sabato 31 dicembre 2011

Amarcord (1974)

di Federico Fellini


Regia: Federico Fellini. Soggetto e Sceneggiatura: Federico Fellini, Tonino Guerra. Fotografia: Giuseppe Rotunno. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Effetti Speciali: Adriano Pischiutta. Musiche. Nino Rota. Scenografia e Costumi: Danilo Donati. Produttore: Franco Cristaldi. Interpreti: Bruno Zanin, Armando Brancia, Pupella Maggio, Giuseppe Ianigro, Nando Orfei, Ciccio Ingrassia, Stefano Proietti, Magali Noël, Donatella Gambini, Gianfranco Marrocco, Antonino Faà di Bruno, Fernando De Felice, Bruno Lenzi, Bruno Scagnetti, Alvaro Vitali, Francesco Vona, Aristide Caporale, Luigi Rossi, Gennaro Ombra, Domenico Pertica, Ferruccio Brembilla, Antonio Spaccatini, Marcella Di Folco, Maria Antonietta Beluzzi, Josiane Tanzilli, Gianfilippo Carcano, Mauro Misul, Armando Villella. 


Amarcord è un’autobiografia lirica, il film più poetico di Federico Fellini, un punto di arrivo difficile da eguagliare e impossibile da superare. La pellicola rappresenta il quarto Oscar ottenuto dal regista, racconta la Rimini dell’adolescenza, il periodo del liceo e soprattutto l’Italia degli anni Trenta. Protagonista di Amarcord  è una città intera, trasfigurata dal ricordo, il quartiere San Giuliano di Rimini ricostruito a Cinecittà, i suoi grotteschi abitanti, le feste patronali, le adunate fasciste, la scuola, le donne facili, i giovani del paese, gli ambulanti, le prostitute e i matti. Il personaggio di Titta Biondi e la sua famiglia servono a Fellini per ricordare il passato e ricostruire gli anni della sua adolescenza, per scrivere un romanzo di formazione su pellicola che è la storia dell’incontro con la vita. Il tono della narrazione è amichevole, colloquiale, ma poetico, come se il regista raccontasse il periodo dell’adolescenza seduto a cena con vecchi amici. Il film è ambientato in una dimensione fantastica, tra mani che annunciano la primavera e nevicate che simboleggiano il grande freddo, immerso in ricordi lontani, rumori di auto che sfrecciano per le Mille Miglia, il passaggio del Rex e l’improvvisa apparizione di un pavone. Fellini racconta - come Proust - il tempo perduto ed è la cosa che sa fare meglio, sospendendo i ricordi in un’atmosfera sognante. Fellini è autore che sente più congeniale l’analisi poetica dell’intimo, del piccolo mondo antico, rispetto alla critica sociale. I suoi lavori indimenticabili si realizzano quando trova la forza di guardare al passato con malinconica nostalgia, mettendo su pellicola i sogni a occhi aperti, le ansie e i dubbi. Tra le parti migliori di Amarcord segnaliamo le scene ambientate nelle aule del liceo, una raccolta di assurde tipologie di insegnanti e di alunni, esempio da imitare per i registi che frequenteranno il sottogenere scolastico - più o meno alto - negli anni Settanta - Ottanta.  Alcuni personaggi sono indimenticabili: l’Aldina (Donatella Gambini) che fa innamorare i ragazzi, la madre di Titta (Pupella Maggio, doppiata in romagnolo da Ave Ninchi) che muore in ospedale e lascia il figlio disperato, il padre anarchico (Armando Brancia), la bella Gradisca (Magali Noël), la tabaccaia (Maria Antonietta Beluzzi) che Sergio Martino citerà alcuni anni dopo in un film con Gigi e Andrea (Acapulco prima spiaggia a sinistra), Teo lo zio matto (Ciccio Ingrassia) che si mette su un albero, grida: “Voglio una donna!” e scende solo quando arrivano le infermiere.


Il cinema Fulgor e le pellicole in bianco e nero degli anni Trenta sono importanti nell’economia del film, rappresentano l’adolescenza del regista segnata dall’amore per il grande schermo. Le confessioni al prete, i ragazzini che si toccano pensando alla tabaccaia, alla Gradisca o alla compagna di scuola, le suggestioni del cinema e delle prime visioni femminili, i turbamenti davanti alla vita che cambia. Fellini descrive le adunate fasciste, i discorsi retorici, le bastonate ai dissidenti e le canzoni patriottiche. Il Grand Hotel di Rimini è un altro protagonista, nei racconti della voce narrante che ricorda una notte d’amore di Gradisca con un principe e un emiro con trenta concubine.


Non dimentichiamo il mare d’estate che cambia il volto di Rimini, i tramonti rosso fuoco, i ragazzi che si trasferiscono sulle spiagge e sognano incontri con ragazze. “Tu e il babbo come avete fatto a conoscervi? E il primo bacio?”, domanda Titta prima di concludere disperato che lui non combina niente. La malattia della madre di Titta è un momento di grande poesia girato ricorrendo a silenzi e a inquadrature di spalle, senza mostrare volti sofferenti. Il regista sottolinea il grande vuoto nel cuore del marito e del figlio, anche se in vita i litigi erano all’ordine del giorno. Il funerale a piedi, la tristezza del padre, la casa vuota, tutto è costruito ad arte per rappresentare il dolore. La pellicola alterna momenti leggeri a episodi drammatici, ma sa restare in equilibrio senza cadere nella farsa o nel patetico. Il matrimonio di Gradisca nel casolare di campagna è un altro momento intenso che si conclude con la corsa dei ragazzini dietro l’auto di un simbolo erotico che li abbandona. Senza Gradisca si sentiranno un poco più soli e rimpiangeranno le sfide con le palle di neve che avevano per bersaglio un invitante fondoschiena.


Fellini racconta la vita quotidiana, senza seguire un filo logico, ma lasciandosi condurre dalla magia del ricordo e dai sogni che popolano la sua fantasia. Amarcord è un film così noto che il titolo viene citato in lingua italiana in tutto il mondo e non è un risultato scontato per un lavoro nostrano. La pellicola segna l’inizio di una parabola decadente della carriera di un regista geniale che dopo un capolavoro così sentito pare non trovare un’ispirazione altrettanto forte.


Fellini scrive Amarcord con la collaborazione di Tonino Guerra, ripensa alle proprie origini e mette in scena i ricordi della Romagna al tempo del fascismo in una struggente saga da strapaese. Il film miscela bene amore, odio e nostalgia, rilegge il passato fascista in modo acuto, mostra la mediocrità del regime ma anche del popolo che l’ha accettato. Vediamo i fascisti con l’olio di ricino, ma anche i maschi che insidiano donne, inventano balle e fanno scherzi stupidi. Tutto è vissuto attraverso la storia dell’adolescenza di Titta  (Bruno Zanin) in una cittadina romagnola degli anni Trenta. Non c’è un vero filo conduttore, ma il racconto scorre secondo il dialettale A m’arcord (mi ricordo), con i maschi che spiano le ragazzine e raccontano finte avventure erotiche. Il film è girato completamente a Cinecittà, persino le sequenze del passaggio notturno del transatlantico Rex.


Amarcord è un lavoro riuscito, a metà strada tra nostalgia per il passato, complicità con i personaggi e racconto obiettivo della nostra storia. Fellini ricorda il fascismo e lo descrive smontando il mito, mostrando la mediocrità del regime, ma anche di un popolo che l’ha accettato, perché il fascismo è una stagione storica della nostra vita, il blocco dell’uomo alla fase adolescenziale (Fofi). Fellini riesce nello stratagemma simbolico mostrando Titta che non cresce, ma resta in calzoncini corti per tutto il film. Le musiche di Nino Rota e la fotografia di Giuseppe Rotunno perfezionano una pellicola che si guadagna l’Oscar come miglior film straniero. Fellini riceve la notizia del premio da Alberto Sordi che al telefono scherza: “Federico, non t’hanno premiato, questa volta è toccato a Tanio Boccia!”.


Amarcord non manca di suscitare polemiche da parte dei perbenisti che lo giudicano zeppo di parolacce e di situazioni spiacevoli. Le femministe criticano il personaggio interpretato da Magalì Noël (Gradisca) senza storicizzarlo, mentre i cattolici si scandalizzano per il seno florido di Maria Antonietta Beluzzi. Segnaliamo una grande interpretazione drammatica di Ciccio Ingrassia nei panni del matto e il volto stralunato di Alvaro Vitali tra i compagni di liceo. Amarcord sbanca il botteghino e fa record di incassi anche negli Stati Uniti.

Il mio piccolo libro dedicato al grande Federico Fellini

Quando si assiste a un’opera così ben riuscita come Amarcord risulta difficile credere alle parole di Fellini:Non ho una ricetta, un sistema, non m’impongo dei traguardi. I film si presentano come fossero già fatti. Mi pare di essere un trenino che sta percorrendo una strada ferrata ai lati della quale ci sono le stazioni, i film in questo caso. Io devo soltanto scendere, avere un po’ di curiosità e vedere cosa c’è aldilà di quella stazione, se c’è la piazza... Quindi ho l’impressione, facendo questo itinerario, realizzando film, che tutto quanto fosse già predisposto”. Forse è la genialità che fa sembrare tutto già fatto, forse è proprio la grandezza del regista che riesce a trasportare le storie dalla dimensione in cui si trovano sino ai nostri occhi. 

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venerdì 30 dicembre 2011

L’esorciccio (1975)

di Ciccio Ingrassia


Regia: Ciccio Ingrassia. Soggetto: Ciccio Ingrassia. Sceneggiatura: Marino Onorati. Montaggio: Rosetta Narducci. Fotografia: Guglielmo Mancori. Scenografia: Giorgio Postiglione. Effetti Speciali: Sergio Chiusi. Direttore di Produzione: Sergio Garrone. Produzione: Rosaria Calì. Aiuto Regista: Adolfo Dragono. Musiche: Franco Godi. Produzione: Ingra Cinematografica. Interpreti: Lino Banfi, Ciccio Ingrassia, Didi Perego, Tano Cimarosa, Mimmo Baldi, Ubaldo Lay, Barbara Nascimbeni, Romano Sebenello, Gigi Bonos, Dante Cleri, Salvatore Baccaro, Jimmy il Fenomeno, Giancarlo Magalli.


Ciccio Ingrassia si cimenta nella sua seconda e ultima regia dopo aver diretto Paolo il freddo (1974), interpretato da Franco Franchi. Il regista non si limita a mettere in farsa L’esorcista (1973) di William Friedkin, ma realizza un prodotto originale e godibile. Non c’è Franco Franchi, ormai separato artisticamente, ma come protagonista comico troviamo un ottimo Lino Banfi, contrastato dal rivale aspirante sindaco Tano Cimarosa. Barbara Nascimbeni è un’affascinante indemoniata che si produce in un sensuale strip-tease e in alcune sequenze che ricordano Linda Blair nel film originale. Ciccio Ingrassia è anche produttore con la sua Ingra Cinematografica che purtroppo fallisce presto, perché avrebbe potuto regalare altri comici prodotti. Il film è definito da Marco Giusti uno stracult immortale, girato in tempi minimi con un cast spaventoso. “Il titolo è il cinquanta per cento del film”, ammette lo stesso Ciccio Ingrassia. L’incipit ricorda L’esorcista con la storia dell’amuleto ritrovato nel corso di scavi in Iran, ma la farsa comincia subito perché il pericoloso medaglione finisce in Ciociaria e viene trovato da Luigino (Baldi), figlio del sindaco Pasquale Abate (Banfi). Gli effetti dell’amuleto sono soprattutto erotici, perché Luigino si mette a violentare ragazze. Il padre non sa cosa fare, consulta un medico, ma si rende conto che ci vuole ben altro e ricorre a un esorcista. L’esorcista è un cialtrone di paese come Ciccio Ingrassia che si fa accompagnare dal fido Satanetto (Sebenello). Il medaglione passa di mano in mano, provocando effetti collaterali divertenti e nuovi interventi dell’esorciccio. Prima vediamo la figlia del sindaco trasformarsi in una bomba sexy e in un’ossessa con letto che si solleva e quadri volanti. La moglie del sindaco (Perego) non è immune dal contagio e si vede spuntare una bella barba rossa da garibaldino che il barbiere Dante Cleri tenta di tagliare. Il medaglione finisce nelle mani del parrucchiere che prima racconta menzogne, poi insapona il sindaco da capo a piedi e infine gli passa la maledizione. Il sindaco orina in pubblico e balla il rock and roll sulla tavola, scatenando una bagarre conclusiva che ricorda la pochade teatrale. Non è finita, perché Ciccio mangia per sbaglio il medaglione, trasformandosi in un satanasso nell’ultima sequenza. Notevole la sottotrama elettorale che vede il sindaco Banfi sfidare il rivale esponente dell’opposizione Turi Randazzo (Cimarosa) e imitare a più riprese lo stile oratorio di Benito Mussolini. La pellicola è esilarante, sia come parodia de L’esorcista che come ironia sulle superstizioni di provincia. Ubaldo Lay che indaga sul mistero fa la parodia di se stesso, al tempo ispettore per antonomasia in televisione, apprezzato dal pubblico femminile come tenente Sheridan. Salvatore Baccaro interpreta la trasformazione orribile della ragazza indemoniata e Jimmy il Fenomeno fa il matto con la solita risata nevrotica. Gigi Bonos è un divertente dottor Schnautzer che recita in un buffo tedesco e a un certo punto si veste da nazista.


Il film viene lanciato nelle maggiori città italiane con la foto di Ciccio vestito da esorcista e il titolo in inglese maccheronico: The Exorciccio. Girato a Mentana, negli studi Elios e - per motivi economici - in casa di Ciccio Ingrassia. Ottima la colonna sonora di Franco Godi e molto divertenti le canzoni: Un valzer per lui di Rosaria Calì, L’esorciccio di Godi - Ingrassia e Sciamanin Rock di Godi - Banfi (canta Lino Banfi).
La canzone sui titoli di testa è un mito del trash: “L’esorcì, l’esorcì, l’esorciccio/ vado in Cina e in Canada!/ L’esorcì, l’esorcì, l’esorciccio/ pure il Re e il Maragià/ L’esorcì, l’esorcì, l’esorciccio/ ma se incontro quello là/ lo sbircio, l’allaccio, lo straccio, l’agghiaccio, bisticcio/ lo scoccio, l’arriccio, lo sbuccio, lo faccio nericcio e lo caccio/ ecco che fo… tolgo tutti dall’impiccio/ perché son, perché son, perché son l’Esorciccio!”. Canta Ciccio Ingrassia, unica prova da solista.


Sono da ricordare anche le formule magiche per l’esorcismo: “Aglio, olio e peperoncino, esci fuori da questo lettino!”. Ma è una trovata notevole anche : “In nome di Mao ti esorcizzo” e “Con Mao e Maometto, alzati dal letto!”, agitando il libretto rosso. Alcune battute epocali: “Quando la scienza è impacciata ci vuole l’esorcicciata!”, “L’esorciccio sa tutto!”, i cartelli stradali trash di Rapina in corso e Caduta Matti (con Jimmy il Fenomeno che precipita da una montagna). Il regista avrebbe in mente un seguito: L’Esorciccio contro King Kong dove avrebbe voluto far recitare Franco Franchi. Non se ne fa di niente.


Ciccio Ingrassia afferma che questo film “segna la liberazione dal giogo di Franco Franchi divenuto sempre più asfissiante”. Forse per questo motivo gira una sequenza nella quale lancia fuori dalla finestra un imitatore dell’attore siculo che si presenta per essere esorcizzato. L’esorciccio è un esempio di come si può fare cinema negli anni Settanta, con poche lire, alcune macchine da presa di recupero, una sala come studio, ma anche tanta fantasia, idee surreali e attori strepitosi. Ventottesimo incasso di tutti i tempi nella storia della coppia comica, con 692.986.715 lire, ma nonostante il successo è l’ultima prova da regista di Ciccio Ingrassia. Resta un film di culto, citato ne Il secondo tragico Fantozzi (1976) di Luciano Salce come contraltare comico de La corazzata Potëmkin, insieme a Giovannona Coscialunga e all'inesistente (ma ormai leggendario) La polizia s’incazza.  La sindrome di Stendhal di Dario Argento lo cita indirettamente, perché in una sequenza un protagonista guarda in televisione proprio L’esorciccio.

La location del film

Rileggiamo una vecchia opinione di Ciccio Ingrassia: “Rispetto a Paolo il freddo, sempre prodotto da me, L’esorciccio partiva con un budget ancora più basso che la distribuzione non copriva del tutto. Ho fatto di necessità virtù, realizzando il film a casa mia e utilizzando quasi tutta la pellicola girata in pochi giorni”.  Rudy Salvagnini (Dizionario dei film horror) scrive: “L’esorciccio è un simpatica parodia de L’esorcista, che recupera elementi della superstizione popolare inserendoli in un canovaccio semplice che vive sull’estro degli interpreti, tra cui lo stesso Ingrassia, comicamente austero, e un Lino Banfi in ottima forma. Certo, non è tutto di prima mano e l’insieme a volte è un po’ raffazzonato, ma il divertimento non manca”. Paolo Mereghetti stronca senza pietà: “Il film non riesce neppure ad avvicinarsi alla parodia del film di Friedkin. A vuoto anche i tentativi di satira politica, mentre oggi l’esorcismo a base di aglio, peperoncino e sale è solo patetico. Come Ubaldo Lay che dovrebbe ironizzare sul tenente Sheridan”. Ecco i critici che distruggono il cinema italiano…



Alcune scene de L'esorciccio: http://www.youtube.com/watch?v=hd71e5ABC_s
(in edicola per Hobby & Work - serie Franco & Ciccio)
Il film completo: http://www.youtube.com/watch?v=3PJWFP7NNOY

mercoledì 28 dicembre 2011

C’eravamo tanto amati (1974)

La commedia all’italiana di Ettore Scola


Ettore Scola (1931) è tra i registi della migliore commedia all’italiana, erede di molte tematiche neorealiste che supera in un discorso filmico originale. Nasce come sceneggiatore di commedie, debutta alla regia con Se permette parliamo di donne (1964) interpretata da Vittorio Gassman, ma il suo tratto d’autore va ricercato nella critica di costume con i meccanismi della commedia. Film come Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968), Il commissario Pepe (1968) e Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca (1969).


C’eravamo tanto amati (1974) è uno dei suoi migliori lavori, soffuso di malinconica ironia, attraverso le vite incrociate di tre personaggi innamorati della stessa donna racconta trent’anni di storia italiana, rappresenta il crollo delle ideologie e rende omaggio al cinema italiano. C’eravamo tanto amati va oltre la commedia all’italiana e compone un affresco mirabile che mette al centro il sentimento del tempo che passa analizzando gli ideali traditi.


C’eravamo tanto amati è scritto e sceneggiato dal regista con la collaborazione di Age (Agenore Incrocci) e Furio Scarpelli, il montaggio è dell’esperto Raimondo Crociani, mentre la fotografia è di Claudio Cirillo. Armando Trovaioli compone una delle sue migliori colonne sonore, soffusa di malinconia e nostalgia del passato, tra pezzi d’epoca che ricordano la storia musicale italiana. La pellicola ha subito un’operazione di restauro con la collaborazione del regista ed è considerata un documento di interesse nazionale, perché in poco meno di due ore compone un quadro dei principali eventi della storia italiana dal 1944 al 1974. Si comincia con la guerra partigiana che ci fa conoscere i tre amici interpretati da Nino Manfredi, Stefano Satta Flores e Vittorio Gassman, legati per la vita da un’importante esperienza di lotta. “Volevamo cambiare il mondo, invece il mondo ha cambiato noi”, è la malinconica espressione di Gassman, al tavolo di una trattoria, nella rimpatriata con i vecchi compagni. “La nostra generazione ha fatto veramente schifo. Era meglio morire sui monti. Noi lottavamo per creare una società più giusta…”, conclude.


Stefania Sandrelli è la donna contesa tra Manfredi, Gassman e Satta Flores, infine moglie soddisfatta di Manfredi, consapevole di aver vissuto cercando di trovare la sua strada. Gassman è l’arrivista arricchito che sposa senza amore la figlia (Giovanna Ralli) di un imprenditore nostalgico fascista (un grande Aldo Fabrizi) per costruirsi una posizione. Alla fine sarà il più povero di tutti, perché resterà solo con l’odiato suocero, dopo la morte della moglie in un incedente, abbandonato dai figli, a ricordare un grande amore non colto per inseguire la ricchezza. Satta Flores è l’intellettuale idealista che perde l’occasione della sua vita a Lascia o Raddoppia, abbandona la famiglia e vive da solo a Roma dove campa scrivendo sotto pseudonimo critiche cinematografiche. Manfredi è il poveraccio del gruppo, idealista ignorante ma sincero, capace di perdonare e di mollare tutto per amore, senza tradire le sue idee.


Ettore Scola racconta sentimenti e lotta politica, vita quotidiana e grandi temi, piccole cose, amori perduti, rimpianti, sotterfugi, arrivismo e idealismo, senza retorica ma con sentimento. Il regista segue le vite parallele dei tre amici che a volte si intersecano, raccontando i punti salienti della storia d’Italia: referendum tra monarchia e repubblica, prime elezioni repubblicane, il boom e gli imprenditori di pochi scrupoli, referendum sul divorzio...

I tre amici in trattoria (Satta Flores, Gassman, Manfredi)

Eccellenti le parti oniriche e lo stratagemma teatrale di mettere in primo piano il personaggio, come se fosse sotto la luce dei riflettori, quando racconta la sua versione della storia. Stupenda la scena centrale realizzata in piano sequenza per immortalare i protagonisti che prendono ognuno la loro strada. Suggestiva l’idea di raccontare il passato in bianco e nero e di far tornare il colore quando il regista narra i tempi moderni e l’Italia del boom dei primi anni Sessanta. Alcuni personaggi interpretano loro stessi, come Mike Bongiorno, che finge di presentare la popolare trasmissione Lascia o raddoppia, ma anche Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Anita Ekberg e Vittorio De Sica regalano un piacevole cammeo. Un altro momento di cinema nel cinema vede la Sandrelli abbandonare la carriera di attrice e impiegarsi come maschera in un cinema: Manfredi è in sala e guarda la pellicola, ma i personaggi raccontano la loro storia d’amore.

Manfredi e Gassman 

C’eravamo tanto amati è un film cinefilo, perché attraverso il personaggio di Stefano Satta Flores il regista cita capolavori come Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, ma anche frasi storiche come “I panni sporchi si lavano in famiglia”, pronunciate da Andreotti per condannare il neorealismo. Un’altra parte vede Satta Flores raccontare per immagini La corazzata Potëmkin (1926) di Sergej M. Ejzenštejn e provare empiricamente alcune sequenze mentre Stefania Sandrelli ascolta affascinata. La dolce vita (1960) di Federico Fellini è citata in diretta, perché una breve parte del film si svolge sul finto set mentre il regista gira la scena del bagno di Anita Ekberg e Marcello Mastroianni nella Fontana di Trevi. Giovanna Ralli cita il cinema di Michelangelo Antonioni e soprattutto L’avventura (1960) con il suo personaggio di donna alla ricerca di se stessa. 


Un film da recuperare per capire la società italiana e i suoi vizi di fondo, sorridendo dei nostri stessi difetti. Ettore Scola, in una recente intervista rilasciata ad Alain Elkann per La Stampa ha detto: “I film ai quali mi sento più affezionato sono: C’eravamo tanto amati, La famiglia, Una giornata particolare, Ballando ballando, un malloppo compatto, come se avessi fatto un solo film, temi a me cari costantemente cambiati, perfezionati e ambientati in epoche diverse”.


Ettore Scola è un regista che difficilmente sbaglia un film e quando esce con una nuova opera ha sempre qualcosa da dire. Sono ottimi anche Brutti, sporchi e cattivi (1976), sgradevole e cinica operazione per presentare i problemi degli immigrati, La terrazza (1980), che segna la fine della commedia all’italiana, e Passione d’amore (1981), insolito film in costume per raccontare una storia di emarginazione. Il capolavoro di Ettore Scola resta Una giornata particolare (1977), una superba interpretazione di Marcello Mastroianni e Sophia Loren in un dramma psicologico consumato durante un breve incontro nel giorno della visita di Hitler a Roma. Sono interessanti alcuni film successivi sulla realtà italiana come Maccheroni (1985), amara riflessione sull’amicizia, La famiglia (1987), racconto di ottant’anni di storia privata, Che ora è (1989), sulla difficoltà di comunicare tra padre e figlio, e Mario, Maria e Mario (1993), storia pubblica e privata ai tempi della fine del partito comunista. Tra i lavori più recenti va citato La cena (1998), pellicola girata in un’unità di tempo e di luogo per raccontare diverse esistenze prese a simbolo della realtà contemporanea. Gente di Roma (2003) è il suo ultimo film, girato in digitale e visto da pochi, ma non è all’altezza di tanti lavori precedenti, anche se si sforza di raccontare la società multietnica. Ettore Scola si segnala come regista impegnato e animato da una sincera coscienza civile che realizza cinema da metabolizzare e riflettere per comprendere la nostra storia. Il regista lascia il mondo del cinema nel 2011: “A ottant’anni sono stanco del cinema, ma soprattutto non mi riconosco più in certe logiche produttive. Mi manca tutto del mio cinema, dagli attori come Sordi, Manfredi, Gassman, Tognazzi che erano anche autori, a sceneggiatori come Age, Scarpelli e Sergio Amidei. Adesso che sono vecchio vorrei fare qualcosa di inutile ma di importante in favore del cinema, magari andare in un cittadina dove venti persone manifestano perché non chiuda l’unico cinema destinato a diventare un supermercato. Non immaginavo la vecchiaia in un Paese così scempiato e allo stremo, ma spero molto nei giovani che da qualche tempo stanno dando iniezioni di vitalità e motivo di resistere anche ai vecchi”. (da La Stampa del 22 aprile 2011, intervista rilasciata ad Alain Elkann). 

Per vedere qualche scena del film: http://www.youtube.com/watch?v=SIQkeinmiak

Gordiano Lupi

domenica 25 dicembre 2011

I due parà (1965)

di Lucio Fulci


Regia: Lucio Fulci. Soggetto e Sceneggiatura: Amedeo Sollazzo, Vittorio Metz, Lucio Fulci. Fotografia: Tino Santoni. Musica. Piero Umiliani. Montaggio: Pedro del Rey. Scenografia: Adolfo Cofiño. Produzione: IMA Productions (Roma) e Ágata Films S.A. (Madrid). Interpreti: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Umberto D’Orsi, Luciano Bonanni, Robert Camardiel, Maria Silva, Monica Randall, Francesca Romana Coluzzi, Tano Cimarosa, Lino Banfi (Pasquale Zagaria), Ignazio Leone, Luis Peña, Enzo Andronico, Piero Morgia, Emilio Rodriguez, Franco Morici, Linda Sini, Chiara Bermejo. 


I due parà è una coproduzione italo - spagnola gestita a dovere da Lucio Fulci che non perde l’occasione per fare un discorso politico a base di antiamericanismo e di delusione rivoluzionaria. Si tratta di un film comico ma è evidente la matrice anarcoide di un uomo libero, contrario a ogni tipo di regime dittatoriale.
La scena iniziale vede Franco e Ciccio Impallomeni citare i primi anni di vita artistica dei due attori siciliani, soprattutto quella di Franco Franchi, per molto tempo comico della posteggia sicula. Ciccio è il presentatore, mentre Franco è un finto fachiro indiano che siede sui chiodi, mangia fuoco e vetri. “Anche per oggi non si mangia”, è la considerazione quotidiana I due cugini si rendono conto che facendo gli artisti di strada non racimolano denaro, perché i siciliani osservano indifferenti e al momento di pagare si defilano. Per questo i due cugini decidono di cercare fortuna in America, ma invece che a New York finiscono nella Repubblica Sudamericana di Santa Prisca, sconvolta da una rivoluzione contro il feroce dittatore Limar (Robert Camardiel). Franco e Ciccio si trovano coinvolti in una serie di attentati contro la vita del dittatore, che riesce sempre a farla franca, nonostante la guerriglia portata avanti da Baffudos e Sbarbadas cerchi di eliminarlo. I guerriglieri di Fulci sembrano una buffa parodia dei rivoluzionari cubani (Barbudos), ma l’ambientazione pare più messicana che caraibica, anche se il film è realizzato in studio e gli esterni sono pochissimi. Le Sbarbadas sono la colonna femminile dei rivoluzionari e conferiscono alla storia un tocco di femminismo. Alberto D’Orsi è l’ambasciatore degli Stati Uniti, uomo della Casa Bianca che ha costruito il dittatore e cerca di difenderlo dai rivoluzionari, ma gliene capitano di tutti i colori. Alla fine lo vedremo ricoperto da fasce e garze per essere caduto più volte in trabocchetti pieni di famelici coccodrilli. Franco e Ciccio vengono usati dal dittatore come pedine per i suoi giochi, vestiti da parà e catapultati nel campo del Baffudos. La trama non è così importante, perché la pellicola vive una serie di colpi di scena che portano i due cugini sui vari fronti, prima dalla parte di Limar, poi dei Baffudos, infine a prendere il posto del dittatore, dando vita a gag che ricordano Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin, per poi lasciare Santa Prisca alle Sbarbadas e raggiungere un posto tranquillo: il Vietnam!


I due parà è la pellicola numero 52 interpretata da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, confezionata in un mese di lavoro a costi contenuti, debutta per Natale e riscuote un buon successo di pubblico. Il film anticipa temi che saranno ben più espliciti ne Il dittatore dello stato libero di bananas (1971) di Woody Allen, secondo lavoro da regista dell’attore nordamericano, il primo scritto con Mickey Rose.


I due parà è una farsa anti imperialista, una perla comica nella cinematografia italiana anni Sessanta,  un continuo susseguirsi di gag fisiche e verbali, travestimenti, esecuzioni che non vanno a buon fine, combattimenti da comiche e satira dei film di spionaggio. La parodia è ai massimi livelli, sia quando sbeffeggia le dittature, che quando ironizza sui rivoluzionari divenuti tiranni, per finire con la guerra del Vietnam. Sono molte le gag che meritano di essere ricordate all’interno di una pellicola a metà strada tra un comico - bellico e una spy story grottesca. Vediamone alcune. Franco Franchi che mangia filo spinato all’amatriciana e frittata di lampadine condita con polvere di ferro. La mancata impiccagione al campo dei Baffudos, grazie al salvataggio delle Sbarbadas, ma soprattutto perché i due cugini dimostrano di essere siciliani cantando una canzone popolare. Notevole la gag del pranzo che Franco divora in un baleno quando è invitato dal generale. Franco e Ciccio vestiti da generali rischiano la vita dopo il trionfo della rivoluzione: uno dei momenti più esilaranti li mostra come finti manichini. Ottima la comica da avanspettacolo al tavolo di un bar insieme a Enzo Andronico, proprietario schiaffeggiato e trattato da servo. Ciccio viene proclamato dittatore con il nome di Ciccio I, Franco diventa il braccio destro, ma si abbandona a sogni di grandezza e di tanto in tanto siede sullo scranno presidenziale. Maria Silva è la bella che seduce il dittatore di turno, a tutti dice le stesse parole, il suo scopo è quello di restare la favorita di chi ha il potere (“Sei il dittatore più bello del mondo, ma sei più bello in pigiama”). Franco imita Mussolini nelle espressioni del volto quando giunge il suo momento di fare il dittatore e cita a più riprese Charlie Chaplin. Alberto D’Orsi è sempre più malconcio come ambasciatore USA, ma nel finale sono le donne che vanno al potere, anche se il regista fa dire a Ciccio: “Una cosa è certa: gli americani comandano sempre”. L’aereo che porta i due comici lontano da Santa Prisca non raggiungerà un posto tranquillo, come loro vorrebbero, ma il Vietnam sconvolto dalla guerra. Polemica pacifista e antiamericana, condita dalla smorfia di Franco che esprime la sua preoccupazione.


La canzone intonata dai Baffudos ricorda i temi della rivoluzione cubana: “Viva la revolución, viva la riforma agraria, viva i Baffudos!”. La critica politica non tralascia i rivoluzionari perché cita La fattoria degli animali di George Orwell: “Quando andremo al potere saremo uguali agli altri, ma io come dittatore sarò più uguale”. Tra i caratteristi ricordiamo Tano Cimarosa nei panni del guerrigliero, Lino Banfi come soldato di Limar e Francesca Romana Coluzzi vestita da Sbarbudas.

Lucio Fulci, il regista che meglio ha valorizzato Franco e Ciccio

Vediamo una carrellata di giudizi critici, quasi tutti positivi.
Paolo Albiero e Giacomo Cacciatore nel fondamentale Il terrorista dei generi - Tutto il cinema di Lucio Fulci (2004) affermano: “I due parà è un film anomalo nel panorama dei Franco & Ciccio movies: dietro al consueto copione - che prevede i comici nelle vesti di tonti alle prese con equivoci e qui pro quo -  il regista, indomito e spietato osservatore del suo tempo, tesse sottovoce, con il linguaggio di una satira semplice ma graffiante, un apologo su politica e ideologia, o meglio, su quando la politica è senza ideologia (gli americani e il dittatore) e l’ideologia è senza politica (i rivoltosi)”. Morando Morandini assegna ben due stelle alla pellicola: “La sceneggiatura di Metz e Sollazzo offre più di uno spunto satirico contro l’escalation dell’intervento USA nel Vietnam”. Marco Giusti (Stracult): “Grandissimo Franco & Ciccio movie, di una comicità paurosa. Fulci dirige da maestro i nostri eroi”. Pino Farinotti concede due stelle, ma con poco entusiasmo: “Solite avventure del duo siculo che partecipa a un golpe in Sudamerica”. Paolo Mereghetti è il meno convinto, ma concede una stella e mezzo: “Macchinosa farsa parapolitica che vorrebbe ironizzare sugli USA e la loro politica estera ma si riduce a qualche numero circense (come nel prologo siciliano), con Franco Franchi che sciorina il suo repertorio di smorfie e facile comicità (mangia vetri e chiodi spacciandosi per un fachiro). Tanto per sottolineare il dilettantismo dell’operazione, all’inizio del film il personaggio di Franchi è chiamato Pasquale e poi - più tradizionalmente - Franco”. 
Il nostro giudizio da spettatori lontani dal pregiudizio è che siamo di fronte a una farsa intrisa di elementi satirici ancora capace di far sorridere nonostante il tempo passato. La critica all’imperialismo e alla deriva rivoluzionaria in senso dittatoriale è più che mai attuale.

Per avere un assaggio del film: http://www.youtube.com/watch?v=cgWgjcyT3Cc
(Acquistabile in edicola nella edizione Hobby & Work)

Gordiano Lupi

sabato 24 dicembre 2011

Starcrash di Luigi Cozzi, un film da rivalutare

Il successo riportato da George Lucas con Guerre stellari (1977) convince il regista italiano Luigi Cozzi, grande appassionato di fantascienza, a girare un film che si muove sulla stessa falsariga: Starcrash - Scontri stellari oltre la terza dimensione (1978). Un film a suo modo d’autore perché il regista scrive pure il soggetto e lo sceneggia, in collaborazione con Nat Wachsberger e R.A. Dillon per  i dialoghi. La pellicola esce con la firma anglofona di Lewis Coates, pseudonimo che in Italia e sui mercati esteri permette una migliore commercializzazione del prodotto. Un nutrito gruppo di tecnici italiani e americani lavora agli effetti spaziali e stellari ben riprodotti in studio: Paul Beeson, Roberto D’Ettore Piazzoli, Roberto Girometti, Giuseppe Lanci e Ron Hays. La colonna sonora di John Barry realizza un buon tema fantascientifico stile Guerre stellari, tanto da risultare a tratti molto intensa e suggestiva. Un vero e proprio cast lavora agli effetti speciali, che per le conoscenze tecniche del tempo e per le possibilità economiche sono notevoli: Matteo di Verzini, Germano Natali, Armando Valcauda e Caio Crescini. Il montaggio di Sergio Montanari è serrato e rapido, non ci sono tempi morti e le scene d’azione le possiamo definire “all’americana”. Ottime anche le scenografie di Amedeo Crugnola che ricostruisce navicelle spaziali, mondi lontanissimi, pianeti sconosciuti in modo più che credibile. Producono il film Nat e Patrick Wachsberger e Luis Nannerini per la A.I.P. Enterprises e lo distribuisce la Fida Cinematografica. Gli attori principali sono la bella Caroline Munro nei panni succinti di Stella Star, pirata dello spazio convertita agli ideali dei buoni e Marjoe Gortner, il compagno d’avventura Akton dai poteri soprannaturali e dal cuore d’oro che si sacrifica per la giusta causa. Presenze importanti: Judd Hamilton, marito della Munro nella vita reale e robot Elle nella finzione, mascherato in tuta spaziale da androide, e il grande Christopher Plummer, l’Imperatore delle galassie. Una particina molto breve viene ritagliata anche per Nadia Cassini, sensuale regina delle Amazzoni che canta pure il motivetto della colona sonora Star Crash. Joe Spinelli è il malvagio conte Zarthan e Robert Tessier è Thor il traditore. Citiamo anche Daniela Giordano, Cindy Leadbatter e Salvatore Baccaro che per le sue caratteristiche fisiche viene utilizzato nei panni di un orrendo umanoide. Baccaro è un vero esperto di simili interpretazioni, si veda per tutti La bestia in calore (1977) di Luigi Batzella che Marco Giusti ha utilizzato addirittura come immagine simbolo per il suo dizionario “Stracult” sul cinema italiano. Il film è girato a imitazione di Guerre stellari però ha una sua identità autonoma, è prodotto con capitali Usa e girato a Cinecittà con la partecipazione di validi tecnici italiani. Star Crash è noto anche con i titoli: Scontri stellari oltre la terza dimensione e Stella Star. Negli Stati Uniti è stato distribuito da una società di Roger Corman e ha incassato molto bene, secondo una dichiarazione dello stesso Cozzi riportata nel volume “Spaghetti nightmares” (Luca M. Palmerini e Gaetano Mistretta, 1996). 


Il budget a disposizione di Cozzi per costruire una risposta italiana a Guerre stellari era di appena un miliardo e seicento milioni mentre ne sarebbero serviti molti di più per fare le cose al meglio. Il film in ogni caso si fa apprezzare per un soggetto semplice e originale, per le scenografie curate e un cast di attori ben impostato, tanto che si lascia vedere con piacere a distanza di oltre vent’anni. La fantascienza italiana non presenta prodotti cinematografici di particolare valore, a parte i classici di Antonio Margherirti e di Mario Bava che risalgono agli anni Sessanta. Luigi Cozzi si ispira ai grandi maestri e pesca a piene mani dagli effetti speciali di George Lucas ed è ovvio che il paragone va fatto con i film degli anni Settanta e non con le produzione attuali che si avvalgono di effetti speciali computerizzati un tempo ignoti. Ecco perché non condivido la definizione di Marco Giusti che su “Stracult” a proposito di Star Crash  parla di supercult trash, se alla parola trash si dà il suo vero significato di spazzatura. Il trash si differenzia dal kitsch perché è “il brutto consapevole di essere tale, senza le pretese intellettuali del kitsch che nasconde sempre un messaggio. Non vedo come si possa definire trash un buon film come Star Crash, costruito con perizia artigiana utilizzando al meglio i pochi mezzi disponibili a livello di effetti speciali, ben recitato e con una narrazione rapida ed essenziale che appassiona al punto giusto. Certo, è un po’ la solita storia dello scontro tra buoni e cattivi dove, dopo una lunga battaglia e diverse peripezie che lasciano sul campo alcune vittime, i buoni vincono e i cattivi perdono. Nessuno lo può negare. Però nei romanzi e nei film di fantascienza spaziale la storia è sempre un po’ quella e anche Guerre stellari non brillava certo per l’originalità della trama. La fantascienza è questa, se piace la si accetta per il suo compito di intrattenimento puro e fantastico, come cinema che fa sognare e che ti immerge nell’atmosfera di mondi lontanissimi. Secondo me un film di fantascienza è ben riuscito quando rende credibile l’impossibile ricorrendo a buoni effetti speciali e a una scenografia realistica. Star Crash ci riesce ed è un esempio di come si possa fare un buon film di fantascienza con mezzi non miliardari, seguendo la lezione di maestri come Bava e Margheriti.

Caroline Munro e Judd Hamilton

Per parlare un po’ del regista diciamo che Luigi Cozzi (Busto Arsizio, 1947) viene dal giornalismo e collabora a lungo con il periodico giovanile “Ciao 2001”, rivista che tutti noi ragazzi degli anni Settanta abbiamo letto perché era l’unico giornale che parlava delle cose che ci interessavano (belle attrici un po’ svestite, cinema e soprattutto musica). Cozzi manifesta una grande passione per la fantascienza traducendo per Mondadori i romanzi della serie “Urania” che negli anni Settanta andavano per la maggiore. Nel cinema fa prima l’assistente al doppiaggio e al montaggio, poi collabora con Dario Argento ed è aiuto regista per Quattro mosche di velluto grigio (1971) e Le cinque giornate (1973).  Debutta nel cinema a ventidue anni con l’interessante Il tunnel sotto il mondo (1969), un film fantascientifico con impronta d’autore tratto dal romanzo di Frederick Pohl, che racconta le vicissitudini di un uomo che si sveglia in una città il 32 di luglio e si accorge che non esistono più presente e futuro. Nel 1975 Cozzi prosegue la sua avventura di regista con il film tv Il vicino di casa e con il giallo argentiano a basso budget L’assassino è costretto a uccidere ancora (1975). Sempre del 1975 è La portiera nuda con Irene Miracle ed Erika Blanc, un buon film erotico anche se il genere non è tra i preferiti dal regista. Cozzi dirige pure un lacrima movie al tempo del successo de L’ultima neve di primavera (1973) di Raimondo Del Balzo e il suo film strappalacrime si intitola Dedicato a una stella con Pamela Villoresi e Richard Johnson. L’ho visto che ero un ragazzino su insistenza della mia compagna di allora che amava questo genere di film. Pare che Cozzi lo ritenga il suo miglior film ma io non ho mai avuto grande simpatia per i lacrima movies. Dopo Star Crash, una delle sue cose migliori, dirige un buon film come Contamination (1980), risposta italiana ad Alien (1979) di Ridley Scott e apprezzato pure da Quentin Tarantino,  un film costato quattrocento milioni e girato in cinque settimane che in Italia hanno visto in pochi ma che è un cult in tutto il mondo. Un altro genere dove Cozzi ha dato il meglio di sé è il peplum con due film come Hercules (1983) e Hercules II (1984). Dobiamo parlare di neo peplum perché siamo fuori tempo per il peplum classico, ma Lou Ferrigno (il celebre Hulk televisivo) è molto credibile nei panni dell’eroe mitologico. La cosa originale è che l’Ercole di Cozzi se la deve vedere con un mondo fantascientifico tra mostri meccanici, centauri e mosconi giganti. Hercules II è un film di montaggio che pesca scene dai ritagli del primo e da altri film come I magnifici dieci gladiatori di Bruno Mattei, il cast non è eccelso e c’è addirittura Milly Carlucci nei panni di Urania. Fu un bel fiasco ma va ricordato per i buoni effetti speciali e per il montaggio paziente e certosino.  Purtroppo Luigi Cozzi chiude la carriera con il pessimo Paganini Horror (1989), film disastro per via di una produzione che economizzava su tutto, pure se poteva contare su attori come Daria Nicolodi e Donald Pleasence. Questo breve profilo di Luigi Cozzi mi serve prima di tutto a dire che siamo in presenza di un regista preparato che ha girato pochi film ma quasi tutti con una storia da raccontare, spesso sono stati film d’autore che si è scritto e sceneggiato da solo. Fantascienza e giallo sono i suoi cavalli di battaglia, pure se per la fantascienza nutre una particolare predilezione. Ha curato rassegne di cinema americano di fantascienza e ha scritto molte sceneggiature per film altrui. Ricordiamo: Quattro mosche di velluto grigio, La mano nera, Le cinque giornate, Il re della mala, Il romanzo di un giovane povero, Orgasmo nero, Il gatto a nove code, Shark - rosso nell’oceano Torniamo a Star Crash e ai motivi per cui secondo me è un film sottovalutato e da riscoprire. Prima di tutto raccontare il soggetto è molto semplice: l’Imperatore dell'Universo recluta i pirati dello spazio Stella Star e Akton, li unisce all’androide Elle e al futuro traditore Thor per far fronte al malvagio conte Zartharn. Il film è un susseguirsi di battaglie e avventure rese cinematograficamente molto bene e si conclude con la scontata vittoria dei buoni sui cattivi. 


Non condivido per niente lo sprezzante giudizio di Leonard Maltin Review: “Il ghignante Gortner e la sexy Munro sono reclutati per salvare l’universo dalla distruzione minacciata dal cattivo Spinelli. Film di fantascienza demenziale con abbondanza di effetti speciali; se non siete un fan della Munro, è buono per farsi quattro risate, non di più”. Non sono neppure dalla parte di Marco Giusti che su “Stracult” scrive: “Gli effetti speciali sono spaventosi, gli attori sono scelti come solo nei più grandi trash americani, le battute ridicole. Su tutto trionfa la giunonica eroina Caroline Munro, strafigona in bikini di pelle, con mutande ascellari più che stellari, una specie di quadratone sulla patonza, un pistolone pendulo sulle cosce e folli stivaloni”. Lasciamo stare che poi Giusti equivoca alla grande e afferma che Akton è un robot dai poteri paranormali, mescolando il personaggio di Akton con quello dell’androide Elle. Akton viene invece definito “un alieno ricciolone interpretato dall’ex predicatore Marjoe Gortner”. Giusti demolisce film e attori e prosegue dicendo che “Christopher Plummer appare sull’astronave come fosse un ologramma mal riuscito, il gruppo se la vede con ogni tipo di mostro e pericolo, con il cattivissimo barone Zarthan, con una gigantessa robot, con un gruppo di amazzoni dello spazio comandate da una Nadia Cassini col sedere di fuori (non è vero… una tantum è coperto, nda)”. Per Giusti infine Caroline Munro è del tutto inespressiva e declama battute che fanno ridere, mentre a mio parere la bella attrice è una delle presenze migliori del film. Secondo me caso mai si poteva sfruttare meglio e di più il sex appeal di Nadia Cassini invece di confinarla in una fugace apparizione.  In ogni caso va dato a Marco Giusti il merito di essere uno dei pochi critici cinematografici italiani che ricorda l’esistenza di Star Crash, pellicola candidamente dimenticata nei loro imponenti manuali sia dal Mereghetti che dal Morandini. Si salva dall’oblio solo Pino Farinotti che dedica al film solo quattro anonime righe dove racconta la trama in modo asettico. E poi Marco Giusti conclude dicendo che “rivisto oggi Star Crash merita uno studio approfondito che vada al di là della battuta facile”, quindi dobbiamo dargli atto di grande onestà intellettuale. Il critico grossetano non è di certo prevenuto, come la maggior parte dei critici intellettuali, verso questo genere di pellicole. Il compito che mi propongo in queste pagine è proprio quello di cercare di analizzare a dovere una pellicola che merita maggiore considerazione nello scarno panorama della fantascienza italiana.

Caroline Munro

Tra le tante cose buone del film ricordo la bella ricostruzione della nave spaziale, i giochi di luce che ricreano un campo magnetico, i modellini ben confezionati che rendono credibili le macchine volanti, gli uomini che fluttuano nello spazio come veri astronauti e i trucchi psichedelici come gli ologrammi dove compaiono il giudice spaziale e l’Imperatore. L’ambientazione fantascientifica è curata, bella l’immagine della prigione - fornace dove è condotta Stella Star che dopo poche sequenze organizza una rivolta e fugge. Citiamo una suggestiva sparatoria a raggi infrarossi  e dei primi piani sul sexy costume della Munro che mette in mostra le lunghe gambe, pure se l’attrice non è soltanto bella ma pure brava. Gli effetti speciali non sono male per il periodo storico e per i mezzi a disposizione, notevoli gli sfondi e le immagini in sovrimpressione che risultano credibili pure quando le navicelle volano e il tutto è girato in uno studio di Cinecittà. La sequenza dell’incontro con le amazzoni mi ha ricordato il Pianeta delle scimmie di Franklin Schaffner (1968), soprattutto per l’ambientazione su una spiaggia deserta e surreale. Da notare anche il costume sexy di Nadia Cassini che si vede solo per poche sequenze e mostra le gambe nude e un po’ di seno, ma per una volta niente sedere. Il mostro d’acciaio attivato da Nadia Cassini che contrasta la loro fuga è macchinoso e costruito in modo artigianale, però tutto sommato non stona nell’economia del film. Bella la scena del coltello enorme lanciato a bloccare la fuga di Stella e del robot Elle e la lotta finale che lo vede soccombere sotto le scariche della navicella. Pare un novello Polifemo sull’isola dei ciclopi questo gigantesco guerriero di latta dai movimenti lenti e compassati. Si prosegue con scene di guerra che si svolgono sulle navi spaziali che ricordano molto gli effetti dei videogiochi anni Settanta.


Il pianeta di ghiaccio è un altro scenario ben ricostruito e le sequenze che vedono Stella ed Elle assiderati sono molto credibili. Interessante la figura del quasi umano robot Elle programmato per non arrendersi mai che salva da morte sicura l’eroina grazie al suo calore termico. Akton intanto uccide Thor che aveva tradito per mettersi al soldo del conte malvagio e si scopre che lui aveva poteri soprannaturali al punto di leggere il futuro. “Però non è giusto parlare del futuro pure se lo conosco, perché poi qualcuno di noi tenterebbe di cambiarlo e questo non è possibile” dice con parole da vecchio saggio. Altra parte interessante è quella che mostra l’arma mentale del perfido conte Zarthan che colpisce con raggi rossi e campi magnetici. Ma su tutti citerei gli orribili umanoidi che attaccano e distruggono Elle a randellate (pure se poi nel finale tornerà ricomposto e più attivo di prima) e che sembrano mostruosi uomini delle caverne. Salvatore Baccaro è perfetto nella parte e non ha bisogno di maschera, gli altri invece presentano tratti sfigurati tipici dei film horror. Le scene che vedono protagonisti gli umanoidi sono dei bei pezzi di cinema fantahorror sullo stile di Mario Bava e del suo Terrore nello spazio (1965).

Caroline Munro  e Nadia Cassini, due bellezze a confronto

A questo punto entra in scena anche il figlio dell’Imperatore che per mezzo di un’arma letale nascosta nel casco spaziale uccide umanoidi a colpi di raggi e libera Stella. Il conte Zarthan è un malvagio da fumetto, ride con un ghigno sardonico che pare il Ming di Flash Gordon, ma tutto sommato Joe Spinelli se la cava bene nella caratterizzazione del cattivo. La morte di Akton è commovente, lui si disintegra nella galassia per il bene di tutti e per la salvezza dei compagni. “Il mio unico vero amico” dice Stella mentre ne piange la scomparsa. La parte finale del film è una guerra stellare ad alto livello e appassiona gli amanti della fantascienza spaziale. L’Imperatore ferma il flusso del tempo per te cicli e da quel momento comincia la battaglia spaziale a base di modellini e di effetti da videogioco che ricordano molto i vecchi film di Margheriti e Bava. Da citare la fanteria spaziale che viene catapultata nella navicella nemica con un singolare abbordaggio all’interno di siluri volanti che sembrano enormi suppostoni gialli. Le sequenze di guerra sono costruite con originalità e inventiva, tutte a base di fuochi d’artificio e lampi di magnesio realizzati in studio, però ricordiamo anche molti corpo a corpo a base di lance con raggi laser e pistole che lanciano mortali raggi verdi. La prima battaglia la vince il perfido conte che vuole usare la sua arma letale contro il pianeta dell’Imperatore. I nostri eroi risolvono la difficile situazione ricorrendo allo scontro stellare con un’isola cosmica che viene sospinta verso la fortezza del conte. Intanto Elle è stato rigenerato e il suo aiuto è decisivo nello scontro finale dove si notano pianeti costruiti con lucine colorate in un finto spazio e una battaglia tra le navicelle del conte e l’isola cosmica guidata da Stella e dal fido androide. Il conte muore nell’esplosione finale mentre Stella ed Elle si abbandonano a una nuotata spaziale e fanno ritorno alla base. Tutto finisce nel migliore dei modi con il figlio dell’Imperatore che si innamora di Stella Star e il vecchio Imperatore che filosofeggia sulla calma raggiunta e sulla nuova possibilità di sorridere. Una menzione particolare la merita il bravo Christopher Plummer che rende credibile questa figura di Imperatore prima tormentato e alla fine felice per aver ritrovato il suo unico figlio disperso nello spazio. Tutto il ritmo del film è sostenuto e cattura l’attenzione dello spettatore calato in uno scenario futuribile che ha del fiabesco e del surreale ma che è reso con dovuta credibilità. 


Da un punto di vista economico Star Crash è costato un anno e mezzo di lavorazione tra compromessi e rinunce, è stato un successo in tutto il mondo e ha chiuso con un incasso di sedici milioni di dollari soltanto in America. Mica male. In Italia invece è stato snobbato da critica e parte del pubblico, ancora adesso abbiamo visto che il solo Marco Giusti sente la necessità di parlarne. Il tempo come sempre galantuomo porterà a rivalutare anche opere come questa, per il momento mi sono provato a dissipare qualche pregiudizio di troppo. Per finire vi dico che se amate la buona fantascienza andatevi a rivedere Terrore nello spazio di Mario Bava e Il pianeta degli uomini spenti di Antonio Margheriti. Ma un posticino nella vostra serata dedicata al fantastico lasciatelo anche per Star Crash che ne vale davvero la pena.

Gordiano Lupi
(tratto da Cozzi stellari - Il cinema di Lewis Coates - edito pure in inglese e diffuso sul mercato USA)


mercoledì 21 dicembre 2011

C’era una volta il West, in Andalusia

di Andrea B. Nardi


Sono diventato un uomo di cavalli. Forse, oso sperarlo, un cowboy. E allora vi voglio raccontare una storia, che palpita in Arizona ma che da quarant’anni vive in Andalusia. Vedete, la verità e la realtà non sono sinonimi: così voi, io, un sasso, il mondo siamo veri, esistiamo veramente; però una poesia, un romanzo, un film, un’idea, un sentimento – che per il mondo significhino qualcosa – esistono realmente, contribuiscono alla costruzione reale del mondo. Ecco quindi che la realtà appare essenziale come la verità, spesso a essa superiore. Per questo motivo anche inseguire la storia, non vera, di un film diventa un’emozione importante. Diventa ciò che concretamente sei, nella realtà, appunto.
Tutto ha inizio nel Ranch McBain, a Sweet Water, un luogo immaginario del West che esiste realmente in Andalusia, nella Sierra Alhamilla, vicino ad Almeria, Spagna. Io ci sono stato, l’ho visto, l’ho toccato, ci ho finalmente cavalcato. Venne costruito negli anni Sessanta da Sergio Leone, per il suo capolavoro C’era una volta il West, di cui fu autorevolmente detto: «La storia del Cinema inizia e finisce con C’era una volta il West», e che oggi è conservato nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
La famiglia McBain non c’è più, sterminata dalle rivoltellate di Frank, http://www.youtube.com/watch?v=HcG3caqbAVQ&feature=related, ma il ranch è ancora qui, intatto, circondato dalla stessa prateria sconfinata e rossa. Così come si possono ancora rintracciare – questi con fatica – i ruderi del villaggio di Flagstone, il punto esatto della ferrovia del duello iniziale di Armonica http://www.youtube.com/watch?v=qYr9SyIiqDc&feature=related, la stazione dove scende Jill, e la strada infinita in cui si avventura il suo calesse http://www.youtube.com/watch?v=M4h9VFNBZS8&feature=related, e che la condurrà idealmente, e quindi realmente, sino alla Monument Valley in Arizona.


Molte altre emozioni aspettano nei dintorni. Continuo a cavalcare (ma potrete tranquillamente andarci anche in auto) e non molto distante trovo il deserto di Tabernas. Qua non solo si entra nei villaggi western ancora vivi e abitati che tante sparatorie videro nei film, ma soprattutto si possono scovare le location precise di altre storie leoniane, la cui importanza per noi cultori di fantasie è direttamente proporzionale alla difficoltà di rintracciarle sul terreno: in ciò sono stato miracolosamente aiutato dalle decennali ricerche di Marino Gozzi (http://xoomer.virgilio.it/leonewestern/index.html), il massimo esperto mondiale d’individuazione dei set western di Leone. È grazie a lui che rintraccio – incredibile ma vero – proprio le postazioni delle mitragliatrici esattamente conservate di Giù la testa http://www.youtube.com/watch?v=Kmm4_gEG6zQ&feature=related, e i resti del ponte esploso nell’agguato al passaggio dei soldati messicani http://www.youtube.com/watch?v=REaRWIYg6II&feature=related.
Proseguendo per la pianura de La Calahorra, dove gli orizzonti sterminati ti mangiano i pensieri, galoppo a lungo, mi stanco di polvere, ma alla fine giungo nella cittadina di Guadix. È deliziosa. Chi può dimenticare i suoi eleganti muri bianchi rotti nei silenzi dalle fucilazioni di massa ordinate dal governatore? http://www.youtube.com/watch?v=ZH1JGLuBTRI&feature=related


Io ho voluto fare di più. Sono arrivato davanti all’Azucarera San Torquato, ormai in disuso, ho scavalcato gli alti muri di cinta di mattoni gialli, e mi hanno accolto le trincee, divorate dalle erbacce, adibite un tempo a campi di concentramento per i rivoluzionari catturati http://www.youtube.com/watch?v=9hF7C62Kmt4&feature=related. In città è in atto una contestazione tra chi vorrebbe conservare lo zuccherificio come reperto storico d’archeologia industriale e chi vorrebbe abbatterlo per recuperarne gli spazi. Mi allontano prima di conoscerne l’esito. A volte anche adesso m’è parso in lontananza di sentir gridare Tierra y Libertad!
Quando è ora di tornare indietro, mi rimetto in marcia di buona lena, perché m’aspettano ancora tante cose da ricordare. Punto verso Cabo de Gata, sul mare giù a sud est della Sierra Nevada. A destra ho spiagge bianche su cui incombe la prateria; una volta qui non esisteva l’erba del Parco Nazionale ma la sabbia: dune talmente belle e soffici che perfino Lawrence d’Arabia fu girato in questo punto. L’Africa, d’altra parte, non dista molto, appena un salto sul Mediterraneo.


Voglio raggiungere a un certo villaggio oltre il Cabo, ma per farlo devo attraversare Las Minas di Rodalquilar, una pista montagnosa attraverso una serie di miniere d’oro abbandonate e canyon lunari con villaggi fantasma alternati a piccole valli coltivate. Mi sembra d’essere ancora inseguito dalle colonne dei militari che proprio qui si snodavano http://www.youtube.com/watch?v=a7uuC6oGZh0.
Tante altre sono state le prospettive e le immagini da raccontare di questa storia, e tante ne porterò con me, ma l’ultima, la conclusiva, mi piace dedicarla al villaggio di Los Albaricoques, nel distretto di Nijar. Quaggiù, fra casette basse e un cerchio di pietra per terra, Per qualche dollaro in più si affrontarono l’Indio, il Colonnello, e il Monco http://www.youtube.com/watch?v=_xwyUwBQkJ4. Il finale lo conosciamo, e oggi tutto è rimasto come allora, nemmeno le poche auto di passaggio possono parcheggiare nello spiazzo di pietra, fortunatamente.
A questo punto, come in ogni film western, pur volendo, non posso fermarmi ma devo tornare a nord. Io ho finito qui. Posso solo sperare che il mio cavallo mi riporti a Sweet Water. Un giorno o l’altro http://www.youtube.com/watch?v=e0qMrhePybg.

Andrea B. Nardi