martedì 29 ottobre 2013

Monica e il desiderio (1953)

di Ingmar Bergman 


Regia: Ingmar Bergman. Sceneggiatura: Ingmar Bergman, Per Anders Folgerström. Fotografia: Gunnar Fischer. Montaggio: Tage Holmberg, Gösta Lewin. Scenografia: P. A. Lundgren. Costumi: Barbro Sörman. Musica: Erik Nordgren, Waltz Kärlekens hamn di Filip Olsson. Suono: Sven Hansen. Produzione: Alla Ekelund per Svensk Filmindustri. Distribuzione Italiana: Indief. Riprese: 22 luglio - 6 ottobre 1952 (isola Orno, Rasunda Studios). Titolo originale: Sommaren Med Monika. Prima proiezione: 6 febbraio 1953. 




Interpreti: Harriet Andersson (Monica Eriksson), Lars Ekborg (Harry Lund), Dagmar Ebbesen (la signora Lindstrom), Åke Fridell (Ludvig, padre di Monica), Naemi Briese (madre di Monica), Åke Grönberg (il padrone di Harry), Sigge Fürst (Johan), John Harryson (Lelle), Georg Skarstedt (padre di Harry), Gösta Ericsson (Forsberg), Gösta Gustafson (assistente di Forsberg), Gösta Pruzelius (pescatore), Arthur Fischer (padrone di Monica), Torsten Lilliecrona, Bengt Eklund, Hans Ellis, Ivar Wahlgren, Renée Björling, Catrin Westerlund, Carl-Uno Larsson, Hanny Schedin, Kjell Nordenskiöld, Margaret Young, Nils Hultgren, Ernst Brunman, Sten Mattsson, Magnus Kesster, Carl-Axel Elfving, Bengt Brunkskog, Wiktor "Kurlörten" Andersson. 




“Monica è arrivata dopo tre anni di gestazione. Spero provocherà tempeste emotive e ogni genere di reazione. Sfido chiunque a restare indifferente”, disse Ingmar Bergman dopo aver terminato le riprese, ammettendo che si tratta di “un film a basso costo, girato in condizioni di rigorosa semplicità, lontano dagli studi e realizzato con poco personale”. Sfogliando le pagine di Immagini - il libro autobiografico dedicato al suo cinema - scopriamo che Bergman non ha mai girato un film “meno complicato” di Monica e il desiderio, un lavoro libero da grandi implicazioni psicologiche. Una pellicola girata in totale spensieratezza, in un clima gioioso, sereno e di assoluta felicità creativa. Il successo di pubblico fu enorme





Il film è basato sul personaggio di Monica, donna che cambia con lo scorrere degli anni, vivendo la sua esistenza; prima ragazzina romantica, innamorata, che si commuove davanti a un film melodrammatico, poi moglie insoddisfatta che sceglie la via del libertinaggio e abbandona figlio e marito. Monica e il desiderio è un film erotico, molto spinto per i tempi, sia per le situazioni descritte che per il discorso teorico, ma è anche una pellicola realista, calata nella difficile realtà lavorativa degli anni Cinquanta, poetica e melodrammatica. Si comincia tra dissolvenze che alternano stupendi paesaggi marini dell’isola Orno, i dintorni del porto e le officine dove si lavora duro; un bianco e nero suggestivo introduce l’incontro d’amore tra Monica ed Henry in un bar del quartiere operaio. 


Immagini ispirate accompagnano la nascita di un sentimento, i ragazzi al cinema, a casa insieme, nella barca del padre, per finire con la fuga in campagna e sull’isola deserta. Alcune sequenze ricordano L’avventura di Michelangelo Antonioni, ma si tratta solo di identiche ispirazioni e di suggestioni che hanno in comune una buona dose di genialità. 


Alcune sequenze mostrano Harriet Andersson in plastici nudi integrali, molto avanti per i tempi, tagliatissime dalla censura italiana, che si sbizzarrì eliminando gli incontri sessuali troppo espliciti. Il regista sottolinea il cambiamento femminile tra innamoramento e ritorno alla realtà, quando la nascita di un figlio, il lavoro, i dissidi con il partner fanno esplodere la coppia. Monica rifiuta la maternità e ogni responsabilità, tradisce il compagno che credeva di amare e pretende di avere indietro la sua libertà. La scena simbolo del film è quella con Harriet Andersson che guarda in macchina, ripresa su sfondo grigio, si rivolge al pubblico ed esprime tutta la sua angoscia di donna disperata e sola. Una sequenza moderna e scioccante che lo stesso Bergman definì “un impudico contatto con lo spettatore”.  


La vita è più difficile dei sogni, sembra dire il regista. La povertà, il quotidiano, i problemi, distruggono anche il più fantastico degli amori, persino un’unione voluta contro tutto e tutti. Arrivano i tradimenti, le botte, il divorzio, con il padre che resta solo a prendersi cura di un figlio nato dall’amore, ma giunto troppo presto a far esplodere i contrasti d’una coppia immatura. Il finale alterna flashback a parti oniriche, con il ragazzo che ricorda i bei tempi del loro amore e li paragona con la dura realtà. Negli Stati Uniti venne utilizzata l’immagine di nudo dorsale di Harriet Andersson (censurata in Italia) per pubblicizzare il film, spacciando un’opera d’arte per un lavoro pornografico intitolato Monica A Bad Girl. In Svezia fu tagliata la scena di Harry che si ubriaca e subito dopo fa l’amore con Monica, giudicata oscena, ma difesa da Bergman come momento fondamentale, perché “la passione raggiunge il climax”. 


In Italia, Monica e il desiderio è uscito soltanto nel settembre del 1961, massacrato dalla censura con 25 metri di tagli. Nessuno comprese il film, privato di tutti i rapporti sessuali, delle scene di nudo e delle sequenze grazie alle quali il regista esibiva la prorompente carica erotica di Monica. Il personaggio femminile è moderno, insolito per il cinema degli anni Cinquanta, fuori da ogni cliché. Ingmar Bergman dirige e sceneggia una pellicola innovativa, che detta le coordinate del futuro cinema erotico - introspettivo, influenzando registi come Truffaut e Godard. 

 
Gordiano Lupi

domenica 27 ottobre 2013

Luigi Magni, il cantore della Roma papalina

In memoria di Luigi Magni (1928 - 2013), pubblico questo mio lungo profilo inedito del regista. Solo testo, non è il caso di pubblica immagini.

Luigi Magni, il cantore della Roma papalina 

Luigi Magni nasce a Roma nel 1928, è uno sceneggiatore - regista unanimemente considerato come il cantore appassionato e ironico della Roma papalina. Il suo interesse per quel periodo storico compare già con prepotenza nella sceneggiatura de Le voci bianche (1964) -girato da Pasquale Festa Campanile - e nella messa in scena teatrale di un’epopea romanesca di taglio popolare come Rugantino (1966). 
Luigi Magni come sceneggiatore è attivo per tutto il periodo 1959 - 1968, collaborando a film comici (La cambiale, Il corazziere, Gli attendenti, Il mio amico Benito) e subito dopo a lavori più impegnati di ambientazione storica (Madamigella di Maupin, La mandragola, El Greco, La cintura di castità). Tra gli altri film scritti da Magni ricordiamo: In Italia si chiama amore, Un tentativo sentimentale, Non faccio la guerra faccio l’amore, Le fate, Le bambole, La ragazza con la pistola e Per grazia ricevuta). 
Le collaborazioni di Magni in veste di soggettista e sceneggiatore prendono il via dalla collaborazione con Age & Scarpelli e riguardano le opere dei migliori registi del tempo: Mario Monicelli, Luciano Salce, Mauro Bolognini, Camillo Mastrociqnue, Giorgio Bianchi, Pasquale Festa Campanile, Carlo Lizzani e Alberto Lattuada. 
Il debutto cinematografico avviene con Faustina (1968), un originale apologo popolaresco che cita e omaggia con affetto la romanità d’un tempo. Interpreti: Vonetta McGee, Renzo Montagnani, Enzo Cerusico, Franco Acampora, Clara Bindi, Diana Buffardi, Franca Haas e Ottavia Piccolo. Montagnani è un tombarolo gretto e manesco che vive di espedienti, mentre la mulatta McGee è la moglie Faustina, che a un certo punto si innamora di un timido cantante (Cerusico) e vorrebbe scappare con lui, ma non è facile. Il marito la denuncia per abbandono del tetto coniugale, lei finisce in galera, ma quando dopo sei mesi esce fuori, attende un figlio. Il marito la riempie di botte più forte di prima e a questo punto lei se ne va per sempre. La mulatta Faustina simboleggia il passaggio degli alleati, ricorda come le truppe di liberazione abbiano avuto rapporti con donne italiane. Magni ci fa conoscere la romanità delle sue storie con una spruzzata di femminismo e ambienta il racconto nel Foro romano effettuando le riprese tra le rovine. Una favola garbata, senza tempo, di taglio pasoliniano, con una scenografia che ricorda le stampe d’epoca. 
Se il primo film di Magni poteva dirsi interessante e originale, il secondo è già un grande successo di pubblico e di critica. 
Nell’anno del Signore (1969) è un’opera a metà strada tra il comico e il tragico che racconta le vicissitudini di un gruppo di carbonari smascherati e uccisi, tutti tranne il Cornacchia (Manfredi), che continuerà a scrivere filastrocche irriverenti contro il Papa sulla statua di Marc’Aurelio. A parte Manfredi - grande protagonista - nel cast spiccano Claudia Cardinale, Robert Hossein, Renaud Verley, Enrico Maria Salerno, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Britt Ekland, Pippo Franco e Stefano Oppedisano. Siamo nella Roma del 1825, sotto Papa Leone XII, epoca di tumulti anticlericali e di moti carbonari, il nostro protagonista è un modesto ciabattino che si fa chiamare Cornacchia ma nasconde l’identità dell’irriverente Pasquino. Hossein e Verley sono due carbonari che vengono aiutati da Cornacchia a scoprire i traditori e a salvarsi dalla galera. Cornacchia sogna una rivolta popolare contro il dominio dispotico del Papa Re, ma resta deluso e le sue speranze sono frustrate. Magni scrive e sceneggia il film, dimostrando grane maturità artistica sin dal secondo lavoro che utilizza gli strumenti della commedia in un’ambientazione storica. Non manca la riflessione politica sulle rivoluzioni e sul popolo che non vuole rischiare la pelle ma pensa soltanto a vivere una vita tranquilla e immune da problemi. Gli attori sono bravi. Sordi è un frate molto divertente, Tognazzi un credibile cardinale e Salerno un diligente capitano. Claudia Cardinale salva il lato erotico che stiamo cercando nella commedia alta ed è di una radiosa bellezza, forse nel momento migliore della sua vita artistica. 
Scipione detto anche l’Africano (1971) è un film satirico contro l’antica Roma, interpretato da Marcello Mastroianni, Ruggero Mastroianni, Woody Strode, Silvana Mangano, Turi Ferro, Adolfo Lastretti, Fosco Giachetti, Enzo Fiermonte, Philippe Hersent, Wendy D’Olive, Brizio Montinaro e Ben Ekland. Magni scrive e sceneggia una sorta di parodia che critica l’antica Roma scettica e indolente per ironizzare sulla società contemporanea. Fa parlare gli antichi romani in dialetto romanesco, una scelta coraggiosa ma divertente, e gira il film a Paestum, tra le rovine della Villa Adriana. Marcello Mastroianni è Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano, vincitore delle guerre puniche, accusato da Catone il Censore di aver intascato illegittimamente un tributo di 500 talenti dovuti da Antioco, re di Siria. Alla fine si scopre che il colpevole è il fratello Lucio Cornelio Scipione, detto l’Asiatico (Ruggero Mastroianni), ma l’Africano si prende la colpa, dopo aver capito che gli ideali e le virtù sono soltanto vuote parole. Sceglie l’esilio perché si rende conto che gli uomini onesti e probi non sono ben visti a Roma. La pellicola è molto teatrale, ma gli attori sono bravi e il pubblico non si annoia. Ruggero Mastroianni - famoso montatore - è il fratello di Marcello, una tantum attore per interpretare (in maniera più che credibile) il ruolo del fratello di Scipione. Turi Ferro è niente meno che Giove. La colonna sonora è di Severino Gazzelloni. Il film non è tra le cose migliori di Magni, ma non condividiamo l’ardore con cui Morando Morandini ne sconsiglia la visione (si prende una querela dalla produzione). “Arguto, verboso, con molti momenti di stanchezza”, scrive sul noto Dizionario che porta il suo nome. Ai nostri fini niente di erotico, anche se possiamo parlare di un peplum in salsa di commedia. 
La Tosca (1973) è ai nostri fini ancor meno interessante, perché si tratta della trasposizione cinematografica del celebre dramma di Sardou in veste musicale, interpretata da Monica Vitti, Vittorio Gassman, Luigi Proietti, Umberto Orsini, Aldo Fabrizi, Ninetto Davoli, Alvaro Vitali, Fiorenzo Fiorentini, Gianni Bonagura e Marisa Fabbri. Il film è originale perché La Tosca viene trattata in veste ironica e romanesca, una maniera insolita di concepire un’opera e di portarla a un pubblico meno preparato. Magni si occupa di tutto, dalla sceneggiatura ai dialoghi, passando per i cori e le canzoni, trasformando il dramma di Flora Tosca in un’opera buffa di taglio romanesco. Non è una parodia, ma una commedia musicale che mette in primo piano ciò che Sardou e Puccini utilizzano come sfondo, ma il risultato finale non ha niente a che vedere con l’opera classica. La critica politica all’Italia contemporanea è più che evidente e la vena da commedia leggera scorre felice. Il regista punta sull’umorismo e fa a meno della retorica, inserendo il solito spirito anticlericale e battute polemiche sula rivoluzione. Il mix tra commedia brillante e melodramma finale è ben riuscito. Armando Trovajoli cura una splendida colonna sonora. 
La via dei babbuini (1974) è un lavoro atipico per Luigi Magni che punta sul filosofico e realizza una commedia di ambientazione africana ricca di bozzetti e di stupende scenografie, ma poco efficace. Ai nostri fini ci sono timidi accenni di commedia erotica vista la presenza di un’affascinante Catherine Spaak, poco espressiva e  spesso in difficoltà con il personaggio, e di un comico Pippo Franco, alle prese con la caratterizzazione di un uomo bianco nato in mezzo ai coccodrilli. Lionel Stander è il più bravo di tutti nei panni (ormai consueti) del vecchio padre morente, un fascista nostalgico che ha mollato la famiglia ed è andato a vivere in Etiopia, ma esce presto di scena. Uno dei momenti migliori del film è l’incontro padre - figlia che si rivedono dopo una lunga separazione e sembrano due estranei. Lui finisce per morire nella sua Africa, senza nessuna nostalgia di Roma e della vecchia Europa. Gli altri interpreti sono Fabio Garriba e Gabriele Grimaldi, ma la loro partecipazione è piuttosto monocorde. Soggetto e sceneggiatura sono del regista che racconta la storia di una signora romana (Spaak) che va in Africa per assistere il padre morente e decide di abbandonare il marito per seguire nella savana la via dei babbuini. Pippo Franco è il singolare individuo che Catherine Spaak incontra sul suo cammino, un italiano figlio di immigrati, nato in Etiopia in mezzo ai coccodrilli, che vive di sogni e ricordi del passato. Un ruolo insolito per l’attore comico romano, atipico e piuttosto serioso, a metà strada tra il comico e il surreale. In ogni caso la parte comica è tutta sulle sue spalle, anche perché il marito della Spaak è un personaggio grottesco e irreale, così pieno di difetti da sembrare un fumetto. Pippo Franco che filosofeggia, però, non è il massimo: “Il babbuino è simile all’uomo, ma non vuole diventare uomo. Per questo ogni sera al tramonto torna nella foresta per restare scimmia, seguendo la via dei babbuini”. Pippo Franco si vede sconvolgere l’ordinaria follia della sua vita quotidiana a contatto con i coccodrilli da una coppia in fuga dal mondo moderno. Il nuovo compagno muore divorato da un coccodrillo, ma lei decide lo stesso di restare in Africa perché il rapporto con il marito - che cerca di riportarla a casa senza successo - è ormai finito. La Spaak era andata in Africa per nostalgia del padre moribondo, ma forse voleva soltanto fuggire da un marito noioso e pedante. Il mal d’Africa ha fatto il resto. Gli effetti speciali sono di Carlo Rambaldi, la stupenda fotografia africana è di Di Giacomo, il montaggio serrato di Ruggero Mastroianni. Musica suggestiva di Armando Trovajoli. Il film avrebbe ambizioni ecologiche e consiglia la ricetta contro l’alienazione dell’uomo contemporaneo: la fuga e il ritorno alla natura selvaggia. Un apologo esotico che non funziona, anche perché la Spaak e Franco non sono due attori in sintonia. Resta un buon lavoro stilisticamente parlando, suoni e rumori della notte africana sono valorizzati al massico, le suggestive scenografie lasciano senza fiato. Sembra d’essere in un mondo movie romantico e nostalgico, tra grandi alberi, coccodrilli, ippopotami e bozzetti di vita nella savana. I momenti erotici sono pochi, a parte la bellezza di Catherine Spaak - che con il passare del tempo diventa sempre più castigata - e un fugace incontro tra il marito e una prostituta nera.
Signore e signori buonanotte (1976) è una commedia a episodi firmata da Luigi Comencini, Nanni Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli ed Ettore Scola. Gli sceneggiatori sono un manipolo: Age (Agenore Incrocci), Furio Scarpelli, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Ruggero Maccari e Ugo Pirro. Il film è strutturato in 14 episodi ed è prodotto in cooperativa da registi e sceneggiatori. Il tema di fondo è la critica alla televisione, i registi realizzano un’efficace parodia di una giornata televisiva a base di sceneggiati, telegiornali, pubblicità e inchieste. Scola dirige l’episodio - cornice, interpretato da Marcello Mastroianni e Monica Guerritore, basato su un giornalista televisivo che intervista un uomo politico corrotto, assiste a un vertice di camorristi che si stanno spartendo Napoli e si intrattiene piacevolmente con una collega. Mastroianni è un giornalista - speaker molto distratto di un inesistente (al tempo) TG3, perché la terza rete ancora non ha visto la luce. La sua presenza fa da filo conduttore, perché i vari episodi del film sono presentati come inchieste, servizi speciali, intrattenimenti e inserti del suo telegiornale. Scola dirige anche Il salone delle cariatidi ed è sua l’idea del sosia di Giovanni Leone - Presidente della Repubblica - mentre balla la tarantella. Luigi Comencini dirige Lezione d’inglese, con Vittorio Gasmann e Lucretia Love (Anna Morganti), dove un agente della Cia prepara un attentato, ma anche L’ispettore Tuttumpezzo con Vittorio Gassman, Adolfo Celi e Senta Berger, per raccontare la storia di un poliziotto che diventa cameriere di un potente corrotto. Mangiamo i bambini, con Paolo Villaggio e Gabriella Farinon, è l’ultimo episodio di Comencini, basato sull’affermazione di Jonathan Swift secondo la quale si dovevano mangiare i bambini poveri in eccedenza. Nanni Loy dirige Sinite parvulos, con Andrea Bosic, un ragazzino napoletano che si suicida dopo che un cardinale ha premiato le famiglie con molti figli, e Il personaggio del giorno - Poco per vivere troppo per morire, con Ugo Tognazzi e Franco Diogene, dove vediamo un pensionato milanese campare di espedienti. Luigi Magni resta nella sua tematica preferita, anticlericale e dedicata alla Roma papalina con Il santo soglio (Nino Manfredi, Mario Scaccia, Andrea Ferréol, Felice Andreasi e Luigi Basagaluppi), dove un cardinale si finge moribondo per essere eletto Papa. Mario Monicelli dirige La bomba (Carlo Croccolo, Eros Pagni, Sergio Graziani, Camillo Milli e Gianfranco Barra), come satira all’inettitudine della polizia che fa esplodere un ordigno dopo un falso allarme per non fare una figuraccia, e Il generale in ritirata (Ugo Tognazzi), che vede un militare suicida perché le medaglie sono cadute nella tazza del water. Non è dato sapere chi abbia girato Il disgraziometro (Comencini?), interpretato ancora da Paolo Villaggio, sul gioco a premi dove vince il più sfortunato. Si tratta di una commedia satirica, a sfondo politico, ma invece che cattiva e pungente come avrebbe dovuto essere, pare blanda e annacquata. Vizi e virtù di un’Italia allo sfascio vengono messi alla berlina. Scarso il successo di pubblico, anche se gli attori sono di primo piano e i registi quanto di meglio in circolazione. Musiche di Lucio Dalla, Antonello Venditti, Francesco Guccini, Giuseppe Mazzucca e Nicola Samale. Erotismo poco o niente, a parte qualche ammiccamento da parte di Monica Guerritore (presentatrice - amante di Mastroianni), Lucretia Love e Senta Berger. 
Basta che non si sappia in giro (1976) cavalca la moda delle commedie a episodi girate da più registi, in questo caso la collaborazione è tra Nanni Loy, Luigi Magni e Luigi Comencini. Macchina d’amore di Nanni Loy (Monica Vitti e Johnny Dorelli) racconta le vicissitudini erotiche di una dattilografa che batte a macchina il copione di un film porno, ma scambia realtà e fantasia. Il superiore di Luigi Magni (Nino Manfredi, Lino Banfi e Isa Danieli) racconta una rivolta carceraria per protestare contro la mancanza di donne durante la quale un secondino rischia di essere sodomizzato. L’equivoco di Luigi Comencini (Nino Manfredi e Monica Vitti) è incentrato sullo scambio di persona tra una venditrice di libri e una prostituta. Luigi Magni scrive e sceneggia il suo episodio, atipico come tematica. Il primo è scritto da Age e Scarpelli, il terzo da Castellano e Pipolo. Una commedia innocua, scritta e girata con poca fantasia, basata su situazioni erotiche sempre poco esplicite e con attrici reticenti a recitare senza veli. 
Quelle strane occasioni (1976) vede ancora una collaborazione tra Nani Loy, Luigi Mani e Luigi Comencini per una commedia a episodi di livello medio. Italian Superman di Nanni Loy - che non firma la pellicola - (Paolo Villaggio, Valeria Moriconi e Lars Bloch) è il più volgare come tematica e racconta le vicende di un venditore di castagnaccio che diventa ricco facendo l’amore in pubblico nei night di Amsterdam. Il problema è che la moglie lo blocca, lui non vuol saperne di restare fedele e di fare l’amore con una sola donna. Il cavalluccio svedese di Luigi Magni (Nino Manfredi, Olga Karlatos, Giovanna Steffan, Giovannella Grifeo) è commedia erotica pura e racconta di un architetto che va a letto con una bella svedese, figlia di un amico, ma il problema è che l’amico è stato amante della moglie.  L’ascensore di Luigi Comencini (Alberto Sordi, Stefania Sandrelli e Beba Loncar) è l’episodio più erotico e ricco di scene sensuali, merito di una strepitosa Stefania Sandrelli che seduce un monsignore (Sordi) in un ascensore bloccato per un’intera giornata. Il monsignore approfitta della ragazza e alla fine si comporta come se non fosse accaduto niente. Gli sceneggiatori sono Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, che collaborano con Rodolfo Sonego per Il cavalluccio svedese e L’ascensore. Molti gli elementi di commedia sexy, soprattutto nel terzo episodio girato da Comencini.
In nome del Papa Re (1977) rappresenta la continuazione ideale di Nell’anno del Signore ed è l’opera più matura e riuscita di Luigi Magni, che racconta la ferocia degli ultimi anni di potere temporale dei papi attraverso la figura ironica di Don Colombo (un Manfredi in gran forma), consapevole che la fine è prossima, ma incapace di fare scelte rivoluzionarie. Interpreti: Nino Manfredi, Danilo Mattei, Carmen Scarpitta, Giovannella Grifeo, Carlo Bagno, Salvo Randone, Ettore Manni, Camillo Milli, Rosalino Cellamare (il popolare cantante Ron) e Luigi Basagaluppi. Ai nostri fini non c’è niente di erotico, mancano persino presenze femminili interessanti, ma resta una notevole critica anticlericale e la rievocazione dell’ultima condanna a morte decretata dal Papa. La pellicola si regge tutta sulla grande interpretazione di Nino Manfredi, attore feticcio di Luigi Magni. David di Donatello per la sceneggiatura.
Arrivano i bersaglieri (1980) approfondisce la tematica anticlericale di Luigi Magni, che racconta il passato ma guarda al presente. Il film è interpretato da Ugo Tognazzi, Giovanna Ralli, Vittorio Mezzogiorno, Pippo Franco, Giovannella Grifeo, Ombretta Colli, Mariano Rigillo, Enrico Papa, Carlo Bagno, Daniele Dublino, Ricky Tognazzi e Moira Orfei. Il periodo storico preso in esame è successivo alla breccia di Porta Pia, quando la nobiltà papalina e il clero cercano di riciclarsi nella nuova Italia unita. Bella commedia storica con personaggi indovinati, come il prete trasformista interpretato da Pipo Franco e il patrizio tradizionalista Ugo Tognazzi, ma pure lo zuavo Mezzogiorno che si è arruolato con i bersaglieri. Ottimo il cast femminile che assicura un minimo sindacale di erotismo alla commedia: Giovanna Ralli, Ombretta Colli e Moira Orfei.
Un’avventura a Campo de’ Fiori (1982) è un singolare prodotto televisivo che Luigi Magni gira per il ciclo Dieci registi italiani, dieci racconti italiani, trasmesso da Rai 3. Il film di Magni va in onda il 14 maggio 1983, sabato alle 20 e 30, tratto dal racconto surreale di Giorgio Vigolo, sceneggiato dal regista con la collaborazione di Luigi Spagnol. Interpreti: William Berger, Geneviève Omini, Rina Franchetti, Fabio Garriba, Anna Lelio, Remo Remotti. Un uomo manca da Roma da molto tempo, ma quando ci torna per ritrovare un amico, al suo posto incontra un fantasma. Insolito ma da vedere.
State buoni se potete (1983) è la storia romanzata di San Filippo Neri, interpretato da Johnny Dorelli, il condensato di una serie televisiva in tre puntate. Il film celebra il fondatore dell’oratorio, il santo che si prende cura della gioventù, e un anticlericale come Magni non sembra il regista più adatto, mentre le musiche di Angelo Branduardi sono perfette. La versione televisiva dura 149’ ed è quella che circola in dvd. Fuori argomento per quel che riguarda la nostra tematica. L’addio a Enrico Berlinguer (1984) è un documentario girato a più mani, dedicato alla figura di un grande uomo politico, segretario del Partito Comunista Italiano, scomparso per un arresto cardiaco durante un comizio. Citiamo per completezza Il generale (1986), Garibaldi il generale (1987) - miniserie a puntate - e Cinema! (1988), esperienze televisive che esulano dalla nostra trattazione, così come il documentario Imago Urbis (1987).  
Secondo Ponzio Pilato (1987) vede Luigi Magni alle prese con una tematica storica insolita, ma in compagnia del fido Nino Manfredi, che interpreta da par suo un ruolo complesso. Il cast comprende Stefania Sandrelli, Lando Buzzanca, Mario Scaccia, Flavio Bucci, Luisa De Santis, Roberto Herlitzka e Antonio Pierfederici. Il film è a metà strada tra realtà e fantasia, perché Ponzio Pilato dopo aver condannato a morte Gesù viene colto da dubbi e si convince di aver commesso un delitto. Alla fine - da buon eroe tragico della commedia all’italiana - chiederà all’imperatore Tiberio di essere decapitato. Nino Manfredi, ormai sodale di Luigi Magni, rende ciociaro Ponzio Pilato e ne fa un personaggio interessante, roso dai dubbi e dal rimorso. Stefania Sandrelli assicura l’indispensabile elemento erotico.
O’ re (1988) è un altro film storico - genere nel quale Magni è ormai specialista - interpretato da Giancarlo Giannini, Ornella Muti, Carlo Croccolo, Corrado Pani, Luc Merenda, Cristina Marsillach e Annamaria Ackermann. La pellicola racconta la vita privata dell’indolente Francesco di Borbone (re Franceschiello) e della moglie Maria Sofia, interpretati da Giancarlo Giannini e Ornella Muti. I sovrani si trovano a Roma in esilio dopo che Garibaldi li ha scacciati dal Regno delle Due Sicilie. La pellicola nasce per il piccolo schermo, la versione cinematografica è tagliata, ma conserva gli stessi ritmi e inoltre i due attori principali non sono ben assortiti. Ornella Muti è fuori ruolo, anche se conferisce al film un minimo di sensualità. Commedia all’italiana, ironica e scanzonata, ma con riferimenti storici ben precisi.
In nome del popolo sovrano (1990) è un nuovo atto dell’epica anticlericale e antipapista di Luigi Magni, che mette in scena il prete Ugo Bassi schierato contro il Papa e il solito Manfredi nei panni del Pasquino di turno. Interpreti: Alberto Sordi, Nino Manfredi, Jacques Perrin, Elena Sofia Ricci, Carlo Croccolo, Luca Barbareschi, Massimo Wertmüller e Serena Grandi. Siamo ai tempi della Repubblica Romana (1848) e il regista racconta l’amore della moglie di Eufemio Arquati (Sordi) per un garibaldino. Il marito la riconquisterà solo dopo essersi unito ai repubblicani. Bravissimo Manfredi nei panni di Angelo Brunetti detto Ciceruacchio. Elena Sofia Ricci e Serena Grandi sono le uniche divagazioni sexy su una tematica storica che volge a commedia. Meno ispirato e originale de In nome del Papa Re e spesso ripetitivo nelle caratterizzazioni, ma resta un buon film.
Nemici d’infanzia (1995) nasce come romanzo scritto da Luigi Magni, quindi sceneggiato per il cinema da Carla Vistarini e vincitore di un David di Donatello. Non è un lavoro memorabile, nonostante il premio. Interpreti: Paolo Murano, Renato Carpentieri, Giorgia Tartaglia, Nicola Russo, Elena Berera, Elodie Trecani, Gregorio Gandolfo e Luigi Diliberti. Siamo nella Roma del 1944, il dodicenne Paolo si divide tra l’amicizia per la coetanea Luciana e l’ammirazione per l’invalido Corsini. A un certo punto scopre che quest’ultimo è un torturatore fascista che deve uccidere il padre di Luciana. La pellicola soffre un’evidente mancanza di mezzi ed è molto ideologica, oltre a essere recitata in maniera scolastica. Troppo retorico.
Esercizi di stile (1996) è un film a episodi girato da un plotone di registi: Francesco Laudadio, Luigi Magni, Lorenzo Mieli, Pino Quartullo, Alessandro Piva, Falero Rosati, Maurizio Dell’Orso, Dino Risi, Alex Infascelli, Sergio Citti, Volfango De Biasi, Cinzia Th Torrini, Claudio Fragasso e Mario Monicelli. Gli interpreti sono Elena Sofia Ricci, Massimo Wertmüller, Franco Diogene, Gloria Paul e Sal Borgese. Luigi Magni gira soltanto Era il maggio radioso, un divertente episodio pere raccontare la vicenda tragicomica di un reduce della Prima Guerra Mondiale che al ritorno trova la moglie monaca di un convento, perché non sperava più di rivederlo. L’idea di fondo è quella di portare al cinema gli Esercizi di stile di Raymond Queneau in quattordici episodi, che poi sarebbero quattordici modi diversi di dirsi addio in quattordici generi cinematografici diversi, dalla commedia al giallo, passando per horror, erotico, poliziesco e western. Il film delude per mancanza di stile e per approssimazione registica, anche se la breve commedia di Magni non è da disprezzare.
La carbonara (2000) è l’ultima incursione di Magni nella Roma papalina del 1825, meno riuscita delle precedenti ma pur sempre una discreta commedia storica. Interpreti: Lucrezia Lante della Rovere, Valerio Mastandrea, Fabrizio Gifuni, Claudio Amendola, Nino Manfredi, Alberto Alemanno, Pierfrancesco Favino, Andrea Garinei e Marina Lorenzi. Siamo nel 1825: Cecilia (Lante della Rovere) ritrova nello stesso giorno il primo amore (Gifuni), condannato a morte dal Papa per carboneria, e il marito (Mastandrea), che non era stato ucciso dai banditi ma si era fatto frate. Nino Manfredi è un bravissimo cardinale romano, disilluso e scettico, che interviene per aiutare la donna nei problemi sentimentali. Ci mette lo zampino anche un miracolo divino e al tempo stesso si cercano di risolvere i molti guai politici. Magni scrive e dirige un film nelle sue corde, ma il soggetto è fiacco, ricicla molti temi in passato affrontati con maggior freschezza e cerca di attualizzarli. La bella Lucrezia Lante della Rovere fa la locandiera ed è carbonara nel senso degli spaghetti, perché la sua trattoria si chiama con il nome del noto piatto romano. “A Roma tutti si fanno comprare”, insiste Magni come leitmotiv della pellicola e il collegamento con la corruzione contemporanea pare evidente.
Luigi Magni conclude la sua carriera con il televisivo La notte di Pasquino (2003) che ripercorre la vecchia tematica storica e può considerarsi un addio alla macchina da presa, perché dopo la morte di Nino Manfredi (2004), il suo attore prediletto, non vuole più girare film. Luigi Magni è un regista che dimostra la grandezza del nostro cinema popolare. Resta il cantore del periodo risorgimentale. da un punto di vista anticlericale, capace di raccontare la storia romanzando eventi e creando personaggi memorabili. Il tono del suo cinema è comico, spesso da farsa, in ogni caso nei limiti della commedia all’italiana, che a tratti presenta aspetti erotici, mai predominanti. Magni usa l’anticlericalismo per compiere un discorso sul potere, per criticare ogni dittatura o regime assoluto che sfrutta l’ignoranza della gente per dominare i propri simili. Roberto Poppi scrive sul Dizionario dei Registi Italiani: “Acuto osservatore del costume e della politica italiana ottocentesca vista attraverso i non facili rapporti tra i sostenitori del liberalismo e il potere ecclesiastico, schierandosi a favore dei primi e criticando con grande veemenza anticlericale i secondi”. Magni di solito gira film ambientati in un’altra epoca, ma cerca sempre di attualizzare il messaggio politico e di renderlo contemporaneo. Si ricorda il suo cinema anche per le perfette ricostruzioni della Roma papalina, effettuate a Cinecittà e in alcuni casi tra le antiche rovine di molte città italiane (Pompei, Paestum…). Nel 2008 riceve il David di Donatello alla carriera per celebrare i suoi ottant’anni di attività come regista. Muore il 27 ottobre 2013.

Gordiano Lupi
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Antologia di un urlo



Nico Parente
Antologia di un urlo
UniversItalia – Collana Horror Project
Pag. 430 – Euro 30,00
www.universitaliasrl.it - editoria@universitaliasrl.it


La collana Horror Project diretta da Daniele Francardi si arricchisce di un piccolo gioiello, che nasce da una tesi di laurea scritta con competenza da Nico Parente per diventare una miniera d’informazioni per ogni appassionato. Come sottolinea il professor Marcello Aprile si tratta di “un lavoro serio e scrupoloso, al tempo stesso leggibile e interessante, che ci aiuta a ricostruire uno spaccato di un lato molto sottovalutato della storia italiana recente”. Non solo, è “un corposo manuale, un’enciclopedia della paura con informazioni che vanno dalla letteratura al cinema”. Fin qui l’opinione del docente.

Nico Parente è un giovane saggista, classe 1986, ha il difetto che caratterizza gli autori alle prime armi - pur dotati - di voler mettere troppa carne al fuoco. Il materiale è sovrabbondante: Edgar Allan Poe, Mary Shelley, H. P. Lovecraft, Bram Stoker, Alda Teodorani (intervistata), la narrativa gotica, Tiziano Sclavi… Il terrore su grande schermo, analizzando per sommi capi il cinema di Riccardo Freda, Mario Bava, Lucio Fulci (ringrazio per il mio Filmare la morte in bibliografia), Antonio Margheriti, Ruggero Deodato, Dario Argento, Luigi Cozzi, Joe D’Amato, Lamberto Bava… Corposa la parte dedicata alla critica dei film più importanti, ma ancora più interessante la sezione interviste, fusa in un solo corpus narrativo. L’autore ha avvicinato: Ernesto Gastaldi, Dardano Sacchetti, Edoardo Margheriti, Ruggero Deodato, Barbara Magnolfi, Eleonora Giorgi (ve la ricordate protagonista di Inferno?), Sergio Stivaletti, Marco Weba, Luigi Cozzi, Antonio Tentori. Il lavoro termina con un’appendice dedicata al fumetto e alla musica, divagando sulle fascinazioni horror dei generi popolari.

Antologia di un urlo non ha il pregio di essere un lavoro unico dedicato a questo tipo di suggestioni. Il lettore può approfondire gli argomenti trattati consultando opere di Luigi Cozzi, Antonio Tentori, Antonio Bruschini, Roberto Poppi, Rudy Salvagnini, Manlio Gomarasca, Davide Pulici, persino qualche mio libro, ma l’elenco sarebbe interminabile. Nico Parente ha il vantaggio della scrittura fluida, del taglio informativo, della facilità di approccio con il lettore. Si rivolge a chi non conosce la materia e divulga il verbo dell’orrore, con stile secco e asciutto, senza fronzoli da critico impegnato e soprattutto senza pregiudizi. Un libro interessante per il neofita che vuole avvicinarsi al mondo dell’horror italiano, scritto da un autore così bravo a maneggiare la penna (la tastiera, padon!) che sto tentando di convincerlo ad aiutarmi a redigere il quinto e (per me) faticoso volume sulla Storia del Cinema Horror italiano. Non sono più molto giovane e credo che Parente conosca meglio di me i talenti dell’ultima generazione che andranno a comporre l’ultimo tomo della ricerca.



Gordiano Lupi

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giovedì 24 ottobre 2013

Il posto delle fragole (1957)


di Ingmar Bergman
 

Regia: Ingmar Bergman. Soggetto e Sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Gunnar Fischer. Montaggio: Oscar Rosander. Scenografia: Gittan Gustafsson. Costumi: Millie Ström. Trucco: Nils Nittel, Carl M. Lund. Musica: Erik Nordgren. Brani: Fuga in Es minore di Joahn Sebastian Bach, Royal Södermanland Regiment March di Carl-Axel Lundwall, Marcia Carolus Rex di Wilhelm Harteveld, Parademarsch der 18:er Husaren di Alwin Müller, Under rönn och syren di Herman Palm. Suono: Aaby Wedin. Produzione: Allan Ekelund Per Svensk Filmindustri. Distribuzione Italiana: Indief. Riprese: 2 luglio – 27 agosto 1957 (Vida Vättern, Gyllene Uttern inn, Dalarö, Ägnö, studi Råsunda, Stoccolma). Prima proiezione: 6 dicembre 1957. Durata: 90’. Paese: Svezia. 



Interpreti: Victor Sjöström (professor Isak Borg), Gunnar Björnstrand (Evald Borg), Ingrid Thulin (Marianne Borg), Bibi Andersson (Sara), Folke Sundquist (Anders), Björn Bjelfvenstam (Viktor), Jullan Kindahl (Agda), Gunnar Sjöberg (Sten Alman), Gunnel Broström (Berit Alman), Naima Wifstrand (madre di Isak), Per Skogsberg (Hagbart Borg), Per Sjöstrand (Sigfrid Borg), Gio Petré (Sigbritt Borg), Peder Hellman, Gunner Lindblom (Charlotta Borg), Göran Lundquist (Benjamin Borg), Maud Hansson (Angelica Borg), Eva Möller (Anna Borg), Lena Bergman (Kristina Borg), Monica Ehrling (Brigitta Borg), Tngve Nordwall (zio Aron), Sif Ruud (zia Olga), Gertrud Fridh (Karin, la moglie di Isak), Åke Fridell (l’amante di Karin), Max von Sidow (Henrik Åkerman), Ann-Mari Wiman (Eva Åkerman), Vendela Rudbäck (Elisabet), Helge Wulff, Ulf Johanson (padre di Isak), Harry Asklund. 



Il posto delle fragole è il capolavoro riconosciuto di Ingmar Bergman, che tratteggia un ritratto autobiografico ispirandosi al rapporto con il padre, ma quando sta per finire il lavoro si rende conto di aver parlato della sua vita. La coincidenza con le iniziali del nome del protagonista - Isak Borg - sta a indicarlo, pure se Bergman scriverà di essersi accorto di quel dettaglio solo dopo aver terminato di scrivere la sceneggiatura. Il posto delle fragole si svolge in una sola giornata, dal mattino alla sera, forse l’ultimo giorno della vita di un medico che deve ricevere nella cattedrale di Lund un premio per il giubileo della carriera. Una giornata che si apre con un incubo, durante il quale Isak (Sjöström) vede il suo funerale, una bara che si apre e un se stesso spettrale che cerca di afferrarlo per trascinarlo negli inferi. Il professor Borg decide di raggiungere Lund in automobile, insieme alla nuora Marianne (Thulin), in crisi coniugale con il figlio Evald (Björnstrand), per la prima volta in vita sua si apre con la donna e comincia ad ascoltare i suoi problemi. La parte più evocativa della pellicola comincia quando il professore compie una sosta nei luoghi della sua infanzia e rivede - come uno spettatore esterno - alcuni episodi del passato. 
 

Torna l’immagine del primo amore, la cugina Sara (Andersson), che si è sposata con un altro dopo averlo tradito. Abbiamo l’incontro con tre giovani autostoppisti pieni di speranze e con due coniugi litigiosi, dilaniati da rancori e incomprensioni, che sono invitati a scendere dall’auto perché esempio negativo per i ragazzi. Il professore rende visita alla madre, personaggio sgradevole e cupo, che apre le porte a un nuovo incubo, quello di un esame umiliante, e al ricordo onirico di un antico tradimento subito dalla moglie. Resta il tempo per la festa del giubileo, quindi l’incontro con il figlio e la nuora, poi di nuovo il sonno ristoratore, con le immagini dell’infanzia che tornano liete e serene. Il regista sfuma la sequenza onirica nel finale, lascia nell’incertezza se stiamo davvero assistendo alla morte di Isak. Ma non è importante. La giornata è finita e molte cose sono cambiate.  
 

Ingmar Bergman scrive e dirige un film pensato durante una lunga convalescenza al Karoilinska Sjukhuset, componendo un ritratto autobiografico ispirato anche alla rigida figura paterna. È lo stesso Bergman a confessare che il film rappresenta una richiesta di aiuto nei confronti dei suoi genitori, una sorta di desiderio di essere ascoltato e capito. Un film poetico, a base di suggestive parti oniriche, dissolvenze ebbre di significati e un’equilibrata alternanza tra passato e presente. Non è tutto ricordo e sterile autobiografia, ma c’è racconto, struttura, drammaturgia studiata nei minimi particolari. I temi cari a Bergman sono presenti in abbondanza: la difficoltà della vita coniugale, il rapporto con i genitori, l’importanza del passato nella vita di un uomo, l’adolescenza e il primo amore, il ruolo psicanalitico del sogno, l’inutilità della religione.



Il professore - vecchio, cocciuto e pedante - fallito come uomo, si è ritirato in solitudine a lavorare perché ha capito che i rapporti con il prossimo si limitano al pettegolezzo. La sua vita è tormentata da incubi, ma il più riuscito dal punto di vista artistico è quello del suo funerale, in una città deserta, tra orologi senza lancette, carrozze funebri che si rovesciano e bare che si aprono. Lucio Fulci girerà il suo ultimo intenso film ispirandosi a queste magiche sequenze che sono puro cinema fantastico. La paura della morte è protagonista della parte onirica come presenza spettrale di un futuro che aleggia sulle nostre vite. Il ritratto del vecchio misantropo è tratteggiato bene, con i suoi luoghi comuni, l’odio verso la nuora, la difficoltà ad accettare i cambiamenti sociali (le donne che fumano), ma al tempo stesso anche la sua apertura umana non giunge repentina. Il passato proustianamente torna a far capire che il tempo perduto è irrecuperabile, anche se il protagonista comprende che sarebbe stato meglio non aver fatto niente per cambiare, restando al punto di partenza.  
 

Il posto delle fragole è un viaggio alla ricerca della gioventù perduta, un sogno a base di flashback e parti oniriche, fotografato in maniera nitida e intensa, per mettere in primo piano la solitudine del presente, dove il professore si è confinato per colpa della sua grande aridità. “Il bene e il male non esistono”, dirà con una frase degna di Nietsche il protagonista, “esistono solo le necessità”. Il film riflette la crisi del nostro tempo, scompare il pessimismo di cui era intriso Il settimo sigillo per far posto a una flebile speranza, anche se terminale. Il posto delle fragole è cinema ebbro di immagini, il contenitore è più importante del contenuto, il significante è forse superiore al significato. Il protagonista guarda in faccia la morte e redime la sua vita fatta di egoismo con le ultime importanti azioni.  
 

Il posto delle fragole è un viaggio nella memoria, un’esplorazione della coscienza, molto freudiana, un film intriso di simbolismi onirici e di sequenze fantastiche, con la morte in primo piano che porta a interrogarsi sul senso della vita. Il protagonista riprende contatto con la vita influenzato dal sogno, rivede la luce riconciliandosi con se stesso e con le proprie origini, riabbracciando oniricamente i genitori. Un film sull’incomunicabilità, sulla difficoltà dei rapporti familiari, che lascia intravedere una speranza nel luminoso finale. 
 
 
Grandi interpretazioni degli attori, su tutti il protagonista Victor Sjöström, ma anche Ingrid Thulin e Bibi Andersson non sono da meno. Max von Sidow è poco utilizzato. Il film ottiene l’Orso d’oro al Festival di Berlino del 1958. In Italia esce a marzo del 1959, al solito con numerosi tagli nei frangenti in cui il regista parla troppo liberamente di religione, verginità e impossibilità di credere in Dio. 

Gordiano Lupi 
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martedì 22 ottobre 2013

La proprietà non è più un furto (1973)



 di Elio Petri
 

Regia: Elio Petri. Soggetto e Sceneggiatura: Elio Petri, Ugo Pirro. Fotografia (Eastmancolor): Luigi Kuveiller. Scenografia e Costumi: Gianni Polidori. Musica: Ennio Morricone. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Produttore: Claudio Mancini. Distribuzione: Titanus. Durata: 125’. Interpreti: Ugo Tognazi (il macellaio), Flavio Buci (Total), Daria Nicolodi (Anita), Salvo Randone (padre di Total), Orazio Orlando (il brigadiere Pirelli), Mario Scaccia (Albertone), Gigi Proietti (Paco, l’argentino).


La proprietà non è più un furto fa parte della trilogia della nevrosi di Elio Petri, rappresenta la nevrosi da denaro, insieme a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (potere) e La classe operaia va in paradiso (lavoro). Sono tre film scritti in collaborazione con Ugo Pirri, tutti fortemente politici, quasi manifesti ideologici di un programma più a sinistra del Partito Comunista Italiano, aborriti con uguale forza dalla critica di destra e dalla sinistra schierata con l’apparato. Forse solo Il Manifesto parlò in termini entusiastici de La proprietà non è più un furto, il meno riuscito della trilogia, il più grottesco e il meno premiato. In concorso al Festival di Berlino e presentato alle Giornate del cinema di Venezia (1973) non ottiene riconoscimenti, viene sequestrato per oscenità e infine fa registrare un buon successo di pubblico, spacciato dal distributore Lombardi come commedia all’italiana, vista la presenza di Tognazzi. Prima proiezione il 3 ottobre 1973. Incasso finale quasi un miliardo e mezzo di vecchie lire. 
 

La trama non è la cosa più importante, ma va riferita in estrema sintesi. Total (Bucci) - il nome è tutto un programma - è un impiegato di banca allergico al denaro, figlio di un ex bancario integerrimo (Randone), convertito al marxismo-mandrakismo, che diventa ladro per ideologia, perseguitando ciò che per lui è il simbolo del capitalismo: un laido macellaio romano (Tognazzi) cliente della sua banca, che possiede una bella amante (Nicolodi) e tanto denaro. Il suo scopo è derubarlo, poco a poco, di tutto, persino della sua donna, che cerca di concupire, del coltello con cui affetta la carne, dei gioielli e del denaro. Si fa aiutare da un romantico scassinatore - attore (Scaccia) che gli insegna il mestiere, ma resta incastrato nel meccanismo e alla fine muore di crepacuore in questura. Il padrone ha la meglio - come sempre - e strangola il suo persecutore in ascensore. 
 

Roberto Chiesi ha scritto un saggio molto esaustivo su La proprietà non è più un furto, contenuto nel volume L’ultima trovata - Trent’anni di cinema senza Elio Petri (a cura di Diego Mondella - Pendragon, 2012), parlando di “un apologo cadenzato da sequenze, un atto di accusa contro la borghesia, grottesco e caratterizzato da un forte pessimismo”. Il film fu attaccato con vigore da molta critica italiana, che lo definì brechtianeggiante, pieno di squilibri narrativi e privo di chiarezza ideologica. Elio Petri fu molto contrariato, per non dire indignato, ma si consolò con la buona accoglienza riservata alla pellicola in Francia e in Germania. Non è un film facile, rivisto oggi va storicizzato alla temperie culturale italiana del post Sessantotto altrimenti si finisce per non comprenderlo. La Cineteca di Bologna, nel quarantennale della pellicola, ha provveduto a un pregevole restauro in digitale.  


La proprietà non è più un furto resta uno specchio del suo tempo, un film programmaticamente marxista, un noir grottesco, a tratti commedia nera, pervaso di erotismo malsano, intriso di una decadente isteria. Alla base di tutto c’è l’odio di classe, il disprezzo verso i nuovi ricchi, rozzi e incolti, ben rappresentati da Tognazzi che si esprime in un romanesco persino eccessivo. L’erotismo stigmatizza una nuova forma di possesso: Daria Nicolodi alle prime armi, mai vista così sensuale, è la donna oggetto che si mostra nuda in scene scabrose, talmente eccessive da scandalizzare la solerte censura. 


La banca, vista come una chiesa, un tempio, utile solo per chi possiede, non per chi vorrebbe cercare di vivere meglio, così come la casa del macellaio è il regno del cattivo gusto, della ricchezza volgare. Non meno negativa la figura del padre di Total, un Salvo Randone bravissimo, onesto per vigliaccheria, ma quando si trova in possesso del denaro non vorrebbe mollarlo. Surreale il suo interrogativo rivolto al figlio: “Non sei ladro, non sei onesto. Ma chi sei?”. Flavio Bucci è fantastico, un vero mattatore, che contende il primato al rivale Tognazzi, uno scontro epocale tra due diversi tipi di follia. Bene anche Orazio Orlando, il brigadiere Pirelli (altro nome che è tutto un programma), un poliziotto timoroso di decidere, impaurito dal giudizio della stampa e in fondo servo del potere. 
 

Mario Scaccia è un romantico scassinatore che interpreta la parte di se stesso in un vecchio numero di teatro che ricorda Petrolini. Luigi Proietti si ritaglia un piccolo spazio quando nel finale recita l’omelia per il ladro scomparso, una sorta di elogio funebre perché “senza i ladri l’economia finirebbe a rotoli”, quindi “un ladro che muore sul lavoro è un eroe, perché rubando alla scoperto giustifica i ladri che rubano protetti dalla legalità”. 
 
La proprietà non è più un furto è un film teatrale, interpretato da molti attori di teatro, originale come impianto scenico, perché i protagonisti (Bucci, Tognazzi, Orlando, Nicolodi e Scaccia) si presentano al pubblico, ripresi in uno sfondo nero, per narrare la loro visione della vita, aprendo i vari segmenti narrativi. Il capitalista che usa il denaro per fare altro denaro, per soggiogare i poveri, per esibire potere e ricchezza è un esempio di squallore prelevato dalla realtà. Daria Nicolodi che fa l’amore con lui “ferma come una bistecca”, perché è un oggetto, un lusso comprato con il denaro, si mostra come “un insieme di tette, cosce, pancia”, che vive “come un vaso pieno di buchi, aperto come un barattolo di pelati, col cazzo o con le dita…”. Il suo messaggio vorrebbe essere femminista, di ribellione, ma resta confinato nel pessimismo, perché sia lei che Total sono incapaci di sconfiggere il capitalista (il vero ladro). Il film gode di un testo molto letterario: “La proprietà non è un furto, è una malattia… Io vorrei essere e avere..., a volte ispirato a Erich From. Alcune sequenze sembrano citare il poliziottesco e il thriller italiano, così come la colonna sonora di Ennio Morricone a tratti rievoca il cinema di tensione, la suspense tipica del genere. Molte sequenze sono girate in primo piano, le espressioni dei volti sono stralunate, allampanate, grottesche, per sottolineare l’assurdità delle situazioni. La soggettiva viene usata in abbondanza, lo spettatore si trova catapultato nello schermo e vive in presa diretta le situazioni. Da notare che i titoli di testa scorrono su un fondale composto da un quadro di Renzo Vespignani.  


Rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Un disastroso tentativo di apologo grottesco e politico, verboso e inutilmente espressionista che cerca di utilizzare uno stile brechtiano per descrivere a patologia di un disfacimento sociale che si rivela però metafisico e antistorico”. Morando Morandini (due stelle e mezzo per la critica, tre stelle per il pubblico): “Storia di una persecuzione e apologo grottesco in chiave espressionistica - brechtiana sulla nascita della disperazione in seno alla sinistra (Petri), il film segna il passaggio del regista a quella fase catastrofica, apocalittica e quaresimale che sarà accentuata in Todo modo (1976). 
 

Troppo cupo, piuttosto isterico nella constatazione di un fallimento, privo di ironia e di gioia nel gusto della trasgressione. Notevoli la fotografia livida e deformante di Luigi Kuveiler e il concertato dagli interpreti”. Pino Farinotti concede tre stelle ed è in sintonia con la nostra valutazione, senza approfondire l’analisi critica. A nostro parere il film è un dramma brechtiano molto ben costruito, la sua forza sta nel pessimismo cosmico di cui è pervaso, quel che lo fa essere ancora attuale è proprio l’incerta ideologia di cui è intriso, la difficoltà a generare speranze, preferendo una morale cupa e rassegnata. Da rivedere e meditare, senza pregiudizi. 


Gordiano Lupi
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lunedì 21 ottobre 2013

La moglie più bella (1970)


di Damiano Damiani 



Regia: Damiano Damiani. Soggetto: damiano Damiani. Sceneggiatura: Enrico Ribulsi, Sofia Scandurra. Consulente Giuridico: Avv. Ludovico Corrao. Montaggio: Antonio Siciliano. Fotografia. Franco Di Giacomo. Musica: Ennio Morricone. Direzione Musica: Bruno Nicolai. Scenografia: Umberto Turco. Direttore di Produzione: Pasquale Petricca. Produzione: Pac Esplorer Film. Aiuto Regista: Mino Giarda. Genere: Drammatico. Durata: 108’. Interpreti: Ornella Muti, Alessio Orano (doppiato da Michele Gammino), Pierluigi Aprà, Tano Cimarosa, Joe Sentieri, Amerigo Tot, Enzo Andronico, Salvatore Vaccaro, Sandro Arlotta, Diego Morreale, Mariella Palmich, Giuseppe Lauricella, Joceline Munchenbach, Fortunato Arena, Prassede Nogara, Salvatore Moscardini, Gaetano Di Leo, Francesco Tranchina, Franco Marletta.





Damiano Damiani gira un film drammatico, ambientato in una Sicilia governata da mafia e omertà, dove regna l’istituto del matrimonio riparatore e le donne devono sottostare al volere degli uomini. Francesca Cimarosa (Muti), è una bella quindicenne, figlia di contadini, che subisce la corte serrata di Vito Juvara (Orano), giovane boss mafioso. I genitori della ragazza vedono bene il matrimonio, ma la ragazza respinge il fidanzato perché non sopporta di essere trattata come un oggetto. Il boss rapisce Francesca e la sottopone al rito arcaico della fuitina - la fuga d’amore - che si dovrebbe concludere con il matrimonio riparatore dopo la consumazione del rapporto. 


Damiani mette alla berlina una consuetudine arcaica, nel 1970 ancora ben salda in Sicilia, basata sul fatto che la donna disonorata non avrebbe più trovato nessuno disposto a sposarla se non avesse acconsentito alle nozze riparatrici. La tradizione era recepita in toto dal nostro Codice penale, contro il quale regista e sceneggiatori pongono la loro attenzione. Francesca reagisce all’imposizione, esponente di un femminismo ante litteram, denuncia il violentatore ai carabinieri e produce scandalo in paese. Alla fine i genitori cedono al volere della figlia, firmano la denuncia e ne avallano la ricostruzione, convincendo la polizia ad arrestare il boss mafioso. La storia è ispirata alla vicenda reale di Franca Viola, anche se il regista nega, una ragazza che nel 1966 si ribellò alle usanze sicule rifiutando di sposare il suo stupratore. 


La moglie più bella è il primo film interpretato da Romana Rivelli, in arte Ornella Muti, che ha proprio 15 anni come la protagonista, visto che è nata a Roma il 9 marzo 1955. Ornella è la seconda di due sorelle, la prima si chiama Claudia Rivelli e si ricorda come discreta interprete di molti fotoromanzi. La sorella è attrice in un modesto film di Nando Cicero (Due volte giuda, 1968), posa per servizi fotografici e partecipa a sfilate di moda, ma non riesce a sfondare. Claudia è artefice della fortuna della sorella perché la invita a posare insieme a lei per la pubblicità di un negozio romano. Il caso vuole che le sue foto finiscano in mano a Damiano Damiani che la scrittura per La moglie più bella (1970). Altre fonti raccontano la leggenda delle sorelle che si presentano insieme al casting del regista, Romana accompagna Claudia che dovrebbe sostenere il provino, ma Damiani la vede e subito la sceglie. L’idea dello pseudonimo con reminiscenze dannunziane è del regista, anche se la motivazione ufficiale è che esiste un’attrice di nome Luisa Rivelli. 


Damiano Damiani riferisce: “L’ho chiamata Muti perché quando girò con me il primo film non diceva una parola”. Lo pseudonimo pesa sulla giovane attrice come una croce, chiede di essere chiamata con il vero nome, ma ormai tutti la conoscono per Ornella Muti. La giovane attrice interpreta Francesca Cimarosa, non è un’esperienza facile perché viene immersa in un mondo che non conosce, circondata da gente che pretende il massimo. Il film riscuote un successo straordinario al punto di risucchiare la giovane interprete nei meccanismi del cinema. La moglie più bella è una pellicola galeotta, perché Ornella conosce sul set l’affascinante Alessio Orano, idolo delle ragazzine, che rimane stregato dall’attrice, comincia a frequentarla fino a decidere di abbandonare la fidanzata per andare a vivere con lei. Alessio Oramo è il primo uomo di Ornella Muti e il loro rapporto sarà piuttosto tormentato. La decisione di vivere insieme matura durante le riprese del secondo film che interpretano: Il sole nella pelle (1970) di Giorgio Stegani.


Rassegna critica. Paolo Mereghetti (due stelle): Dopo Il giorno della civetta, Damiani analizza i meccanismi dell’omertà e dell’onore dall’interno, mettendo sullo sfondo le forze dell’ordine. Il risultato trova limite nel didascalismo e nei toni gridati, notevole però il lavoro sulle rovine di Gibellina, che parlano più di qualunque denuncia. La quindicenne ed esordiente Muti mostra grande energia, anche se il suo personaggio sembra ricalcato sulla Sandrelli di Sedotta e abbandonata”. 

Morando Morandini (due stelle e mezzo per la critica; tre stelle per il pubblico): “Damiani costruisce un film debole dal punto di vista psicologico dei personaggi, ma coinvolge lo spettatore nel dramma e lo fa riflettere”. Pino Farinotti concede tre stelle ed è il più vicino al nostro giudizio su un film che gode di una grande colonna sonora e di una fotografia sicula perfetta. Girato tra Cinisi, Partinico e Gibellina, resta un grande affresco sulla campagna e sul sottoproletariato agricolo siciliano. Tano Cimarosa recita con il vero nome ed è perfetto come padre tradizionalista, così come Joe Sentieri è un ottimo esponente del sottoproletariato. Bravo anche Alessio Orano che - una tantum - va oltre il bel volto da fotoromanzo. Ornella Muti è una grande scoperta.


Per vedere il film:
http://www.youtube.com/watch?v=nRTaCmRbBpw