venerdì 30 settembre 2011

Chi lavora è perduto (1963)


La Rarovideo (www.rarovideo.com) colma una lacuna importante per la cinematografia d’autore italiana pubblicando in DVD il primo lavoro di fiction di Tinto Brass: Chi lavora è perduto (1963). Consigliamo caldamente l’acquisto. Ben fatto il book a cura di Bruno Di Marino e interessante la colta conversazione cinematografica contenuta negli extra del disco.Un cinefilo come me non può lasciarsi scappare l’occasione di raccontare uno dei più sconosciuti film del regista veneziano, al quale ho dedicato il saggio Tinto Brass, il poeta dell’erotismo (Profondo Rosso, 2011). 


In capo al mondo - Chi lavora è perduto (1963)
Regia e Montaggio: Tinto Brass. Soggetto e Sceneggiatura: Tinto Brass, Franco Arcalli, Giancarlo Fusco. Fotografia: Bruno Barcarol. Musica: Piero Piccioni. Scenografia: Raul Schultz. Costumi: Danilo Donati. Interpreti: Sedy Rebbot, Pascale Audret, Franco Arcalli, Tino Buazzelli, Nando Angelini, Piero Vida.

Tino Buazzelli e l'affascinante Pascale Audret

Sinossi (tratta da www.tintobrass.to) - Bonifacio, un giovane disegnatore appena diplomato, sta per entrare a far parte di una grande industria, ma il lavoro non lo entusiasma affatto. Le sue idee e le sue fantasie lo portano al contrario verso posizioni del tutto anarchiche, anche se due suoi amici sono finiti in manicomio proprio a causa del loro idealismo. Il giovane ribelle, disilluso, vaga senza meta per Venezia, respingendo mentalmente ogni tipo di autorità costituita e il sistema stesso, che dovrebbe inglobarlo. Tinto Brass appare in un breve cammeo. Nelle riprese della voga sono inquadrate le mani di Tinto Brass e parte del corpo, visto da dietro, come controfigura dell’attore. Inoltre appare come paparazzo nella sequenza di Bonifacio B. al Festival del Lido.

Ancora una bella imagine di Pascale Audret

Il primo Tinto Brass non è indicativo dei futuri sviluppi della sua opera, ma fa presagire un talento indiscutibile. Fin dal primo film, un lavoro di montaggio come Ça ira – Il fiume della rivolta (1964), notiamo un regista in contrasto con i movimenti di sinistra e le idee dominanti. Il film esce dopo In capo al mondo - Chi lavora è perduto (1963) per problemi di censura e distribuzione, ma è il primo lavoro di Brass. Il tema polemico è forte: le rivoluzioni sono un bagno di sangue, mentre le promesse di cambiamenti sociali spesso restano incompiute. In capo al mondo - Chi lavora è perduto (1963) è il secondo film realizzato da Tinto Brass, ma il primo a uscire nelle sale e in ogni caso il primo lavoro di pura fiction, vagamente autobiografico. La pellicola entusiasma persino un critico dal palato fine come Paolo Mereghetti, che concede due stelle e mezzo e giudica il lavoro una pernacchia anarcoide (in anticipo sui tempi) all’Italia del boom, funerale dell’ora degli ideali (ricordati dalle immagini di Paisà di Rossellini), celebrazione di una Venezia popolare e di un sano e carnale edonismo. Il film scandalizza censura e critica del tempo, al punto che Brass si vede costretto a cambiare il titolo In capo al mondo con Chi lavora è perduto, ma non taglia neppure una scena e lo fa uscire nelle sale. Secondo Mereghetti è un lavoro che risente debiti di ispirazione con la Nouvelle Vague, sia per la libertà narrativa che per il montaggio frammentato e ricco di soluzioni bizzarre. Il Morandini dice che la censura impone tagli e modifiche, ma in realtà Brass si limita a cambiare titolo, lasciando tutto come prima. Vero che il film è impregnato di bizzarria libertaria, che ricorda Godard e Rossellini.


Le accuse di oscenità sono dure, ma ingiustificate: “Il film, oltre a essere offensivo, del buon costume sessuale, è altamente offensivo di quello morale e sociale, è distruttore di tutti i valori spirituali, è scurrile nel linguaggio”. Giuseppe Marotta nel volume Di riffe o di raffe (Bompiani, 1965) difende In capo al mondo e afferma che nel film non c’è nulla proprio nulla di lesivo. È un’opera singolare, fresca, arguta, nella quale serpeggia, tutt’al più, l’inquietudine, l’insoddisfazione, l’ira innocua, l’ira paziente che oggi spesso accomuna giovani e vecchi. Il protagonista non è né un ribelle né un debosciato, ma soltanto un disorientato, un impaurito che si dà animo deridendo le cose e i fatti.
Il protagonista non è un intellettuale, ma un personaggio che pensa, dotato di senso dell’umorismo e di una forte carica ironica, in guerra contro tutti i principi stabiliti. Ricorda molto Tinto Brass, anche se il regista non ammette una sincera vena autobiografica. In capo al mondo - Chi lavora è perduto ha una buona resa commerciale in Italia, recuperando in poche settimane i quarantacinque milioni di lire spesi per la produzione. Nel film si nota l’amore di Brass per i personaggi marginali, che sarà in primo piano anche nei lavori successivi. Brass detesta le persone potenti che condizionano la vita altrui, forse perché ha dovuto fare i conti con un padre autoritario, al quale era insofferente. Brass detesta le istituzioni, per questo nella sua opera si fa beffe di Chiesa, Stato e gerarchie di ogni tipo.

Pascale Audret e Sedy Rebbot

Chi lavora è perduto è un apologo anarchico sul disagio giovanile. Parte della critica parla di anarchismo umoristico, per classificare la storia di un giovane insofferente verso potere e istituzioni che non riesce a integrarsi nella società. Un vero e proprio sberleffo all’epoca dei miti e degli ideali, ma pure all’Italia del boom, realizzato da un edonista con una visione goliardica della vita. Tinto Brass mette su pellicola le influenze francesi recepite durante l’esperienza parigina, usa il dialetto, esprime la storia secondo un flusso di pensieri non facile da seguire, anche per colpa di un montaggio frammentato ricco di soluzioni bizzarre. Il film vede la collaborazione in qualità di sceneggiatori di Franco Arcalli e Giancarlo Fusco, ma pure dell’ottimo musicista Piero Piccioni. Tra gli interpreti segnaliamo Sady Rebbot, Pascale Audret e Tino Buazzelli. L’ambientazione veneziana inaugura un legame tra Brass e la sua terra che non verrà mai meno e che ancora oggi risulta sempre più solido. Il protagonista (Rebbot) non ha voglia di impiegarsi in un lavoro che non ama e si lascia andare a un flusso di pensieri che ripercorrono episodi della sua vita. Una serie di flashback montati in modo rapido e frammentario raccontano la relazione con una donna (Audret), interrotta dopo un aborto a Ginevra, ma anche l’impegno politico di un amico (Arcalli) che viene rinchiuso in manicomio e di un altro (Buazzelli) che finisce in sanatorio. Il messaggio apolitico è chiaro: non è più tempo per le ideologie, così come non è il caso di illudersi per un finto boom.

Tinto Brass

Alcuni critici hanno cercato di ricondurre al discorso erotico anche la prima parte della produzione cinematografica di Tinto Brass, ma questa impostazione teorica non pare condivisibile. A nostro giudizio la carriera del regista  presenta due momenti abbastanza distinti. Salon Kitty (1975) fa da spartiacque tra il Brass sperimentale che ricerca una pura espressione formale e il regista che mette il sesso al centro della comunicazione. Questo non vuol dire che anche nel primo Brass non siano riscontrabili elementi erotici, spesso preponderanti e in bella evidenza, altre volte relegati in brevi sequenze. L’interesse per l’erotismo in Brass è sempre stato forte, come momento di trasgressione e libertà, ma il suo approccio alla materia si è andato modificando nel corso degli anni. Chi lavora è perduto presenta riferimenti erotici nei dialoghi, nei sogni, in alcune scene d’amore, ma anche nei momenti surreali con il protagonista che immagina di trasformare la casa paterna in un bordello. Non mancano accenni di voyeurismo, che Brass approfondirà nella fase matura, come ragazze in biancheria intima, seni nudi, rapporti sulla spiaggia, su un campanile e in casa. Ricordiamo anche la donna spiata con un cannocchiale mentre si pettina. 

Il mio libro su Tinto Brass

I momenti più interessanti del film sono i flashback del protagonista, l’uso del colore in poche sequenze per sottolineare un funerale comunista e il rosso delle bandiere, il rapporto uomo - donna visto con realismo e spirito trasgressivo, le divagazioni oniriche e un suggestivo bianco e nero che valorizza la fotografia veneziana. Il protagonista è un uomo che vuole sfuggire all’omologazione, non vuole integrarsi e diventare come tutti gli altri, odia le convenzioni borghesi, anche se comprende che “il mondo non è dei mona ma di chi sa adattarsi”. Ottima la colonna sonora di Piero Piccioni che presenta brani di Rita Pavone e altri pezzi  alla moda. Molte le frasi che si ricordano: “L’amore viene e va, come i vaporetti!”, “Ci vogliono fatti così, in modo tale che tu non sei tu e io non sono io”, “La fine di un orrore è meglio che un orrore senza fine” (riferita a un amore concluso). Geniale il finale con un Gesù onirico che parla veneziano e la scritta Il lavoro rende liberi per citare i campi di concentramento nazisti. Interessanti gli elementi erotici, le scene riprese sul mare e molti elementi presenti in nuce che si svilupperanno nella successiva  filmografia di Brass. Possiamo dire che Chi lavora è perduto rappresenta il laboratorio sperimentale dal quale il regista attingerà materiale per i lavori futuri. 

Tino Buazzelli e - sullo sfondo - un rapporto erotico tra Pascale Audret e Sedy Rebbot

Per acquistare il DVD:

Tinto Brass
Chi lavora è perduto
A cura di Bruno Di Marino
Gianluca e Stefano Curti editori – RAROVIDEO

Per vedere alcune sequenze: http://www.youtube.com/watch?v=6Y7tSC9381Y

giovedì 29 settembre 2011

Un buon libro sul cinema di George A. Romero

Francesca Lenzi
Zombi! - George A. Romero e il cinema dei morti viventi
Profondo Rosso - Pag. 330 – Euro 25,00


Profondo Rosso è una casa editrice romana benemerita per gli amanti del cinema di genere, così com’è importante la rivista milanese Nocturno, che da anni studia e storicizza generi considerati di serie B come l’horror e il cinema sexy. In questo libro di Francesca Lenzi si incontrano le due scuole di pensiero, perché l’introduzione è firmata da Manlio Gomarasca e Davide Pulici - ideatori di Nocturno - che danno il loro benestare a un lavoro colto e al tempo stesso popolare.
Il filone zombie esiste sin dalle origini del cinema horror (Ho camminato con uno zombie, 1943 di Jacques Tourneur) ma è stato riportato in auge dai film di Romero (La notte dei morti viventi, 1968 e Zombi, 1978). “Il cinema dell’orrore moderno deve tutto a George Romero e al mitico La notte dei morti viventi, perché grazie a lui abbiamo avuto gli zombi cinematografici, completamente diversi dalla tradizione haitiana. Gli zombi di Romero siamo noi stessi che risorgiamo dalla tomba spinta dalla brama di uccidere, senza cattiveria ma perché è la nostra sorte. La lotta contro gli zombi è destinata alla sconfitta, perché è come scontrarsi contro una visione orribile di noi stessi”, dicono gli illustri prefatori. Ed è vero. Romero ha dato il via a un sottogenere horror che nel cinema italiano ha avuto fortuna, pur non producendo opere eccellenti, ma originali divagazioni nel campo dei cannibal movies. Diciamo la verità, i film sugli zombi sono molto prevedibili, la sola cosa che tiene desta l’attenzione è l’effetto splatter ripetitivo che finisce per annoiare. Tra i film italiani salverei soltanto Zombi 2 (1979) di Lucio Fulci e poche altre cose che imitano più o meno spudoratamente i capolavori di Romero. In Italia i primi film che parlano di zombi risalgono agli anni Sessanta e attraversano vari generi (Ercole al centro della terra, 1961 e Terrore nello spazio - 1965 - entrambi di Mario Bava), ma un vero filone zombi comincia da Lucio Fulci con Zombi 2 (1979) e prosegue con opere meno convincenti firmate da Joe D’Amato (Emanuelle e gli ultimi cannibali, Frankenstein - Ritorno dalla morte…), Umberto Lenzi (Incubo nella città contaminata) e Pupi Avati (Zeder). I film sugli zombi sono dedicati a un pubblico di adolescenti, come gli slasher movies, anche se alcuni critici danno una valutazione politica al genere, individuando nei morti viventi i proletari che si ribellano al capitalismo. Persino il cinema cubano si è adeguato alla moda degli zombi con il giovane regista Alejandro Brugués, che nel 2011 ha girato Juan de los muertos, in chiave di commedia e di satira politica, attualizzando il messaggio di Romero.
Francesca Lenzi affronta il tema del cinema Di George A. Romero con semplicità e rigore filologico, inquadrando il regista come un pilastro dell’horror internazionale, un innovatore del genere, un creatore di nuove mode e miti giovanili. Francesca Lenzi si è laureata in storia del cinema con una tesi su Dario Argento, approfondendo il film Suspiria (diventato il suo primo libro per Profondo Rosso), successivamente ha pubblicato una monografia su Rob Zombie (Il Foglio) e adesso dà alle stampe un testo dedicato alle creature affascinanti di un regista che ha condizionato l’immaginario horror di tutti noi. Il libro è completo: origine ed evoluzione degli zombi, i film di Romero, i remake contemporanei (Zack Snyder) - a volte persino comici (L’alba dei morti dementi di Edward Wright) -, i lavori minori realizzati dai continuatori della saga e da chi prima di Romero ha cercato di realizzare una versione del mito haitiano. Francesca Lenzi è molto precisa, quasi pignola nell’esposizione, realizza un’opera rigorosa che mancava nel panorama editoriale. Tutti i film sono corredati da sinossi, commento, schede analitiche, illustrati da foto di scena e disegni originali dell’autrice che è anche un’ottima illustratrice.

Gordiano Lupi

martedì 27 settembre 2011

Laura Gemser e le stelle sexy degli anni Settanta



Gordiano Lupi - Laura Gemser e le altre
Le regine del cinema sexy degli anni Settanta
Profondo Rosso – Pag. 250 – Euro 25,00

Terzo capitolo di un viaggio nella bellezza di un cinema che non può tornare, nei ricordi di un’adolescenza sconvolta da presenze conturbanti, da volti di attrici che imperversavano sul grande schermo e nelle fantasie dei ragazzini. Eravamo così noi quattordicenni degli anni Settanta, disposti a fare carte false pur di vedere un film vitatissimo come Salon Kitty, interpretato dalla bellezza selvaggia e sensuale di Thérèse-Ann Savoy. Ricordo ancora la paura di essere scoperto al botteghino del Teatro Metropolitan e di non venire ammesso al cinema, come rammento i sogni erotici che mi portavano a rivedere nella memoria le scene più calde. La Savoy che cammina a quattro zampe davanti a Helmut Berger, la torrida scena di sesso finale, l’amore con il pilota nel bagno di una stazione. Non era così facile vedere una donna nuda a quattordici anni e allora avevamo il cinema, questo tipo di cinema che dava l’illusione di poter sognare accanto alla bella attrice del momento. E ti innamoravi di Michela Miti che impersonava una Biancaneve sporcacciona degna del miglior fumetto porno, stravedevi per la biondissima Daniela Poggi e per il seno stupendo di Anna Maria Rizzoli, ti perdevi dietro alle forme abbondanti di Carmen Russo. Lasciatemi dire che era un cinema poetico fatto di piccole cose, un cinema che ti portava per mano alla scoperta dell’erotismo e del corpo femminile, che ti sconvolgeva tra calze a rete calate e ragazzine che salivano su scale ammiccanti, servette che si facevano tastare il sedere da padroni maiali e adolescenti in calore che spiavano nudità stupende dal buco della serratura. Tra i miei amori cinematografici degli anni Settanta, è davvero indimenticabile la bellezza esotica di Laura Gemser, una delle protagoniste di questo libro. Tutti noi abbiamo straveduto per Emanuelle, forse più per lei che per l’originale francese con due emme interpretato da Sylvia Kristel. I suoi viaggi per il mondo erano il nostro unico modo di viaggiare, di sognare posti sconosciuti, di vedere la Thailandia, l’Africa, Santo Domingo e l’America. Oggi che tutto sembra così facile e i paesi all’altro capo del mondo sono raggiungibili con un semplice volo di aereo, pare quasi impossibile, ma c’è stato un tempo che non era così e certi sogni esotici li dispensava soltanto il cinema. Gli amori saffici di Emanuelle, le trasgressioni da fotografa dell’amore, i tanti incontri a base di sesso sfrenato, sono stati parte della nostra adolescenza e ancora adesso resta il ricordo indelebile di lussuriosi corpi femminili che scomparivano al risveglio. Era l’Italia sconvolta dalle battaglie femministe, un mondo che faceva apparire come una colpa la bellezza femminile, ma era anche l’Italia democristiana e baciapile dei censori bacchettoni ed era pure l’Italia della prima rivoluzione sessuale. Una donna doveva essere apprezzata solo per quello che aveva in testa, dicevano le guerrigliere acide del post Sessantotto. Le nostre attrici preferite erano aborrite e contestate da queste donne che rifiutavano la femminilità e che volevano vestire con jeans strappati e maglioni cadenti. Per reazione noi ragazzini di quei tempi ci rifugiavamo tra le calde membra immaginarie di Ria De Simone, nel seno piccolo e ben fatto di Zigi Zenger, tra le forme acerbe di Ely Galleani e Cinzia Monreale. E allora questo nuovo volume parlerà proprio di loro, delle altre stelle di un panorama quasi infinito, di un sogno interminabile di tanti anni fa. Il cinema degli anni Settanta che si spinge a contaminare i primi anni Ottanta per poi morire di televisione, come un triste destino. Diamo il ciack iniziale e lasciamole sfilare, come modelle immaginarie della nostra memoria, perché questa volta tocca proprio a loro. Vi lascio in compagnia di: Laura Gemser, Thérèse-Ann Savoy, Michela Miti, Daniela Poggi, Zigi Zanger, Anna Maria Rizzoli, Carmen Russo, Franca Gonella, Ely Galleani, Cinzia Monreale, Ria De Simone, Simonetta Stefanelli, Karin Schubert, Paola Senatore, Sonia Viviani, Martine Brochard e Dada Gallotti.

Gordiano Lupi

domenica 25 settembre 2011

Breve Storia del Cinema Italiano - 11

Undicesima Puntata
Federico Fellini (1920 - 1993)


Federico Fellini è il più celebre regista italiano e come tale non è inquadrabile in un genere ben definito, anche se la prima parte della sua produzione risente dell’influenza neorealista. Fellini è un poeta visionario, gira film onirici difficili da catalogare e fa dell’autobiografismo la sua cifra stilistica più marcata. Nasce a Rimini in una famiglia piccolo - borghese e manifesta presto una voglia di fuga verso la capitale che è ben esposta ne I Vitelloni (1953), ritratto veritiero della vita in provincia attraverso le giornate di cinque fannulloni che inventano il quotidiano. L’inverno a Rimini è soltanto noia e rimpianto del tempo perduto, tra amici che si sposano, scappatelle, aspirazioni frustrate, sogni infranti.


Fellini si trasferisce a Roma, fa il disegnatore umoristico in riviste come Marc’Aurelio, comincia a lavorare alla radio e come sceneggiatore cinematografico. Nel 1943 sposa Giulietta Masina, conosciuta alla radio, vende disegni umoristici per campare, fino a quando Roberto Rossellini lo chiama per collaborare a Roma città aperta. Il regista più importante del neorealismo instaura con il giovane Fellini un rapporto fruttuoso, lo vuole accanto anche per Paisà, L’amore (scrive l’episodio Il miracolo) e Francesco giullare di Dio. Fellini scrive sceneggiature anche per altri registi come Lattuada, Germi e Comencini, ma è solo nel 1950 che dirige il primo film in collaborazione con Alberto Lattuada. Si tratta di Luci del varietà, racconto di illusioni e delusioni di un capocomico di una piccola compagnia di avanspettacolo.


Il primo film di Fellini con autonoma responsabilità di regia è Lo sceicco bianco (1952), interpretato da un giovanissimo Alberto Sordi che caratterizza un meschino divo dei fotoromanzi.


Abbiamo già accennato al grande successo de I vitelloni (1953), affresco generazionale su un gruppo di giovani che vivono in provincia, non vogliono diventare uomini e sognano la fuga. I primi film di Fellini sono atipici, si possono inserire nel neorealismo solo facendo delle forzature, pure se il regista è un ideologo del neorealismo, autore di soggetti, sceneggiature dialettali (Campo de’ fiori) e collaboratore di Rossellini.


Un altro lavoro importante è La strada (1954), favola commovente interpretata da Giulietta Masina, umile e ingenua donna innamorata che cerca di rendere migliore il rozzo Zampanò insieme a un assurdo personaggio chiamato Il Matto. I protagonisti sono tre attori girovaghi come Gelsomina (il sentimento e l’ingenua dolcezza), Zampanò (la forza bruta, la violenza, la bestialità) e Il Matto (la follia che diventa saggezza). Gelsomina vuole cambiare Zampanò e farlo diventare un uomo capace di provare sentimenti. La fantasia di Gelsomina incontra la follia del Matto che le fa capire come deve agire, ma l’unione dei due elementi fa scaturire la tragedia. Zampanò uccide Il Matto con un atto bestiale compiuto davanti a Gelsomina che impazzisce, subito dopo scappa via e abbandona la donna al suo destino. Passano gli anni, Zampanò viene a sapere che Gelsomina è morta e subito si verifica un cambiamento impensabile. La bestia si mette a piangere in riva al mare in compagnia della sua solitudine e comprende di aver perduto l’unica persona importante della sua vita. Anthony Quinn presta il suo volto truce per la caratterizzazione del forzuto Zampanò, Nino Rota compone una strabiliante colonna sonora, Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano collaborano alla sceneggiatura. Fellini realizza un’opera poetica che vince l’Oscar come miglior film straniero e il Leone d’Argento a Venezia.


Il bidone (1955) racconta le imprese di un gruppo di truffatori, ma soprattutto di Augusto che vorrebbe cambiare vita ma non ci riesce, alla fine cade in un giro peggiore e non scampa alla propria sorte. Il film contiene tutti i temi autobiografici cari a Fellini: i vitelloni, la provincia, la strada, il fatalismo, tanta introspezione dolorosa e una religiosità di fondo.


Amore in città (1953) è un film sperimentale a episodi, scritto da Cesare Zavattini, nel quale Fellini si segnala per il surreale Agenzia matrimoniale che racconta la storia di una donna che sposa un licantropo.


Le notti di Cabiria (1957) è la storia di una prostituta ingenua e dal cuore d’oro (Giulietta Masina) che pensa di poter cambiare vita sposando uno sconosciuto. Vince l’Oscar per il miglior film straniero e la Palma d’Oro a Cannes, anche per le mirabili interpretazioni di Giulietta Masina e Amedeo Nazzari. Fellini costruisce un film ironico e tragico ambientato nelle borgate romane, aiutato da Brunello Rondi e Pier Paolo Pasolini per i dialoghi, una sorta di apologo sulla grazia e sulla redenzione, ma soprattutto sulla durezza della vita. Il capolavoro registico sta nell’aver saputo mettere la maschera ingenua e clownesca di Giulietta Masina a confronto con le brutture e le nefandezze della vita.  Fino a questo film possiamo dire che Federico Fellini è influenzato da echi di neorealismo, anche se porta avanti una poetica personale legata alla caduta delle illusioni.

Mastroiani - Ekberg nella scena simbolo de La dolce vita

La dolce vita (1960) racconta le gesta del giornalista Marcello Rubini (Mastroianni) che ha abbandonato ogni ambizione letteraria e adesso vaga per via Veneto a caccia di emozioni. Gli sceneggiatori Tullio Pinelli, Brunello Rondi, Ennio Flaiano e Federico Fellini descrivono incontri erotici, orge e folli avventure. Il film è un viaggio nella notte romana, all’interno di una società corrotta dove crollano miti, valori e convenzioni. La dolce vita è una pietra miliare della carriera di Fellini ma anche della storia del cinema, perché rompe con un vecchio modo di fare cinema. Marcello Mastroianni diventa l’alter ego di Fellini che attraverso le parole dell’attore esprime la sua analisi del mondo. La pellicola suscita enorme scandalo, sia per la famosa scena del bagno nella Fontana di Trevi della affascinante Anita Ekberg, sia per l’orgia finale con spogliarello, sia per alcune scene di amori extraconiugali. Oscar Luigi Scalfaro scrive due articoli come Basta! e La sconcia vita per mettere all’indice il film su L’Osservatore Romano, proprio mentre in parlamento si discute sulla moralità dell’opera. La dolce vita è un film epocale anche perché resta come frase popolare del gergo quotidiano insieme a vitelloni, paparazzi e bidone.


Otto e mezzo (1963) vede Mastroianni nei panni di Guido, regista in crisi di ispirazione, ancora una volta alter ego di Fellini, per un nuovo film autobiografico e fantastico scritto da Flaiano, Pinelli, Rondi, con la collaborazione del regista. La stupenda colonna sonora di Nino Rota resta nella storia del cinema ed è un motivetto suadente che spesso riecheggia nella memoria. “Chi ha detto che si viene al mondo per essere felici?” resta una delle domande più inquietanti del film alla quale nessuno sa dare risposta. Otto e mezzo è un capolavoro che vince due Oscar e la cosa più assurda del film resta il titolo che indica il numero di regie realizzate da Fellini.


Giulietta degli spiriti (1965) è il primo film a colori di Fellini e affronta il tema della distruzione delle certezze di un’esistenza. Una signora borghese, tradita dal marito, va in crisi, anche per colpa di un’educazione cattolica che la condiziona e le fa vivere visioni angosciose. La soluzione finale sarà la solitudine, non servono sesso, psicanalisi e rimedi esoterici.


Satyricon (1969) si ispira all’opera di Petronio Arbitro è una Dolce vita ai tempi dell’antica Roma che racconta l’educazione sentimentale di Encolpio e Ascilto. Il regista filma un delirio onirico di amore e morte in una Roma imperiale fatta di cene infinite, sesso, assassini, minotauri ed ermafroditi.


I clowns (1970) è un film insolito tra la parodia del documentario e l’omaggio al circo, ancora una volta autobiografico, soprattutto nel raccontare l’amore per il circo.


Roma (1972) è la scoperta della città eterna con gli occhi del provinciale, un documentario autobiografico, visionario, lirico e nostalgico.


 Amarcord (1974)  è un’autobiografia lirica, il film più poetico di Fellini, un punto di arrivo difficile da superare, dopo questo film la carriera del regista registra una parabola discendente. Fellini scrive Amarcord insieme a Tonino Guerra, ripensa alle proprie origini e mette in scena i ricordi della Romagna al tempo del fascismo in una struggente saga da strapaese. Il film miscela bene amore, odio e nostalgia, rilegge il passato fascista in maniera acuta e interessante, mostra la mediocrità del regime ma anche del popolo che l’ha accettato. Vediamo i fascisti con l’olio di ricino, ma anche i maschi che insidiano donne, inventano balle e fanno scherzi feroci. Le musiche sono di Nino Rota e contribuiscono a dare valore a una pellicola che guadagna l’Oscar come miglior film straniero.


Nell’ultimo periodo della carriera di Fellini ricordiamo l’atipico E la nave va (1973), che non ha niente di autobiografico ma resta un film prezioso per la cura della confezione scenografica.


Il Casanova di Federico Fellini (1976) esprime sin dal titolo che non si tratta della solita storia su Casanova, ma una rilettura in chiave onirica e fantastica tipica del regista. Fellini compie un viaggio surreale nei più strani corpi femminili e ironizza su un Casanova che sogna una donna automa e vorrebbe essere ammirato più come poeta che come amante. La storia dell’ascesa e della decadenza di un grande seduttore è scandita dalle poesie di Andrea Zanzotto e di Tonino Guerra.


Prova d’orchestra (1979) è il ritratto graffiante di un’Italia sospesa tra vecchio e nuovo, punta il dito contro il sindacalismo e la difesa dei particolarismi.


Ginger e Fred (1983) è un attacco allo strapotere televisivo ma è anche un ricordo del tempo passato e una ricognizione lucida della società contemporanea.


Intervista (1987) è un lavoro autocelebrativo con Fellini intervistato a Cinecittà che ricorda un modo di fare cinema finito per sempre.


La voce della luna (1990) è un film geniale e bizzarro interpretato da Roberto Benigni e Paolo Villaggio, due folli individui che vogliono catturare la luna. La voce della luna è l’ultimo film del regista che riporta alle atmosfere oniriche di Amarcord e vuole essere una critica feroce all’Italia berlusconiana. Federico Fellini è un autore fondamentale e atipico del cinema italiano, sinonimo di regista geniale, simbolo di fantasia, leggerezza, umorismo, sentimentalismo, ironia graffiante e grande originalità.


Per approfondire consiglio il mio FEDERICO FELLINI, edito da MEDIANE - http://www.infol.it/lupi/Pubblicazioni_Fellini.htm

sabato 24 settembre 2011

Il mio horror italiano sul Corriere Nazionale


Il Corriere Nazionale - Marisa Cecchetti - Giugno 2011

Leggere Tutti su Storia Horror

Leggere Tutti - Agosto 2011

Vogliamo i colonnelli (1973)

Cronaca di un colpo di Stato
di Mario Monicelli


Regia di Mario Monicelli. Soggetto e Sceneggiatura: Age (Agenore Incrocci), Furio Scarpelli, Mario Monicelli. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Musiche: Carlo Rustichelli. Fotografia: Alberto Spagnoli. Produttori: Pio Angeletti e Adriano De Micheli. Interpreti: Ugo Tognazzi, Carla Tatò, Duilio Del Prete, Antonino Faà di Bruno, Giancarlo Fusco, Giuseppe Maffioli, Camillo Milli, François Périer, Pino Zac, Lino Puglisi, Claude Dauphin, Pietro Tordi, Vincenzo Falanga e Luciano Catenacci.


Mario Monicelli si dedica alla satira politica, superficiale quanto si vuole e a tratti ai limiti della farsa, ma ispirata a eventi reali e decisamente critica verso il sistema di potere democristiano.


Ugo Tognazzi è l’onorevole Giuseppe Tritoni, ex generale dell’esercito, nostalgico fascista eletto nel collegio di Livorno, che abbandona il partito e si mette a capo di una banda di cialtroni decisi a compiere un colpo di Stato per restaurare ordine e disciplina. La scintilla che spinge a muoversi i gruppi eversivi è un attentato a Milano, eseguito da un gruppo di estrema sinistra, che vede come bersaglio il Duomo e la statua della Madonnina. Tognazzi è bravissimo, recita in livornese come se fosse toscano, confonde il vernacolo fiorentino con quello della provincia labronica, ma non è un problema. Perfetta la sua interpretazione da capo golpista tutto d’un pezzo, grande scopatore e combattente coraggioso che deve portare la croce di un figlio studioso e poco incline alla lotta. Il film è condotto come se fosse un reportage giornalistico, procede per immagini sotto forma di diario degli eventi e analizza i fatti con lo stile di un documentario politico.

Carla Tatò

Carla Tatò è un’ottima attrice di teatro, alla seconda prova cinematografica dopo Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio, che nel film ha un ruolo sexy molto interessante. È Marcella Bassi Lega, figlia di un generale che muore d’infarto perché la scopre a far l’amore con Tritoni, è l’amante per niente fedele del capo golpista. La castigata parte erotica della pellicola è nelle sue mani, perché spesso la vediamo in atteggiamenti intimi con l’amante di turno. Molto suggestivo un valzer lento sulle note di Vecchio scarpone di Gino Latilla. ballato dalla Tatò e da Tognazzi dopo l’ennesimo tradimento. La figlia del generale è un’amante focosa, ma ha il difetto non da poco di darla via con grande facilità e di far l’amore nei luoghi più impensati.


Monicelli fa satira graffiante sulla situazione politica italiana e immagina un gruppo di nostalgici fascisti che vogliono riprendere il potere. Non era difficile, perché nel nostro paese c’erano stati il tentato golpe De Lorenzo (1969) e il comico progetto eversivo del principe Junio Valerio Borghese (1970). Il regista e gli sceneggiatori utilizzano resoconti di stampa (soprattutto L’Espresso) per costruire nei dettagli più ridicoli il tentato golpe neofascista. Tritoni recluta generali in pensione, giovani arditi, persone di destra e qualunquisti, preparati a base di vecchi discorsi del duce e addestrati alla dottrina della disuguaglianza. “Soltanto i coglioni sono uguali!”, “Dobbiamo distruggere un mostro chiamato democrazia!”, grida Tognazzi al colmo dell’euforia.


Il programma di governo è retrogrado e populista, alla base di tutto ci sono ordine e disciplina, ma anche ordine e potere. Per questo il piano eversivo prende il nome di Orpo, che è una sigla ma pure un’imprecazione popolare.  Slogan fascisti inneggiano ai colonnelli, perché il riferimento temporale più vicino è il golpe militare in Grecia che portò al potere l’estrema destra. Il ridicolo colpo di Stato prende il via dal Piano Volpe Nera, prevede un attacco alla Rai, agli obiettivi strategici e alla residenza del Presidente della Repubblica. Il motto dei cialtroni non può che guardare indietro: “C’è un grande passato nel nostro futuro”, dicono. Alcuni generali rimbambiti lo dicono al contrario e provocano l’effetto comico.

  Il grande Mario Monicelli

Le truppe golpiste sbarcano e commettono errori su errori: i paracaduti finiscono in una stalla, alcuni militi si perdono nel buio dello Stadio Flaminio e catturano il custode, un commando giunge alla Rai quando i programmi sono finiti ed è inutile trasmettere comunicati perché i televisori sono spenti. La polizia arresta tutti e fa irruzione nella residenza del Presidente della Repubblica fermando definitivamente il commendo golpista. L’onorevole Tritoni viene arrestato a casa della sua donna, nascosto sotto il letto, ma non può sostenere che ha passato la notte con lei, perché dall’armadio esce un amante.

Un tentativo di golpe cialtrone condotto in Spagna dal generale Tejero

Un golpe pagliacciata finisce nel nulla, ma il Ministro degli Interni (Lino Puglisi) ne approfitta per dare una sterzata eversiva al paese. La vera satira politica di Monicelli è tutta nel finale amaro, tipico della sua poetica senza speranza. I golpisti nostalgici servono come giustificazione al potere democristiano per stringere i freni e invocare misure eccezionali per riportare l’ordine. Il Presidente della Repubblica muore d’infarto (come accadde ad Antonio Segni nel 1964) e lascia il posto a un governo di transizione voluto dalla grande destra che arriva a proibire le riunioni al bar come adunate sediziose e a limitare il diritto di sciopero. Tognazzi finisce a tentare di vendere il suo progetto eversivo a due esponenti di destra di un giovane Stato africano. Non ci riuscirà.


Il film è girato a Roma e negli studi di Cinecittà. Aiuto regista è un nome che sarà importante nella nuova commedia all’italiana: Carlo Vanzina. Tra gli attori ricordiamo Camillo Milli, caratterista interessante della commedia sexy, utilizzato nei panni dello stratega di un piano che fallisce su tutta la linea. Il disegnatore satirico Pino Zac (lo ricordiamo ne Il Male) è un pararazzo che fotografa i golpisti, li denuncia, ma non viene creduto dal ministro e in compenso prende un sacco di botte dai fascisti. Lo scrittore Giancarlo Fusco è il golpista sardo Gavino Furas, mentre Antonino di Faà di Bruno è un generale piemontese in pensione. Duilio Del Prete è un Monsignor Sartorello che non disdegna le belle donne.


Vogliamo i colonnelli è un lavoro di fantapolitica, ispirato alla realtà italiana, critico, farsesco, ironico, ancora divertente e utile come documento per capire un periodo difficile della nostra storia costituzionale.

Per vedere buona parte del film: http://www.youtube.com/watch?v=YaNC38BIl18

Gordiano Lupi

venerdì 23 settembre 2011

LIberal parla del mio libro sull'Horror Italiano

Ho un libro negli States e non lo sapevo...


Il cinema di Luigi Cozzi (detto Lewis Coates anche in Italia, per via dello pseudonimo usato) circola negli States. Dopo il libro su Federico Fellini (Mediane), un mio nuovo titolo tradotto!

Il Mattino di Foggia parla di Unfacebook

Il Mattino di Foggia - edizione 22/9/11

L'ultimo Dario Argento

Giallo e Dracula 3D


Giallo (2010) è l’ultimo lavoro di Dario Argento, anche se non è un vero e proprio horror, ma rientra nel genere thriller truculento che va così di moda. Molti critici ne parlano come di un’opera interessante anche se non del tutto riuscita, altri di un fiasco colossale. Davide Pulici su Nocturno Cinema fa notare: “Giallo non è uno strazio vederlo. Adrien Body è simpatico nella parte di un commissario nevrotico e tabagista, un newyorkese capitato non si sa come alla questura di Torino”. Il film è prodotto dalla Film Commission di Torino, sembra uno spot turistico della città piemontese, non ha grande atmosfera, la fotografia è un pretesto per ritrarre scorci torinesi, ma la colonna sonora è intensa. Il giallo del titolo svela il finale, perché è il colore della pelle del killer e non si tratta di un cinese come si potrebbe pensare, ma di un uomo malato di itterizia. Il killer è un tassista che carica le vittime, le porta in un gasdotto abbandonato e le fa a pezzi. Macelleria tipo Hostel (2005 - 2007) di Eli Roth, come da copione per un horror contemporaneo che si basa sulla rappresentazione della violenza. Argento esibisce in rapida sequenza corpi fatti a pezzi, ma non risparmia amputazioni di labbra, dita e altre parti anatomiche. Brody nei panni del poliziotto funziona, Emmanuelle Seigner non è il massimo, Elsa Pataki è convincente. Il serial killer è abbastanza ridicolo con la sua faccia gialla.


Davide Pulici aggiunge che “le musiche sono pessime, ma soprattutto è netta la sensazione che Dario Argento stia facendo Dario Argento per programma, senza crederci, senza provare emozioni”. Non condividiamo il giudizio negativo sulle musiche che ci sembrano una delle cose migliori della pellicola. Giallo è costellato di momenti splatter, dettagli di carneficine, viscere esibite, tutto secondo la ricetta dell’ultimo Dario Argento reduce dai Masters of Horror. Argento ha cominciato a girare Giallo nel maggio 2008 a Torino, città magica per Argento che vi ha ambientato il mitico Profondo Rosso.


Nel 2009 il film è stato presentato a numerosi festival internazionali facendo registrare un buon interesse critico. A luglio 2011 finalmente è arrivato sul grande schermo, dopo essere uscito in dvd. Vediamo una breve scheda tecnica. Soggetto e Sceneggiatura: Jim Agnew, Sean Keller e Dario Argento. Scenografie: Davide Bassan. Musiche: Marco Werba. Aiuto regista. Roy Bava. Effetti Speciali: Sergio Stivaletti. Fotografia: Frederic Fasano. Interpreti: Adrien Brody, Emanuelle Seigner, Elsa Pataky.


Molto esaustiva la sinossi pubblicata sul sito ufficiale del regista. “Giallo sceglie le sue vittime in base alla loro bellezza, perché lui non è bello. Schernito e deriso nell’orfanotrofio in cui era stato rinchiuso da piccolo, ora prova piacere nel rapire donne bellissime e nel torturarle. Le sottopone a indicibili sevizie, lasciandole a lungo agonizzanti, fino a quando non è completamente appagato. Poi le uccide brutalmente e si disfa dei loro corpi. Giallo è una macchina di morte di incredibile efficienza; sa sempre con esattezza quando e come colpire; e sa, con precisione, quale sarà la sua vittima successiva. È molto scaltro e intelligente, individuando le sue prede soprattutto fra le turiste. L’ultima è una studentessa asiatica, che ha appena rapito e tiene prigioniera nel suo sordido nascondiglio. Ma ha già individuato anche la prossima: una splendida fotomodella di nome Celine (Elsa Pataky). Intanto Linda (Emmanuelle Seigner), sua sorella, è appena giunta a Torino ed è molto preoccupata perché Celine non dà più sue notizie. Decide di rivolgersi alla polizia che affida il caso all’Ispettore Enzo Avolfi, personaggio piuttosto schivo e che non gode di grande stima fra i suoi colleghi. Le caratteristiche del caso lo inducono a concentrare la sua attenzione su un pericoloso serial-killer, soprannominato Giallo, ancora in libertà. Fra Enzo e Linda si crea un vero e proprio affiatamento e le indagini procedono in collaborazione. Intanto viene rinvenuto il corpo privo di vita della giovane studentessa asiatica. L’Ispettore Avolfi, che conosce bene la psicologia di quel serial-killer, è certo che, se non riuscirà a fermare Giallo, la prossima vittima sarà proprio Celine…"


Gianni Rondolino su La Stampa del 4 luglio 2011 scrive: “Giallo è un film che rientra, a pieno titolo, tanto nello stile quanto nella poetica del regista: sia per il soggetto affrontato, il tema di fondo, i personaggi tratteggiati; ma sia soprattutto per la costruzione drammatica e spettacolare di una storia che fin dall’inizio prende alla gola lo spettatore”. Condividiamo l’opinione del critico. La tensione emotiva è importante e nel film di Argento è ai massimi livelli sin dalle prime inquadrature, mentre la storia non solo lascia a desiderare, ma rischia di rovinare la suspense. Gianni Rondolino sostiene che “Dario Argento supera la crisi espressiva che aveva caratterizzato i film diretti nel corso dell’ultimo decennio, anche se si confronta ancora una volta con una trama banale”. Verissimo. La situazione poliziesca è ripetitiva, gli omicidi efferati si assomigliano tutti, la storia è scontata, la sceneggiatura è debole, ma l’attrazione per questa pellicola deriva dalla grande tensione che sorregge la struttura filmica. Dario Argento è un grande autore che mostra rigore formale nelle riprese e conferma di possedere uno stile teso e raffinato, capace di trasformare il banale in eccezionale, il già visto in qualcosa di nuovo e appassionante. Non è impresa facile ed è la cifra stilistica che valorizza un film di per sé modesto.


L’ultima opera di Dario Argento è la più attesa, ma non l'abbiamo ancora vista, perché mentre scriviamo queste note è in fase di post-produzione. Si tratta di Dracula 3D, il primo esperimento di horror italiano in tre dimensioni, girato nel 2011 nelle campagne di Biella, fingendo che fossero la Transilvania. Tutti dicono che sarà il film della rinascita, persino Davide Pulici e Manlio Gomarasca, che ultimamente non sono stati teneri con Dario Argento. Il regista romano si occupa di vampiri per la prima volta, dopo aver recitato un cammeo in Amore all’ultimo morso (1992) di John Landis, pure se in quel film non interpretava un revenant.


Dracula 3D di Dario Argento, scritto e sceneggiato dal bravo Antonio Tentori e dal fumettista Stefano Piani, ripercorre fedelmente la storia originale di Bram Stoker, concedendosi poche divagazioni. Dario Argento e il produttore spagnolo Enrique Cerezo (presidente dell’Atletico Madrid) hanno collaborato alla scrittura senza essere troppo invadenti. Il film verrà presentato al Los Angeles Film Market e lo vedremo in tutti i cinema italiani a partire da gennaio 2012.


Gli appassionati possono attingere informazioni sul sito dedicato: www.dracula3d.it, insolitamente ricco di notizie, backstage e interviste. Il regista ha fatto pubblicare persino la sinossi del film dalla prima scena all’ultima, sempre che sia quella vera. La storia entra subito nel vivo con il massacro di una ragazza da parte di una misteriosa entità, ma è soltanto il primo di una lunga serie di omicidi. La vicenda si svolge al castello di Dracula, dove il libraio Jonathan Harker è stato invitato per sistemare la biblioteca del conte, ma in agguato abbiamo la giovane Mirna (amante del vampiro) che vuole morderlo sul collo.


Argento afferma: “Il mio Dracula è diverso da quello di Coppola. Dracula è il principe delle tenebre, il maestro delle follie sanguinarie, il massimo dell’orrore. Ho amato tutti i film su Dracula che sono stati prodotti, dai tempi del muto sino a oggi, e proprio per questo ho voluto fare una cosa originale, sanguinaria ma pure sentimentale. Il mio Dracula ama, non si limita a odiare”.


Il film è ambientato nei Carpazi, anche se la Transilvania è stata ricostruita nei boschi di Biella, in un castello del 1300 perfettamente conservato. Dario Argento afferma di aver optato per Biella non per meri motivi di budget, ma “perché i luoghi storici del sanguinario Vlad Tepes, sono ormai troppo turistici e sfruttati, quindi privi dell’energia malefica necessaria”. Dracula 3D è un piccolo kolossal prodotto da Multimedia Film Production (Roma), Enrique Cerezo P.C. (Madrid) e Les Films de l’Astre (Parigi). Niente più Medusa, per fortuna. I produttori sono gli italiani Roberto Di Girolamo e Gianni Paolucci. Il punto forte della pellicola è una moderna e sofisticata tecnologia 3D, che unita agli effetti speciali di Sergio Stivaletti non dovrebbe deludere gli spettatori. Thomas Kretschmann (La sindrome di Stendhal) è il conte Dracula, lo spagnolo Unax Ugalde è Jonathan Harker, Marta Gastini è un’affascinante Mirna (21 anni, alessandrina, giovane promessa vista in televisione ne I Borgia), Asia Argento è la torbida Lucy, Rutger Hauer è Van Helsing (in mancanza di Peter Cushing).


La fotografia del grande Luciano Tovoli (piombinese come me… ed è motivo di orgoglio) è di buon auspicio per la riuscita del film, perché quando ci sono di mezzo i vampiri le luci sono fondamentali. Tovoli lo ricordiamo con piacere nel cast tecnico di Suspiria. Dracula 3D di Dario Argento può essere un successo e - diciamolo come una sorta di scongiuro - può segnare la rinascita del nostro re del terrore.



Gordiano Lupi