sabato 30 marzo 2013

Weekend tra amici (2013)

di Stefano Simone


Regia: Stefano Simone. Scritto da: Francesco Massaccesi. Editing & Colour correction: Stefano Simone. Musiche: Luca Auriemma. Arredamento: Dino D’Andrea. Effetti Cg: Andrea Ricca. Interpreti: Matteo Perillo, Michele Bottalico, Filippo Totaro, Peppe Sfera, Tonino Potito, Nicla Loconsole, Michela Mastroluca, Raffaella Piemontese, Adolfo Renato, Tecla Mione. Origine: Italia. Anno: 2013. Durata: 62’.



Marco, Gianni, Stefano e Fabrizio, amici da sempre, si riuniscono come ogni anno per un torneo calcistico trasmesso in televisione che vede rivali le loro quattro squadre. Ogni personaggio è tormentato da un’angoscia diversa: solitudine, famiglia, divorzio, inferiorità sociale. Il calcio è il detonatore dei problemi insoluti delle loro vite, il catalizzatore di un odio represso, che esplode in un tranquillo weekend di paura, tra le mura di una casa di campagna, dove tutto era predisposto per una cena in compagnia, davanti al televisore, come ai vecchi tempi.


Stefano Simone gira il suo film più maturo, restando nel genere thriller stile Kenneth (2008) e Unfacebook  (2011), ma abbandonando i riferimenti fantastici presenti in Cappuccetto Rosso (2009), Una vita nel mistero (2010) e nello stesso Unfacebook. Weekend tra amici è intriso di crudo realismo, un thriller claustrofobico e introspettivo, teatrale, un melodramma che scava nella psicologia dei personaggi e porta alla luce i demoni che albergano nella nostra psiche. Simone va ben oltre gli angusti confini del genere, scrive il suo miglior cinema d’autore, che risente delle influenze di Ingmar Bergman e William Friedkin. Un elogio al soggettista sceneggiatore Francesco Massaccesi (un cognome che promette bene), perché - a parte alcune lungaggini - non abbiamo notato buchi di sceneggiatura. Ottimo il montaggio, serrato quanto basta per creare la tensione di un cinema claustrofobico, girato quasi tutto in una stanza. Il meccanismo è quello dei 12 piccoli indiani di Agata Christie, solo che non stiamo cercando un assassino, ma il demone che prende forma e uccide senza un motivo apparente.



La musica di Luca Auriemma - che conosciamo dai tempi di Cappuccetto Rosso, una costante nel cinema di Simone - è perfetta per caratterizzare tensione e momenti culminanti. Brani sintetici e sonorità meridionali, a tratti pare di sentire uno scacciapensieri, sono il leitmotiv di una colonna sonora ideale per rendere il clima angosciante della pellicola. Effetti speciali credibili, realizzati in economia, ma realistici: le parti efferate sono prive di sbavature, se tralasciamo il primo morto nella doccia che - per un istante - si vede respirare. Mi soffermo sulla recitazione, da sempre nota dolente del cinema di Simone, perché questa volta gli attori sono tutti bravi e ben calati nella parte, recitano con tono drammatico notevole, forse troppo impostato e teatrale, ma recitano, e catturano l’attenzione dello spettatore.


Matteo Perillo (il dentista) ha una marcia in più, un vero professionista, interpreta in maniera convincente il dramma interiore della solitudine. Nicla Loconsole è una bella presenza sexy, persino misteriosa, che compare per un breve flash, ma purtroppo è poco utilizzata dal regista. La regia è attenta, la macchina da presa alterna primi piani, particolari, panoramiche, esterni paesaggistici che descrivono il colore locale, fotografa il crescendo di follia ricorrendo a una colorazione intensa con un tono rosso dominante.


Weekend tra amici parte con il tono della storia di formazione, un racconto alla Salvatores, stile Italia Germania 4 a 3 (1990) di Andrea Barzini e Compagni di scuola (1988) di Carlo Verdone, seguendo una tematica minimalista e costruendo una nostalgia del tempo passato che sfocia nel dramma. I quattro amici si riuniscono per passare un fine settimana insieme, per godere la visione del loro sport preferito, ma non riescono a lasciare da parte loro stessi, i problemi, le angosce che tormentano un difficile quotidiano. La vita scorre, la giovinezza è ormai perduta, i sogni sono infranti, resta il dramma di una generazione sconfitta. Simone e Massaccesi realizzano una dura critica al mondo del calcio ricorrendo a dialoghi serrati, molto tecnici, che i non ferrati nella materia faticheranno a comprendere. La critica alla violenza va di pari passo con il perbenismo di chi si disinteressa - ed è peggiore degli ultras - perché tanto ha l’abbonamento in tribuna d’onore.


Lo stadio visto come sfogo sociale alle frustrazioni non è un’idea nuova, ma Simone inserisce citazioni colte (Blake, Cechov…) e intuizioni d’autore interessanti, oltre a mettere il dito sulla piaga: il gioco del calcio scatena gli istinti peggiori dell’uomo. Un crescendo di delirio e un tono sempre più cupo apre le porte a sequenze di puro metacinema quando uno degli amici afferma che con il cinema alto non si fanno incassi, svela i meccanismi della suspense e del sottotesto. Solitudine, rancori, famiglia vista come gabbia dalla quale è impossibile uscire, incomprensibile follia, tutto conduce alla più incredibile delle tragedie, una vera e propria ecatombe da melodramma spagnolo. Stefano Simone si dimostra ancora una volta un regista promettente, capace di mettere in scena un testo difficile e colto, intriso di riferimenti classici e letterari.

Gordiano Lupi

venerdì 29 marzo 2013

Il marito (1958)

di Nanni Loy e Gianni Puccini


Regia. Nanni Loy, Gianni Puccini. Soggetto: Alberto Sordi, Rodolfo Sonego. Sceneggiatura: Alberto Sordi, Rodolfo Sonego, Nanni Loy, Gianni Puccini, Ettore Scola, Ruggero Maccari. Fotografia: Roberto Gerardi. Montaggio: Gabriele Varriale. Musiche: Carlo Innocenzi. Scenografia: Flavio Mogherini. Produzione: Felice Zappulla per Fortunia Film (Roma), Chmartin (Madrid). Interpreti: Alberto Sordi, Aurora Bautista, Luigi Tosi, Alberto De Amicis, Carlo Ninchi, Marcello Giorda, Pino Patti, Rosita Pisano, Mario Passante, Ciccio Barbi. Interni: Incir - De Paolis. Durata. 82’. Colore: Bianco e Nero. Prodotto Italia/Spagna.


Il marito è uno dei primi film di Nanni Loy e di Gianni Puccini (lo sceneggiatore prediletto di De Santis) che collaborano per dirigere una commedia che presenta molte caratteristiche della commedia all’italiana, perché racconta la vita con stringente realismo cercando di cogliere il suo lato comico.


Il marito è una pellicola sul boom, ma al tempo stesso è una critica alla vita familiare, al menage che diventa una prigione, uno spaccato di esistenza che riguarda uomini e donne. Alberto Sordi è Alberto, marito di Elena (Bautista), moglie aristocratica che ama suonare il violino e odia il calcio, dotata di suocera invadente e sorella in cerca di marito. Alberto si lancia con un socio nel boom edile improvvisandosi costruttore, ma non dispone di capitali e l’impresa affonda nei debiti.  Il film descrive il doppio fallimento della vita di Alberto: una famiglia ossessiva, non solo quella acquista ma anche la propria che non lesina richieste di denaro e aiuti per andare avanti, e un lavoro che non fa per lui. Alberto ed Elena si sposano, fanno debiti e firmano cambiali per andare a vivere in una casa con terrazza che si affaccia sulla campagna, ma la suocera vuole trasformare la terrazza in camera, per usarla come stanza personale. Alberto vorrebbe andare alla partita, ma è costretto a rinunciare persino al derby Roma - Lazio per ascoltare la moglie che suona il violino. Emblematica la morte del violino, sacrificato dal marito inviperito che non può ascoltare la radiocronaca per colpa degli acuti.

Nanni Loy

Alcune sequenze ricordano la commedia balneare, con la vista nostalgica della spiaggia di Ostia fine anni Cinquanta, i primi costumi in due pezzi e gli uomini al mare con gli occhi sgranati. Tra l’altro pare che molte sequenze del film siano state girate a Madrid invece che a Roma, per volontà del produttore spagnolo, entusiasta di una storia in cui si riconosceva al cento per cento (era sposato con undici figli). Si narra che Angelo Rizzoli abbia rifiutato il copione di Sordi e Sonego e che non abbia voluto produrlo con la Cineriz. La pellicola racconta la vita in provincia (Viterbo), le malelingue che non consentono a una ragazza di vivere storie d’amore, le preoccupazioni di un imprenditore improvvisato, la famiglia che diventa una prigione fatta di obblighi e convenzioni. “Io non so’ nessuno. Dipendo dai commendatori, dai deputati…” dice Sordi. La frase contrasta con quella di un personaggio successivo (Il marchese del Grillo): “Io so’ io e voi non siete un cazzo”. Ma sono epoche e situazioni diverse. In questo film Sordi è l’uomo piccolo, l’italiano medio che sogna la rivalsa sociale, che vede il boom come possibilità di ricchezza e invece ne resta soffocato. Ricordiamo il motivetto vagamente razzista, ma di gran moda, canticchiato da Sordi: “Bongo bongo bongo stare bene solo in Congo non mi muovo no no./ Bingo bongo bengo molte scuse ma non vengo, io rimango qui.”. La canzoncina significa il rifiuto di una vita tradizionale, la voglia di ribellione alle convenzioni, rappresenta un anelito di libertà. Alla fine il marito si adegua alla situazione - come la maggior parte degli italiani - accetta un posto fisso da novantamila lire al mese come rappresentante di dolciumi. La moglie continuerà a essere gelosa, perché in treno gli incontri non mancano, come si intuisce dalla sequenza finale.  

Alberto Sordi e Aurora Bautista

Rassegna critica. Gianluigi Rondi (Il Tempo, 6 marzo 1958): “Tiene in piedi la farsa Alberto Sordi, più colorito e divertente che mai nelle vesti del protagonista. Inutile chiedergli di essere più composto, quieto, riservato, il clima del film, tutto allegria esteriore e tutto facili risa, lo pretende così e forse anche il pubblico...”. Paolo Mereghetti (due stelle e mezzo): “Uno dei primi film capaci di usare in maniera coerente le qualità comiche dell’attore per costruire un ritratto a tutto tondo dell’italiano medio. E se è vero che la regia sembra troppo remissiva di fronte alle aspirazioni mattatoriali di Sordi, è anche innegabile che in questo modo regala allo spettatore alcuni indimenticabili momenti di comicità. E dal punto di vista antropologico, l’irrimediabile vitellonismo del protagonista e il suo rifiuto di una vita familiare tradizionale anticipano i primi sintomi di trasformazione della famiglia italiana, che diventeranno evidenti con il boom”.  Pino Farinotti concede tre stelle ma si limita a sintetizzare la trama. Morando Morandini (tre stelle di pubblico/ due e mezzo di critica): “Non vale Parola di ladro che segnò nel 1957 il felice esordio registico di Loy e Puccini. Al loro attivo, oltre alla scaltrezza espositiva, c’è un Sordi irresistibile, due o tre momenti di dolorante verità e qualche passaggio di scattante buffoneria”. Uno spaccato tragicomico di un periodo storico, un piccolo capolavoro di comicità, intriso di neorealismo e di commedia sentimentale, ma con molti elementi di novità che conducono per mano verso la grande commedia all’italiana.

Per vedere alcune sequenze:


mercoledì 27 marzo 2013

Il marchese del Grillo (1981)

di Mario Monicelli


Regia: Mario Monicelli. Presentato da Renzo Rossellini per Gaumont D.A.C.. Fotografia: Sergio D’Offizi (Colore Telecolor). Sceneggiatura: Lorenzo Baraldi. Costumi: Gianna Gissi. Produttore Esecutivo: Marco Tamburella. Direttori di Produzione: Francesco Casati, Marc Maurette, Giuseppe Auriemma. Collaboratrice ai costumi: Bruna Parmesan. Arredamento: Massimo Tavazzi. Aiuto Regista: Amanzio Todini. Musiche: Nicola Piovani (dirette dall’autore). Montaggio. Ruggero Mastroianni. Soggetto: Bernardino Zapponi. Rielaborato da: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario Monicelli, Tullio Pinelli. Sceneggiatura: Benvenuti, De Bernardi, Monicelli, Pinelli, Sordi. Produzione: Italia/Francia. Produttori: Luciano De Feo per Opera Film Produzione srl (Roma) e Gaumont S.A. (Parigi). Interpreti: Alberto Sordi, Carolyne Berg, Riccardo Billi, Flavio Bucci, Camillo Milli, Cochi Ponzoni, Marc Porel, Pietro Tordi, Leopoldo Trieste, Paolo Stoppa, Giorgio Gobbi, Isabelle Linnartz, Tommaso Bianco, Marina Confalone, Alfredo Cohen, Elena Daskowa, Salvatore Iacono, Elena Fiore, Isabella Bernardi, Andrea Bevilacqua, Angela Campanella, Giuseppe Furelli, Ettore Geri, Jacques Herlin, Elisa Mainardi, Bruno Rosa, Sandro Signorini, Compagnia del Teatro di Alibert diretta da Angelo Savelli, Renzo Rinaldi (Bacco), Ivan De Paola (Ermes).

Paolo Stoppa e Alberto Sordi

Mario Monicelli si dice lusingato e stupito che questo film interessi così tanto il pubblico americano, perché in fondo racconta le vicissitudini di un personaggio (reale o leggendario) della Roma papalina ai tempi di Pio VII. Certo, la casata del Grillo è storica, visto che a Roma esiste ancora il Palazzo del Grillo e c’è una strada chiamata la Salita del Grillo (dove viveva il regista). Monicelli cura prima di morire una versione de luxe in dvd, sottotitolata in inglese, riservata al pubblico nordamericano, ricca di extra e di contenuti inediti. Il film vede protagonista uno straordinario Alberto Sordi che rappresenta tutti i vizi e i difetti della nobiltà romana: pigrizia, arroganza, infingardaggine, codardia, superstizione, bigottismo, corruzione e ricerca del quieto vivere. Onofrio, il marchese del Grillo, inganna la noia di giornate monotone nella Roma del Papa Re (1809), durante l’avanzata napoleonica, facendo scherzi feroci ai poveri, ai borghesi e persino ai nobili. Lancia frutta ai questuanti insieme a durissime pigne, ripaga con soldi roventi chi pretende danni, fa allontanare la sorella (Confalone) perché il suo alito è pestilenziale, ironizza sulla madre bigotta (Valenzano), incita la cugina (Linnartz) a gettarsi sugli uomini, mura la bottega di un negoziante, non paga un falegname (Billi), corrompe i giudici del processo per debiti, prima lo fa condannare e poi lo rimborsa.

Alberto Sordi nei panni del carbonaio

Il film è un contenitore di scherzi sulla falsariga di un Amici miei (1975) in costume, debitore delle atmosfere ideate da Luigi Magni (Nell’anno del Signore, 1969 e In nome del papa Re, (1977) e anticipa la nuova stagione di Amici miei (Atto II, 1982). Una commedia all’italiana in costume che a tratti vira sul sexy quando il marchese se la spassa con la giovanissima amante romana (Campanella) o quando esibisce in un plastico nudo la sua conquista francese (Berg). Ottimo Flavio Bucci nei panni del folle brigante Don Bastiano, prete che si è dato alla macchia e fa il predone, ma muore da eroe incitando il popolo a inginocchiarsi. Frase indimenticabile, tratta da un sonetto di Gioacchino Belli: “Mi dispiace. Ma io so’ io e voi non siete un cazzo!”, che rappresenta bene il personaggio del Sordi - Marchese, strafottente e arrogante, in fondo buono e generoso. Bravo Paolo Stoppa come Papa Pio VII che fa le corna invece di benedire quando il Marchese esclama: “Morto un Papa se ne fa un altro!”. Sordi è straordinario anche nei panni di Gasperino il carbonaio, sosia del Marchese, che utilizza per uno scherzo feroce ai familiari. L’attore romano passa con grande disinvoltura dal ruolo di nobile colto e annoiato a quello di popolano rozzo e ubriacone. Lo scherzo giunge ai massimi termini quando Gasperino sta per essere ghigliottinato al posto del marchese, ma per fortuna il Papa concede la grazia.

Carolyne Berg e Alberto Sordi

Bravo Gobbi come servitore, diligente Billi come falegname. Il marchese del Grillo è uno spaccato di vita della Roma del 1800, credibile e realistico, dipinto con i colori della commedia all’italiana da un Monicelli ispirato, per descrivere con graffiante ironia ascesa e disfatta di Napoleone, ma anche gli ultimi anni del Papa Re. Ottime le musiche di Nicola Piovani. Il compositore ricorda: “Era la prima commedia che musicavo, dopo tanto cinema drammatico, impegnato e d’autore. Conobbi Monicelli durante una regia teatrale e il suo fu un gesto coraggioso che contribuì a togliermi di dosso la fama di musicista mortaccino (parole del regista). Ricordo che per questo film dovetti inventarmi tre frammenti di una finta opera intitolata La cintura di Venere, con protagonisti Ermes, Bacco e Venere, che doveva rappresentare la prima messa in scena con una soprano donna invece dei castrati. Fu importante l’aiuto del commediografo Angelo Saverio. In una sequenza c’è una sfida tra un castrato e la soprano femmina che si contendono la scena a colpi d’ugola, mentre il pubblico protesta per lo scandalo. Per la finta opera inventammo anche una finta locandina con un autore inesistente: Jacques Lepén. Bene, a distanza di molti anni ci sono ancora studiosi francesi che mi scrivono per avere notizie su un autore inesistente. Questa arietta d’opera viene canticchiata da Sordi nella sequenza in carrozza quando decide di andare a Parigi dalla bella Olimpia, ma l’attore italianizza il testo francese: “Mia cara Olimpia, mettiti in pompa…”.

Alberto Sordi e Marc Porel

Suggestiva la fotografia di Sergio D’Offizi, scura e notturna, per rendere credibile un’epoca senza illuminazione artificiale. “All’inizio, i rapporti con Monicelli non furono idilliaci, perché mi sentivo osservato, giudicato, ma poi lavorammo bene insieme. Feci con lui anche Amici miei Atto II. In fondo Monicelli era uno di poche parole, ci assomigliavamo molto. Lavoravamo tanto e parlavamo poco”, ricorda D’Offizi. Importante il lavoro dello scenografo Lorenzo Baraldi e della costumista Gianna Gissi, tra l’altro coniugi, che rendono credibile l’ambientazione con le poche risorse disponibili. Aiutano il Presidente della Repubblica Sandro Pertini e il sindaco di Roma Petroselli, ma anche l’assessore alla cultura Nicolini, che concedono l’uso di Campidoglio e Quirinale. Molti interni sono girati a Lucca, non solo nel Museo Reale (la residenza del marchese), ma anche in molte ville di campagna. Per gli esterni: Roma, Tarquinia, Riolo Romano, la faggeta di Soriano del Cimino, molta campagna laziale e il Lago di Vico. La piazza viene ricostruita a Cinecittà, in studio, sulla falsariga della piazzetta sul Tevere, il piccolo porto di Ripetta, distrutta nel 1860 dai piemontesi. Emilio Ruiz Del Rio costruisce la maquette di Castel Sant’Angelo usando un lamierino che viene posizionato sullo sfondo del set.

Un plastico nudo di Carolyne Berg

Mario Monicelli afferma: “Non sono toscano ma versiliano, sono nato tra i monti e il mare. Amo questa terra e sono appassionato di Lucca, città dove da ragazzo, io che sono di Viareggio, andavo a fare le prime bravate. Per questo ho girato a Lucca gran parte del film, tre settimane nel Museo Reale e in altre ville che sono servite per ricostruire i palazzi del marchese. Lucca è una città ancora racchiusa dalle mura, rinascimentale, conservata perfettamente. A Roma c’è un Palazzo del Grillo, ma era inutilizzabile, non è ben conservato. Alberto Sordi interpreta bene la parte di un nobile romano sprezzante verso i poveri, cinico e disilluso. Abbiamo messo in scena la Roma del Belli, in un set artificiale, costruito per un film di Scola, abbiamo composto un affresco della Roma di Pio VII. Blanchard (Porel) è il francese che rappresenta la modernità, il nuovo che avanza. Sordi è l’aristocrazia che ha visto tutto e non ha voglia di cambiare. Billi è il falegname ebreo, simboleggia l’intolleranza, il ghetto romano che conteneva i paria, uomini senza diritti, confinati nel limbo. Paolo Stoppa è un perfetto Pio VII, con la sua recitazione secca, asciutta e ironica, ricorda il vero carattere del Papa. E poi il rapporto Stoppa - Sordi era molto buono e insieme rendevano a dovere il conflitto tra i protagonisti. Lo scambio tra il povero e il ricco è un’altra trovata interessante che deriva dal teatro classico, da Plauto, così come il rito del ceffone al figlio ricorda un sonetto del Belli durante l’esecuzione di Gambardella nel 1749”. Aggiungiamo noi che sono ben calati nella parte anche Cochi Ponzoni (il cognato), Leopoldo Trieste (il cappellano del marchese) e Camilo Milli (cardinale). Per pura curiosità, Camillo Milli sarà ancora cardinale nel recente Habemus Papam (2011) di Nanni Moretti.

Sordi e Berg nella scena dei maccheroni alla pajata

Rassegna critica. Paolo Mereghetti (due stelle): “Monicelli racconta la sordida Roma papalina in bilico tra medioevo e modernità, scegliendo un personaggio che sogna Parigi ma non cambia nulla, conscio di sfruttare i propri privilegi e di appartenere comunque al passato; e mette in scena la Storia per aneddoti demistificanti e paradossi, cercando richiami al presente. In fondo è lo stesso metodo de L’armata Brancaleone, anche se manca coesione d’insieme, il ritmo langue e le fonti sono eterogenee (dalla novellistica boccaccesca al Belli). Sordi, in un doppio ruolo, è al massimo del virtuosismo e della trivialità”. Morando Morandini (due stelle critica/ cinque stelle pubblico): “In bilico tra storia e leggenda questo marchese Onofrio del Grillo è costruito su misura per Alberto Sordi che, in sagace equilibrio tra cinismo e intelligenza, arricchisce la sua lunga carriera di maschere italiane”. Pino Farinotti concede tre stelle, condivisibili, ma non avanza giudizi critici. Il marchese del Grillo riscuote un grande successo: secondo incasso dell’anno tra Innamorato pazzo e Il tempo delle mele. Premio per la regia a Berlino. Secondo Premio David di Donatello. Durata cinematografica: 127’. Dvd Eagle in commercio: 139’.

Gordiano Lupi

domenica 17 marzo 2013

Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968)

di Ettore Scola


Regia: Ettore Scola. Soggetto e Sceneggiatura: Age (Agenore Incrocci), Furio Scarpelli, Ettore Scola. Fotografia: Claudio Cirillo. Montaggio: Franco Arcalli. Musiche: Armando Trovajoli. Scenografia: Gianni Polidori. Costumi: Bruna Parmesan. Trucco: Giulia Natalucci, Maria Teresa Corridoni. Aiuto Regista. Giorgio Scotton. Operatori alla macchina. Sergio Salvati e Enrico Umestelli. Produttore: Gianni Hecht Lucari per Documento Film. Produttore Esecutivo: Fausto Saraceni. Distribuzione: Titanus. Durata: 130’. Colore. Interpreti: Alberto Sordi, Bernard Blier (doppiato in marchigiano da Max Turilli), Giuliana Loyodice, Erica Blanc, Franca Bettoia, Manuel Zarzo, José Maria Mendoza, Ivo Sebastianelli, Nino Manfredi, Roberto De Simone, Francesca Romana Coluzzi.

Sordi e Manfredi

Gianni Canova sostiene che “Riusciranno i nostri eroi rappresenta una nuova tappa per la costruzione del personaggio di Sordi, un italiano medio, conformista e pieno di difetti, ma che il finale ambiguo, invita a ripensare alla nostra realtà”. Non concordiamo in toto, anche se tale impostazione critica contiene elementi condivisibili. Il personaggio di Sordi sotto la guida di Scola è più avventuroso e meno meschino del solito, si fa tentare dalla possibilità di cambiare vita in modo radicale, anche se alla fine opta per calcare strade conosciute.

Ivo Sebastianelli stona Amore scusami

Age, Scarpelli e Scola realizzano una commedia all’italiana, on the road, esotica, girata in un’Angola ancora selvaggia, al tempo colonia portoghese, ispirandosi alla sceneggiatura del fumetto Disney Topolino e il Pippotarzan (1958) di Romano Scarpa. Sordi è l’editore romano Di Salvo, Blier è un succube segretario marchigiano, il cognato scomparso in Africa è Nino Manfredi, Zarzo è un portoghese imbroglione ma simpatico, Sebastanelli, un camionista canterino, occasionalmente attore. Francesca Romana Coluzzi si intravede per una breve sequenza, ma il cast femminile è integrato da tre presenze come Loyodice, Bettoia e Blanc, poco influenti nell’economia della storia. Scola vorrebbe protagonista Manfredi, ma l’attore ha preso altri impegni e non ha tempo da dedicare al film. Il regista decide per un’inversione di ruoli e Sordi si cala nella parte dell’editore che parte da Roma alla ricerca del cognato in fuga dalla civiltà. La trama è semplice. L’editore Di Salvo (Sordi) e il segretario (Blier) si recano in Africa per ritrovare il cognato Titino (Manfredi), che da due anni non dà notizie e ha lasciato la moglie nella più assoluta disperazione.

Alberto Sordi vestito da ridicolo coloniale

Per l’editore il viaggio rappresenta una fuga dalla realtà quotidiana, dalle serate inutili e vuote della famiglia borghese, da una vita piena di sterili impegni, è un percorso alla ricerca di se stesso. Stupenda la fotografia africana, ricca di inserti stile mondo movie (fotografia diversa): rinoceronti che caricano camion, leoni, zebre, gnu, gazzelle, branchi di uccelli in volo, ma apprezziamo pure suggestivi tramonti e spazi interminabili ripresi in diretta. Il baobab troneggia in un panorama di deserto e savana, pianta immensa simbolo di vita. Sordi dà vita a un personaggio in fuga da frustrazioni e monotonia, affascinato dalla vita naturale, un uomo che “cerca se stesso, perché la verità è contraddittoria”. Alcune frasi decise in sceneggiatura, come “il benessere distrugge l’individuo più del bisogno” e “i lavoratori sono diventati dei conservatori”, sono di una stringente attualità. L’editore contrae il mal d’Africa, s’innamora della gente, dei sapori, dei luoghi, vorrebbe vivere un’avventura con una ragazza del posto, nel finale è indeciso se restare o partire. Il personaggio interpretato da Sordi non è del tutto negativo, è un uomo animato da sentimenti antirazzisti, difende i neri sfruttati da due colonizzatori portoghesi, si batte per loro, conquista la simpatia del segretario, pure se rischia di essere preso a botte. Paga uno per uno tutti i danneggiati di un villaggio quando dopo un incidente distrugge un mercato e ammazza diversi animali.

Versione francese

Il cognato ha fatto perdere le sue tracce, ma nel frattempo ne ha combinate di tutti i colori, facendosi passare per prete, truffando un mercenario francese e finendo per vestire i panni dello stregone in una tribù angolana. Erika Blanc è perfetta nel ruolo della donna pazza, sconvolta dall’amore, truffata dall’italiano che si è finto morto e ha fatto seppellire il suo violino. Il finale è aperto, perché il cognato in un primo tempo decide di partire e di tornare alla civiltà, ma quando vede l’intero villaggio sulla spiaggia incitarlo a restare, si tuffa e raggiunge quella che considera la sua nuova vita. L’editore resta a metà strada, indeciso, ripensa come un flashback a tutto il viaggio, ma non ha il coraggio di buttarsi e affrontare l’ignoto, l’incertezza del cambiamento. “Ma che fa, si butta anche lei?”, chiede il segretario. “Non lo so. Non ho le idee chiare”, risponde l’editore. Il destino della borghesia, pare dire Scola, è quello di non avere la forza di cambiare, ma di continuare a vivere secondo convenzioni, in una situazione di raggiunto benessere che produce stress e frustrazione.

Bernard Blier, maschera allucinata

La musica di Trovajoli è eccellente, composta da sonorità africane, tamburi in sottofondo, sottolinea il viaggio dei due uomini alla scoperta dell’ignoto, soli in mezzo alla giungla e al deserto angolano, prima di ritrovare il parente scomparso.

La scena simbolo del film: le convenzioni borghesi

Rassegna critica. Paolo Mereghetti (due stelle e mezzo): “Il film è una divertita presa in giro della provinciale e odiosa arroganza dell’italiano arricchito nel terzo mondo”. Non condivido tale impostazione, perché Sordi non incarna l’italiano arrogante, in una sequenza si schiera persino come difensore degli indigeni contro i colonialisti portoghesi. Tutt’altro. Sordi è l’italiano annoiato dalla civiltà che si innamora dell’Africa al punto che vorrebbe restarci a vivere per sempre. Morando Morandini (due stelle e mezzo di critica, cinque di pubblico). “La commedia ha per bersaglio il provincialismo arrogante dell’italiano danaroso nel Terzo Mondo, ma i suoi intenti sono più comici che satirici. La ricchezza delle trovate buffe, la bravura degli interpreti (Blier e Manfredi più di Sordi), l’innocuità di fondo, spiegano il grande successo del film, pur inferiore a quello ottenuto da Sordi nello stesso anno con Il medico della mutua”. Tre stelle per Pino Farinotti, senza motivare la sintetica scelta.

I flani giocano sull'equivoco...

Il film è campione d’incassi al botteghino, due miliardi con il biglietti a cinquecento lire non è poca cosa. Mi permetto di aggiungere che la critica alta non comprende il senso profondo del film, perché il bersaglio di Scola è la borghesia annoiata, incapace di rinnovarsi e di cambiare vita, non il provincialismo arrogante degli arricchiti nel Terzo Mondo. Sordi rappresenta il piccolo borghese consapevole di sprecare un’esistenza nei riti monotoni dell’apparire, sa che la vera vita sarebbe in un altro mondo, a contatto con la natura, ma non ha la forza per dare una sterzata decisa alla sua esistenza. Il personaggio di Manfredi, invece, rappresenta il coraggio, la forza di cambiare. Un piccolo successo commerciale che meriterebbe una maggior attenzione e rivalutazione critica. 

La simbolica scena finale:

Gordiano Lupi

sabato 16 marzo 2013

Nocturno parla della mia Storia del Cinema Horror


Nocturno di Marzo 2013, a firma Corrado Farina (un grande regista) cita la mia STORIA DEL CINEMA HORROR ITALIANO volume 3.
Recensione inaspettata, quindi ancora più gradita....

Una botta di vita (1988)

di Enrico Oldoini


Regia: Enrico Oldoini. Soggetto: Aurelio Chiesa. Sceneggiatura: Age (Agenore Incrocci), Liliana Betti, Alberto Sordi, Enrico Oldoini. Produttori: Pio Angeletti, Adriano De Micheli, Fulvio Lucisano. Produttore Associato: Antonio Passalia. Coproduzione Italo - Francese: International Dean Film (Roma), Italian International Film (Roma), Italfrance Films (Parigi). Montaggio: Raimondo Crociani. Fotografia: Giuseppe Ruzzolini. Organizzatore Generale: Mario D’Alessio. Direttore di Produzione: Gerard Croce. Aiuto Regista: Paolo Costella. Aiuto Regista Francese: Bruno Trompier. Arredatore: Elio Micheli. Scenografia e Costumi: Luciano Sagoni. Musica: Manuel De Sica. Interni: Cinecittà. Esterni: Sala Bolognese, Bordighera, Montecarlo, Saint Tropez, Cannes, Portofino. Interpreti: Alberto Sordi, Bernard Blier, Andréa Ferreol, Elena Falgheri, Vittorio Caprioli, Alberto Sorrentino, Charles Millot, Josette Nieri, André Gely, Chantal Garin, Jean Pierre Besson. Voce di Bernard Blier: Antonio Guidi. Doppiaggio: Gruppo 30. 

Blier e Sordi

Una botta di vita arriva in piena crisi del cinema italiano. Non è un film memorabile, ma si ricorda come un’occasione perduta per confezionare una pellicola importante sulla terza età, invece che una sfilza di luoghi comuni tenuti insieme da un esile collante. Bernard Blier morirà due anni dopo, ma adesso è impegnato in una rimpatriata con Alberto Sordi dopo aver lavorato insieme in capolavori assoluti come La grande guerra (1959) di Mario Monicelli e nello scoliano Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968). Il ruolo femminile più importante è ricoperto dall’attrice francese Andréa Ferreol, ma anche una poco nota Elena Falgheri regala una breve apparizione. Vittorio Caprioli è sottoutilizzato nel ruolo del cuoco che ha tradito Sordi portandogli via l’amore della sua vita.

Bernard Blier

Un film on the road sull’amicizia tra due persone anziane che si trovano sole per ferragosto in un paese della Romagna. Elvio Battistini (Sordi) è un rozzo gestore di un cinema di provincia dove non entra più nessuno (la crisi del cinema), mentre Giuseppe Mondardini (Blier) è un vecchio intellettuale che ama l’opera e si atteggia ancora a tombeur de femmes. Una coppia insolita che finisce in Costa Azzurra a bordo di una vecchia auto che il proprietario chiama Teresa, passando per Bordighera, Montecarlo, Portofino e Cannes. Un viaggio iniziatico alla scoperta del senso della vita, con Sordi che palesa tutta l’inettitudine di un personaggio bugiardo e dedito al turpiloquio, mentre Blier si abbandona a citazioni colte e tentativi di conquista. Il film è un contenitore di frasi a effetto come “è brutto invecchiare, sai?”, ma anche “passi il ferragosto a fare il cane da guardia”, citazioni prese dalla vita cinematografica: “noi due ci siamo già incontrati”, cose proustiane come “la realtà è il più abile dei nostri nemici”, dialoghi assurdi: “ma lei pensa mai alla morte?”, con risposte tipo: “mai durante i pasti!”, domande come “la solitudine allunga il tempo o lo accorcia?”. Sordi interpreta un bugiardo matricolato che pensa solo a mangiare, racconta di aver perso una gamba per salvare un bambino durante la guerra mentre è finito sotto un tram; dice che la moglie è morta, ma è scappata con un cuoco vent’anni prima. Blier interpreta un vecchietto filosofo che crede ancora di poter conquistare giovani donne, illude se stesso e in fin dei conti è bugiardo come l’’amico. Durante il viaggio accade di tutto, ma la sceneggiatura è così raffazzonata da sembrare improvvisata: campi nudisti, autostoppiste sexy, droga, incontri galanti, serate al casinò, litigi. Niente di memorabile, comunque. Il finale rasenta il melodrammatico con Blier soccorso da Sordi durante un incidente, ma per fortuna tutto finisce in commedia con una corsa in ambulanza verso l’ospedale di Portofino.

Alberto Sordi

Un film dalla trama stiracchiata che non regge i tempi di un lungometraggio, per raccontare l’amicizia tra persone anziane, la terza età, il dramma di chi non si rassegna a invecchiare e vorrebbe vivere intensamente, nonostante tutto. Poteva essere una pellicola importante, ma non potevamo attenderci di meglio nelle mani di Enrico Oldoini, che confeziona un prodotto alla Yuppies, Vacanze di Natale, Anni Novanta, insomma, gira il suo cinema innocuo, che non lascia traccia. Una botta di vita, in ogni caso, resta il miglior film di Oldoini, come afferma Roberto Poppi: “un malinconico ritratto di due anziani amici che cercano di esorcizzare la morte comportandosi da ragazzini scapestrati”. Completiamo la rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Blier azzecca la malinconia del personaggio, Sordi invece gigioneggia convinto che basti riciclare le sue vecchie macchiette. E i problemi della terza età (l’urgenza vitale e il rifiuto delle mortificazioni) vengono ridotti a pretesto per una comicità troppo facile”. Condivido in pieno. Morando Morandini non spreca parole su una pellicola che non merita attenzione ma conferma la stella e mezzo. Pino Farinotti inserisce tra gli interpreti un’inesistente Philippe Noiret, ma concede due stelle: “Enrico Oldoini cerca di resuscitare la commedia all’italiana, imbastendo un specie di Sorpasso sulla misura di due grandi attori giunti alla terza età, Ma sono passati troppi anni. Per il pubblico e per gli attori”.

Andrea Ferreol

Una botta di vita è soltanto un’occasione perduta. Non ha niente a che vedere con Il sorpasso, né con la commedia all’italiana, ma anticipa lo squallore contemporaneo del television movie.  

Per vedere alcune sequenze:

giovedì 14 marzo 2013

Detenuto in attesa di giudizio (1971)

di Nanni Loy


Regia: Nanni Loy. Idea: Rodolfo Sonego. Soggetto e Sceneggiatura: Sergio Amidei, Emilio Sanna. Edizione: Mario Milani. Aiuto Regista: Franco Locascio. Fotografia: Sergio D’Offizi. Montaggio: Franco Fraticelli. Ambientazione e Scenografia: Gianni Polidori. Arredamento: Dino Leonetti. Costumi: Marisa Crimi, Bruna Parmesan. Direttore di Produzione: Renato Jaboni. Produttore Esecutivo: Fausto Saraceni. Operatore alla Macchina. Gianni Bergamini. Assistente Operatore: Enrico Lucidi. Musiche: Carlo Rustichelli. Dirette: Bruno Nicolai. Distribuzione: Fida Cinematografica. Produzione: Gianni Hect Lucari per la Documento Film. Interpreti: Alberto Sordi, Elga Andersen, Lino Banfi, Andrea Aureli, Giuseppe Anatrelli, Gianfelice Bonagura, Tano Cimarosa, Antonio Casagrande, Nino Formicola, Michele Gammino, Nazzareno Natale, Giovanni Pallavicino, Mario Pisu, Silvio Spaccesi.


Detenuto in attesa di giudizio è una pellicola che non possiamo definire commedia all’italiana, perché i risvolti tragici sono molto accentuati, direi quasi preponderanti nell’economia della sceneggiatura. Alberto Sordi interpreta uno dei suoi personaggi più sofferti e macerati, distrutti psicologicamente da una macchina burocratica che rasenta l’assurdo. Giuseppe Di Noi è un geometra che per lavoro si è trasferito in Svezia, manda avanti una ditta edile composta da connazionali, si è sposato con una ragazza del posto e ha due figli. Un giorno decide di fare una vacanza in Italia, ma l’entusiasmo di rivedere la vecchia patria si stempera, dopo una citazione petrarchesca (Bella Italia/ amate sponde/ pur vi torno a riveder…), appena arrivato alla frontiera. Metaforico il tunnel che si chiude alle spalle di Sordi, fermato per accertamenti dalla polizia, perché rappresenta il baratro in cui sprofonda il protagonista. Nessuno dice il motivo dell’arresto, ma il geometra viene schedato e internato prima a San Vittore, poi a Regina Coeli e infine a Sagunto. Nanni Loy realizza un on the road carcerario, credibile e realistico, tra detenuti tradotti in treno, esposti al pubblico ludibrio, internati in condizioni di assoluta carenza di igiene e diritti umani. Vediamo Giuseppe dormire nudo, con la luce accesa, mangiare schifezze elargite con arroganza e usare un bugliolo per defecare. L’accusa finalmente si concretizza: omicidio colposo e preterintenzionale, ai danni di una persona che il geometra non conosce; solo nel finale comprenderà che tutto è dovuto a un ponte da lui progettato, crollato quando era residente in Svezia.


La carcerazione preventiva del geometra è interminabile, deve assistere al suicidio di un compagno di sventura, persino a una rivolta carceraria e rischia di essere sodomizzato da feroci carcerati. Sordi è bravissimo a interpretare un disgraziato che impazzisce giorno dopo giorno, perché “niente è semplice quando hai a che fare con la giustizia”, come ammonisce un carcerato. Il film è un atto di accusa politico a un istituto barbaro come la carcerazione preventiva, girato con taglio documentaristico, con stile realistico e grottesco, per denunciare i trattamenti contrari al senso di umanità nei confronti dei detenuti. La vita nelle patrie galere è stigmatizzata a dovere, totale assenza di privacy, condizioni igieniche precarie, proibizioni assurde (non rispondere al prete durante la messa), ora d’aria trascorsa in angusti angoli di cortile. Sordi realizza una maschera disperata e dolente di uomo ridotto in frantumi da un meccanismo che lo travolge.


Fotografia a colori, sempre molto scura, si accende solo per riprendere i colori del sud, struggente colonna sonora che accompagna con tonalità cupa la discesa negli inferi del protagonista. Lino Banfi è un direttore del carcere da macchietta, Michele Gammino interpreta un anonimo prete e Tano Cimarosa un secondino intransigente. Mario Brega si intravede per un istante nella cella degli ergastolani che vorrebbero approfittare del neo recluso. La moglie del protagonista è l'attrice tedesca Elga Andersen (alias Elga Hymen), molto bella, ma ininfluente nell'economia di un film basato su uno straordinario Alberto Sordi. Elga Andersen è nota anche come cantante, produttrice e modella ed è attiva soprattutto nel cinema francese. Mario Pisu è il medico dell’ospedale psichiatrico dove il protagonista viene internato per curare la nevrosi provocata dal terribile malinteso. Film di denuncia con il punto di forza costituito da un’intensa interpretazione tragica di Sordi, che in un finale grottesco sogna di scappare dalle mani della polizia italiana ma viene falciato a colpi di mitra. Per fortuna è soltanto un incubo: il geometra  Giuseppe Di Noi può tornare in Svezia e probabilmente non metterà più piede in Italia.

Per vedere il film:

Detenuto in attesa di giudizio è un film utile ai fini della riforma carceraria e serve a incentivare una legge sui limiti della carcerazione preventiva. Procura fastidi e polemiche al regista, accusato di eccessivo disfattismo e di caduta nel grottesco. La macchina da presa si muove nervosa e frenetica; Loy, con piglio da documentarista, cattura immagini rapide, mosse, ispirate a un crudo realismo. Un crescendo di orrore, sottolineato da una musica gelida, porta il regista a calcare la mano sul grottesco, ma la denuncia risulta efficace senza far perdere spettacolarità al film. Le motivazioni dell’arresto del geometra sono un po’ superficiali, la parte in cui si spiegano i motivi della carcerazione preventiva non è giustificata benissimo, ma il tono di fondo - pur sempre da commedia - porta a giustificare le scelte di sceneggiatura. Alla fine quel che resta impresso è il volto di un uomo distrutto, in preda a una crisi di nervi, incapace persino di firmare e di accendersi una sigaretta. Uno dei lavori memorabili interpretati da Alberto Sordi.

Gordiano Lupiwww.infol.it/lupi

sabato 9 marzo 2013

Nessuno è perfetto (1981)

di Pasquale Festa Campanile


Regia: Pasquale Festa Campanile. Soggetto e Sceneggiatura: Franco Ferrini, Enrico Oldoini, Bernardino Zapponi, Renato Pozzetto. Fotografia: Alfio Contini. Montaggio: Amedeo Salfa. Musiche: Riz Ortolani. Scenografia: Giantito Burchiellaro. Produttore: Luigi de Laurentiis, Aurelio De Laurentiis, Achille Manzotti. Interpreti: Ornella Muti, Renato Pozzetto, Lina Volonghi, Massimo Boldi, Gabriele Tinti, Benedetto Ravasio, Felice Andreasi. Girato: Bergamo Alta, Curno, Milano. Italia. Colore. Durata: 105’.

Ornella Muti, bellissima

Nessuno è perfetto (1981) è una commedia interpretata da Ornella Muti e Renato Pozzetto, unica esperienza professionale dei due attori come coppia non troppo bene assortita. Siamo nel periodo delle commedie facili, quando per portare al cinema il pubblico bastano due attori di grido, meglio se una bellezza intrigante come la Muti, spesso in coppia con Celentano e Nuti. Pozzetto ci prova, diretto da un diligente Pasquale Festa Campanile, che non realizza il capolavoro della sua carriera, ma solo un dignitoso prodotto d’intrattenimento. Certo, i luoghi comuni su gay, travestiti e transessuali non mancano, oggi molte situazioni sarebbero improponibili e tacciate di omofobia. Tutto va storicizzato, se vogliamo capire.

Pozzetto - Muti

Chantal (Muti), ex paracadutista diventato donna, sposa Guerrino, imprenditore vinicolo rimasto vedovo (Pozzetto), imbranato e succube della morbosa suocera (Volonghi) che lo insidia sessualmente, vittima di scherzi da parte di compaesani invadenti (Boldi, Tinti), affezionato a un solo vero amico (Andreasi). Guerrino rifiuta di incontrare altre donne dopo la morte prematura della moglie, gli amici lo deridono, soprattutto Boldi (Lingua profonda, autista pettegolo), ma diventano gelosi dopo l’incontro tra Guerrino e la stupenda fotomodella Chantal. Un giorno la suocera scopre il segreto, dopo che il compagno cominciava a sospettare qualcosa per la ritrosia della ragazza nei confronti della prole: Chantal è un ex un paracadutista dell’esercito tedesco che ha cambiato sesso. Guerrino non sopporta i pettegolezzi e gli scherzi feroci di cui viene fatto oggetto, finisce per obbligare la moglie a tradirlo con il playboy del paese (Tinti), ma sul più bello evita che accada l’irreparabile. Alla fine la coppia si riconcilia, il regista conclude con una morale consolatoria e prevedibile: non importa quel che pensa la gente, basta che ci sia l’amore.

Sequenza sexy con Ornella Muti

Un successo di pubblico, come ogni film interpretato da Ornella Muti e da Renato Pozzetto che - per opposti motivi - godono di grande seguito popolare. Bocciatura critica, perché la comicità è ai minimi storici e le trovate sono risapute, anche se la commedia si segue con piacere, fremendo per le disavventure surreali dei protagonisti. Ornella Muti vestita in tuta mimetica da paracaduta e grandi occhiali da sole è uno spettacolo per gli occhi, ma anche diverse sequenze erotiche (caste) la ritraggono in tutta la sua fulgida bellezza. Renato Pozzetto è diligente nella solita interpretazione da imbranato in balia di donne e amici, ma i guizzi comico - surreali sono più prevedibili del solito. Lina Volonghi è una perfetta suocera perfida, impicciona e curiosa. Massimo Boldi diverte come amico invadente, Felice Andreasi è il consulente fidato, Gabriele Tinti il playboy sciupafemmine. Suggestiva e ideale per ricreare la situazione del pettegolezzo di provincia l’ambientazione nella insolita location di Bergamo Alta. Pasquale Festa Campanile è un regista - scrittore che gira e sceneggia di tutto, passando dal comico al drammatico con facilità, ma la commedia resta la sua vera vocazione. Nessuno è perfetto è uno dei suoi ultimi lavori, da rivedere per temi originali e un pizzico di erotismo. Nel solito periodo storico ricordiamo anche Culo e camicia, Bingo Bongo, Il petomane e Un povero ricco.


Il trailer originale

Rassegna critica. Paolo Merghetti (una stella): “Pozzetto tanto per cambiare interpreta il personaggio di un benestante angariato dai pettegolezzi e dalle malignità della provincia sfaccendata e invidiosa, ma il titolo (rubato a Billy Wilder) è più divertente del film, giochino scontato di blanda (e volgare) comicità”. Pino Farinotti la vede in maniera diametralmente opposta (tre stelle): “Commedia degli equivoci tagliata addosso a un Pozzetto espressivo alla sua maniera, ben costruita, divertente e girata con indubbio mestiere”. Morando Morandini segue una condivisibile via di mezzo (due stelle di critica - tre di pubblico): “Poteva essere ottimo, è soltanto discreto, anche nel senso della misura, del garbo. Festa Campanile ha tenuto a briglia corta Pozzetto e dato gas alla Muti. Un po’ ripetitivo e approssimativo”. Luci e ombre, certo. Ma è invecchiato bene.


Alcune sequenze Pozzetto - Muti

Gordiano Lupi

venerdì 8 marzo 2013

Il mio omaggio a Damiano Damiani


Damiano Damiani (1922 - 2013) è un ottimo regista impegnato, che nasce documentarista, gira lungometraggi di atmosfera giallo - poliziesca, realizza il capolavoro L’isola di Arturo (1962), ma anche opere interessanti come La noia (1963), La rimpatriata (1963) e l’indimenticabile Il giorno della civetta (1968). Quien sabe? (1967) lo consegna alla storia del western all’italiana (pure se lui non amava questa definizione), La Piovra (1984) rappresenta la consacrazione nella fiction televisiva e La moglie più bella (1970) lo vede lanciare una giovanissima Ornella Muti.


Ai nostri fini è interessante un horror gotico girato in un gelido bianco e nero come La strega in amore (1966), che vede nel cast Richard Johnson, Sarah Ferrati, Rosanna Schiaffino, Gian Maria Volonté e Ivan Rassimov. Johnson è uno scrittore che deve sistemare l’archivio di una vedova (Ferrati) che vive in un grande palazzo romano insieme alla bella e seducente nipote (Schiaffino). La trama prende le mosse dalla seduzione della bella nipote nei confronti dello scrittore che si fa convincere a uccidere il vecchio bibliotecario (Volonté). Il regista allude al soprannaturale e al tempo stesso lo nega, girato in un bianco e nero deciso che ricorda i fumetti horror, molto ambiguo e pervaso di un malsano erotismo. La strega in amore è sceneggiato da Damiani con la collaborazione di Ugo Liberatore, ma la storia è tratta dal romanzo Aura di Carlos Fuentes e avvicina il gotico italiano al cinema europeo. Un ottimo film che tratta il tema del doppio e della seduzione diabolica con cura formale (fotografia di Leonida Barboni e scenografie di Luigi Scaccianoce e Dante Ferretti) e ottima colonna sonora di Luis Bacalov.


Amityville possession (1982) è il secondo e ultimo horror girato da Damiano Damiani, che non ha niente a che vedere con il gotico, ma ne parliamo in maniera residuale. Si tratta del prequel di Amityville Horror (1979) di Stuart Rosemberg, fortemente voluto dalla produzione Dino De Laurentiis. Si parla di una casa costruita sopra un vecchio cimitero indiano e quindi infestata da presenze demoniache, che si palesano attraverso le cuffie di un walkman, prendono possesso di un ragazzo e lo spingono a compiere una strage familiare. Un prete è chiamato a risolvere il caso, secondo le convenzioni dell’horror esorcistico che Damiani si sforza di limitare al massimo. Il film presenta una sua originalità, ma sfrutta le suggestioni di opere come La casa (1982) di Sam Raimi, L’esorcista (1972) di William Friedkin e persino Shining (1980) di Stanley Kubrick. Ottime le soggettive inquietanti della presenza malefica con tanto di rantoli e sospiri, ma soprattutto è ben riprodotto il crescendo di terrore in cui viene coinvolta una famiglia di Amityville. La suspense è notevole per tutta la prima parte, così come sono buoni gli effetti speciali della possessione e la caratterizzazione malefica del ragazzo indemoniato. Damiani inserisce sequenze di torbido erotismo incestuoso tra fratelli e trasforma il ragazzo in un mostruoso assassino dall’aspetto deforme e gli occhi iniettati di sangue. Le sequenze della strage sono molto forti e disturbanti, soprattutto gli omicidi dei bambini, che per fortuna non vengono mostrati in diretta. La parte finale vede lo scatenarsi delle forze del male esorcizzate dal prete in un tripudio di sangue ed esplosioni infernali. Da manuale la sequenza che immortala un volto crepato che si apre come un bozzolo e libera il demone malefico. Adesso il ragazzo è in salvo, ma lo spirito del male può impadronirsi di nuove vittime. La sceneggiatura è di Tommy Lee Wallace, tratta da un romanzo di Hans Holzer. L’horror demoniaco non è un argomento tipico di Damiani, che in ogni caso se la cava egregiamente, confezionando un film ricco di colpi di scena e buoni effetti speciali. 


Tratto da:


Storia del Cinema Horror Italiano
Vol. 1 - Il Gotico
Edizioni Il Foglio, 2012

Gordiano Lupi