venerdì 28 febbraio 2014

Malizia erotica

di José Ramón Larraz (1979)


Regia: José Ramón Larraz. Soggetto e Sceneggiatura: Sergio Garrone. Fotografia: Roberto Girometti. Musica: Ubaldo Continiello. Scenografia: Franco Bottari. Interpreti: Gabriele Tinti, Laura Gemser, Barbara Rey, Mila Stanic, José Sazatornil, Angel Herrailz, Alfred Lucchetti, Daniele Vargas, Amparo Moreno, Jaime Mir Ferri.  


Malizia erotica ha come titolo originale spagnolo il più attinente ma poco intrigante El periscopio. Laura Gemser è la mattatrice della pellicola, impegnata in un ruolo erotico insieme al marito Gabriele Tinti, Barbara Rey, Daniele Vargas e Mila Stanic. Tanto per cambiare si tratta di una storia di lesbiche, situazione erotica che vede spesso coinvolta la Gemser, sempre brava e credibile in parti torbide e malsane. Troviamo un adolescente in un’ipocrita famiglia borghese che invece di studiare compra un periscopio per spiare le vicine lesbiche (Gemser e Rey) mentre fanno l’amore. Le donne sono due infermiere che vivono insieme e instaurano un morboso rapporto erotico. Il ragazzino scopre il sesso spiandole con il periscopio e alla fine abbandona il mondo dell’infanzia prendendo parte ai torbidi giochi amorosi. Il finale mostra come le due donne riescono a far scoprire le gioie del sesso a un adolescente che non ha più bisogno del periscopio, ma preferisce toccare le gambe delle compagne di scuola. Le due lesbiche si vendicano della madre del ragazzo che le trattava con supponenza, rubandole con l’inganno una pelliccia di visone acquistata grazie ai soldi dell’amante. 


Il film è poco visto ma va riscoperto, magari ricorrendo a una vecchia VHS edita da Nocturno un po’ di tempo fa. Ne vale la pena perché il tasso di malizia erotica e la sconvolgente bellezza di Laura Gemser e di Barbara Rey lo meritano. Da segnalare la presenza di numerosi (e fastidiosi) inserti porno che non hanno niente a che vedere con il film e che sono stati messi nella pellicola all’insaputa delle attrici. Si nota lo stacco deciso e la diversa fotografia in alcune scene che passano improvvisamente dal soft all’hard. Laura Gemser è stupenda in un paio di spogliarelli che la mostrano in biancheria intima bianca e lunghe calze sorrette da giarrettiere provocanti. La sua pelle ambrata è esaltata dal contrasto di colore. I rapporti lesbici tra le infermiere sono il sale del film: la Gemser bacia in bocca la Rey con naturalezza, lecca la pelle bianchissima della compagna, morde i capezzoli e infine perlustra l’interno delle cosce in una sequenza ad alta gradazione erotica. 
 

José Ramón Larraz non è un esperto di commedia sexy, ma è un buon regista di horror morboso che contamina con erotismo esplicito. L’erotismo del film è spezzato da alcune parti comiche e da brevi momenti di critica sociale contro il perbenismo piccolo borghese. La famiglia del ragazzo è un esempio eclatante di vizi privati e pubbliche virtù. Il padre frequenta un parrucchiere omosessuale e diventa cieco a forza di assumere ormoni per arrestare la caduta dei capelli. La madre critica il rapporto saffico delle infermiere ma intanto frequenta un ricco amante per comprarsi la pelliccia di visone. 


La casa editrice per cui lavora il padre del ragazzo ritira dal mercato un libro, perché ci sono troppe scene di sesso inadatte a un paese che per anni è stato il difensore della chiesa cattolica e della moralità. “Combattiamo contro la valanga lasciva che invade il nostro paese”, dice l’editore. Larraz punta il dito accusatore sul finto moralismo: un partecipante alla riunione afferma di essere contento che si vedano tante donne nude sulle riviste ma viene subito zittito. Il ragazzino e il suo periscopio sono l’occhio dello spettatore che scruta da un metaforico buco della chiave. Laura Gemser in completo da notte di colore giallo vivo è uno spettacolo mentre si masturba e il ragazzino fa altrettanto al piano di sotto. Una bella parte onirica mostra i sogni del ragazzo con le due infermiere che fanno l’amore sul letto in una totale confusione di corpi. Alla fine del sogno il ragazzo si sente male e la madre è così preoccupata da chiamare Laura Gemser per curarlo. 


La bella indonesiana comprende che si tratta di “incerti dell’adolescenza” e di “polluzioni mancate”. Provvede senza esitazioni a rimettere in sesto l’ammalato. Pure qui c’è un inserto porno che rende esplicita la masturbazione praticata dall’infermiera, ma la scena girata da Larraz è di per sé molto spinta. La Gemser scopre il periscopio e denuncia i fatti al padre che rimprovera suo figlio. La mamma incolpa la relazione saffica delle due “svergognate”, afferma che lei non ha niente da nascondere, pure se poi il giorno dopo compra la pelliccia con i soldi dell’amante. Il ragazzino viene circuito da Barbara Rey che lo fa ubriacare e se lo porta a letto. 


Ottimo anche l’inserimento di Laura Gemser tra i due amanti, con un nuovo sensuale spogliarello davanti al giovane che la guarda estasiato e la divora con gli occhi. Questa parte erotica è ben fatta e la Gemser vestita in biancheria intima di colore bianco fa una gran figura. Alla fine le due donne si scopano il ragazzino e lo fanno diventare uomo. La vendetta delle infermiere nei confronti della mamma è completa quando si prendono la pelliccia di visone  che lei non può reclamare. La donna aveva detto al marito di aver trovato un biglietto del banco dei pegni: solo in quel modo poteva portare a casa una pelliccia comprata con i soldi dell’amante. José Ramón Larraz firma una buona pellicola erotica che si avvale della notevole interpretazione di due bellezze complementari come Laura Gemser e Barbara Rey. Le affinità autorali tra Larraz e Joe D’Amato trovano consacrazione nella scelta di un’attrice simbolo del cinema di Massaccesi e della sexploitation italiana.

venerdì 14 febbraio 2014

Vamos a matar compañeros (1970)

di Sergio Corbucci



Regia. Sergio Corbucci. Soggetto: Sergio Corbucci. Sceneggiatura. Sergio Corbucci, Massimo De Rita, Fritz Ebert, Arduino Maiuri. Fotografia. Alejandro Ulloa. Montaggio: Eugenio Alabiso. Musiche: Ennio Morricone. Esecuzione: Bruno Nicolai. Scenografia: Adolfo Cofiño. Costumi: Jürgen Henze. Trucco: Giuseppe Capogrosso. Produttore: Antonio Morelli. Case di Produzione: Tritone Cinematografica, Terra-Filmkunst, Atlantida Films. Distribuzione: Titanus. Paesi Produzione: Italia, Germania Ovest, Spagna. Interpreti: Franco Nero (Yodlaf Peterson), Tomas Milian (El Vasco), Fernando Rey (Professor Xantos), Jack Palance (John), Iris Berben (Lola), José Bodalo (Generale Mongo), Eduardo Fajardo (colonnello), Karin Schubert (Zaira), Gino Pernice (Tourneur), Alvaro De Luna (pistolero), Lorenzo robledo (uomo che balla con Zaira), Gérad Tichy (luogotenente).


Vamos a matar compañeros (1970) è un tortilla-western rivoluzionario diretto da Sergio Corbucci, considerato uno specialista dopo il successo di Django (1966) interpretato da Franco Nero. La produzione è italo-spagnola, ma danno una mano anche i tedeschi; nel cast ci sono Tomas Milian, Franco Nero, Fernando Rey, Jack Palance, Francisco Bodalo, Iris Berben, Karin Schubert ed Eduardo Fajardo. Siamo nel Messico rivoluzionario diviso tra i seguaci di Mongo (Bodalo) e dell’idealista Xantos (Rey), prigioniero degli americani. La trama vede uniti Yod, un mercenario mercante d’armi detto Lo Svedese (Nero), ed El Vasco (Milian), uomo del generale Mongo, per liberare il professor Xantos. Lo scopo iniziale non è molto nobile, perché i due vogliono mettere le mani sulla combinazione della cassaforte che conterrebbe un cospicuo tesoro, ma alla fine si convincono della bontà della causa rivoluzionaria. 

Il film è costruito con la tecnica del flashback durante il duello finale tra Tomas Milian e Franco Nero. Nei ricordi dei personaggi si sviluppa la storia con il lustrascarpe Milian, detto El Vasco per via del cappello nero (in spagnolo “basco” si scrive “vasco” e si pronuncia “basco”), che dopo aver ucciso un soldato del generale Diaz viene reclutato come luogotenente dal generale Mongo. Il personaggio di Tomas Milian è ben caratterizzato, pare una sorta di Che Guevara ignorante, sempre a metà tra il buono e il cattivo, che alla fine sceglie la via del bene. El Vasco è un cialtrone del Messico, stile Monnezza, dal buffo modo di parlare italo-cubano (la vera voce di Milian), con un carattere rissoso e i modi rozzi da uomo privo di cultura.  Franco Nero invece è un killer damerino, colto e raffinato, veste abiti eleganti, è svedese ma pare un lord inglese con paglietta, ombrello, giacca e cravatta. Milian lo apostrofa sin dal primo incontro come “pinguino” e così fa per tutto il film. Tanto per sottolineare la differenza tra i due personaggi, quando giocano alla roulette e il croupier dice: “Rien va plus”, Milian chiede: “Che cazzo ha detto?”. Franco Nero partecipa alle minacce successive per vincere con la forza ma lo fa con altro stile. Franco Nero è Lo Svedese, un mercenario senza scrupoli che vende armi al generale Mongo, pure se sa che si tratta di un brigante. Il vero rivoluzionario è Xantos, un puro idealista, ma quando gli studenti chiedono allo Svedese di passare dalla loro parte, lui risponde che sta solo con chi paga di più. Lo Svedese è uomo di modi fini, ma è un pistolero spietato che non esita a far fuori nemici e a colpire chi si mette sul suo cammino. Notevole la scena che vede Franco Nero seppellito sino al collo dagli uomini di Milian e solo l’arrivo di Mongo lo salva dalla carica dei cavalli. Mongo è un bandito che approfitta della rivoluzione per fare quattrini, incarica El Vasco e Lo Svedese di liberare Xantos per recuperare la chiave di una cassaforte che contiene un tesoro. I due uomini diffidano l’uno dell’altro e non si stanno per niente simpatici, però accettano l’incarico. Il film si avvale di una stupenda fotografia e lo scenario spagnolo che fa da sfondo per le lunghe cavalcate dei desperados pare davvero il Messico. 


Entra in scena pure il cattivo Jack Palance, un tipo sinistro il cui migliore amico è un falcone e che ha un conto in sospeso con Lo Svedese. Ha perso la mano destra per colpa del pistolero che gli ha giocato un brutto tiro a Cuba. Una parte interessante la recita pure la bella Lola (Iris Berben), a lungo contesa dai due uomini, ma che alla fine opta per El Vasco. Karin Schubert invece è l’immancabile ballerina del saloon che conosce bene Lo Svedese, ma che nell’occasione se la fa con El Vasco e lo spompa a dovere. La Schubert - doppiata niente meno che da Laura Betti - partecipa alla liberazione di Xantos insieme a un gruppo di mignotte. La pellicola scorre tra situazioni che coinvolgono i due rivali e lo spettatore è portato a parteggiare per l’uno o per l’altro. Franco Nero scappa con il locomotore di un treno e sgancia Tomas Milian attaccato al resto delle carrozze, ma incontra il cattivo Jack Palance che lo fa malmenare dai suoi e lo lascia appeso per il collo con i piedi sopra un barile. Lo libera El Vasco dopo averlo preso un po’ in giro. Quando i due si ricongiungono riescono a far scappare il rivoluzionario Xantos da Fort Yuma, ma ancora una volta Lo Svedese gioca un brutto scherzo a El Vasco e lo lascia nelle mani di Jack Palance. Milian viene torturato dagli uomini del bandito e si ritrova una talpa sulla pancia che potrebbe scavare una galleria nel suo corpo. Per fortuna Xantos e Lo Svedese decidono di liberarlo, mentre Milian grida: “Non me ne frega un cazzo di Mongo! Viva Xantos! Pinguino… li mortacci tua!”. Certo che l’ultima esclamazione è poco messicana, ma è importante perché precorre l’epoca del Monnezza. 


Per far passare il confine al professor Xantos sotto gli occhi dell’esercito messicano, Milian e Nero si fingono frati del convento di San Bernardino con una bara da trasportare. “Se ci beccano succede un casino e facciamo la fine di San Bernardino”, dice Milian che mostra una certa passione per la recitazione in rima. Jack Palance li smaschera ma i nostri eroi la fanno franca a suon di mitragliatore, pure se Xantos non spara perché è contro la violenza. “Lottando per un giusto ideale si può vincere anche senza violenza”, dice. Una volta fuori pericolo, per placare i morsi della fame i tre uomini si fanno arrosto il falcone di Palance e Milian commenta che “quell’uccello sarà stato anche intelligente, però sa di merda”. E poi rincara verso Xantos che si gingilla con delle tartarughe (che saranno utili per ritrovare il professore nelle mani di Mongo): “Ma vaffanculo tu e le tue tartarughe!”. Negli elementi di fondo di questo messicano è già presente il personaggio di Monnezza, che si rivela ancora di più quando El Vasco dice che l’onore non ce l’ha, quindi può seguire Xantos che si è andato a cacciare nei guai. Infatti l’idealista rivoluzionario si consegna a Mongo per salvare i suoi uomini, ma solo l’intervento di Milian e Nero risolve la situazione. 

Alla fine Mongo viene catturato e ucciso, pure se Xantos lo voleva lasciare libero, ma è il bandito a cercare la sua fine con un gesto da vigliacco. La sorpresa finale è che nella tanto agognata cassaforte non c’è nessun tesoro materiale ma solo i simboli della terra, del grano e del lavoro. “Quella è la nostra ricchezza”, dice Xantos. El Vasco e Lola si sposano da soli in un buffo matrimonio dove Milian dice: “Va bene, ti sposo, va’…” e nelle ultime scene si capisce il motivo del duello tra i nostri eroi. Lo Svedese ruba una statua d’oro raffigurante San Bernardino perché non è abituato ad “andarsene a mani vuote”. Il duello si risolve con i due pistoleri che si alleano ancora una volta contro la banda di Jack Palance, solo che Xantos muore ucciso dal perfido bandito.


Il professore idealista minaccia il pistolero con un fucile scarico, ma la sua fine è utile alla causa perché convince Lo Svedese a restare con El Vasco e a lottare per la rivoluzione. “Resta con noi compañero. Vedrai che con gli ideali si può vincere. Ce la faremo”, dice El Vasco ormai convertito al buonismo. Lo Svedese ci pensa un po’ e poi grida: “Vamos a matar compañeros!”. Parte l’attacco verso l’esercito messicano e la bella colonna sonora insiste sul refrain di “Vamos a matar … vamos a matar … compañeros”.
Una pellicola che riscuote un incredibile successo: incasso oltre un miliardo di lire. Franco Nero è noto al pubblico per via di Django, e in alcune sequenze usa il mitragliatore come nel film precedente, Tomas Milian viene da personaggi come Cuchillo e Tepepa. L’unione dei due attori funziona bene, il gringo e il campesino che si aiutano per una causa comune affascina il pubblico. Tomas Milian indossa un basco da Che Guevara e recita battute da rivoluzionario, ma soprattutto comincia a darsi alle parolacce a ruota libera, cosa insolita per un western e la novità piace ai giovani. Il film copia un po’ da tutti i western che lo hanno preceduto e spruzza qua e là facili battute filo sessantottine, però funziona. Sergio Corbucci è bravo a sceneggiarlo insieme a Massimo De Rita, Fritz Ebert e Arduino Maiuri, importanti le musiche di Ennio Moricone (eseguite dall’orchestra di Bruno Nicolai) e il rapido montaggio di Eugenio Alabiso. 


A proposito della valenza politica di certi spaghetti-western basta citare quel che scrive Steve Della Casa: “Non sarà il miglior western, ma è il miglior esempio di quanto il Sessantotto sia penetrato negli strati più popolari e perché, quando i cortei stavano per scontrarsi con la polizia, mi veniva sempre in mente la scena finale  e la musica del film”. Milian e Nero litigarono a lungo sul set, soprattutto perché Franco Nero prendeva male certe battute del cubano, credeva che continuasse a sfotterlo pure fuori dalla finzione scenica. C’è da dire che Milian non sopportava altre prime donne, preferiva i comprimari. Franco Nero era un ragazzo timido e nervoso, secondo Corbucci, invece Milian era rissoso e mezzo matto. Fu Corbucci a spronarlo a doppiarsi da solo perché il suo accento mezzo cubano e mezzo romano si prestava bene alla parte. Il film subì un processo per turpiloquio perché il personaggio di Milian parla con espressioni gergali molto forti e pittoresche (“vaffanculo”, “stronzo”, “voglio fare la piscia”). L’Italia bacchettona di quel tempo non era ancora preparata a certe cose e bastava poco per scandalizzare, d’altra parte se un personaggio è volgare deve esprimersi in modo volgare…

giovedì 13 febbraio 2014

Le dolci zie (1975)


di Mario Imperoli 


Regia: Mario Imperoli. Soggetto: Mario Imperoli. Sceneggiatura: Mario Imperoli, Piero Regnoli. Fotografia: Fausto Zuccoli. Montaggio: Otello Colangeli.  Scene e Costumi: Giorgio Desideri. Operatore alla Macchina: Guglielmo Vincioni. Aiuti Regista: Claudio Bernabei, Stefano Petruzzellis, Antonio Nieddu. Colore: Telecolor, Eastmancolor. Distribuzione: Compagnie Internazionali Associate. Presenta: Rodolfo Putignani. Produzione: Enzo Boetani e Giusepe Collura per Dyonisio Cinematografica e Roma International Production. Interni: Teatri di Posa Elios. Musica: Nico Fidenco. Direzione Musica: Giacomo Dell’Orso. Canzone: La strada era bella, cantano UT. Interpreti: Pascale Petit, Femi Benussi, Marisa Merlini, Jean-Claude Verné (Corrado Leveghi), Mario Maranzana, Pupo De Luca, Patrizia Gori, Orchidea De Santis, Guerrino Crivello. 


Mario Imperoli (1931 - 1977) è un giornalista che entra nel cinema come produttore e sceneggiatore; si ricorda per aver diretto otto film, soprattutto drammi erotici e polizieschi, dal 1972 al 1977. Il debutto è datato 1972 con Mia moglie… un corpo per l’amore, un dramma interpretato da Silvano Tranquilli, Antonella Murgia, Michele Placido, Peter Lee Lawrence e Sonia Burton. Simona un corpo per tutti, è il titolo alternativo di un film che racconta la vita erotica di una moglie fedifraga fino al tragico epilogo familiare. Il regista romano si ricorda come colui che ha scoperto Gloria Guida e l’ha lanciata come attrice sexy, dopo aver notato alcune foto della giovane cantante alla CHD. Imperoli pensa che la ragazza sia perfetta come diciassettenne ingenua, inesperta e soprattutto bella. Mario Imperoli è un regista poco noto al grande pubblico, anche perché è morto proprio quando iniziava ad avere un certo successo. 


I suoi film più importanti sono La ragazzina (1973) e Blue jeans (1975), entrambi interpretati da Gloria Guida, due drammi erotici di ambientazione familiare. Mario Imperoli affronta una tematica comico - erotica di ambientazione agreste solo ne Le dolci zie (1975), ispirandosi a illustri precedenti come Venga a prendere il caffè da noi (1970) di Alberto Lattuada (tratto da La spartizione di Piero Chiara) e Grazie zia (1968) di Salvatore Samperi, senza dimenticare La nipote (1974) di Nello Rossati. Tra i film di Imperoli ricordiamo il giallo Istantanee per un delitto (1974), firmato con lo pseudonimo di Arthur Saxon, il poliziottesco Come cani arrabbiati (1976), con interpreti sexy Paola Senatore e Anna Rita Grapputo, il noir mafioso Canne mozze (1977) e il thriller erotico Quella strana voglia d’amare (1977), interpretato da Beba Loncar e Marina Giordano. 

Le dolci zie gode di un gran cast, ma il regista è dotato di uno stile troppo rozzo per gestirlo al meglio. La storia non è molto originale. Si racconta l’educazione sentimentale di un adolescente (Verné), conteso tra il nonno anarchico (Maranzana) che vive in un casolare con un’ex prostituta (De Santis), le tre zie zitelle (Merlini, Benussi, Petit), e una giovane bottegaia psicologa (Gori). In questa situazione si inserisce la figura di un prete  come Don Fiorello (De Luca) che sta dalla parte delle tre zitelle, devote parrocchiane, mentre ingaggia memorabili dispute a suon di stornelli con il vecchio anarchico. La commedia sexy di ambientazione campagnola è godibile, anche se un po’ troppo volgare ed eccessivamente urlata. Maranzana è straordinario come anarchico mangiapreti, un Peppone sopra le righe cantore di volgarissimi stornelli a sfondo erotico - anticlericale. Pupo De Luca è un Don Camillo versione rozza, bevitore di vino e in fin dei conti abbastanza interessato alle grazie femminili. 

 
Orchidea De Santis è al culmine della sua bellezza, la ricordiamo durante una sexy corsa nel prato, seno al vento, in un erotico ralenti con Maranzana che la insegue e una volta raggiunta non ha il fiato per fare altro. Non mancano gli sguardi torbidi della macchina da presa che scruta sotto le sue gonne mentre è intenta a lavare, come già accaduto ne La nipote.  Memorabile la parte nel pagliaio con il ragazzino e censuratissima la sequenza erotica finale quando il nonno anarchico le affida il compito di svezzare l’imbranato adolescente. Marisa Merlini è molto brava come zia inquieta ancora in preda a bollori erotici. Il Resto del Carlino in una recensione scriveva: “Imperoli riesce - per la prima volta in carriera - a far spogliare persino un’attrice come Marisa Merlini”. Ed è vero, perché in una lunga parte girata sulla spiaggia di Ostia vediamo la non più giovane attrice a seno nudo, per la sbadataggine del nipote che lascia cadere il telo quando osserva un gruppo di nudiste. Femi Benussi e Pascale Petit sono le due zie più giovani che si contendono il ragazzino nei modi più disparati, dal farlo posare nudo per una statua di creta fino a lavarlo in vasca e impartirgli lezioni di danza. 


Jean-Claude Verné è l’adolescente conteso, ormai sappiamo che è l’italianissimo Corrado Leveghi che recita sotto lo pseudonimo del cognome materno italianizzato (Werner). Nato a Bolzano nel 1957, debutta con Un urlo nelle tenebre di Franco Lo Cascio, prosegue con Le dolci zie, Una bella governante di colore, Gli amici di Nick Hezard, Il Casanova di Fellini, Oh Serafina! e Cuore di cane. Bravo nei panni di Libero, ribattezzato Rino dalle perfide zie, imbranato e finto ingenuo quanto basta per realizzare in pieno l’immedesimazione spettatore - attore, soprattutto quando spia le ragazze nude da un buco della serratura o dietro un cespuglio galeotto. Patrizia Gori è molto nuda, mentre fa il bagno nel laghetto storico del cinema italiano formato dalle cascate del fiume Treja di Monte Gelato, nel comune di Mazzano Romano. La Gori interpreta una verginella che gioca a fare la ragazzina provocante ma che sul più bello si ritira e non si concede alle voglie del giovane. 


Le dolci zie è un vero e proprio romanzo di formazione erotica, ruspante e agreste come i luoghi dove è ambientato, rozzo e volgare, ma a tratti efficace, addirittura irresistibile quando Maranzana cerca di spiegare al ragazzino come fanno l’amore un uomo e una donna. Divertenti i siparietti comici stile Don Camillo e Peppone che in una sequenza imbracciano falce e martello, incrociandoli come un paradossale simbolo del compromesso storico. Notevole la seduta spiritica con il ragazzo che si dà un gran da fare con le mani sotto il tavolo, ma non è da meno una maliziosa sequenza onirica che vede protagonista una conturbante Femi Benussi. Alla fine ogni tessera va al suo posto, con il nonno che rapisce il nipote, lo fa diventare uomo grazie alla sexy compagna che lo consegna svezzato alla fidanzata verginella. La voce fuori campo di Pupo De Luca ci accompagna verso un futuro di pacificazione erotico - sociale.

 

Rassegna critica. Marco Giusti su Stracult parla di “mezzi miserabili” e giudica “azzeccatissimo il nonno anarchico di Mario Maranzana”. Critica alta unita nello stroncare la pellicola. Farinotti non la cita neppure, mentre Morandini e Mereghetti concedono una misera stella. Mereghetti merita rispetto per il solo fatto di averla vista: “Il divertimento è tutto sulle spalle di Maranzana, le nudità distribuite in egual misura tra il parentado femminile (ma la più scatenata è la De Santis, che corre al ralenti svestita in mezzo ai campi e nel finale si concede a un amplesso piuttosto osé con il ragazzo. I battibecchi tra il nonno del protagonista e il prete Don Fiorello (De Luca) finiscono per farne una versione trash di Don Camillo”. Un giudizio fin troppo caustico, perché non si può valutare una commedia sexy con i parametri del cinema alto. Ottima la musica di Nico Fidenco, divertente la canzoncina La strada era bella, cantata dagli sconosciuti UT, mitiche le varie osterie e i tanti stornelli intonati da Maranzana. In definitiva un film sceneggiato bene, ricco di gag e di situazioni piccanti, che ancora oggi riesce a divertire.  
 

Abbiamo avvicinato Orchidea De Santis che ha rilasciato alcune dichiarazioni sul film: “Sono d’accordo con te che Rossati era un’altra cosa rispetto a Imperoli. Direi con più classe narrativa, certamente non rozzo. Imperoli lo ricordo come una persona molto simpatica. Nel film come al solito ero doppiata. Con gli attori si perdeva più tempo, perché non erano preparati come i doppiatori, inoltre io non mi opponevo, per comodità. Le mie colleghe le incontravo sporadicamente. Con Femi Benussi ci conoscevamo già, con le altre non mi ha compito niente di particolare, forse solo la statura della Petit. Quel che più mi ricordo di questo film è il mio primo incidente sul set: il forcone che mi serviva in scena per muovere la paglia me lo sono conficcato in un piede. Tutti tremarono perché evidentemente non avevano neanche un’assicurazione decente, ameno così credo conoscendo l’ambiente ed essendo  stata vittima anche successivamente di incidente sul lavoro. Comunque non feci  interrompere le riprese e dopo le cure ho continuato a lavorare. Altri ricordi, più o meno i soliti: con pochi mezzi e in poche settimane riuscire comunque a tirare avanti e sfornare un film che all’epoca nessuno di noi avrebbe mai pensato che sarebbe passato in qualche modo alla storia”.


domenica 9 febbraio 2014

Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica (1995)



di Lina Wertmüller


Regia: Lina Wertmüller (Arcangela Wertmüller von Elgg). Soggetto e Sceneggiatura: Lina Wertmüller, Piero De Bernardi, Leonardo Benvenuti. Fotografia: Blasco Giurato. Montaggio: Pierluigi Leonardi. Musiche: Pino D’Angiò. Scenografia: Enrico Job. Costumi: Christiana Lafayette. Produttori: Bruno Altissimi, Claudio Saraceni. Case di Produzione: Videomaura, Medusa Film. Distribuzione: Medusa. Genere. Commedia grottesca. Durata. 100’. Esterni: Pizzighettone (Mantova). Interpreti: Tullio Solenghi, Gene Gnocchi, Veronica Pivetti, Piera Degli Esposti, Cinzia Leone, Cyrielle Claire, Giacomo Centola, Alexandra La Capria, Maria Zulima Job, Domenico De Masi (cammeo).


Non mi sono mai occupato di Lina Wertmüller (Roma, 1928), anche se ho visto quasi tutti i suoi film, apprezzandone senza riserve soltanto tre: Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto (1974), Mimì metallurgico ferito nell’onore (1971) e Pasqualino Settebellezze (1975).   Non voglio togliere niente a una regista apprezzata anche oltreoceano, spesso candidata a premi prestigiosi, ma trovo che molti suoi lavori siano stati sopravvalutati da certa critica alla disperata ricerca di pellicole intrise di messaggi politici. Lina Wertmüller comincia con il teatro con Garinei e Giovannini, si avvicina al cinema come assistente prima di Armando Grottini, poi di Federico Fellini (La dolce vita e Otto e mezzo), non trascura radio (sceneggia Un olimpo poco tranquillo), teatro (Carmen, Amore e magia nella cucina di mamma) e televisione (Canzonissima 1959, Il giornalino di Gian Burrasca). Debutta come regista con un film che ricorda I vitelloni del maestro Fellini, ma si intravede una cifra stilistica tesa alla satira grottesca: I basilischi (1963). Il vero e proprio successo arriva con il suo film migliore: Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), che mette in campo per la prima volta la coppia Giannini - Melato in una commedia grottesca intrisa di elementi sociopolitici. Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto (1974) rappresenta il culmine della poetica femminista e della polemica antiborghese, con una storia d’amore improbabile tra un rozzo marinaio (Giannini) e una ricca industriale (Melato), uniti dal naufragio su un’isola deserta. 


Uno dei suoi minimi storici - anche per colpa di un cast inadeguato - è Sotto… sotto… strapazzato da anomala passione (1983), ma una caratteristica della regista restano i titoli interminabili, spesso di cattivo gusto. Ottimo Io speriamo che me la cavo (1992), con un grande Paolo Villaggio nei panni di un maestro del nord che affronta una problematica scolaresca meridionale. Il suo ultimo lavoro cinematografico è Peperoni ripieni e pesci in faccia (2004), con Sophia Loren protagonista, mentre chiude con la televisione girando Mannaggia alla miseria (2009), sempre interpretato dalla Loren. David di Donatello alla carriera nel 2010. Cammeo nel 2013 in Benevenuto presidente di Riccardo Milani. 

Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica (1995) è uno degli ultimi lavori di Lina Wertmüller, ma non è così mal riuscito, anche se i protagonisti non hanno la classe di Mariangela Melato e Giancarlo Giannini. Tullio Solenghi è Tunin, operaio di Rifondazione Comunista, Gene Gnocchi è Zvanin, operaio revisionista del PDS, entrambi messi in cassa integrazione dalla Ferrari. Piera Degli Esposti e Cinzia Leone sono le mogli che affrontano la situazione - da brave donne coraggio - e mettono in piedi una trattoria alla foce del fiume dove servono rane fritte. Le donne sono i personaggi migliori, perché i due mariti invece di impegnarsi nel lavoro sono farfalloni e fedifraghi. Il tempo libero - teorizzato in un cammeo del sociologo Domenico De Masi - viene utilizzato per farsi le amanti, non tanto per riscoprire poesia, arte e attività sportive. Solenghi corre dietro alle gonne della parrucchiera leghista Veronica Pivetti - sorella di Irene, Presidente della Camera dei Deputati - e ci finisce a letto dopo averle promesso di passare dalla parte di Bossi. Nel frattempo Gnocchi tradisce la moglie con Cyrielle Claire che interpreta una giovane maestra di tango. Il tema politico si innesta sul versante erotico - abbastanza spinto - e la lotta tra leghisti e comunisti si stempera tra le lenzuola. Crisi coniugale, tradimenti, lotta di classe, ignoranza leghista, superficialità della sinistra, sono tutti elementi mixati in un gran calderone sociopolitico. La storia diverte, presa come commedia grottesca, interpretata sopra le righe da Solenghi e Gnocchi, ma anche da una Pivetti molto nuda e in gran forma, come non la vedremo più. Certo, sono lontani i tempi di Giannini e Melato, siamo nel 1996, dobbiamo accontentarci di una disfida Solenghi - Pivetti, condita di riferimenti politici e di allusioni culturali. 


Il tentativo di attualizzare Travolti da un insolito destino in salsa erotico - politica non riesce più di tanto, ma il film va preso per quel che è: una pochade senza pretese, abbastanza volgare, zeppa di dialoghi tra Solenghi e il suo pene, ricca di momenti da commedia sexy condita da una spruzzatina di sociologia politica. La crisi della sinistra appena s’intuisce, la diffidenza verso D’Alema pure, l’astio contro i leghisti è stemperato dal sesso a buon mercato, alla fine l’immagine che resta impressa è quella di Soleghi che si copre le terga sia con la bandiera dell’Ulivo che con quella della Lega. La lotta politica sta andando a puttane, in pratica. Se Wertmüller, De Bernardi e Benvenuti volevano lanciare questo messaggio (ma non credo) ci sono riusciti in pieno.  Buona l’ambientazione padana, alla periferia di Mantova, nel comune di Pizzighettone, alla foce del fiume Po.  

Rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Dopo i flop di film più ambiziosi, la Wertmüller si affida a Benvenuti e De Bernardi per riscrivere Travolti da un insolito destino, aggiornandolo all’atmosfera politica della seconda repubblica, tra la vittoria nel 1994 di Berlusconi e quella del 1996 dell’Ulivo. Urlato e (inutilmente) esagitato, il film non sa sollevarsi dalla volgarità della materia, raccontata come una pochade di Feydeau e con l’inevitabile finale di riconciliazione mammista. Solenghi mostra con generosità il deretano, la Pivetti solo le (scarse) tette”. Marco Giusti è entusiasta, soprattutto della Pivetti, che giudica “la cosa migliore del film” (quando scopa ed è nuda) e la sola capace di “dargli un tono curioso”. Giudizio Stracult: “Cultissimo e unico esempio di commedia politica popponesca anni Novanta... Volgare, straripante, anche divertente…”. 


Morando Morandini (due stelle): “La cassa integrazione come occasione di scoperta del sesso adultero e dell’arte del ballo. Ricco di luoghi  wertmulleriani e di inverosimiglianze, il film riprende il teatrino degli anni Settanta e ricalca gli attori mitici del regista (Melato - Giannini) con la coppia Pivetti - Solenghi, ma il migliore è Gene Gnocchi. Pino Farinotti (due stelle): “Film trascurabile, davvero troppo lontano dai titoli sia pur controversi degli anni Settanta firmati dalla regista. Giannini e la Melato erano attori veri, da cinema. Adesso sembra proprio che non si possa fare a meno di attingere dai personaggi del piccolo schermo se si vuol vendere qualche biglietto. Che malinconia”. A nostro giudizio comunque da recuperare, se ci accontentiamo di rivedere una pochade, ma dobbiamo avere la capacità di sopportare l’irritante non recitazione di un Gene Gnocchi sempre uguale a se stesso. 


Sabato, domenica e lunedì (1989) 

sabato 8 febbraio 2014

Amore vuol dire gelosia (1975)



di Mauro Severino
 
 
Regia. Mauro Severino. Soggetto Originale: Mauro Severino. Sceneggiatura: Mauro Severino, José J. Maesso. Montaggio: Gianmaria Messeri. Fotografia: Peppino (Giuseppe) Pinori. Colore: Technospes. Architetto: Raphael Ferri. Scenografie: Gastone Carsetti. Costumi: Luca Sabatelli. Musiche: Adolfo Waitzman (Edizioni Musicali Grandi Firme della Canzone). Direttore di Produzione: Armando Todaro. Produttori: Nando Bolognini, Luigi Borghese. Casa di Produzione: Aetos Produzioni Cinematografiche srl (Roma), Tecisa Television y Cine s. a. (Madrid). Paesi Origine: Italia/Spagna. Distribuzione: Agora. Prima Nazionale: 10 ottobre 1975. Aiuto Regista: Franco Fantasia. Assistente alla Regia: Renato Ferraro. Operatore alla macchina: Roberto Lombardi. Fotografo di Scena: Bruno Calvo. Doppiaggio: C.D. Cooperativa Doppiatori srl. Interni: Teatri di Posa De Paolis - In.Ci.R. srl. Esterni: Procida, Napoli, Ischia, Stazione di Santa Marinella (Roma). Interpreti: Enrico Montesano, Barbara Bouchet, Milena Vukotic, Gino Santercole, Pino Ferrara, Carmen Martinez, Ada Tauler, Maria Alvarez, Anita Farra, Giancarlo Badessi, Eleonora Morana, Betty Pedrazzi, Antonio Apicella, Regina Elena Bisio, Roberta Palombi, Stefania Pigiani. 


Mauro Severino (Castiglion della Pescaia, 1936) è un mio importante vicino di casa di cui ero piuttosto inconsapevole. Avevo visto al cinema Amore vuol dir gelosia (1975), Tutti possono arricchire tranne i poveri (1976) e Travolto dagli affetti familiari (1978), ma avevo tra i 15 e i 18 anni, a quel tempo il mio interesse principale era rivolto alle grazie delle interpreti: Barbara Bouchet e Gloria Guida. Adesso è giunto il momento di pensare anche al nostro regista maremmano. Mauro Severino si caratterizza per lavori comico - erotici che strizzano l’occhio alla satira sociale senza pigiare l’acceleratore sul versante politico, anche se il suo film d’esordio - Vergogna, schifosi!... (1968), che non ho visto, secondo Roberto Poppi “si inserisce nel filone contestatario”. 


Severino si avvicina al mondo del cinema quasi per caso, lavorando come attore di secondo piano per Pietro Germi, si fa le ossa come auto regista, soggettista e sceneggiatore in lavori di un certo spessore (Il sicario, Avventura di un soldato, L’isola di Arturo, Il gioco delle spie…), affiancando - tra gli altri - autori come Damiano Damiani, Renato Pacini, Fernando Cerchio, Nino Manfredi e Luciano Salce.  Attivo in televisione, dove gira sceneggiati e documentari. Ricordiamo Signorina grandi firme (1979) e Una donna tutta sbagliata (1989). Il suo cinema si ricorda per due commedie sexy interpretate dalla coppia Montesano - Bouchet e da una commedia erotica basata sul duo inedito Buzzanca - Guida. Cinque film in tutto, girati dal 1968 al 1978, tra questi un lavoro televisivo: Una città in fondo alla strada (1974).  


Amore vuol dir gelosia racconta uno spaccato di provincia con una curata ambientazione sull’isola di Procida e alcune sequenze girate a Napoli. Un dentista represso (Montesano) da una moglie farmacista (Vukotic), tirannica e avara, s’innamora della bella vicina di casa (Bouchet), che vive un rapporto violento con un collerico e fedifrago marito (Santercole). La storia si sviluppa secondo i meccanismi della pochade teatrale di Feydeau per finire in bagarre, in maniera piuttosto grottesca. L’amore tra Montesano e Bouchet da spirituale e romantico, basato su una reciproca gelosia, diventa carnale e ossessivo, così come la moglie tirannica vede risvegliare i sensi e tradisce il marito per vendetta. Montesano non si scompone più di tanto e con la complicità della madre attende il momento per gettarsi tra le braccia della bella amante. I titoli di coda scorrono sui corpi avvinghiati dei due attori - la Bouchet completamente nuda - che si amano sulla sabbia scura di Procida. 


Mauro Severino costruisce una storia divertente rispettando tutte le convenzioni narrative della commedia sexy, tra voyeurismo, specchi che riflettono nudi femminili, serrature dalle quali spiare, bagni saponosi e amplessi comico - erotici. Non mancano una morale anti censura, il rifiuto del perbenismo di facciata di un’Italia bacchettona e una critica serrata alla grettezza piccolo - borghese. La provincia curiosa, i vizi privati e le pubbliche virtù, le persone che non si fanno i fatti loro, i tradimenti sulla bocca di tutti, le voci maligne del popolo, sono altri elementi interessanti. Bravi gli attori. Montesano è il mattatore con un personaggio tipico da Charlot frustrato, basato su una comicità slapstick, a metà strada tra le comiche del muto e il cartone animato, mentre la Vukotic è una buona moglie repressa doppiata in napoletano (non sappiamo da chi, inoltre è insolito che un’attrice del suo valore venga doppiata) e la Bouchet (doppiata da Vittoria Febbi) una sensuale vicina che parla in milanese. 
 

Gino Santercole (doppiato da Michele Gammino) è il marito violento e traditore che regala diversi nudi e numerosi rapporti sessuali con Ada Tauler (la sexy macellaia del paese). Pino Ferrara è il capitano Bazzoni che entra in scena nel momento meno adatto e rompe le uova nel paniere allo sprovveduto dentista. Buona fotografia di Peppino Pinori che ci regala sequenze da cartolina dell’isola di Procida, ma anche suggestivi spaccati marini e panoramiche del golfo di Napoli. Ottima la colonna sonora di Adolfo Waitzman, composta da suadenti tanghi argentini, melodie latine e musica folcloristica. Leitmotiv del film è il motivo Amore e gelosia di Fabio Frizzi, Franco Bixio e Vince Tempera.  
 

Amore vuol dir gelosia esce in Spagna (paese co-produttore) con grande ritardo, il 2 febbraio 1984, con il titolo latino Yo no perdono un cuerno (Io non perdono un corno). Un difetto non da poco è costituito da una seconda parte lenta e ripetitiva, il regista dimostra di conoscere poco i tempi comici e diluisce troppo una materia che dopo sessanta minuti ha bruciato tutte le polveri. La stupenda cecoslovacca Barbara Gutscher, in arte Bouchet (Reichenberg, 1943), invece, è il pezzo forte della commedia. Bella icona del decamerotico, ma anche del noir italiano, ravviva con la sua presenza la nascente commedia sexy, prestandosi con generosità a interpretare disinibite scene di nudo condite di grande ironia.  


Rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Un incontro non molto convincente tra alcuni tratti della commedia all’italiana e la satira di costume caratteristica degli anni Settanta”. Pino Farinotti concede due stelle ma non motiva. Morando Morandini: una stella e mezzo per la critica, ma diventano tre per il gradimento del pubblico. 

 

venerdì 7 febbraio 2014

Violentata sulla sabbia (1971)



di Renzo Cerrato

Regia: Renzo (Lorenzo) Cerrato. Sogetto: adattamento di Oscar De Mans dal romanzo Le lys de mer (La legge del mare) di André Peyre De Mandarques. Sceneggiatura: Oscar De Mans, Giovanni Simonelli, Pier Luigi Ciriaci, Jacqueline Audry (collaboratrice). Fotografia: Edmond Sechan. Montaggio: Raimondo Crociani. Scenografia: Francesco Roselli. Arredamento: Tonino Fratalocchi. Costumi: Gloria Cardi. Fonico: Eugeno Rondani. Operatore alla Macchina: Gianfranco Maioletti. Aiuti Registi: Renzo Girolami, Jaqueline Audry. Fotografo di Scena: Angelo Pennoni. Musiche: Gianfranco Plenizio (Edizioni Musicali CAM). Produzione: Milvia Cinematografica (Roma), Comacico (Parigi). Paesi: Italia/Francia. Produttore Esecutivo: Piero Nardi. Direttore di Produzione. Paul Laffargue. Organizzazione Generale: Oscar Di Martino Mansi. Interni: Teatri di Posa Cinecittà. Direttore Doppiaggio: Mario Colli (Società Attori Sincronizzatori). Esterni: Villa Chigi a Castel Fusano (Roma). Siniscola - frazione di Santa Lucia - Baronie (Sardegna). Interpreti: Carole Andrè, Angelo Infanti, Kiki Caron, Luigi Barbini, Giustino Durano, Tiberio Murgia, Pietro Tordi, Claudio Trionfi, Bruno Alias, Renato Terra, Marisa Solinas.


Renzo (Lorenzo) Cerrato è un regista di cui sappiamo poco o niente. Per fortuna ci soccorre il manuale di Roberto Poppi. Nato il 26 giugno 1920 a Roccavignale (Savona), morto a Frascati il 16 ottobre 2013. Aiuto regista di William Dieterle, Carmine Gallone e Bernard Borderie. Molto attivo in Francia, dove collabora con De Broca, Oury, Labro, Hossein, Hunebelle e Desagnat. Il suo primo lungometraggio è del 1968: Niente rose per 0SS 117 (in collaborazione con Desagnat), un film di spionaggio a imitazione della saga 007. Cerrato rientra in Italia, sceneggia I lupi attaccano in branco (1970) di Franco Cirino, e gira il film della sua vita: Violentata sulla sabbia (1971), un buon successo di pubblico realizzato in collaborazione con Jaqueline Audry e con l’aiuto di Renzo Girolami. Il film gode di stroncature critiche di vario tipo e conta una serie di sciocchezze postume che lo classificano come porno-soft, forse per il fatto che pochi recensori l’hanno visto. 
 
Fonda la Cerrato Compagnia Cinematografica, acquisisce a Roma il Cinema Teatro Clodio e il Cinema Araldo, oggi scomparsi. Alcuni dicono che sia stato regista di tre pellicole mai uscite: I gigli del mare (1970), La dea dai piedi d’argilla (1970) e La forza del potere (1982). Ricordiamo Cerrato come produttore di programmi televisivi per bambini, soprattutto lo storico Bim-bum-bam. Tra i programmi di successo realizzati per la televisione: Linea Verde, la prima serie di Casa Vianello, alcune edizioni de Il pranzo è servito, Quiz Show, Cari Genitori, Zig Zag, Agenzia matrimoniale. Nel 2000 torna al cinema come attore in Costanza da Libbiano di Paolo Benvenuti. 

Violentata sulla sabbia (1971) è un film che non ero mai riuscito a vedere, finalmente sono riuscito a colmare una lacuna per sfatare le leggende di certa critica che favoleggia di film porno. La cosa più spinta del film è il titolo e - per il periodo storico - pure il tema trattato, ma sceneggiatori e regista non premono l’acceleratore sul versante morboso. 

Vanina (André) assiste alla morte dei genitori e vede violentare la madre, ma viene portata in salvo da una domestica. La sua vita è segnata dal grave lutto e la sua sessualità si forma con una tendenza masochista. La ragazza sogna di far l’amore per la prima volta violentata sulla sabbia, ma decide lei l’uomo che dovrà possederla (Infanti) e il luogo (la Sardegna). Il film è ambientato in maniera perfetta in una Sardegna assolata e selvaggia, non ancora meta turistica di massa, tra spiagge bianchissime, greggi di capre, strade polverose, fichi d’india, fiori inebrianti, cani addormentati, serate danzanti nei locali di paese. Ottima la fotografia, che insiste su paesaggi e colore locale, ma anche la descrizione delle abitudini dei sardi è particolareggiata. Angelo Pennoni e Edmond Sechan fanno il loro mestiere con professionalità, fotografando il film in quattro colori, con toni soffusi e malinconici. 

 
La colonna sonora di Gianfranco Plenizio è straordinaria, accompagna lo spettatore nella visione di un film romantico e psicologico, montato con i ritmi giusti da Raimondo Crociani. Una voce fuori campo dal tono poetico sembra leggere parti del romanzo di André Peyre De Mandarques - Le lys de mer (La legge del mare) - da cui è tratta la sceneggiatura. Carole André (Parigi, 1953) ha appena diciotto anni, ma è già un’attrice navigata perché frequenta il mondo del cinema da quando è adolescente, la sua prima pellicola è Faccia a faccia (1967) di Sergio Sollima. Tutti la ricordiamo per Sandokan (1976, prima TV e poi cinema) - sempre di Sollima - a fianco di Kabir Bedi, dove interpreta Marianna, la perla di Labuan. Doppiata nei panni della protagonista, non eccezionale nella parte in cui recita, ma fotografata benissimo mentre indossa sensuali bikini colorati. 

Ottima la sua interpretazione da adolescente maliziosa, occhi azzurri, sguardo da cerbiatto, sorriso dolce, lunga treccia di capelli che le scende sul collo. Il suo personaggio è molto psicologico, connotato da frequenti flashback e alcune parti oniriche che ricordano il triste passato e anticipano un possibile futuro. Carole André dà vita a un carattere di donna forte e trasgressiva, che anticipa i tempi, chiama il suo partner “l’uomo della spiaggia”, decide come diventare donna, legata e violentata come sua madre. A un certo punto vediamo persino un bacio lesbico tra Carole André e Kiki Caron, alla quale la ragazza si rivolge per chiedere consiglio su come concedersi a un uomo. 
 
Una storia di formazione erotica, in definitiva, che termina con il tanto agognato rapporto sessuale sulla sabbia, mentre il cielo della notte è rischiarato da una luna piena. Christine Caron (Parigi, 1948), detta Kiki, campionessa di nuoto, è l’amica di Carole André, nella sua seconda interpretazione cinematografica dopo La piscina (1968) di Jacques Deray, molto a suo agio quando nuota a stile libero, meno quando si tratta di recitare. Pure per Kiki fotografia stupenda e numerose pose mentre indossa audaci bikini. Nient’altro. L’erotismo non va oltre alcuni rapporti tra Carole André e Angelo Infanti, sempre sfumati, e qualche fugace nudo, mai integrale, della bella francese. Angelo Infanti non è un grande attore, ma parla poco, non dice neppure il suo nome, perché il rapporto tra violentata e violentatore segue i canoni di Ultimo tango a Parigi. Unica variante: la ragazza rivela come si chiama ma non vuole sapere niente del compagno occasionale, scelto per perdere la verginità. La pellicola anticipa Histoire d’O (1975) con Corinne Clery e Emanuelle (1974) con Sylvia Kristel, entrambi girati da Just Jaeckin, per atmosfera torbida e suadente, anche se le situazioni erotiche sono molto più contenute. 

Caratteristi interessanti sono Giustino Durano, nei panni di un prete che consegna un portafortuna a Vanina, e Tiberio Murgia, ossessivo pretendente della bella Kiki. Ottimo il finale, realistico e per niente sdolcinato, con Vanina che abbandona la Sardegna senza sapere niente di chi l’ha fatta diventare donna. “L’amore non ha bisogno di nomi”, mormora. Suono in presa diretta, rumori del mare, colori di un’isola selvaggia e naturale che ricorda i tropici fanno della pellicola un documento d’epoca da ricercare. 


Rassegna critica. Paolo Merghetti (una stella) mi sconcerta: “Il becero titolo italiano promette chissà cosa, mentre si tratta di un adattamento del romanzo Le lys de mer…. Oggi potrebbe passare in prima serata tv, e di sesso (o erotismo) ce n’è pochissimo: in compenso, la voce narrante e il monologo interiore della ragazza stordiscono a furia di scemenze pseudo letterarie. La André concede qualche casto nudo. Molta nostalgia per la Gallura semiselvaggia, senza ombrelloni e con aragoste servite all’osteria”. Marco Giusti (Stracult) afferma che Kiki Caron ha interpretato solo questo film (e non è vero), parla di “supercult storico per il titolo” e di film disastroso con “un cast italiano bassissimo”. Per fortuna aggiunge che non l’ha visto e che “uscì nei cinema considerati porno”. E non è vero. Concordo solo sul fatto che si tratta di un film da rivedere.