IL FOGLIO del 31 gennaio 2015 - Maurizio Stefanini
sabato 31 gennaio 2015
lunedì 26 gennaio 2015
Nudeodeon (1978)
Regia: Franco Martinelli (alias Marino Girolami).
Fotografia: Maurizio Centini. Direttore di Produzione: Sergio Garrone.
Dialoghi: Enzo Gicca. Musiche: Vassil Kojucharov. Edizioni Musicali: Cam. Aiuto
Regista: Fernando Poggi. Aiuto Operatore: Carlo Marotti. Fotografo di Scena:
Vincenzo d’Onofrio. Costumista: Laila Visintini. Produzione e Distribuzione:
Seven Film. Interpreti: Doroty Flower, Mary Govert, Margaret Harrison, Kerina
Mulligham, Mary (Marina) Lotar (Frajese), Barbara Manson, Tiony Flest.
Nudeodeon parafrasa il titolo di una fortunata trasmissione
televisiva (Odeon) che per prima ebbe
il coraggio di mostrare un nudo femminile frontale, realizzando un finto studio
sui costumi sessuali mondiali. Si comincia e si finisce con l’esposizione di
simboli fallici, statue e dipinti a tema erotico, risalenti alla civiltà
etrusca e greca. La morale non troppo profonda è che tutto il mondo è paese, il sesso unisce, come interesse
fondamentale del genere umano.
Nudeodeon è girato da Marino
Girolami (1914 - 1994), un prolifico veterano che firma alcune opere con il
nome di Franco Martinelli, oltre a questa ricordiamo il poliziesco Roma violenta. Il mondo movie sexy è un genere datato che serve a mostrare alcuni nudi
femminili con la scusa del documentario. In questo caso la produzione (Seven
Film) possiede del materiale prelevato da un documentario americano degli anni
Sessanta, chiama un regista esperto come Girolami per girare alcune
parti erotiche di raccordo e modernizzarlo. Ma la cosa peggiore sono le due
fastidiose voci fuori campo incaricate di recitare dialoghi ai limiti dell’assurdo.
Tutto suona falso fin dalle prime immagini, non c’è neppure il dubbio sulla
veridicità che accompagna i lavori - di ben altro spessore - di Gualtiero
Jacopetti. Segnaliamo una fotografia sporca di Maurizio Centini, sola cosa da
ricordare in un film che si può rivedere solo come reperto storico. La
parte documentaria ci porta in Polinesia, Copenaghen, Africa, New Jersey,
Inghilterra, Messico, Italia e Svezia, ma ogni spezzone è infarcito di sequenze
erotiche ai limiti del porno, in alcuni casi interpretati da attrici
specializzate come Marina Lotar. Vediamo l’amore libero in Polinesia con i nativi
obbligati a soddisfare le loro donne ben cinque volte al giorno, molto voyeurismo e stucchevoli discorsi su
femminismo e omosessualità, ma anche i liberi costumi delle ragazze danesi e
svedesi.
Fantasia sbizzarrita ai limiti del ridicolo, ma anche cattivo gusto
condito di battute omofobe a base di “uomini che imitano le donne” e sequenze
di parrucchieri gay che elargiscono servizietti ai clienti. Gli sceneggiatori s’inventano una scuola
inglese dove gli studenti amoreggiano tra i banchi invece di ascoltare noiose
lezioni, ma anche balletti messicani sulle tombe dei cari estinti nel giorno
dei morti. Molte scene sono girate in studio e nei night, come la parte in cui
Marina Frajese interpreta una padrona di casa americana intenta a organizzare
un’orgia per gli ospiti. I geyser afrodisiaci sono un’altra trovate dei
soggettisti, tanto per far vedere sequenze di rapporti erotici a bordo di una
roulotte, così come è un’altra balla incredibile la storiella dei tedeschi rimasti
in Papuasia per praticare sesso sfrenato con le native. Si procede così,
tra zummate e fotografia in quattro colori, con inserti che mettono in
primo piani nudi femminili, masturbazioni, giganteschi vibratori e
sequenze di rapporti sessuali. Marco Giusti non ha visto il film perché parla
di “un misterioso piccolo porno anni Sessanta che Girolami adatta per i nuovi
gusti anni Settanta inserendo nuove scene molto più piccanti. Cast di
sconosciuti. Film invedibile”. Noi l’abbiamo visto. Siamo stati fortunati.
Tutti
gli altri dizionari di cinema non ne parlano perché non sanno che dire.
Colmiamo una lacuna, anche se il film non merita più di tanto. Molto qualunquismo
e nessuna scientificità, tanto razzismo e parecchio sesso inserito in maniera
posticcia, accompagnato da commenti che vorrebbero essere ironici, ma che
risultano soltanto stupidi. Il film ha fama di pellicola hard, sembra che sia
stato sforbiciato dalla censura italiana, ma nella copia da noi visionata non
abbiamo visto penetrazioni, anche se le sequenze di masturbazione sono molto
esplicite. Vero è che molto spesso la pellicola sembra interrompersi al momento
giusto, con un taglio provvidenziale, mentre l’attrice di turno sta per fare
sul serio. Tra le peggiori battute di un dialogo - davvero osceno! - curato (si
fa per dire) da Enzo Gicca: “Se muore un bambino nero che importa? Ce ne sono
tanti!”. Ho riascoltato diverse volte per vedere se avevo capito bene. Anche
questa era l’Italia degli anni Settanta. Non la rimpiangiamo troppo.
domenica 25 gennaio 2015
Anna quel particolare piacere (1973)
Regia: Giuliano Carnimeo.
Soggetto: Sauro Scavolini, Luciano Martino. Sceneggiatura: Sauro Scavolini,
Francesco Milizia, Ernesto Gastaldi. Fotografia: Marcello Masciocchi.
Montaggio: Eugenio Alabiso. Aiuto Regista: Filiberto Fiaschi. Operatore alla
Macchina: Sebastiano Celeste. Fotografo di Scena: Francesco Narducci. Effetti
Speciali: Cataldo Galiano. Direttore di Produzione: Averroè Stefani. Organizzazione
Generale: Vittorio Galiano. Colore: Technospes. Doppiaggio e Sincronizzazione:
N.C, con la collaborazione della C.D.. Costumi: Oscar Capponi. Musiche: Luciano
Michelini (Edizioni Musicali RCA). Costumi: Oscar Capponi. Produttore: Luciano
Martino, Carlo Ponti. Casa di Produzione: Dania Film - C.C. Champion.
Distribuzione: Interfilm. Durata: 100’. Genere. Drammatico. Interni: Icet – De
Paolis (Milano). De Paolis (Roma). Interpreti: Edwige Fenech, Richard Conte,
John Richardson, Corrado Pani, Corrado Gaipa, Bruno Corazzari, Antonio Casale,
Laura Bonaparte, Shirley Corrigan, Ennio Balbo, Paolo Lena, Carla Calò,
Gabriella Giacobbe, Umberto Raho, Wilma Casagrande, Ettore Manni, Aldo
Barberito, Bruno Boschetti, Carla Mancini, Vittorio Pinelli, John Bartha,
Tommaso Felleghi, Bruno Boschetti, Iride De Santis.
Giuliano Carnimeo gira un
film singolare come Anna, quel
particolare piacere (1973), una commistione di generi totale. Interpreti principali: Edwige Fenech (Anna),
Corrado Pani (il perfido Guido) e Richard Conte (il mafioso Soriani) e John
Richardson (Lorenzo, il medico buono). Il soggetto è di Sauro Scavolini e
Luciano Martino (che realizza il film prodotto da Carlo Ponti), la fotografia è
di Marcello Masciocchi, la sceneggiatura di Ernesto Gastaldi, Francesco Milizia
e Sauro Scavolini, le musiche intense e dal marcato tono romantico sono di
Luciano Michelini. Citiamo nella colonna sonora anche Pazza idea di Patty Pravo e un breve intermezzo con la sigla della
popolare trasmissione Carosello. Incredibile
l’eccesso di pubblicità indiretta a colpi di J&B, Baci Perugina, Punt &
Mes, il settimanale Oggi e chi più ne
ha più ne metta. Non ci facevano molto caso i frequentatori delle sale di
seconda visione, ma oggi sembrano spot invasivi.
Anna, quel particolare piacere non è un film molto considerato dalla critica
cinematografica. Paolo Mereghetti concede una stella: “L’ambientazione da Milano violenta e gli avari nudi della
Fenech non sono sufficienti per aggiornare un banale mélo di impostazione ottocentesca.
La produzione Carlo Ponti garantisce almeno un Capogrossi alle pareti”. Pino
Farinotti concede due stelle ma si limita a sintetizzare la trama, Marco Giusti
non ne parla proprio, forse non lo ritiene abbastanza Stracult. Fino ad alcuni anni fa non era facile reperire la VHS,
venduta a prezzi altissimi dai collezionisti, ma da quando è in circolazione il
dvd è facile reperire il film.
A nostro avviso è un lavoro interessante che
permette di apprezzare la bravura di Edwige Fenech in un ruolo da protagonista.
La bella attrice franco-algerina è Anna, la cassiera di un bar di Bergamo che
si innamora di Guido (Corrado Pani), un pericoloso boss mafioso. Il primo tempo
è costruito come un poliziottesco, un
mafia movie violento, un gangster movie, anche se forse la definizione
più calzante è un noir ala Fernando di Leo. Le prime sequenze riguardano una
cruenta estrazione di pallottola da un corpo umano e diverse sparatorie con
relativi inseguimenti. Gli elementi erotico - perversi prendono il sopravvento
sulla trama noir quando il regista descrive il torbido rapporto tra Guido e Anna.
La ragazza si innamora perdutamente e cade nella rete del criminale che poco a
poco mostra la sua vera natura. Prima parte caratterizzata da una suggestiva fotografia
di Bergamo Alta e da ottimi primi piani dei protagonisti, inquadrature stile
western degli occhi di Fenech e Pani che si scambiano sguardi complici. Il tono
è da cinema romantico, sia per la colonna sonora suadente che per i dialoghi.
Pani rivolto alla Fenech: “Hai la testa piena di sogni e un gran bisogno di
vivere”.
L’andamento lento della storia conferisce un tono sognante, romantico,
idilliaco, che si stempera dopo le prime avvisaglie di un rapporto che va
deteriorandosi. Si passa dal tono romantico al noir più duro anche se la musica
di fondo resta sempre la stessa. Carnimeo dà un saggio della sua bravura con
intense soggettive, primissimi piani, zummate e scene d’azione dotate di
realistici inseguimenti. Il rapporto tra Guido e Anna prende una cattiva piega,
con lui che la rimprovera a suon di schiaffoni per una scenata di gelosia. I
rapporti sessuali diventano sempre più violenti e si intuisce che Anna gode nel
provare dolore. Il legame che unisce la ragazza a Guido è di tipo
sadomasochista (“quel particolare piacere” cui fa riferimento il titolo), ma il
regista non lo rende esplicito oltre il dovuto. Guido colpisce Anna, le afferra
i capelli, li porta verso di sé, la prende strappandole la biancheria intima, senza
dolcezza, a parte la prima volta quando si presenta come un amante perfetto. Il
film possiede un’alta carica erotica, la Fenech si spoglia con generosità, si
esibisce in una rapida doccia e mostra un seno rigoglioso. Recita una parte da
donna innamorata di un delinquente caratterizzando bene il personaggio e rendendolo
credibile.
La sua mimica è espressiva, l’intensità dello sguardo colpisce, la
presenza scenica è sempre all’altezza. Anna finisce nel giro del boss mafioso
Riccardo Sogliani (Conte), deve fare da porta valori in Svizzera, assiste a un
delitto e infine viene impiegata come accompagnatrice nel night del mafioso.
Guido la convince alla sua maniera, ormai è un dominatore assoluto, un magnaccia
più che un amante. Il legame sadomasochista tra Guido e Anna arriva al punto
che la ragazza viene obbligata a far l’amore con le persone suggerite da
Sogliani. Anna scende nel precipizio della depravazione e distrugge la sua
volontà annientandosi in quella di Guido. In una sequenza calda la Fenech è
obbligata a recarsi da un cliente che le consegna un assegno per la prestazione
e la osserva mentre si spoglia. Lo strip è molto sensuale con la Fenech che si
sfila le calze lentamente, slaccia il reggiseno, gli slip e resta nuda davanti
all’uomo in estasi. Il rapporto sessuale si intuisce soltanto, ma il livello di
erotismo malsano è intenso.
La scena è girata per gli esterni sul Lago
Maggiore, in una albergo della zona di Stresa. Anna si accorge di essere
incinta e mette da parte dei soldi per quel bambino che vorrebbe tenere. Guido vorrebbe
obbligarla ad abortire, ma la ragazza può fuggire a Roma dall’amica Loredana
(Bonaparate) grazie a un provvidenziale arresto che vede il compagno condannato
a scontare sei anni di galera. Il regista filma persino la visita ginecologica,
in un eccesso di realismo, con la Fenech distesa sul letto e le gambe
divaricate. Per il periodo era una scena molto calda, a rischio taglio in sede
di censura. L’arresto di Guido chiude il primo tempo, un noir perverso, melodrammatico,
una sorta di dramma erotico ambientato nel mondo della malavita. La seconda
parte è di ben altro tenore, ma ai nostri fini è interessante perché prende la
piega di un lacrima movie stile L’ultima neve di primavera (1973), ma a
tratti ricorda pure Love Story
(1970). Anna è andata a vivere a Roma dove si è impiegata come commessa in una
libreria, suo figlio ha sei anni e spesso le chiede di un padre che non
conosce.
Entra in scena Lorenzo, il bravo John Richardson, il medico che salva
il figlio di Anna da morte sicura eseguendo una tracheotomia d’urgenza. Anna
esce con il medico, finisce per innamorarsi e pensa di poter fare una vita
normale, anche perché Lorenzo è pazzo di lei e vuol bene anche al bambino come
se fosse suo figlio. Il primo tentativo di cinema
strappacuore lo apprezziamo con la malattia del bambino, la corsa in
ospedale, l’operazione d’urgenza e il medico che si prende cura del piccolo
come se fosse il padre. Una parte di pellicola che ricorda il feuilleton, una storia da fotoromanzo
stile donne di strada che sposano principi. Il dottore regala una scimmietta al
piccolo Paolo (Lena) mentre il bambino chiede: “Sei tu il mio papà? Io non lo
conosco il mio papà. Sei sicuro che non sei tu?”. La parte romantica sta
prendendo il sopravvento. Paolo che dice
alla madre: “Lui è il papà che mi piace. Tutti gli altri bambini ce l’hanno un
papà. Me lo compri anche a me?”. In una notte di tempesta la Fenech e Richardson
si scambiano il primo bacio e subito dopo fanno l’amore. Altro tocco
melodrammatico che conduce il film su un’altra direttrice, divagando dalla
prima parte d’impronta noir e poliziesca.
A un certo punto torna in scena Guido
che obbliga Anna a liberarsi del bambino e del dottore per tornare a fare la prostituta
al soldo della mafia. Abbiamo un nuovo rapporto sessuale Pani-Fenech a
contenuto sadomasochista che ci riporta alle atmosfere perverse della parte
ambientata tra Milano e Bergamo. Anna lascia il bambino alle suore e scrive al
medico di non pensarla più, perché deve salvare la vita del figlio e il solo
modo è ubbidire a Guido. In un finale da romanzo nero, Anna trova la forza per
ribellarsi, scarica su Guido diversi colpi di pistola, ma lui non muore subito,
riesce a rialzarsi, la segue in ascensore e proprio davanti alla porta del
condominio le spara. Anna viene raggiunta da tre colpi di pistola alla schiena
che fotografano la sua smorfia di dolore. Il finale è puro cinema
strappalacrime, una via di mezzo tra Love
Story e le nostre pellicole con protagonisti i bambini che muoiono. Lorenzo
è al capezzale di Anna. Dialogo drammatico e intenso con l’uomo che prova a
convincere la donna che guarirà. “Povero amore mio, come menti male” dice lei.
“Soltanto io ho conosciuto la vera Anna”, ribatte lui. Arriva anche il bambino
e abbraccia la madre tra le lacrime. “Non abbandonarlo. Lui non ha colpa”,
implora Anna. “la mamma ha detto che ora sei il mio papà”, dice Luca. Siamo in
presenza di un lacrima movie al
contrario, che capovolge gli stilemi del genere, qui è la madre che muore in un
letto di ospedale mentre il figlio è al Luna Park con l’uomo che diventerà suo
padre. Anna muore dopo l’operazione, Lorenzo viene a saperlo telefonando in
clinica, mentre il piccolo Paolo compie un altro giro di giostra, incurante di
quanto accaduto. Vita e morte che si danno il cambio, che cedono il posto l’una
all’altra, senza soluzione di continuità. Il bambino si stringe forte al nuovo
papà. Ormai ha soltanto lui.
Un lacrima movie che nel finale ricorda il contemporaneo L’ultima neve di primavera (1973), solo
che nella pellicola di Raimondo del Balzo muore il bambino che il padre tiene in
braccio sopra una giostra. Carnimeo rende bene il contrasto tra il grande
dolore di Lorenzo e la gioia spensierata del Luna Park, il bambino non sa
niente di quanto accaduto e abbraccia un uomo in lacrime che per lui è suo
padre. Anna non c’è più e a ricordarla resta solo un bambino che il medico ha
giurato di allevare come un figlio. Love
Story è un’altra fonte di ispirazione per sceneggiatori e regista, almeno
per quanto riguarda la seconda parte che vede una grande storia d’amore e la
morte della donna amata, anche se non per malattia incurabile ma uccisa da tre
colpi di pistola.
Il regista ricorda Anna quel particolare piacere come “un
fumettone fatto con una certa dignità che aveva un titolo ambiguo solo per
lasciare immaginare chissà quali cose strane”. Nel cast troviamo anche un
attore hollywoodiano come Richard Conte (1910 - 1975), interprete
professionale, spontaneo e mai artefatto. Il ruolo del boss mafioso era cosa
per lui, dopo aver interpretato Il
padrino (1972) di Francis Ford Coppola. Ha lavorato molto in Italia con
registi come Fernando di Leo (Il boss,
Il poliziotto è marcio), Duccio
Tessari (Tony Arzenta), Steno (Anastasia mio fratello), Tonino Ricci (L’onorata famiglia), Mario Siciliano (Eroticofollia) e Franco Martinelli (Roma violenta). Ha concluso la carriera
proprio in Italia con il pessimo Un urlo
dalle tenebre (1975) di Angelo Pannacciò e Franco Lo Cascio. Molto bravo
anche il britannico John Richardson (1934), attivo nel cinema italiano, in
questa occasione doppiato da Cesare Barbetti. Un attore da lacrima movie, che ricordiamo interprete anche de L’albero dalle foglie rosa e La bellissima estate.
Ettore Manni
(1927 - 1979) è un altro boss mafioso, impeccabile come sempre, un attore che è
una certezza del cinema italiano sin dagli anni Cinquanta. Ricordiamo la sua
morte sul set de La città delle donne (1979) di Federico Fellini, per un colpo
di fucile, sparato per errore mentre lo puliva, anche se alcuni parlarono di
suicidio. Infine Corrado Pani (1936 - 2005), il cattivo della storia, attore a
tutto tondo, persino doppiatore, che ha calcato palcoscenici teatrali e set
cinematografici con grande abilità. Premio Gassman alla carriera. Vice su Il
Messaggero del 7 dicembre 1973 commenta la pellicola: “Dopo un primo tempo
cadenzato sul ritmo di un poliziesco, il film assume via via toni sempre più
melodrammatici con dialoghi lacrimevoli e ispirati chiaramente ai romanzi
d’appendice, anche se rivisti in chiave ironica. La regia è di Giuliano
Carnimeo, formalmente valida ma condizionata dalla fragilità della
sceneggiatura”. Non condividiamo. Una valida sceneggiatura e una regia ispirata
realizzano un prodotto ibrido, insolito nel panorama nazionale, un coacervo di
generi che coesistono senza soluzione di continuità.
martedì 20 gennaio 2015
Gli scacchi della vita (2014)
di Stefano Simone
Stefano Simone è un regista pugliese che seguo da tempo e che rappresenta una voce interessante nel panorama del cinema indipendente italiano. La parola indipendente nel suo caso non è usata a sproposito, perché i budget su cui può contare sono davvero modesti, contrariamente ad altri casi di ricchi indipendenti.
Gli scacchi della vita è un lavoro più maturo e complesso dei precedenti, basato su un soggetto tratto da un mio vecchio racconto, rielaborato e rimpolpato in fase di sceneggiatura dai bravi Francesco Massaccesi, Sebastiano Giuliano e Matteo Simone, senza tradire il senso della storia. Simone affronta - forse per la prima volta - i sentieri impervi del cinema d’autore, cita Ingmar Bergman (Il settimo sigillo) e usa il genere per affermare concetti importanti come la scoperta di se stessi e il senso della vita, ma anche l’esperienza del dolore, il cambiamento, la solitudine e l’emarginazione. Nel precedente lungometraggio - Week-end tra amici - avevamo intuito certe potenzialità narrative, nascoste in una struttura da cinema di genere, un noir duro ai limiti dell’horror.
In breve la trama. Massimo è un architetto sposato con una scrittrice che viene ricoverato in ospedale dopo essere stato investito da un’auto; la moglie per intrattenerlo legge la bozza del suo nuovo romanzo: Gli scacchi della vita. Un flashback onirico conduce il protagonista in una dimensione soprannaturale dove un singolare personaggio lo invita a disputare una partita a scacchi che segue regole pericolose. Ogni volta che Massimo perde un pezzo è costretto a rivivere un episodio doloroso della sua vita. Partono nuovi flashback che riproducono immagini dell’adolescenza, un difficile rapporto con la madre prostituta, la morte del padre, il conseguimento della laurea, il lavoro, il suicidio materno, una fidanzata perduta, un magnaccia ucciso per disperazione, il connubio stretto con un vecchio barbone giocatore di scacchi. La partita finisce proprio al termine del dolore, quando il protagonista compie una catarsi totale rivivendo errori e momenti cupi della vita. Riconosce persino la madre, parla di un rapporto perduto, delle incomprensioni, come se si trovassero entrambi in uno straordinario aldilà. Al risveglio tutto sembra un sogno, ma forse non è così, perché un particolare - che non sveliamo - induce a formulare diverse ipotesi, in un finale girato con eccellenti tempi tecnici.
Gli scacchi della vita presenta spunti interessanti come stile di regia, singolari scelte di ripresa e sequenze in panoramica, campo lungo e primo piano, fotografia lucida e intensa, che cambia colorazione e sfumature. Perfetta la scelta degli ambienti degradati teatro dell’azione, tra mare e miseria, verrebbe da dire, in un crescendo pasoliniano. I due personaggi principali sono interpretati dagli ottimi Michael Segal e Filippo Totaro, ben calati nei rispettivi ruoli: intenso quello di Massimo, sopra le righe il giocatore di scacchi che riceve l’avversario in un capannone di periferia. Simone evita gli stereotipi e - pur citando Il settimo sigillo - non ambienta la scena della partita a scacchi con la morte su una scogliera in riva al mare, né in un paesaggio surreale o in un giardino, ai piedi di un albero (come nel mio racconto). Il personaggio del giocatore è straordinario, caratterizzato da una risata folle ed enigmatica, afferma di non essere Dio ma neppure il diavolo, e rifugge da ogni semplificazione. L’interpretazione teatrale ed eccessiva di Totaro è a dir poco perfetta, finisce il film e senti riecheggiare la sinistra risata, ricordi la risposta sibillina alla domanda di Massimo quando chiede dove sia finito: “Sei tra il nulla e l’addio”. Il film è strutturato in flashback sapientemente montati a incastro, quando si narra l’infanzia di Massimo cambia attore, ma la resa del personaggio non ne risente molto, perché Libero Troiano - il giovane interprete - è convincente ed espressivo. Molte riprese con la camera a mano conferiscono una sensazione di straniamento e raccontano più di tante parole i turbamenti adolescenziali del ragazzo, alle prese con vicissitudini dolorose. Rumori di fondo e suono in presa diretta fanno il resto, così come la colonna sonora di Luca Auriemma si conferma una scelta vincente. Musica ritmica, sonorità moderne, tamburi, breakdance, accompagnano le immagini e scandiscono lo scorrere del tempo. Troppo lunghe alcune parti composte da musica e immagini, che ripetono concetti già espressi e finiscono per apparire ridondanti. Al contrario, risultano interessanti le sequenze liriche girate sul lungomare di Manfredonia, introspettive al punto giusto, intense nel descrivere il tormento psicologico del ragazzo. L’incontro tra Massimo e il barbone è una felice scelta di sceneggiatura, anche perché gioca a scacchi come il personaggio incontrato nella realtà onirica. Viene da pensare che lo strano giocatore potrebbe essere una proiezione fantastica della mente sconvolta che ricorda l’adolescenza. Il film non è uniforme. Quando sono in primo piano i due personaggi principali che disputano la partita per la vita, presenta ritmo e fluidità recitativa. Purtroppo i personaggi femminili (moglie, madre del ragazzo e fidanzata) limitano la scorrevolezza della narrazione. Il personaggio del magnaccia è tratteggiato in maniera troppo monocorde, così come sono da rivedere alcuni dialoghi madre - figlio e la recitazione impostata di Giulia Rita D’Onofrio. In ogni caso la pellicola si fa guardare, girata a un ritmo sincopato, tra musica e azione, stringati dialoghi (a parte le sequenze con il giocatore di scacchi) e pochi tempi morti. Il finale lancia un messaggio cristiano: “La vita vale un po’ di dolore”, è importante giocare non tanto per vincere quanto per capire la necessità del dolore. Subito dopo vediamo un caleidoscopio di ricordi che scorrono all’indietro come una pellicola che si riavvolge su se stessa. Rivediamo madre e figlio di fronte, un dialogo tra una presenza surreale che proviene dal regno dei morti e un uomo distrutto dal ricordo del passato. Straordinario il finale che resta indelebile nella memoria per un ricercato effetto sorpresa.
Stefano Simone continua a far ben sperare, raccontando per immagini un noir di provincia, psicologico e introspettivo, dal taglio fantastico e soprannaturale. Riferimenti sicuri: Fernando di Leo, molti autori contemporanei di mafia-movie televisivi (Garrone, Sollima…), le periferie degradate di Pasolini, la lezione di Bergman, la fotografia fredda e asciutta di Friedkin, ma anche sentori surrealisti che citano Buñuel (L’angelo sterminatore). Gli scacchi della vita è un buon lavoro, sceneggiato e diretto con cura, che avrebbe potuto essere ottimo se tutti gli attori avessero fornito interpretazioni a livello di Segal e Totaro. Siamo curiosi di vedere Stefano Simone all’opera con un budget degno di questo nome. Gli scacchi della vita è prodotto con poco più di niente e da un punto di vista tecnico regge il confronto con lavori costati decine di migliaia di euro.
Regia: Stefano Simone. Soggetto:
dall’omonimo racconto di Gordiano Lupi. Sceneggiatura: Francesco Massaccesi,
Sebastiano Giuliano, Matteo Simone. Musiche: Luca Auriemma. Fotografia e
Montaggio: Stefano Simone. Trucco/Effetti speciali: Mariangela Spagnuolo. Durata:
86’ . Genere:
Drammatico. Formato: 16:9 widescreen (1.77:1). Audio: Stereo PCM. Origine: Italia. Anno: 2014. Produzione:
Indiemovie. Interpreti: Michael Segal (Massimo adulto), Libero Troiano (Massimo
giovane), Filippo Totaro (Giocatore di scacchi), Antonio Potito (Barbone),
Gianni Lauriola (Magnaccia), Giulia Rita D’Onofrio (Madre di Massimo), Luigia
Ilenia Ciociola (Fidanzata di Massimo), Michela Mastroluca (moglie di Massimo),
Marco Di Bari, Matteo Perillo, Nicola Ciociola.
Prima
Nazionale: 7 febbraio 2015. Cinema Teatro san Michele Nicola, Manfredonia. Ore
17.00. Presente il regista e il cast.
Evento Facebook: https://www.facebook.com/events/723409947766203/?ref=ts&fref=tsStefano Simone è un regista pugliese che seguo da tempo e che rappresenta una voce interessante nel panorama del cinema indipendente italiano. La parola indipendente nel suo caso non è usata a sproposito, perché i budget su cui può contare sono davvero modesti, contrariamente ad altri casi di ricchi indipendenti.
Gli scacchi della vita è un lavoro più maturo e complesso dei precedenti, basato su un soggetto tratto da un mio vecchio racconto, rielaborato e rimpolpato in fase di sceneggiatura dai bravi Francesco Massaccesi, Sebastiano Giuliano e Matteo Simone, senza tradire il senso della storia. Simone affronta - forse per la prima volta - i sentieri impervi del cinema d’autore, cita Ingmar Bergman (Il settimo sigillo) e usa il genere per affermare concetti importanti come la scoperta di se stessi e il senso della vita, ma anche l’esperienza del dolore, il cambiamento, la solitudine e l’emarginazione. Nel precedente lungometraggio - Week-end tra amici - avevamo intuito certe potenzialità narrative, nascoste in una struttura da cinema di genere, un noir duro ai limiti dell’horror.
In breve la trama. Massimo è un architetto sposato con una scrittrice che viene ricoverato in ospedale dopo essere stato investito da un’auto; la moglie per intrattenerlo legge la bozza del suo nuovo romanzo: Gli scacchi della vita. Un flashback onirico conduce il protagonista in una dimensione soprannaturale dove un singolare personaggio lo invita a disputare una partita a scacchi che segue regole pericolose. Ogni volta che Massimo perde un pezzo è costretto a rivivere un episodio doloroso della sua vita. Partono nuovi flashback che riproducono immagini dell’adolescenza, un difficile rapporto con la madre prostituta, la morte del padre, il conseguimento della laurea, il lavoro, il suicidio materno, una fidanzata perduta, un magnaccia ucciso per disperazione, il connubio stretto con un vecchio barbone giocatore di scacchi. La partita finisce proprio al termine del dolore, quando il protagonista compie una catarsi totale rivivendo errori e momenti cupi della vita. Riconosce persino la madre, parla di un rapporto perduto, delle incomprensioni, come se si trovassero entrambi in uno straordinario aldilà. Al risveglio tutto sembra un sogno, ma forse non è così, perché un particolare - che non sveliamo - induce a formulare diverse ipotesi, in un finale girato con eccellenti tempi tecnici.
Gli scacchi della vita presenta spunti interessanti come stile di regia, singolari scelte di ripresa e sequenze in panoramica, campo lungo e primo piano, fotografia lucida e intensa, che cambia colorazione e sfumature. Perfetta la scelta degli ambienti degradati teatro dell’azione, tra mare e miseria, verrebbe da dire, in un crescendo pasoliniano. I due personaggi principali sono interpretati dagli ottimi Michael Segal e Filippo Totaro, ben calati nei rispettivi ruoli: intenso quello di Massimo, sopra le righe il giocatore di scacchi che riceve l’avversario in un capannone di periferia. Simone evita gli stereotipi e - pur citando Il settimo sigillo - non ambienta la scena della partita a scacchi con la morte su una scogliera in riva al mare, né in un paesaggio surreale o in un giardino, ai piedi di un albero (come nel mio racconto). Il personaggio del giocatore è straordinario, caratterizzato da una risata folle ed enigmatica, afferma di non essere Dio ma neppure il diavolo, e rifugge da ogni semplificazione. L’interpretazione teatrale ed eccessiva di Totaro è a dir poco perfetta, finisce il film e senti riecheggiare la sinistra risata, ricordi la risposta sibillina alla domanda di Massimo quando chiede dove sia finito: “Sei tra il nulla e l’addio”. Il film è strutturato in flashback sapientemente montati a incastro, quando si narra l’infanzia di Massimo cambia attore, ma la resa del personaggio non ne risente molto, perché Libero Troiano - il giovane interprete - è convincente ed espressivo. Molte riprese con la camera a mano conferiscono una sensazione di straniamento e raccontano più di tante parole i turbamenti adolescenziali del ragazzo, alle prese con vicissitudini dolorose. Rumori di fondo e suono in presa diretta fanno il resto, così come la colonna sonora di Luca Auriemma si conferma una scelta vincente. Musica ritmica, sonorità moderne, tamburi, breakdance, accompagnano le immagini e scandiscono lo scorrere del tempo. Troppo lunghe alcune parti composte da musica e immagini, che ripetono concetti già espressi e finiscono per apparire ridondanti. Al contrario, risultano interessanti le sequenze liriche girate sul lungomare di Manfredonia, introspettive al punto giusto, intense nel descrivere il tormento psicologico del ragazzo. L’incontro tra Massimo e il barbone è una felice scelta di sceneggiatura, anche perché gioca a scacchi come il personaggio incontrato nella realtà onirica. Viene da pensare che lo strano giocatore potrebbe essere una proiezione fantastica della mente sconvolta che ricorda l’adolescenza. Il film non è uniforme. Quando sono in primo piano i due personaggi principali che disputano la partita per la vita, presenta ritmo e fluidità recitativa. Purtroppo i personaggi femminili (moglie, madre del ragazzo e fidanzata) limitano la scorrevolezza della narrazione. Il personaggio del magnaccia è tratteggiato in maniera troppo monocorde, così come sono da rivedere alcuni dialoghi madre - figlio e la recitazione impostata di Giulia Rita D’Onofrio. In ogni caso la pellicola si fa guardare, girata a un ritmo sincopato, tra musica e azione, stringati dialoghi (a parte le sequenze con il giocatore di scacchi) e pochi tempi morti. Il finale lancia un messaggio cristiano: “La vita vale un po’ di dolore”, è importante giocare non tanto per vincere quanto per capire la necessità del dolore. Subito dopo vediamo un caleidoscopio di ricordi che scorrono all’indietro come una pellicola che si riavvolge su se stessa. Rivediamo madre e figlio di fronte, un dialogo tra una presenza surreale che proviene dal regno dei morti e un uomo distrutto dal ricordo del passato. Straordinario il finale che resta indelebile nella memoria per un ricercato effetto sorpresa.
Stefano Simone continua a far ben sperare, raccontando per immagini un noir di provincia, psicologico e introspettivo, dal taglio fantastico e soprannaturale. Riferimenti sicuri: Fernando di Leo, molti autori contemporanei di mafia-movie televisivi (Garrone, Sollima…), le periferie degradate di Pasolini, la lezione di Bergman, la fotografia fredda e asciutta di Friedkin, ma anche sentori surrealisti che citano Buñuel (L’angelo sterminatore). Gli scacchi della vita è un buon lavoro, sceneggiato e diretto con cura, che avrebbe potuto essere ottimo se tutti gli attori avessero fornito interpretazioni a livello di Segal e Totaro. Siamo curiosi di vedere Stefano Simone all’opera con un budget degno di questo nome. Gli scacchi della vita è prodotto con poco più di niente e da un punto di vista tecnico regge il confronto con lavori costati decine di migliaia di euro.
venerdì 16 gennaio 2015
Breve Storia del Cinema
Massimo Moscati
Breve Storia del Cinema
Bompiani - Pag. 480 - Euro 10
Un libro straordinario, scoperto per caso in una libreria di
Livorno, acquistato come una folgorazione, scritto così bene che non riesco a
staccarmene e vado pensando da giorni che andrebbe studiato, non soltanto
letto. Un testo indispensabile per chi ama il cinema e vuole cominciare a
capirlo, soprattutto perché non è scritto in critichese, lingua
incomprensibile - molto vicino al politichese - di cui si nutrono
tanti saccentoni di casa nostra. Scrivere di cinema non significa essere
giocoforza astrusi e complessi, usare un italiano colto e forbito, cercare di
non farsi capire se non da pochi eletti. Scrivere di cinema vuol dire
raccontare la fabbrica dei sogni all'uomo della strada, al cittadino
comune, al ragazzo che vuole avvicinarsi a un fenomeno culturale fruibile
da tutti. Bravo Moscati - giornalista e sceneggiatore, autore tra l'altro
di un manuale di sceneggiatura e di un dizionario dei film - che parte
dagli albori del cinema, ci racconta Wells, Chaplin, Bergman, Wilder, la
commedia all'italiana, il melodramma, la nouvelle vague, il
surrealismo, il neorealismo, il realismo poetico francese, il cinema
giapponese, cinese, sovietico, persino messicano e cubano, in una
suggestiva carrellata di ricordi. Moscati compie un ben preciso percorso
critico privo di omissioni, non trascura il gusto personale, racconta
Hollywood, Cinecittà, il cinema indiano e palestinese, il periodo del muto, la
comparsa del sonoro, il 3D e l'animazione, finisce per
analizzare oltre mille film con passione competenza. Un libro
enciclopedico senza la pesantezza di un dizionario ma scritto con la leggerezza
di un romanzo popolare, divulgativo e scientifico, di facile
comprensione e al tempo steso tecnico. Prima edizione 1999. Seconda
edizione ottobre 2014. Costa soltanto dieci euro per quasi 500 pagine. Cosa
aspettate a comprarlo?
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
giovedì 15 gennaio 2015
La vita di Adele – Capitoli 1 & 2
Regia: Abdellatif Kechiche. Soggetto: Julie
Maroh (liberamente tratto dal romanzo a fumetti Il blu è un colore caldo).
Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix. Fotografia: Sofia El Fani.
Montaggio: Camille Toubkis, Albertine Lastera, Jean-Marie Lengelle, Ghalya
Lacroix, Sophie Brunet. Produttori:
Olivier Thery Lapiney, Laurence Clerc. Produttori Esecutivi: Abdellatif
Kechiche, Vincent Maraval, Brahim Chioua. Case di Produzione: Vertigo Films,
Wild Bunch, Quat’sous Films, Alcatraz Films, Scope Pictures, France 2 Cinéma,
RTBF. Paese di Produzione: Francia/ Belgio/ Spagna. Durata: 180’. Genere:
Dramma erotico. Distribuzione (Italia): Lucky Red Distribuzione. Interpreti: Adèle
Exarchopoulos (Adèle), Léa Seydoux (Emma), Salim Kechiouche (Samir), Aurélien
Recoing (padre di Adèle), Catherine Salée (madre di Adèle), Benjamin Siksou
(Antoine), Mona Walravens (Lise), Jeremie Laheurte (Thomas), Alma Jodorowsky
(Béatrice), Sandor Funtek (Valentin). Premi: Palma d’Oro al Festival di Cannes
(2013), al regista e alle due protagoniste. Premio Lumière (2014), miglior
film, regista, attrice rivelazione Adèle Exarchopoulos, miglior attrice Léa
Seydoux. Molte nomination in premi importanti.
Abdellatif Kechiche (Tunisi, 1960) -
detto Abdel- è un regista tunisino naturalizzato francese ed è la
dimostrazione vivente che la cultura araba rappresenta una ricchezza per la
Francia. La vita di Adele - Capitoli
1 & 2 (La Vie d’Adèle -
Chapitres 1 & 2), noto anche come Blue Is the Warmest Colour (Il blu è il colore più caldo)
è il film che ne decreta il successo internazionale, perché si aggiudica la
Palma d’Oro al Festival di Cannes. La pellicola è liberamente ispirata alla
poetica graphic novel Il blu è un colore
caldo di Julie Maroh (edita in Italia da Rizzoli), che racconta una
toccante storia di un amore omosessuale al femminile con un finale degno di un lacrima-movie ma senza gli eccessi
erotici della versione cinematografica. L’autrice del romanzo a fumetti si è dissociata
dal film e non ha partecipato alla sceneggiatura, colpevole di aver tradito il
suo messaggio d’amore in favore di un’interpretazione voyeuristica e ai limiti del pornografico.
Adèle vive a
Lille, frequenta il liceo classico, ama leggere e sogna di fare l’insegnante. L’incontro
con una strana ragazza dai capelli blu che vede abbracciata a una donna modifica
la sua vita e la conduce verso abissi di passione mai provati, al punto di
lasciare il suo ragazzo e di gettarsi alla scoperta di un amore omosessuale. Il
regista racconta con rapide pennellate la passione tra Adèle ed Emma, dai primi
baci fino a un intenso rapporto erotico, ma anche con la condivisione di amicizie
e momenti di vita.
Emma è una pittrice che frequenta un circolo di amici colti con i quali Adèle si sente un po’ a disagio, ma posa per lei mei momenti liberi dal nuovo lavoro in una scuola materna. La storia si dipana descrivendo la crisi del rapporto, con Emma che comincia a vedere Lisa - un’amica omosessuale incinta - e Adèle che cede alla avances di un collega maschio. Una lite furibonda prelude a un mesto addio, con Adèle in lacrime che non vorrebbe perdere il suo amore ed Emma decisa a farla finita per sempre. Il film termina con le due ragazze che si ritrovano al tavolo di un bar, parlano di un amore finito e del tempo perduto, accettano il fatto compiuto e si lasciano da buone amiche, nonostante un velo di tristezza.
Emma è una pittrice che frequenta un circolo di amici colti con i quali Adèle si sente un po’ a disagio, ma posa per lei mei momenti liberi dal nuovo lavoro in una scuola materna. La storia si dipana descrivendo la crisi del rapporto, con Emma che comincia a vedere Lisa - un’amica omosessuale incinta - e Adèle che cede alla avances di un collega maschio. Una lite furibonda prelude a un mesto addio, con Adèle in lacrime che non vorrebbe perdere il suo amore ed Emma decisa a farla finita per sempre. Il film termina con le due ragazze che si ritrovano al tavolo di un bar, parlano di un amore finito e del tempo perduto, accettano il fatto compiuto e si lasciano da buone amiche, nonostante un velo di tristezza.
Il titolo del film
fa presagire un sequel composto dai
capitoli 3 e 4, anche perché il finale della storia è completamente diverso dal
romanzo a fumetti, fino a quel punto tradito nella parte erotica ma non nel
senso intrinseco del racconto. Abdellatif Kechiche segue la lezione di Lars Von Trier
(Nymphomaniac) e narra con realismo poetico (una caratteristica del
cinema francese) il rapporto omosessuale tra un’adolescente e una ragazza più
adulta, la passione sfrenata che lega due persone fino a trasfigurarle in un
solo corpo. Il senso delle intense sequenze erotiche - ai limiti del porno -
sta proprio nella volontà di far capire fino a che punto le due ragazze
diventano una cosa sola, una comunione totale di corpo e pensiero.
La vita di Adèle è minimalismo allo stato puro, cinema realista raccontato con la macchina a mano e intensi primi piani, soggettive nervose, fotografia sporca, montaggio sincopato. Il regista opta per un fastidioso suono in presa diretta che spesso impedisce di seguire i dialoghi, ma è un effetto realistico voluto, forse è più importante non sentire le parole che apprezzare il dialogo fino in fondo.
La macchina da presa segue i protagonisti, li pedina neorealisticamente nel quotidiano, indagando rapporti e relazioni, frasi innocue, gusti alimentari e vita familiare. Bravissime le due giovani protagoniste, mai in imbarazzo neppure nelle oltremodo realistiche sequenze erotiche. Meritata la Palma d’Oro a Cannes, così come sono meritati i complimenti per l’attrice rivelazione, la ventenne Adèle Exarchopoulos, che sprizza un fascino da lolita. Da vedere su Sky Cinema Cult prima possibile, visto che ormai alcuni canali satellitari di qualità hanno preso il posto delle sale nella diffusione del vero cinema.
La vita di Adèle è minimalismo allo stato puro, cinema realista raccontato con la macchina a mano e intensi primi piani, soggettive nervose, fotografia sporca, montaggio sincopato. Il regista opta per un fastidioso suono in presa diretta che spesso impedisce di seguire i dialoghi, ma è un effetto realistico voluto, forse è più importante non sentire le parole che apprezzare il dialogo fino in fondo.
La macchina da presa segue i protagonisti, li pedina neorealisticamente nel quotidiano, indagando rapporti e relazioni, frasi innocue, gusti alimentari e vita familiare. Bravissime le due giovani protagoniste, mai in imbarazzo neppure nelle oltremodo realistiche sequenze erotiche. Meritata la Palma d’Oro a Cannes, così come sono meritati i complimenti per l’attrice rivelazione, la ventenne Adèle Exarchopoulos, che sprizza un fascino da lolita. Da vedere su Sky Cinema Cult prima possibile, visto che ormai alcuni canali satellitari di qualità hanno preso il posto delle sale nella diffusione del vero cinema.
lunedì 12 gennaio 2015
sabato 10 gennaio 2015
Canone inverso (2000)
Regia: Ricky Tognazzi. Soggetto: Paolo Maurensig.
Sceneggiatura: Simona Izzo, Ricky Tognazzi, Graziano Diana. Fotografia: Fabio
Cianchetti. Montaggio: Carla Simoncelli. Musiche: Ennio Morricone. Scenografia:
Francesco Bronzi. Costumi: Alfonsina Lettieri. Produttore: Vittorio Cecchi
Gori. Durata: 107’. Genere: Drammatico. Interpreti: Hans Matheson, Mélanie
Thierry, Gabriel Byrne, Lee Williams, Ricky Tognazzi, Peter Vaughan, Domiziana
Giordano, Nia Roberts, Andrea Prodan, Adriano Pappalardo, Rachel Shelley, Andy
Luotto, Mattia Sbragia. Premi: 4 David di Donatello (fotografia, colonna
sonora, scenografia, montaggio) e un David Scuola a Ricky Tognazzi; 2 Nastri
d’Argento (montaggio, colonna sonora); Premio Di Venanzo per la miglior
fotografia.
Ricky Tognazzi (1955), figlio di Ugo e Pat O’Hara, non
è soltanto regista, ma anche attore cinematografico e teatrale. Apprende il
mestiere collaborando con il padre, ma anche come aiuto regista di Pupi Avati,
Luigi Magni e Maurizio Ponzi (i migliori film come attore sono sotto la sua
guida). Le tematiche dei migliori lavori da regista riguardano l’attualità (Ultrà, 1991 e La scorta, 1993), ma con Canone
inverso raggiunge un livello difficilmente eguagliabile di poesia e
partecipazione emotiva.
Il titolo fa riferimento a un brano per due violini
(scritto da Morricone) - vero protagonista del film - basato su una melodia suonata in maniera
classica dal primo violino, mentre il secondo lo esegue contrario. Tognazzi
prende il bel romanzo di Maurensig e - con la moglie Simona Izzo e Graziano
Diana -realizza una buona sceneggiatura per raccontare la vita del povero
violinista ebreo Jeno Varga (Matheson) e del ricco David (Williams), che
studiano in un collegio di Praga, diventano amici e si perdono per sempre dopo
aver scoperto di essere fratelli. Jeno si innamora di una giovane pianista
ebrea (Thierry), sposata con un marito freddo e scostante, ma riesce a far
l’amore con lei e a suonarci insieme una sola volta. Le persecuzioni razziali
dopo l’invasione nazista porteranno i due amanti in un campo di sterminio
tedesco. Ma da una notte d’amore è nata una bambina, che da grande ritroverà il
violino del padre, il nonno e lo zio, dopo aver appreso che i genitori sono
morti.
Canone
inverso è un film poetico e delicato,
narrato con un coinvolgente gioco di flashback,
tra colpi di scena, ricordi e una colonna sonora straordinaria composta da
Ennio Morricone, che è parte integrante della storia. Il regista trova il modo
di raccontare una storia di formazione e di amicizia, inserendo annotazioni
sulla persecuzione nazista nei confronti degli ebrei e rapportandola
all’invasione sovietica durante la Primavera di Praga. La storia è strutturata secondo
i ricordi della figlia del protagonista - unica sopravvissuta della famiglia -
che durante un’asta pubblica incontra il nonno (che non conosce) e cerca di
contendergli l’acquisto del violino del padre.
Il film si sviluppa con toni
melodrammatici, assecondando un’intensa narrazione a base di ralenti, carrelli, piani sequenze e
fotografia patinata. Ottimi gli interpreti principali, Adriano Pappalardo è
convincente nei panni di un patrigno tutto cuore, Ricky Tognazzi è un padre
silenzioso, stona un’algida Domiziana Giordano nei panni della madre di David.
Ricky Tognazzi racconta per immagini un soggetto interessante, una storia
d’amore e morte che diventa l’occasione per una tardiva riconciliazione tra
padre e figlio. Incomprensibile la solenne stroncatura di Paolo Mereghetti (una
stella): “… I personaggi sono arrabbiati, le psicologie inesistenti, le musiche
algide e accademiche, la confezione inutile, i discorsi sulla musica,
sull’Olocausto e le lezioncine di storia imbarazzanti, irritanti e di cattivo
gusto…”.
Il critico milanese ha visto soltanto “un po’ di nudi loliteschi, tanto per gradire”. Pino
Farinotti rincara la dose, assegna una sola stella, se la prende con Tognazzi e
con il sopravvalutato Maurensing
giudicando il film “indifendibile”. Morandini concede due stelle, afferma che
“il mestiere narrativo c’è, manca lo stile” e ritiene che Tognazzi non sia
riuscito a trovare “le immagini corrispondenti al fascino quasi mistico che la
musica ha nelle pagine di Maurensing”. Noi andiamo oltre. Abbiamo visto un film
che scorre su diversi piani temporali - dagli anni Trenta ai giorni nostri -,
articolato su tre livelli narrativi. Un piccolo gioiello di poesia
cinematografica, ben fotografato, montato con sapienza e strutturato con buona
tecnica, intriso di musica e passione.
La colonna sonora di Ennio Morricone:
mercoledì 7 gennaio 2015
Geppo il folle (1978)
Regia: Adriano Celentano. Soggetto e Sceneggiatura: Adriano
Celentano. Dialoghi: Adriano Celentano. Montaggio: Adriano Celentano.
Operatori: Sandro Tamborra, Sandro Grossi. Costumi: Elena Mannini. Scenografia:
Enrico Tovaglieri. Musica. Adriano Celentano, Anthony Rutheford Mimms.
Fotografia: Alfio Contini. Direttore di Produzione: Angelo Zerella.
Organizzatore Generale: Eros Lanfranconi. Produzione: Clan Celentano. Durata:
118’. Genere: Commedia musicale. Interpreti: Adriano Celentano, Claudia Mori, Iris
De Santis, Jennifer (Chantal Benoist), Pietro Brambilla, Raf Di Sipio, Memo
Dittongo, Marco Columbro, Lory Del Santo, Gino Santercole, Miki
Del Prete, Rodolfo Magnaghi, Rodolfo Magnaghi, Anthony Rutheford Mimms, Dante
Sarzo, Luciano Bonanni, Diego Baudini,
Ugo Frisoli, Ernesto Giunti, Anna Maria Gallina, Giorgio Faletti, Danilo
Baudini, Sergio Castellini, Fabio Confente, Massimo Fusar Poli, Daniela
Piperno, Luana Barbieri, Jon Lei, Marina Arcangeli, Leona Laviscaunt Mayfair,
Marie Sylvania Wilson, Daniele Demma, Gianni Dell’Aglio, Silvia Annichiarico,
Alberto Carisch, Domenico Seren Gay.
Geppo il folle è il film più personale di Celentano, ancor più
di Yuppi Du - unico
esempio di musical italiano - perché
il molleggiato è onnipresente, dalla
scrittura al montaggio, passando per dialoghi, regia e colonna sonora. Un
prodotto indefinibile, se non con il generico e abusato Celentano - movie, che comprende
i successivi lavori di Castellano & Pipolo, le commedie con Ornella
Muti, Renato Pozzetto e altre celebrità degli anni Ottanta. Geppo il folle è un musicarello atipico, una commedia musicale che
racconta le gesta di un cantante di successo, idolo delle folle, numero uno in
Europa, nel momento più alto della sua carriera, mentre sta progettando un
viaggio negli Stati Uniti per conoscere Barbra Streisand. Prima di
partire, Geppo decide di prendere lezioni di inglese dalla bella
professoressa Claudia Mori, ma finisce per innamorarsi, mentre infrange
diversi cuori tra le studentesse iscritte al corso. La fan più sfegatata,
Marcella (Jennifer), sviene nei luoghi più impensati, tiene un diario del
cantante e finisce per farsi suora quando comprende che non può
averlo.
Lory Del Santo, invece, provoca Geppo mostrando cosce ben tornite
che fuoriescono da spacchi vertiginosi durante le lezioni. Non
mancano tre cattivi da fumetto che odiano il cantante e la sua musica, cercano
di eliminare Geppo e di violentare Marcella, ma sono così assurdi da non
spaventare nessuno. Celentano utilizza il terzetto per sfoggiare battute
surreali (“La mia ultima canzone l’ha scritta Celentano”; risposta: “Non
lo conosciamo”; “Meno male che non è presente. Se c’era, s’incazzava”),
ma anche per impostare alcuni sermoni sull’amore e sulla pace nel mondo,
da sempre alla base della sua filosofia.
Geppo
il folle anticipa i film sui gruppi musicali che oggi vanno di
gran moda, si fonda sull’ego smisurato di Celentano - popolare ma non
come Geppo -che il cantante stempera con un pizzico di ironia. Molta musica:
Dai Geppo dicci dove si va!, Sei proprio tu...,
Non darti troppo trucco..., tante coreografie da musical - interessanti un paio sulla neve e il
tango con Claudia Mori -, folli incursioni di Marco Columbro versione
disk-jockey, sequenze sexy con una stupenda Claudia Mori in vesti succinte.
Trovate surreali spesso eccessive (l’autista che si licenzia perché non
sopporta il successo del padrone), filippiche anticomuniste (“In Russia
non c’è niente e la miseria abbassa la temperatura”), discorsi non violenti,
amore dichiarato per Barbra Streisand, le folle in delirio che vanno
ai concerti. L’egocentrismo di Celentano trionfa su tutto, un
film autocelebrativo dove si definisce - per interposta persona - il
numero uno, il più forte, senza dimenticare le prediche da santone con frasi
tipo: “Non è con la violenza che si mettono a posto le cose nel mondo”, “La
morte genera solo morte”, “Chi usa le armi uccide se stesso”.
Da antologia
la sequenza che vede Claudia Mori spogliarsi lentamente e restare in babydoll, ma mentre lei sprizza sensualità da
tutti i pori Celentano incita i giovani a fare una rivoluzione non violenta,
senza partiti, ma seguendo l’amore che sconfigge tutti i nemici. Una sexy
Claudia Mori, occhi chiari, capelli neri, sguardo malizioso e un lungo bacio
appassionato con Celentano nello chalet montano. Alcuni attori
interpretano la parte di loro stessi: Alberto Carisch, Domenico Seren Gay
cercano di convincere Geppo a cantare una canzone delle edizioni musicali
Carisch, con il testo scritto da Seren Gay. Gianni Dell’Aglio e Silvia
Annichiarico sono altri due interpreti che recitano loro stessi. Tra i banchi
della scuola d’inglese dove insegna Claudia Mori s’intravede un ancora poco
noto Giorgio Faletti.
La fan Marcella dallo svenimento facile è Jennifer, nome
d’arte della bella cantante e attrice francese Chantal Benoist (1954),
fotomodella e icona sexy conosciuta in Italia per alcuni dischi di successo e
per aver interpretato Figlio delle stelle
(1978) di Carlo Vanzina. Geppo il folle, proprio come Yuppi
Du, non è uscito nel circuito Home Video, per
volere dello stesso Celentano. Nel 2014 il canale tematico SKY Hit ha diffuso
la pellicola per festeggiare il settantaseiesimo compleanno di Celentano; non è
stata messa in onda l’edizione originale ma quella tagliata di circa venti
minuti e parzialmente rimontata negli anni Novanta (già passata da Canale 5).
Geppo il folle è un contenitore di silenzi, frasi assurde ma in fondo
vere, filosofia spicciola, sentenze, considerazioni apodittiche sulla vita che acquistano
senso solo se pronunciate con il carisma del molleggiato. Celentano convince persino i fan a pagare un biglietto
per fare da comparse e assistere al finto concerto - nello stadio di
Novara - del loro beniamino, brandendo striscioni che inneggiano
a Geppo. Un’altra parte lo vede in concerto, ma in quel caso è una
vera esibizione a Ome (BS), il cui incasso - proprio come nel soggetto
del film! - fu destinato ai lavori di recupero del Santuario della Madonna dell’Avello.
Certo, il Celentano regista non è Bergman, usa lo
zoom a sproposito (negli anni Settanta lo facevano in molti), abbonda in
dissolvenze e ralenti, per non parlare di una macchina da
presa innamorata di un se stesso onnipresente. Resta un Celentano in
gran forma che si fa perdonare un eccesso di arroganza scrivendo un film
strampalato e originale, cinema d’autore ricco di coreografie, parti
canore e gag visive d’impronta surrealista.
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