coraggioso giovane magistrato innamorato (Orlando) a lottare contro i mulini a vento. Tra l’altro Gianna è invaghita della persona sbagliata, un politico corrotto (Lionello) che un giorno la invita a casa sua e cerca di possederla in cambio del suo silenzio. Si tratta della parte più erotica del film, ma la sensualità di Mariangela Melato è mitigata dalla comicità. Il finale è amaro, perché pretore e poliziotta decidono di continuare da soli la lotta contro i poteri forti, ma si ritrovano a vivere felici e contenti in un’isola a sud della Sicilia.


Il film è molto riuscito, fonde la satira di costume alla commedia di carattere e conta su interpretazioni eccellenti, prime tra tutte quella di una Mariangela Melato perfetta nel ruolo da Giovanna D’Arco idealista. Non sono da meno i comprimari. Renato Pozzetto pare improvvisare le battute da quanto sono spontanee, Alberto Lionello è un dandy irresistibile, Orazio Orlando un buon pretore innamorato, Gianfranco Barra un aiutante dalla comicità spontanea, Alvaro Vitali potrebbe fare di più se non fosse doppiato, Mario Carotenuto è un sornione superiore corrotto e Umberto Smaila un arrogante figlio di papà. Steno crea una commedia interessante e compie una satira graffiante per criticare volgarità e corruzione.


Il successo de La poliziotta scatena i finti sequel della commedia sexy che hanno meno pretese e sono dichiaratamente comici. Edwige Fenech afferma: “Il mio film non va assolutamente considerato il seguito de La poliziotta con Mariangela Melato. Quel film aveva intenti sociali che qui mancano del tutto. La Melato era una donna che aveva problemi con la società, io invece sono una poliziotta sul piano comico. Ne faccio di tutti i colori, sbaglio tutto, provoco un macello, ma alla fine colpisco il cattivo. Questo è il primo film comico alla Harold Lloyd con una protagonista femminile. Recito vestitissima e la comicità è più nel dialogo che nelle situazioni. Mi è stato chiesto di recitare, non di spogliarmi, in definitiva. Segno questo della mia evidente evoluzione” (da Michele Giordano “La commedia erotica italiana” - Gremese, 2002). Il paragone tra La poliziotta fa carriera (1976) di Michele Massimo Tarantini e La poliziotta di Steno non va neppure fatto, perché sono due lavori troppo diversi. La poliziotta è una parodia impegnata, al femminile, dei poliziotteschi che proprio Steno ha lanciato con La polizia ringrazia (1972) e si propone di compiere un discorso sociale. Tarantini con La poliziotta fa carriera vuole soltanto far sorridere usando i meccanismi della farsa e della pochade. La poliziotta interpretata da Edwige Fenech prosegue con La poliziotta della squadra buon costume (1979) e La poliziotta a New York (1981), sempre di Michele Massimo Tarantini. 


La sequenza della mano morta sull'autobus:


Gordiano Lupi

lunedì 7 gennaio 2013

Bellezze in bicicletta (1951)

di Carlo Campogalliani


Regia: Carlo Campogalliani. Soggetto e Sceneggiatura: Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Mario Amendola, Carlo Campogalliani. Fotografia: Mario Montuori e Fernando Risi. Montaggio: Fernando Tropea. Scenografia: Alfredo Montori. Musiche: Amedeo Escobar. Produttore: Alessandro Di Paolo. Casa di Produzione e Distribuzione: Edic. Interpreti: Silvana Pampanini, Delia Scala, Franca Marzi (doppiata da Tina Lattanzi), Peppino De Filippo, Renato Rascel, Aroldo Tieri, Virgilio Riento, Renato Valente, Carlo Ninchi, Carlo Croccolo, Luigi Pavese, Arnoldo Foà, Nerio Bernardi, Nico Pepe, Dante Maggio, Carlo Romano, Elvio Calderoni, Oscar Andriani, Mara Morgan, Dino Valdi, Amedeo Trilli, Domenico Serra, Lita Perez, Amina Pirani Maggi, Totò Mignone, Vittorio Duse, Ignazio Balsamo. 


Carlo Campogalliani (1885 - 1974) è un regista storico del cinema italiano, figlio di girovaghi, autodidatta, prima scenografo, poi attore di teatro. Comincia a occuparsi di cinema nel 1909, come interprete di Re Lear di Giuseppe De Liguoro. Regista popolare come pochi, frequenta i generi di maggior successo del periodo muto, soprattutto avventuroso e peplum con il personaggio di Maciste. Letizia Quaranta è la sua protagonista prediletta, finisce per diventare sua moglie, compagnia sul set e nella vita. Lavora in Francia, Sudamerica, Germania, ma resta attivo in Italia anche dopo l’avvento del sonoro, dirigendo anche due film interpretati da Ettore Petrolini. Il suo cinema del dopoguerra segue i gusti del pubblico di bocca buona, frequenta il neorealismo rosa, anticipa il musicarello, torna al mitologico con i vecchi Maciste e Ursus. Attivo fino al 1961, muore nel 1974, a Roma, dopo aver attraversato tanti periodi del cinema italiano. (Per approfondire: Roberto Poppi - I Registi Italiani - Gremese).


Bellezze in bicicletta (1951) è una commedia sentimentale di grande successo popolare, seguita da Bellezze in motoscooter (1952), una sorta di sequel per sfruttare il fenomeno commerciale. Il regista firma la sua opera più nota del dopoguerra alla veneranda età di 66 anni, da consumato autore di melodrammi e storie romantiche. La trama si sviluppa attorno alle vicissitudini di due ballerine squattrinate come Delia Scala e Silvana Pampanini (recitano con i veri nomi come se interpretassero loro stesse) che da Milano si recano a Bologna per cercare di essere scritturate da Totò. Un blocco stradale interrompe il viaggio, l’intraprendente e ricco Giulio (Valente) invita le due ragazze a salire sulla sua auto di grossa cilindrata. Le due ragazze accettano il passaggio, ma Giulio, invaghito di Silvana, tenta di baciarla, provocandone la reazione negativa e la decisione di scendere dall’auto. Le ragazze finiscono in una casa di campagna, credono di avere a che fare con un malvivente, e nottetempo scappano per raggiungere Totò. Altro malinteso: Totò non è lui, ma un mistificatore (Valdi), le ragazze fuggono di nuovo, vestite da ballerine, e vengono nascoste in una caserma da uno sciocco soldato (Croccolo).


A un certo punto Delia e Silvana prendono a nolo due biciclette e proseguono il viaggio alla volta di Bologna intonando la famosa canzone Bellezze in bicicletta. Giulio le raggiunge ancora una volta, fa pace con loro, le invita a cena e le sottrae dalle grinfie di un imbranato meccanico (Rascel) che smonta pezzo per pezzo le biciclette. Aroldo (Tieri), geloso fidanzato di Delia, convinto che Giulio stia per farlo cornuto, fa a botte con il rivale, ma quando comprende la situazione diventa suo amico. Tutto finisce con una corsa in bicicletta organizzata dal padre di Giulio (Romano), una sorta di tappa del Giro d’Italia al femminile, da Bologna a Milano, che le due ragazze vincono e finiscono per sposare i rispettivi fidanzati.


Il film è da ascrivere al filone del neorealismo rosa, va preso per quel che è, senza pretese da commedia all’italiana, ancora lontana da venire. I personaggi sono macchiette stereotipate, mentre le inquadrature dell’esperto Campogalliani cercano di evitare immagini di macerie e distruzione. Una fotografia in bianco e nero da cartolina ritrae un’Italia che sta ripartendo, dove tutto va bene, popolata da giovanotti ricchi che girano su auto costose e da ragazzine romantiche che pensano solo al matrimonio. Sono ottime le ambientazioni cittadine, le sequenze nelle campagne bolognesi e le scene al Giro d’Italia, con la gente accalcata ai bordi delle strade per incitare i campioni. Le parti comiche sono ben fatte, anche perché interpretate da attori del calibro di Peppino De Filippo, Carlo Croccolo, Renato Rascel, Dante Maggio, Aroldo Tieri e Arnoldo Foà. Divertente la scena che si svolge in una presunta casa stregata dove due ladri imbranati come De Filippo e Maggio finiscono per scappare impauriti dalle presenze di Pampanini e Scala. Grande Renato Rascel come figlio di un meccanico che ne combina di tutti i colori smontando prima le biciclette di Delia e Silvana e subito dopo il motore dell’auto di Giulio.


Si tratta di un film a episodi mascherato, un contenitore di sketch, comicità da avanspettacolo firmata dalla coppia Metz - Marchesi e da un giovane Amendola. La pellicola è briosa, elegante, tiene desta l’attenzione dello spettatore nonostante una trama irrilevante, grazie alla comicità e alle grazie discinte di due soubrette popolari come Delia Scala e Silvana Pampanini. L’esperto Campogalliani, inoltre, anticipa la commedia balneare e sfrutta l’escamotage della gara ciclistica femminile per mostrare un po’ di gambe a un pubblico non troppo abituato a simili visioni. Bellezze in bicicletta piace ancora oggi, non risulta invecchiato, proprio per la sua ingenuità di fondo, per l’irreale ottimismo di cui è permeato, per quel suo essere una pellicola fuori dal tempo e dalla storia. Il motivetto della colonna sonora di Amedeo Escobar è un successo epocale che sarà cantato per anni da tutti gli italiani. Tutti noi, nati verso la fine degli anni Cinquanta, abbiamo sentito la madre o la nonna intonare: “Ma dove vai bellezza in bicicletta?”.
Riportiamo alcuni giudizi critici.


E. Fecchi, da Intermezzo (N. 5, 15 marzo 1951): “Se tutto il film si fosse mantenuto sullo stesso ritmo del primo tempo, sarebbe stato un piccolo capolavoro. Ci sono un brio e una ricerca intelligente di gag che non abbiamo riscontrato in altre pellicole; c’è una logica, il che, anche per un film brillante è indubbiamente un pregio. Ci sono due nostre giovani attrici che hanno dato veramente prova di maturità (...). Nel secondo tempo c’è l’infelice episodio di Maggio e Peppino De Filippo, che avrebbe dovuto essere sforbiciato senza pietà”. Non condividiamo l’opinione sferzante sulla scena comica di De Filippo - Maggio, fresca e piena di brio, così come crediamo che il livello dei due segmenti di pellicola non sia disarmonico. Segnalazioni cinematografiche (vol. 29, 1951): “Il lavoro non ha pretese artistiche, ma, condotto con brio, è animato dalla recitazione di valenti artisti della rivista e del teatro comico”.


Pino Farinotti concede tre stelle senza motivare. Morando Morandini due stelle di critica e tre di pubblico: “Senza pretese, ma brioso. Interessante documento di un’epoca che sembra lontanissima”. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo) è il meno entusiasta: “Commediola all’acqua di rose con intermezzi canori della Pampanini sui temi tipici dell’Italia povera, elogio della bicicletta e bisogno della dote su tutti”. 

Per vedere alcune sequenze:


La popolare canzone


Dino Valdi imita Totò

Gordiano Lupi