Fausto Brizzi ha inventato un genere: il television - movie, ovvero il nulla
fatto cinema, la televisione su grande schermo, lo squallore della fiction replicata all’infinito,
infarcita di finto gergo giovanilistico e di situazioni surreali ai limiti
dell’imbarazzante. Inutile perdere tempo a redigere la scheda tecnica di un
film ridicolo e dimenticabile- Com’è bello far l’amore - che si
ricorda solo per la divertente sigla di testa e per la scenetta metacinematografica dei Fratelli Lumière
intenti a girare il primo film erotico della storia. Brizzi vorrebbe ironizzare
sulla commedia sexy, sul cinema porno, sulle pellicole d’autore, sugli italiani
che smettono di avere rapporti sessuali dopo anni di matrimonio, sui giovani
che si fanno i trombamici. Riesce
solo a provocare tanta tristezza in chi guarda il suo cinema e spera di imbattersi
anche solo in una trovata degna di una pellicola cinematografica, per poi
rendersi conto che sta guardando fiction.
Brizzi è televisione allo stato puro, dai movimenti di macchina alla
recitazione, dalla fotografia sbagliata al montaggio compassato, dai dialoghi
assurdi (davvero bravo Riccardo
Cassini!), alle situazioni da fotoromanzo, con tutto il rispetto per i
fotoromanzi.
Claudia Gerini è l’unica vera attrice del film, bella e sexy,
intrigante, un lusso in un cast di zombie stile Fabio Di Luigi che sfoggia
sempre la stessa espressione imbambolata. Per non parlare del mago Forest,
Salvi, Filippo Timi (improbabile porno star), Virginia Raffaele (cameriera
spagnola), Giorgia Wurth e Alessandro Sperduti. Si salva Lillo (Pasquale
Petrolo) come divertente farmacista che spiega il funzionamento di profilattici
e anelli dell’amore a un imbranato Di Luigi. Brizzi si è fatto aiutare da
Martani, Agnello e Cassini per scrivere una sceneggiatura infarcita di luoghi
comuni e banalità, prevedibile e scontata, senza un minimo di suspense. Da notare che questo film ha goduto di sovvenzioni statali
che avrebbero potuto essere impiegati per produrre cinema invece di un pretenzioso
spot giovanilistico. Brizzi afferma che il cinema d’autore è soporifero, serve
per pomiciare, svuota le sale, fa scappare il pubblico. Il suo non cinema, invece, pare che le riempia.
Tutto questo è sconfortante e la dice lunga sullo stato della nostra cultura,
anche se un giorno - temo - ci sarà qualcuno che si prenderà la briga di
rivalutare Brizzi. Lasciatemi dire non che preferivamo Pasolini e Antonioni -
sarebbe troppo facile e pure ingiusto - ma Nando Cicero, certo non cinema
d’autore, ma intrattenimento puro, popolare, consapevole del suo ruolo, senza
arroganza e pacchiana supponenza.
Regia: Pier Paolo Pasolini. Soggetto e Sceneggiatura:
Pier Paolo Pasolini. Consulente ai dialoghi: Sergio Citti. Fotografia: Tonino
Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli. Scenografia: Flavio Mogherini. Musiche:
Carlo Rustichelli (rimaneggia Antonio Vivaldi). Aiouto Regia: Carlo Di
Carlo.Assistente Alla Regia: Gianfrancesco Salma. Produttore: Alfredo Bini.
Produzione: Arco Film (Roma). Distribuzione: Cineriz. Interni: Incir De Paolis
(aprile - giugno 1962). Esterni: Roma, Frascati, Guidonia, Subiaco. Durata: 115’. Genere: Drammatico.
Prima: XXIII Mostra di Venezia, agosto 1962. Premio Mostra di Venezia della
FICC (Federazione Italiana Circoli di Cinema). Interpreti: Anna Magnani (Mamma
Roma), Ettore Garofolo (Ettore), Franco Citti (Carmine), Silvana Corsini
(Bruna), Luisa Orioli (Biancofiore), Paolo Volponi (il prete), Luciano Gonini
(Zaccarino), Vittorio La Paglia (il signor Pellisser), Piero Morgia (Piero),
Leandro Santarelli (Bengalo, il Roscio), Emanuele di Bari (Gennarino, il
Trovatore), Antonio Spoletini, Nino Bionci, Roberto Venzi, Nino Venzi, Maria
Bernardini, Santino Citti, Lamberto Maggiorani, Franco Ceccarelli, Marcello
Sorrentino, Sandro Meschino, Franco Tovo, Pasquale Ferrarese, Renato
Montalbano, Enzo Fioravanti, Elena Cameron, Maria Benati, Loreto Ranalli, Mario
Ferraguti, Renato Capogna, Fulvio Orgitano, Renato Troiani, Mario Cipriani,
Paolo Provenzale, Umberto Conti, Sergio Profili, Gigione Urbinati.
Pier Paolo Pasolini realizza il secondo film da regista
e aggiunge un importante tassello al suo viaggio nell’umanità dolente delle
borgate romane. Accattone (1961) mostra
il mondo del sottoproletariato urbano della capitale visto dalla parte del
maschio, con un grande Franco Citti, sublime interprete del ragazzo di vita pasoliniano. Pasolini continua l’adattamento
cinematografico della sua opera letteraria (Ragazzi
di vita, Una vita violenta, Il sogno d’una cosa, Poesia in forma di rosa…), definendo un
discorso aperto da sceneggiature importanti come La notte brava (1959), di Mauro Bolognini, tratto proprio da Ragazzi di vita. Accattone narra la vita quotidiana dei ragazzi delle borgate
romane, tra litigi, notti insonni, bravate, giornate all’osteria, piccoli furti
e prostitute. La Borgata Gordiani viene messa in primo piano da sapienti
movimenti di macchina, carrellate, poetiche panoramiche, primi piani e mirabili
piani sequenza.
Mamma Roma gode della stessa ambientazione borgatara di Accattone, ma la protagonista è una
donna, Anna Magnani nei panni di una prostituta romana che vuole cambiare vita
per dedicarsi al figlio Ettore. Sergio Citti è fondamentale come consulente per
i dialoghi in romanesco, recitati da attori dilettanti, a parte la grandissima
Magnani. Le tematiche sono quelle care a Pasolini che accompagneranno tutta la
sua vita artistica: gli emarginati, il sottoproletariato confinato in un ghetto
di incomunicabilità con le altre classi sociali, la sconfitta del diseredato,
l’impossibilità di affrancarsi da un destino di sofferenza. Anna Magnani non
lega con il regista, le rispettive visioni del mondo non coincidono, ma
nonostante tutto regala un’interpretazione memorabile.
La sua Mamma Roma è una
madre coraggio in pena per la sorte d’un figlio ribelle, in preda alle tempeste
adolescenziali, che contraccambia il suo amore ma non lo sa esprimere. “Mia
madre? A me che me frega di mia madre? In fondo credo di volerle bene, perché
se morisse mi metterei a piangere, confessa a Bruna, la ragazza che lo fa diventare
uomo. Vediamo in breve la trama. Mamma Roma (Magnani) decide di abbandonare la
vita da prostituta quando Carmine (Citti), il protettore, si sposa, liberandola
da ogni obbligo. La donna decide di dedicarsi anima e corpo al figlio, Ettore
(Garofolo), che non sa niente del suo mestiere ed è cresciuto nella vicina
Guidonia. Mamma Roma si mette a vendere frutta e verdura, si trasferisce in un
appartamento alla periferia di Roma, segue il figlio, cerca di indirizzarlo
nelle scelte femminili e di trovargli un lavoro. Mamma Roma non vuole che il
ragazzo faccia la sua fine, che si seppellisca nella periferia romana, ma sogna
per lui un futuro di tranquillità, con un lavoro rispettabile. A un certo punto
il protettore torna a cercare Mamma Roma e la riporta sulla strada, come il
passato che non si può cancellare, l’ineluttabilità del destino. Ettore viene a
sapere da Bruna quale sia la vera professione della mamma, per reazione
comincia a delinquere, infine viene arrestato dopo per aver rubato una
radiolina a un degente dell’ospedale. Finale melodrammatico: il ragazzo muore
in carcere, legato a un letto di contenzione, in preda a un delirio febbrile.
Il film è dedicato allo storico dell’arte Roberto
Longhi e certe rappresentazioni scenografiche sono pittoriche, grazie alla
collaborazione di Flavio Mogherini, futuro regista di scuola pasoliniana. Il finale, con il ragazzo
che muore legato al letto del carcere, ricorda un Cristo del Mantegna, una
scena da struggente deposizione. Carlo Rustichelli compone una colonna sonora
basata sulle musiche sinfoniche di Antonio Vivaldi che accompagna sequenze
poetiche fotografate in un livido bianco e nero. Violino tzigano, di tanto in tanto, interrompe la musica barocca e
porta in primo piano note di musica popolare. Il ritmo è lento, cadenzato, tra
piani sequenza della periferia, panoramiche, dialoghi in romanesco. Puro
cinema, una gioia per gli occhi vedere una Roma notturna e seguire le
passeggiate logorroiche di mamma Roma che racconta episodi di vita mescolando
fantasia e realtà. Pasolini narra per immagini un’umanità dolente che sogna un
riscatto impossibile ma deve rassegnarsi a un destino infelice.
Il regista compie un grande lavoro figurativo, guida
con bravura una straordinaria Anna Magnani che recita in mezzo a un gruppo di
attori dilettanti. Pasolini ci tiene a sviscerare il complesso rapporto madre -
figlio, secondo canoni psicanalitici, facendo capire la difficoltà di un
adolescente a rivelare il suo amore per la madre. Un tema caro al poeta, anche per
vicende biografiche, che lo vedono molto legato alla madre, anche se il loro è un
amore borghese, non certo borgataro. Ricordiamo poesie come Ballata delle madri e Supplica a mia madre, contenute in Poesia in forma di rosa, che ricalcano
identica tematica. L’educazione sentimentale di un adolescente è un altro tema caro
a Pasolini che lo inserisce nella pellicola ricorrendo al personaggio di Bruna,
la ragazza che introduce Ettore ai misteri del sesso. Non possono mancare i
volti del sottoproletariato urbano, i
ragazzi di vita che tanto interessano Pasolini, fotografati nelle
espressioni naturali e nella sofferenza quotidiana. Il regista indugia sui
campetti di calcio sterrati, inventati dai ragazzini di borgata, con le porte
segnate da giacchetti e maglioni, simbolo di un modo di giocare tipico degli
anni Sessanta. Anche i rapporti tra donne che fanno la vita, segnati da
amicizia e spirito di colleganza, sono in primo piano. Le parole di denuncia di
Mamma Roma: “E allora di chi è la colpa? Se avevano i mezzi erano tutti brave
persone”, pesano come macigni, anche se il regista non interferisce con le
immagini, non dà mai un giudizio morale o politico, ma si limita a fotografare
la realtà. Fantastico il finale, vero che sembra uscito da un racconto di Cuore, ma vero anche che la
rappresentazione del dolore materno e delle sofferenze del figlio è drammatica
e commovente. La galera non è acqua chepassa, ma dolore che resta, dolore
infinito. La pellicola termina con la disperazione materna e la macchina da
presa si ferma alcuni istanti su quel volto dolente, da Madonna straziata per
la morte del figlio, senza dissolvenze o inutili lungaggini, per lasciare il
posto alla parola Fine in campo
bianco.
Accattone e Mamma Roma
sono pellicole non ascrivibili a un genere, si tratta di lavori molto letterari
dai quali scaturisce l’intera poetica del regista. Se mi è concessa una
definizione personale, senza voler essere blasfemo, parlerei di neorealismo corretto da un pizzico di
melodramma pascoliano e deamicisiano, due autori molto cari a
Pasolini.
Alcune curiosità. Il debuttante Ettore Garofolo viene scoperto
da Pasolini mentre fa il cameriere in una trattoria, e in alòcune sequenze del
film lo vediamo all’opera nel suo vero mestiere, quando è assunto per servire
ai tavoli di un ristorante. Lo scrittore Paolo Volponi, amico di Pasolini,
interpreta il prete al quale Mamma Roma chiede un aiuto per trovare lavoro al
figlio. Gli esterni del film sono girati alla periferia di Roma, al palazzo dei
Ferrovieri di Casal Bertone, al villaggio INA - Casa del Quadraro, al Parco
degli Acquedotti e a Tor Marancia. Altre scene sono girate a Frascati, Guidonia
e Subiaco. Notiamo spesso sullo sfondo la cupola della Basilica di San Giovani
Bosco, così come si vedono le borgate con le baracche dove vive la povera gente.
Un piccolo escamotage di Pasolini riesce a far convivere recitazione impostata
con interpretazione spontanea. Anna Magnani non recita quasi mai in diretta
insieme a un attore dilettante, ma il dialogo viene realizzato ricorrendo a
primi piani uniti in sala montaggio.
Rassegna critica. Paolo Mereghetti (tre stelle e
mezzo): “Il tema dell’incoscienza, o della diversa coscienza, proletaria è al
centro del secondo film di Pasolini, dove il regista nobilita i suoi personaggi
con richiami alla pittura rinascimentale (il Cristo mori del Mantegna), e tocca
vertici di pathos senza versare una
lacrima: Mamma Roma rappresenta la femminilità dolente ma indistruttibile,
mentre Ettore, scettico e prematuramente deluso dalla vita, è fratello ideale
di Accattone, senza esserne una scialba replica. Quella della Magnani (che pure
non s’intese con Pasolini, che la accusò di voler dare al personaggio tratti
piccolo - borghesi) è una delle sue migliori interpretazioni”. Morando
Morandini (tre stelle e mezzo per la critica, tre stelle per il pubblico):
“L’esperimento di fondere la recitazione di Anna Magnani con quella dei ragazzi
di vita è parzialmente riuscito, ma contro scompensi e intemperanze e zone
sorde, il film ha momenti di coinvolgente vigore stilistico”. Tre stelle anche
per Pino Farinotti, ma senza motivare. Il nostro giudizio, da pasoliniani convinti, raggiunge le
quattro stelle, non trova difetti a un film riuscito, che unisce dramma
psicologico a scene di vita quotidiana, recitazione spontanea a impostazione
tecnica, sceneggiatura priva di difetti a dialoghi realistici.
Regia: Daniel Díaz Torres. Soggetto: Tamara Morales. Sceneggiatura:
Eduardo Del Llano, Daniel Díaz Torres. Fotografia. Raúl Pérez Ureta. Montaggio:
Manuel Iglesias. Musica: Lucía Huergo. Suono:Esteban Vázquez, Osmany Olivare. Scenografia: Aramís Balebona.Costumi: Alicia Arteaga.Trucco: Magdalena Alvarez. Effetti Speciali: Reynier
Cepero Perez. Produzione: Daniel Díaz Ravelo per ICAIC (Cuba). Altri
produttori: SK Films, Jaguar Films S.A., Ibermedia.Distribuzione: ICAIC (Cuba). Durata: 100’. Genere: Commedia. Interpreti:
Laura de la Uz, Yuliet Cruz, Tomás Cao, Michel Ostrowski, Tobias Langhoff, Blanca
Rosa Blanco, Paula Ali, Yerlin Perez, Rodolfo Faxas, Enrique Molina. Premi:
Festival Internazionale del Nuovo Cinema Latinoamericano 2012: Miglior
Interpretazione Femminile, Miglior Sceneggiatura, Miglior Distribuzione in
Latinoamerica, Premio del Circolo di Cultura della UPEC.
Ana (Laura de la Uz) è un’attrice di scarso successo e
di modeste possibilità economiche che si adatta a lavorare per modeste
produzioni televisive. Per un caso del destino si presenta l’opportunità non
solo di recitare la parte di una jinetera
(prostituta per turisti, una sorta di escort
cubana) in un documentario tedesco, ma anche di girare buona parte del lavoro
all’interno del povero quartiere in cui vive.
Ana filma un vero e proprio
reportage all’interno del mondo della prostituzione, scavando sulle motivazioni
profonde, mettendo in luce mancanze e ristrettezze del periodo speciale. Si
scopre grande attrice, al punto di affermare che la parte della jinetera è il miglior ruolo della sua
vita, ma anche ottima regista, superando il marito che sogna il successo
girando cinema surreale. Il film di Ana è realistico e crudo, mette in primo piano
la vita quotidiana di una Cuba in ginocchio per colpa di embargo, restrizioni e
scelte sbagliate del governo. La storia assume aspetti melodrammatici e
sentimentali, quando vediamo l’amore del regista tedesco per Ana e la rabbia
del produttore raggirato dalla furba cubana che non ha filmato cinema verità,
ma si è limitata a far recitare amici e conoscenti.
Daniel Díaz Torres, scomparso il 16 settembre 2013, ci
lascia il suo testamento spirituale, girando forse il suo primo film
realistico, ispirato alla lezione della miglior commedia latinoamericana ma
anche al neorealismo italiano di Zavattini e De Sica.La pelicula
de Ana è cinema nel cinema, i
protagonisti sono una coppia che vive nel mondo della celluloide: la moglie è
attrice, il marito un regista in crisi di ispirazione. Operazione di metacinema in più parti, quando la
troupe tedesca filma l’intervista alla finta jinetera interpretata da Ana, istruita da un’amica che fa la vita,
ma anche quando il regista indugia su sequenze di telenovelas e riprende una sala montaggio improvvisata in un
appartamento.
Il realismo delle situazioni è sottolineato da un
scelta linguistica ben precisa: i protagonisti cubani non parlano castigliano,
ma avanero de barrio, uno slang poco
comprensibile per un orecchio non allenato. Laura de la Uz è interprete
straordinaria che raffigura l’orgoglio della donna cubana, indomita e
battagliera, disposta a tutto pur di risolvere le situazioni difficili. Non ha
bisogno di un uomo, che comunque è al suo fianco, sa fare senza di lui, è
un’attrice che s’improvvisa regista e risulta migliore del maestro. La vita
quotidiana è sempre in primo piano: storie di liti tra vicini, parenti che
vivono all’estero e tornano in patria a fare gli spacconi, ragazzine che fanno
la vita per campare, giovani donne sposate con stranieri brutti e vecchi pur di
fuggire. Vediamo un’amica jinetera
che vive in un quartiere poverissimo, ma la sua casa è ben arredata ed è zeppa di
souvenir europei perché è stata sposata con un tedesco. Al contrario, Ana, attrice
in televisione, con il misero stipendio non riesce neppure a comprare un
frigorifero. Sono le incredibili contraddizioni della società cubana.
Daniel Díaz Torres e lo sceneggiatore Eduardo del
Llano compongono un affresco veritiero della Cuba quotidiana, senza dare giudizi
moralistici, senza prendere posizione, ma solo facendo parlare le immagini,
documentando la realtà. Il film è un coacervo di generi, la commedia si lascia contaminare
dal realismo drammatico, dal sentimentalismo, da un pizzico di erotismo e dal
crudo documentario. Il regista riprende con dovizia di particolari la vita di
un quartiere della capitale: il ballo all’aperto, la caldosa (un minestrone saporito) cucinata per le feste del CDR (Comitato di Difesa della Rivoluzione), i
palazzi cadenti, lo spettacolo del lungomare che lascia debordare le acque
sulla lunga carreggiata. Un poetico finale suggella una pellicola che
rappresenta bene la poetica di un regista scomparso troppo presto. Fotografia
anticata, luce ocra color pastello, una macchina corre sul Malecón, qualcuno
grida frasi sconvenienti ad Ana, che prima alza il dito indice della mano
sinistra, poi piega il pollice come a indicare libertà, quindi fa il solito
gesto con la mano destra e compone una macchina da presa surreale con la quale
sogna di filmare la scena. Ana ha deciso il suo futuro, mentre alle sue spalle compare
la bandiera cubana e si vedono due bambini, speranza per un futuro migliore.
Un recente lavoro che Ornella Muti interpreta è molto importante ed è stato sottovalutato dalla critica. Sto parlando dell'esordio alla regia di Eleonora Giorgi con Uomini & donne, amori & bugie
(2003). Sono lontane le tempeste giovanili, le risse sul set di Appassionata (1974) e le polemiche televisive
sui nudi adolescenziali. Le amiche - rivali di un tempo si ritrovano per
lavorare a una pellicola che racconta il rapporto genitori - figli dal punto di
vista di una figlia.
Il film è buono, anche se la ricostruzione
dell’atmosfera anni Sessanta non è perfetta, ma la Muti ricopre a dovere il
ruolo di madre abbandonata che alleva i figli in assenza del marito. Eleonora
Giorgi scrive, sceneggia e dirige un confortante film d’esordio, anche se il
suo lavoro vero resta quello di produttrice. Paolo Giommarelli è il peggiore
del cast nei panni di un marito fedifrago, sempre assente, interessato solo a
lavoro, carriera e denaro.Il suo
personaggio è monodimensionale, troppo fumettistico ed esageratamente negativo
per essere credibile. Aggiungiamo anche una recitazione troppo impostata e
priva del necessario coinvolgimento.
Ornella Muti è fantastica, il tempo pare
non essere passato su un fisico perfetto, ma in questo lavoro dimostra
soprattutto di essere una buona attrice drammatica. La bella attrice romana interpreta
una donna sola, che a un certo punto della vita si rende conto di non possedere
niente, perché non ha un lavoro, si trova senza amiche e le restano soltanto i
figli.
All’improvviso, però, trova la forza di ribellarsi e dà un taglio netto
con il passato: molla un marito che non la merita e si dedica al lavoro di
pittrice a tempo pieno. Eleonora Giorgi racconta la netta divisione dei ruoli tra
uomini e donne tipica degli anni Sessanta - Settanta, le prime ribellioni
femministe, le proteste studentesche, i turbamenti e gli amori giovanili, la
famiglia che si sfalda, i divorzi sempre più frequenti. In una parola, compone
un affresco interessante degli ultimi quarant’anni di storia italiana, con
umiltà, ma senza sbagliare un colpo.
Da ricordare il racconto al femminile di
un tentativo di violenza carnale non denunciato, perché nessuno dà importanza
alla cosa e l’amico di famiglia colpevole continua a frequentare la casa. Il
primo uomo sbarca sulla luna, le donne pretendono uguaglianza e libertà sessuale,
ma i tempi non sono ancora maturi per ottenere rispetto. Il film presenta
alcune parti troppo didascaliche, litigi sforzati e scenate che stonano nel
contesto della narrazione, momenti morti, ma nel complesso la prova è
incoraggiante.
La voce fuori campo - della stessa regista - spesso è invasiva e
tende a raccontare ciò che non viene mostrato per immagini. La fotografia è
ottima, la scrittura fin troppo lineare, raccontata spesso dall’esterno come un
lungo flashback della bambina. Da
riscoprire.
Regia: Pasquale Festa Campanile. Soggetto: Ugo
Liberatore. Sceneggiatura. Luigi malerba, Ottavio Jemma, Pasquale Festa
Campanile. Montaggio: Nino Baragli. Fotografia. Silvano Ippoliti. Scenografia e
Costumi: Ezio Altieri. Produttore: Silvio Clementelli. Musiche: Riz Ortolani.
Organizzazione della Produzione: Giorgio Adriani. Segretario di Produzione:
Neri Parenti. Produzione: Clesi Cinematografica, Verona Produzione. Aiuto
Regista: Marcello Crescenzi. Operatore alla Macchina: Enrico Sasso. Maestro
d’Armi: Remo De Angelis. Colore: Spes (dir. E. Catalucci). Negativi:
Eastmancolor. Teatri di posa: De Paolis. Durata: 100’. Genere: Commedia (decamerotico). Interpreti: Lando
Buzzanca, Renzo Montagnani, Marilù Tolo, Felice Andreasi, Roberto Antonelli,
Giancarlo Cobelli, Ely Galleani, Franco Latini, Guido Lollobrigida, Gino
Pernice, Alberto Sorrentino, Guglielmo Spoletini, Toni Ucci, Paolo Stoppa,
Sergio Ammirata, Luigi Basagaluppi, Enrica Bonaccorti, Bruno Boschetti, Clara
Colosimo, Ria De Simone, Gianni Magni, Loredana Martinez, Franco Pesce, Elena
Puatto, Enzo Robutti, Bruno Vaerini.
Jus primae
noctis rappresenta un’incursione di
Pasquale Festa Campanile nel decamerotico,
genere che va di gran moda nel 1972, subito dopo il successo de Il Decameron (1970) di Pier Paolo
Pasolini. Non è la sola, perché nel 1973 gira La Calandria, son Lando Buzzanca e Salvo Randone. Festa Capanile
era stato quasi un precursore del genere con La cintura di castità (1967), girato sull’onda del successo de L’armata Brancaleone (1966) di Mario
Monicelli. Il regista sceneggia un soggetto di Ugo Liberatore, con la
collaborazione di Luigi Malerba e Ottavio Jemma, dirigendo con eleganza un decamerotico alto, che non si limita a
riproporre una serie di situazioni erotiche a base di corna, frizzi e lazzi. Un
cast di attori in buona forma, una perfetta ricostruzione storica e una
divertente colonna sonora di Riz Ortolani completano il quadro.
Il castello dove è ambientato il film
Lando Buzzanca
è Ariberto da Ficulle, che diventa Signore di un piccolo feudo (Partanna) grazie
al matrimonio con la bruttissima Matilde di Montefiascone (Colosimo), ma
esercita il suo potere con arroganza e dispotismo. Impone tasse e gabelle assurde,
escogita privilegi sempre nuovi, per pagare un esercito di mercenari tedeschi
guidati da un comandante omosessuale. Alle
sue dipendenze c’è anche un laido frate (Andreasi) che dispensa perdoni,
sacramenti e indulgenze dietro congrua retribuzione. Tra le tante prevaricazioni spicca lo jusprimae
noctis sui vassalli esercitato sulle coppie che si sposano, a meno che il
marito non paghi il controvalore in denaro stabilito dal Signore. I sudditi
sono piuttosto sciocchi ma Ariberto incontra un rivale furbo come Gandolfo
(Montagnani) che si prende gioco di lui e finisce per guidare la rivolta dei
sottoposti contro il dispotico padrone. Il film è tutto improntato sulla
rivalità tra Ariberto e Gandolfo, mettendo in primo piano un’insolita coppia
comica Buzzanca - Montagnani.
Marilù Tolo
Veneranda (Tolo) è la bellissima compagna di
Gandolfo, che Ariberto fa sottostare allo jusprimae noctis per umiliare il rivale,
ma nella sequenza finale vediamo la vendetta del popolo sulla seconda moglie
del Signore (Galleani), deflorata da ben dodici persone. Ariberto viene
abbandonato in groppa a un asino, incontra il Papa (Stoppa) mentre rientra a Roma
e ingaggia una corsa assurda con l’Antipapa per arrivare primo al soglio
pontificio. Il film è vietato ai minori di anni quattordici perché ci sono
diverse scene di nudo, quasi mai integrale, ma è una farsa divertente e piena
di ritmo ambientata nel Medio Evo che tenta di fare un discorso critico sul
potere.
Ottimo incasso, anche perché il genere va di moda e prelude alla
nascita della commedia sexy di ambientazione contemporanea. Attori molto bravi,
su tutti Renzo Montagnani nel ruolo di un villano che lotta contro il potere,
ma anche Lando Buzzanca come Signore dispotico non è da meno. Paolo Stoppa è un
papa romanesco rozzo e cafone, Felice Andreasi un frate innamorato del denaro e
ossequioso verso i potenti. Toni Ucci è un burino che per ingannare il tempo
ruba le galline, affermando: “A tutto c’è rimedio meno che alla rottura de cojoni!”.
Ely Galleani
Marilù Tolo, mora con gli
occhi azzurri, è dotata di grande personalità, affronta un paio di scene che la
vedono nuda senza particolari problemi. Il cast femminile è interessante, le
interpreti non sono ancora famose ma i loro nomi saranno importanti nella
commedia erotica e nel cinema di genere: Ely Galleani, Ria De Simone, Enrica
Bonaccorti (nuda in una scena a letto con il Signore per lo ius primae noctis).
Il film è girato per gli esterni al Castello Caetani
di Sermoneta, dalle parti di Latina, mentre le cascate dove fa il bagno nuda
Marilù Tolo sono quelle della Mola di Formello, nei pressi del Parco di VeioaFormello
(Roma). Il grande duello
(Giancarlo Santi, 1972) e Sogni
mostruosamente proibiti (Neri parenti, che in questo film è Segretario di
Produzione, 1982) sono altre due pellicole che vedono le cascate di Formello in
primo piano. Una caratteristica della pellicola è il linguaggio usato, una
sorta di italiano antico inventato dagli sceneggiatori, a metà strada tra il
latino volgare e la lingua usata dal Boccaccio nel Decameron.
Molte le sequenze memorabili: il piscio al posto del
vino, la gogna, il pubblico ludibrio con Montagnani che balla sulle lamiere
roventi, la Tolo che gira a seno nudo per sottostare a un ordine del Signore,
la gallina che becca il granturco nel sedere di Montagnani, Buzzanca che fa
l’amore con trenta donne consecutivamente per dimostrare il suo potere, il
finto matrimonio di Montagnani con un uomo travestito, l’amico di Buzzanca
castrato da un morso di cane, il duello a bastonate tra i due rivali, la corsa
delle bighe papali con Buzzanca che si sorregge a entrambe e corre verso Roma. I
difetti più evidenti della pellicola sono un eccesso di uso dello zoom (andava
di gran moda) e alcuni strani movimenti di macchina per passare da un
personaggio all’altro. Il montaggio non è molto serrato, la fotografia cambia
colore da una scena all’altra, come se fossero sequenze riprese in momenti
diversi e inserite in sala montaggio. Jus
primae noctis resta comunque un decamerotico
scritto con passione, dotato di una vera sceneggiatura e di una struttura
solida, molto al di sopra della media del periodo storico.
Rassegna critica. Paolo Mereghetti (due stelle): “Le
risate grasse sono bilanciate da ambizioni quasi alte da apologo sul potere.
Discreto ritmo e cast divertente: soprattutto Montagnani nella parte di un
Bertoldo con coscienza di classe, e Stoppa in quella di un papa romanesco ben
più greve del Pio VII de Il marchese delGrillo. Incredibili musichette di
Riz Ortolani”. Morando Morandini non ne parla, mentre Pino Farinotti conferma
le due stelle, senza fornire un giudizio critico. Davinotti on line: “Un decamerotico di un certo gusto, valorizzato dalla valida
performance dei due protagonisti, meno sopra le righe del consueto e alle prese
con una sceneggiatura che una volta tanto esiste”.
Regia: Steno (Stefano Vanzina). Soggetto: Rodolfo
Sonego. Sceneggiatura: Alesandro Continenza, Diego Fabbri, Ugo Guerra,
Rodolfo Sonego, Steno. Fotografia: Mario Bava. Montaggio: Mario Serandrei,
Giuliana Attenni. Effetti Speciali: Mario Bava. Musica: Angelo Francesco
Lavagnino. Scenografia: Piero Filippone. Costumi: Veniero Colasanti.
Produttore: Franco Cristaldi. Case di Produzione: Titanus/ Vides
- Les Films Marceau. Distribuzione: Titanus. Durata: 94'. Colore.
Produzione: Italia/ Francia. Interpreti: Alberto Sordi (Nerone), Vittorio De
Sica (Seneca),Gloria Swanson (Agrippina), Brigitte Bardot (Poppea), Ciccio
Barbi (Aniceto), Arturo Bragaglia (senatore), Giorgia Moll (Lidia), Amalia
Pellegrini (Acerronia), Amedeo Trilli (soldato), Mino Doro (Corbulone),
Giulio Calì (carpentiere), Agnese Dubini (Ugolilla), Memmo Carotenuto
(Crepereio), Mimmo Poli (costruttore teatro), Barbara Shelley (ospite), Mario
Mazza (Tacito). Doppiatori: Tina Lattanzi (Bardot), Fiorella Betti (Swanson),
Luigi Pavese (Barbi), Glauco Onorato (Carotenuto).
Mio figlio
Nerone (1956) è una sorta di peplum comico con protagonista Alberto
Sordi, che mette in evidenza la bellezza giovanile e discinta di Brigitte
Bardot (Poppea), ma anche la bravura di Vittorio De Sica (Seneca) e di Gloria
Swanson (Agrippina). Le follie di Nerone, il suo amore per il canto, i rapporti
con le donne e la presunta codardia vengono messi alla berlina, ma il film
delude le attese. Non è un kolossal,
come si pensava, ma una semplice commedia, divertente, persino erotica (per i
tempi), ma niente di trascendentale. Nerone vive circondato da amici
fannulloni, vessato da una madre invadente, consigliato da un furbo Seneca e
amato dalla fidanzata Poppea.
Gli amici lo illudono di essere un grande
cantante e lo esortano a occuparsi di arte invece di governare l’Impero. Agrippina
richiama il figlio al dovere e vorrebbe farlo partire per la guerra, cosa che Nerone
aborrisce al punto di tentare di liberarsi della madre. Nerone tenta di avvelenare
Agrippina ma non ci riesce e finisce per prendersela con i suoi amici, che
vorrebbe sterminare, ma Seneca rimedia in extremis. Nerone torna a cantare, organizza
orge nel palazzo, con la bella Poppea che fa il bagno nel latte per conservare
la pelle morbida. Tenta di far affogare la madre sabotando una nave, ma Agrippina
si salva e torna a palazzo per fare un accordo con Seneca e Poppea. La madre
promette che Nerone sposerà Poppea se gli amici riusciranno a farlo smettere di
cantare. Quando Nerone sente dire che non sa cantare, in preda alla follia,
brucia la città, fa fuori Agrippina, Poppea e Seneca. Nel finale vediamo
Nerone soddisfatto tra i busti di cemento che immortalano le persone uccise.
Un film che le cronache raccontano di difficile
gestazione. Anita Ekberg era la prima scelta per il ruolo di Poppea, ma alla
fine si optò per la poco nota Brigitte Bardot, che è di una bellezza
conturbante. Tutti la ricordiamo quando fa il bagno nel latte, ma anche in
numerose scene dove mostra le lunghe gambe, mentre in un frammento di sequenza si
intravede un seno.
Gloria Swanson pretendeva attenzione, si dava arie da
attrice inglese di gran classe, relegata a un set di attori non internazionali.
Steno ebbe il suo bel da fare per convincerla a recitare le battute previste
dal copione; si può dire che - visto il suo carattere - fosse perfetta per
interpretare la perfida Agripina. Vittorio De Sica si limitò a recitare il suo
ruolo, con grande classe, come sempre, senza interferire nella direzione del
film. Il ruolo di Seneca gli calza a pennello, soprattutto quando fa sfoggio di
abilità oratoria. Alberto Sordi regala un’interpretazione perfetta parodiando
un Nerone imbelle, dedito al vizio, un po’ folle, strampalato, bambinone,
ossessionato da piccole manie. Un’interpretazione memorabile. Per molto tempo,
noi ragazzi degli anni Sessanta, abbiamo avuto in mente il Nerone di Sordi ogni
volta che dovevamo fare i conti con il personaggio storico. Il soggetto di
Sonego è ironico, farsesco, leggero, pesca dalle leggende e non si cura di
rispettare la verità storica, realizzando un ritratto caricaturale
dell’Imperatore romano. Fotografia ed effetti speciali sono di Mario Bava: lo
spettatore smaliziato se ne rende subito conto dai colori intensi e dai trucchi
artigianali.
Rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella):
“Fiacchissimo tentativodi mettere in
farsa le follie di Nerone e i suoi complicati rapporti con le donne. Sordi
recita con il pilota automatico, anche quando compone una sinfonia con
accompagnamento di maiale, coniglio, capra e gufo; la Swanson pensa
evidentemente solo all’ingaggio e la Bardot è sempre tropo vestita”. Morando
Morandini (una stella per la critica, tre stelle per il pubblico): “Voleva
essere forse una satira: è la più bolsa e scadente delle farse”. Pino Farinotti,
controcorrente, concede tre stelle, ma non motiva. Proviamo a farlo noi che
siamo dalla sua parte. Il film gode di un’ottima fotografia, una sceneggiatura
impeccabile, una recitazione perfetta, ergo il divertimento è assicurato. La
critica alta non sopporta la farsa,
che, con buona pace di Mereghetti e Morandini, presenta antecedenti nobili,
basti pensare alle commedie di Plauto. Da recuperare.
Un omaggio a Daniel Díaz Torres, scomparso oggi, grande regista cubano contemporaneo, uomo libero.
Daniel Díaz Torres è un regista, critico, insegnante
di cinema, nato all’Avana nel 1948 e morto nel 2013. Nel 1961 entra a far parte
delle brigate per la lotta all’analfabetismo che insegnano a leggere e a
scrivere ai contadini della Sierra dell’Escambray. Nel 1978 si laureain Scienze Politiche all’Università
dell’Avana e attualmente fa parte dell’Unione degli Scrittori e degli Artisti
di Cuba (UNEAC). Dal 1968 lavora nell’Istituto Cubano dell’Arte e Industria
Cinematografica (ICAIC). Scrive articoli di critica cinematografica per le
principali riviste e periodici, spesso partecipa alla direzione di seminari sul
cinema nelle Università di Oriente e dell’Avana. Nel 1971 intraprende il suo
lavoro come assistente regista e al tempo stesso realizza alcuni programmi
televisivi. Nel 1975 comincia la carriera di documentarista girando Libertad para Luis Corvalán (1975),
mentre - tra il 1977 e il 1981- come vice direttore realizza circa un centinaio
di edizioni del Noticiero ICAIC Latinoamericano, molte delle quali ricevono
riconoscimenti da parte della critica nazionale specializzata. Il suo debutto
come regista di lungometraggi di fiction avviene nel 1984 con il film Jíbaro. La notorietà internazionale di
Daniel Díaz Torres si deve alla satira pungente e surreale di Alicia en el pueblo de Maravillas
(1990), che suscita polemiche e divide la critica cinematografica cubana.
Daniel Díaz Torres è membro del Comitato dei Cineasti dell’America Latina e
Membro Fondatore del Consiglio Superiore della Fondazione Nuovo Cinema
Latinoamericano. Dal 1986 lavora presso la Scuola Internazionale di Cinema e Tv
di San Antonio de los Baños, della quale è uno dei fondatori. Ha partecipato
come giurato a molti eventi cinematografici internazionali in Spagna, Ungheria,
Russia, Germani, Colombia Messico e Svizzera.
Vediamo in breve alcuni suoi lavori fondamentali.
Tra i documentari segnaliamo Madera (1980), premiato tra i più significativi dell’anno, che
racconta la vita dei lavoratori forestali nelle montagne di Baracoa, nella
parte orientale di Cuba, un paesaggio selvaggio e incontaminato dove si
confondono alberi, uomini e macchine. Vaquero
de montaña (1982) è abbastanza simile come struttura perché ricostruisce il
difficile e rischioso lavoro dei vaqueros
cubani che portano al pascolo il bestiame sulle montagne dell’Escambray.
Jíbaro (1984) è il primo lavoro di fiction, premiato al
Festival di Bogotà (1986) per il miglior montaggio e per il miglior suono, ma
anche al Festival di Mosca dalla rivista Pantalla
Sovietica (1985). La pellicola racconta i primi anni della Rivoluzione,
caratterizzati da trasformazioni sociali e lotta di classe. Al tempo stesso la
pellicola descrive la sfida tra l’uomo e l’animale e la vita di un cacciatore
che - abituato al suo mondo - non si adegua facilmente a un contesto in rapida
evoluzione. Un conflitto personale contribuirà ad approfondire le sue
contraddizioni e anche le sue virtù come cacciatore saranno messe a dura prova.
Il film è scritto da Norberto Fuentes che lo sceneggia insieme al regista.
Interpreti: Salvador Wood, René de la Cruz, Adolfo Llauradó, Flora Lauten, Ana
Viña, Alejandro Lugo e Miguel Gutiérrez.
Otra mujer (1986) è un altro interessantelavoro di fiction, scritto da Jusús Díaz, che riflette la
trasformazione di una donna di fronte alla crisi di realizzazione personale che
investe il marito. All’interno di un complesso processo, intriso di
contraddizioni e insuccessi, crescerà ed esprimerà la sua indipendenza come
essere umano. Sarà un’altra donna, decisa a continuare la difficile e anonima
lotta quotidiana. Interpreti: Mirta Ibarra, Jorge Villazón, Susana Pérez, Raúl
Pomares, Alejandro Lugo e Dagoberto Gainza. Nel 1987, Mirta Ibarra ha vinto il
premio per la miglior interpretazione femminile assegnato dalla sezione arti
sceniche dell’UNEAC.
Alicia en el
pueblo de Maravillas (1990) segna il
successo internazionale del regista che scrive soggetto e sceneggiatura della
pellicola insieme a un non ben definito Grupo Nos-y-Otros. Il film è una satira
surreale della società cubana che comincia con una ragazza che lancia da un
altissimo ponte un uomo, ma il supposto cadavere scompare. A partire da questo
evento entriamo nella storia di Alicia, una ragazza che si reca a Maravillas de
Noveras per insegnare teatro. Nel fantasioso paese le situazioni più assurde
vengono accettate come normali, ma soprattutto ogni abitante si trova in quel
luogo perché ha commesso un presunto crimine contro i valori della patria.
Maravillas è abitato da una serie di persone destituite dai loro incarichi e
confinate in un mondo surreale sempre percosso dal vento e sottoposto agli
incitamenti che provengono da altoparlanti. Una commedia singolare, a metà
strada tra l’assurdo e l’orrore, ma che realizza una critica pungente della
realtà. Interpreti: Thais Valdés, Reynaldo Miravalles, Alberto Pujol, Carlos
Cruz, Raúl Pomares, Alina Rodríguez, Jorge Martínez ed Enrique Molina.
L’argomento del film è così scabroso che in patria non ottiene nessun
riconoscimento, ma viene premiato con menzioni speciali al Festival di Berlino
(1991) e al Festival di Montevideo (1993).
Kleines
Tropicana (1997) è un lavoro scritto
e sceneggiato da Eduardo del Llano e Daniel Díaz Torres con la partecipazione
di Jorge Goldenberg e Manuel Pérez. Il cadavere di un turista tedesco compare
in un centrale quartiere avanero. Un ambizioso poliziotto di provincia, in
visita nella capitale, cercherà con ogni mezzo di farsi assegnare lo strano
caso che considera l’occasione ideale per scappare dal suo remoto paesino. Si
tratta di una storia poliziesca e di spionaggio la cui origine risale a un
piccolo cabaret degli anni Quaranta. Interpreti: Peter Lohmayer, Vladimir Cruz,
Corina Mestre, Thais Valdés, Enrique Molina e Tamara Morales. Segnaliamo, tra
gli altri, il Premio del pubblico al Festival di Innsbruck (1998), anche se
questo film ha avuto riconoscimenti anche in patria durante il Festival del
Nuevo Cine Latinoamericano (1997).
Camino al
Edén (2007) è una produzione molto
ricca realizzata dalla spagnola Antenna 3. Il film è scritto e sceneggiato dal
regista insieme ad Arturo Infante e si tratta di una lavoro di argomento
storico. Ci troviamo a Cuba alla fine del 1895, in piena Guerra di
Indipendenza. Leanor è una donna spagnola con la vita segnata da un matrimonio
infelice, una precaria situazione economica e adesso, dalle insistenze di un
vecchio pretendente. Trova sollievo solo nella sua amicizia con la giovane
schiava che svolge mansioni di domestica. Nella dura realtà la comparsa di un
rivoluzionario ferito farà risorgere in lei illusioni amorose che la
condurranno verso un paradossale destino che segnerà in modo drammatico tutti
coloro che la circondano. Daniel Díaz Torres afferma nel corso di
un’intervista: “Il film consta di due parti, la prima Camino al Edén e la seconda El
Edén perdido, diretta dal regista spagnolo Manuel Estudillo. Nessuna delle
due dipende dall’altra, perché si possono vedere in modo indipendente, ma
entrambe si completano. La prima storia si sviluppa all’interno del paese nel
1896 e la seconda si svolge al principio degli anni Trenta, due periodi
effervescenza rivoluzionaria nella storia di Cuba. I due film sono girati in 16 mm. e sono concepiti come
telefilm. La fiction comincia quando la guerra si estende in tutta l’Isola.
Leanor e Cándido - una coppia di spagnoli - prendono possesso della fattoria El
Edén, insieme alla serva Natividad. Il film si sviluppa tra sentimenti
contrastanti e tipiche situazioni umane che vengono fuori quando Leanor rimane
vedova e accetta come compagno il vecchio Don Antonio, importante proprietario
della zona. Leanor vuole proteggere e far crescere tranquilo il bambino che
porta nel ventre, figlio di un rivoluzionario mambí. La parte più interessante del film arriva quando la donna
decide di consegnare il mambí alle
autorità spagnole. La guerra sconvolge anche la fattoria El Edén; Don Antonio e
Leonor vengono espropriati dagli umili contadini spagnoli e durante la fuga
sono scoperti dai rivoluzionari.Don
Antonio finisce impiccato. Leanor si redime da una vita piena di errori
restando come infermiera nell’esercito mambí
e si trasforma nella celebre Flor de Manicuripe. Non è un film sulla Guerra di
Indipendenza, ma racconta in forma intimista la vita dei tre protagonisti: una
spagnola, la sua serva e un mambí. Si
basa sui sentimenti umani e può essere definito una storia d’amore, pure se
troviamo altri sentimenti come la lealtà e il tradimento. Il tema bellico è
visto secondo la personale prospettiva di ogni personaggio. Per me sono
importanti le contraddizioni psicologiche e voglio che si percepisca la
profonda incomprensione culturale tra cubani ed europei. La sceneggiatura di
Arturo Infante si ispira ad alcuni parti di un libro scritto dal General
Enrique Loynaz del Castillo, in cui compare un personaggio per certi elementi
simile alla nostra protagonista, anche se abbiamo cercato di attingere ad alte
fonti.Il film è stato girato in tempi
record, nonostante sia una pellicola in costume e non sia stato facile
ricostruire ambienti e situazioni d’epoca”.
Lisanka (2009) è un lavoro di argomento storico - fantastico,
una commedia ambientata a Veredas, paese immaginario della Cuba al principio
degli anni Sessanta, dove sono stati installati missili sovietici. Due giovani,
Sergio e Aurelio, si contendono l’amore di Lisanka, la ragazza più bella della
zona. La Crisi dei Missili sta per cominciare quando arriva sul posto un gruppo
di soldati sovietici, tra di loro c’è anche Volodia che diventa un pericoloso
rivale dei due cubani. La vita quotidiana di Veredas e la stessa esistenza di
Lisanka non saranno più le stesse. Il regista afferma: “Questo film vuole
riuscire a trasmettere tutto lo spirito di meravigliosa follia che si viveva in
quel periodo storico. Ho scritto la sceneggiatura insieme a Eduardo del Llano e
Francisco García”. Miriel Cejas, nei panni di Lisanka, si è meritata il premio
per la miglior interpretazione femminile al Festival Iberoamericano che si è
tenuto a Fortalezza, in Brasile, nel 2010. Si tratta di un film importante e
interessante che ripercorre i tempi della guerra fredda con il dovuto distacco.
La pelicula
de Ana (2012) vince il premio come
miglior lungometraggio di ficton
assegnato dall’ dall’Associazione Cubana della Stampa Cinematografica. La
protagonista, Laura de la Uz, interpreta un’attrice che interpreta
solo ruoli mediocri, avventure per adolescenti, telenovelas per
casalinghe e pellicole senza spessore. La necessità di comprare un
frigorifero e i numerosi problemi economici la convincono a interpretare una
prostituta per un documentario girato da una produzione austriaca. Non
sarà uno ei soliti ruoli, pieno di stereotipi e di eccessi, la sua miglior
interpretazione.
Abbiamo l’interpretazione critica di Yoani Sánchez: “Come un
gioco di specchi, il film sovrappone realtà e finzione, emozione e
interpretazione. Neppure l’umorismo e le battute scherzose tolgono gravità
al dramma della doppia personalità come strumento di
sopravvivenza. Ana si complica la vita, si
trova coinvolta completamente in un mondo che in realtà non
conosce, ma che la esalta e la attrae fino in fondo. Fa
posare i familiari a loro insaputa; filma i vicini di casa per dare corpo
a un’improvvisata sceneggiatura e mente in continuazione. Diventa
la vera e propria regista di una pellicola realizzata su
diversi piani, pensati per assecondare le aspettative dei produttori
stranieri. Tuttavia, a ogni luogo comune si unisce la durezza della sua
vita, priva di affetti, senza bisogno di essere troppo drammatizzata. La
película de Ana ci provoca una vergogna femminile, nazionale,
umana.
Un senso di fastidio quando pensiamo a tutte quelle persone
che cercano di farsi passare per altre. L'uomo che fuma un sigaro - anche se
non gli piace - perché i turisti lo fotografino e lo paghino per quel
gesto. Il funzionario che indossa la maschera della simulazione ideologica
ormai divenuta una cosa sola con il suo volto. Persino coloro che
alimentano la simulazione, perchè hanno perso la capacità di
distinguere tra la parte di storia che si sono inventati e la
realtà. Proprio come Ana che, tolto il trucco e spenta la
macchina da presa, continua a recitare e a fingere”. Un film da vedere.
FILMOGRAFIA
Los días del agua (1971) (Aiuto Regista - Regista: Octavio
Gómez)
Muerte y vida en el Morrillo (1971) (Aiuto Regista – Regista: Oscar
Valdés)
El hombre de Maisinicú (1973)
(Aiuto Regista – Regista: Dir. Manuel Pérez)
De cierta manera (1974) (Aiuto
Regista – Regista: Sara Gómez)