venerdì 2 febbraio 2024

Si può fare ... amigo (1972)

 di Maurizio Lucidi


Il fiorentino Maurizio Lucidi (1932 - 2005), ottimo montatore e discreto regista, mette in scena un soggetto di Ernesto Gastaldi per una storia western molto nelle sue corde, per lui che in vita sua ha fatto soprattutto cinema di genere leggero e senza implicazioni d’autore. Si può fare … amigo si caratterizza per essere un Bud Spencer movie con Pedersoli (doppiato da Glauco Onorato) orfano di Terence Hill, ma in buona compagnia di un Jack Palance (doppiato da Renato Turi) in insolite vesti comiche. La storia si racconta in poche battute. Coburn Thompson (Spencer) è un ladro di cavalli, di fatto buono se non lo si stuzzica troppo, che si trova a far da tutore al piccolo Chip Anderson (Cestiè) - che si vede morire lo zio per arresto cardiaco - e deve proteggerlo da chi vorrebbe trafugargli una fattoria ereditata, perché sotto c’è un giacimento di petrolio. Sonny (Palance) è un pistolero che gestisce un gruppo di prostitute da saloon e vorrebbe far sposare la sorella Mary (l’attrice francese Dany Saval) a Coburn, perché pensa (ma non è vero) che abbia attentato al suo onore. Il film vive tutto su questa comica rivalità e sugli scontri tra i due - uno con le pistole, l’altro con i cazzotti - che in fondo (ma proprio in fondo!) sembrano volersi bene. Un altro personaggio straordinario è lo sceriffo Franciscus, impersonato da un Francisco Rabal (pure prete e giudice) in eccellente versione comica, doppiato da Paolo Ferrari. Si può fare … amigo è un film divertente e scanzonato, ideale per famiglie, poco programmato sulle reti generaliste rispetto al valore reale, ma che per fortuna è stato restaurato per la sua definitiva conservazione. Cast tecnico d’eccezione, la colonna sonora è del grande Luis Enriquez Bacalov, al tempo solo un giovane di belle speranze, così come la fotografia è curata da Aldo Tonti e il montaggio da Renzo Lucidi. Sceneggiatura di Rafael Azcona, autore di grandi film d’autore con Marco Ferreri, ottimo scrittore di cinema che riesce a sviluppare con dialoghi incisivi un soggetto di Ernesto Gastaldi di tipo comico - grottesco.  



Ernesto Gasladi mi confida di non aver mai avuto a che fare con Azcona: “Mai conosciuto Azcona, usarono il suo nome per obblighi di coproduzione. La sceneggiatura l’ho scritta io con Lucidi sulla spiaggia di Sperlonga. Bud fece quel film per i fratelli Sansone per evitare una causa: aveva letto un mio soggetto e lo aveva raccontato a Barboni, era Trinità. I Sansone erano falliti ma il soggetto l’avevano comprato. Bud credeva che Barboni l’avesse comprato”. La commedia western è un genere che in Italia riesce da sempre molto bene, almeno da Barboni in poi (Cloucher), per tacere di Pino Colizzi, con Lucidi che si pone sulla scia e si dimostra capace di sfruttare le doti mimiche di Bud Spencer. Immancabili le risse nei saloon, le scazzottate, gli sguardi allibiti e le reazioni violente del protagonista, con il personaggio caratterizzato dal fatto che quando deve menare le mani inforca gli occhiali. Ci vedo benissimo, solo che mi aiutano a pensare, risponde al piccolo Cestiè che chiede quante diottrie gli manchino (va da sé che non sa cosa siano le diottrie), dopo aver spiegato che intende i gradi di vista. Interessante la presenza di Renato Cestiè, volto del lacrima movie e bambino prodigio, rivisto a fine anni Ottanta ne I ragazzi della Terza C e negli anni Duemila come concorrente di un quiz televisivo. Resta indimenticabile la sua interpretazione ne L’ultima neve di primavera, ma anche in questa versione comica se la cava da attore spontaneo e naturale. Tra le altre cose da citare la canzone di Rocky Robert che apre il film (Can be done), la sequenza della morte dello zio di Chip che muore per davvero dopo la terza volta che Coburn gli chiude gli occhi, la borraccia di Coburn forata dalla pallottola di Sonny, la scena del tacchino conteso in prigione e quando Coburn entra nella stanza della prostituta ed è così impacciato da spaccare tutto quel che trova. Tempi dilatati per accogliere a dovere le tante gag comiche, soprattutto la classica parte di Bud Spencer come duro dal cuore d’oro, uomo tutto d’un pezzo e dagli sganassoni facili. Nel cast ricordiamo una giovanissima Dalila Di Lazzaro, mascherata come Dalila Di Lamar, poco visibile e per niente valorizzata nei panni di un’anonima ballerina. Girato in Almeria, regione andalusa della Spagna, come la gran parte delle coproduzioni western italo - franco - spagnole. Da recuperare.






Regia: Maurizio Lucidi. Soggetto: Ernesto Gastaldi. Sceneggiatura: Rafel Azcona. Fotografia: Aldo Tonti. Montaggio: Renzo Lucidi. Musiche: Luis Bacalov. Scenografia: Eduardo Torre De La Fuente, Rosalba Gristina. Costumi: Mario Giorsi, Silvano Giusti. Trucco: Luciano Giustini, Antonio Maltempo. Produttori: Henryk Chroscicki, Alfonso Sansone. Case di Produzione: Sancrosiap, Terza Film Produzione Indipendente, Atlantida Films, Les Productions Jacques Roitfeld. Distribuzione (Italia): Cineriz. Lingua Originale: Italiano, Spagnolo, Francese. Paesi di Produzione: Italia, Spagna, Francia, 1972. Durata: 109’. Genere: Western, Commedia. Interpreti: Bud Spencer (Coburn Thompson), Jack Palance (Sonny Bronston), Francisco Rabal (sceriffo Franciscus), Renato Cestiè (Chip Anderson), Danny saval (Mary Bronston), Luciano Catenacci (James), Franco Giacobini (uomo che mangia la terra), Roberto Camardiel (ubriaco), Marcello Verziera (vice sceriffo), Riccardo Pizzuti (pistolero), Giancarlo Bastianoni (pistolero), Poalo Figlia (pistolero), Franco Ukman (pistolero), Serena Michelotti (vedova Warren), Luciano Bonanni (barista), Dalila Di Lazzaro (come Dalila Di Lamar - ballerina), Dante Cleri (medico), Manuel Guitián (zio di Chip).

giovedì 1 febbraio 2024

L'uomo e il mare di Stefano Tamburini, Il Foglio Letterario Edizioni


2 febbraio 1989 - 2 febbraio 202435 anni fa
a Piombino un sub fu ucciso da uno squalo
Prossimamente in libreria un romanzo-verità
di Stefano Tamburini (Edizioni Il Foglio)

L’UOMO E IL MARE

Storia (vera) di un sub ucciso da uno squalo
e dei tentativi (falliti) di ucciderlo ancora
Stefano Tamburini, giornalista e scrittore, nel 1989 era uno dei redattori del quotidiano “Il Tirreno” e, insieme con gli altri colleghi della redazione piombinese, seguì ogni evoluzione di questa storia che sembrava impossibile: un sub ucciso da uno squalo. E non fu semplice, soprattutto quando ci fu da fronteggiare l’ondata di menzogne con la quale altri colleghi tentarono di alimentare una verità alternativa. Di fatto tentarono di uccidere due volte quel sub: dopo quelli dello squalo, i denti ancora più aguzzi della menzogna.Il libro, edito da Edizioni Il Foglio, sarà disponibile nella primavera del 2024.

Estratto dall’introduzione del libro “L’uomo e il mare” di Stefano TamburiniMorte e terrore emersero dal mare appena increspato e tiepido di un insolito inverno che sembrava maggio. Morte e terrore: le fauci di uno squalo in un attimo si presero la vita di un sub di 47 anni, Luciano Costanzo, e fecero precipitare Piombino, l’Arcipelago e mezza costa toscana in un film dove tutti erano attori e spettatori. Solo che non era un set cinematografico: in quella mattinata del 2 febbraio del 1989 tutto quanto era drammaticamente e spaventosamente vero. Era la realtà che aveva sorpassato in curva fantasie ardite e timori ancestrali. E purtroppo non era che l’inizio di una storia assurda, con la vittima di quella morte atroce trasformata in un bersaglio per le menzogne più infamanti. La straordinarietà di quegli accadimenti veniva presa a pretesto per metterli pesantemente in dubbio, per costruire una narrazione tossica, devastante, infamante. In quello scenario, infatti, non c’era solo l’uomo e non c’era solo il mare dove aveva trovato la morte. C’erano altri uomini ben più feroci di quello squalo che cercavano di ucciderlo una seconda volta attribuendogli una fuga per incassare una polizza o una battuta di pesca con gli esplosivi finita male. Era la malafede che cercava di prendere il posto di una verità che da sola faceva già tanta paura. I giorni del lutto e del terrore si intrecciarono così con quelli di una caccia allo squalo che, più che altro, era una caccia alle paure. Quel bestione da tirare fuori dal mare non era una vendetta, era il modo migliore per far emergere dagli anfratti più intimi dell’animo paure e ansie che altrimenti rischiavano di diventare eterne. Pur sapendo che di squali ne sarebbero rimasti altri, catturare proprio “quello” sarebbe stato l’unico modo per placare le ansie.Purtroppo furono scritte fin troppe pagine di pessimo giornalismo, successivamente rese meno ignobili dalle querele trasformate in condanne. Ma in prima battuta, contro quell’ondata di melma mediatica fu decisiva l’energica contrapposizione di cronache di qualità e onesta ricerca della verità. E al tempo stesso animate dal rispetto per familiari e amici di quel sub di 47 anni, padre di due figli che non sapevi neanche come guardarli negli occhi. Il ragazzo aveva visto il padre morire nel modo più atroce, la sorella si rifugiava fra le braccia del marito e guardava un punto indefinito nelle acque davanti alle banchine, quasi come a sperare che potesse restituirgli il padre perduto. E poi c’erano i tanti amici di Costanzo. Con loro l’ingegnere che era sulla barca e si era visto portare via l’amico-compagno di avventura nelle ispezioni ai cavi sottomarini dell’Enel. Sono facce che ricordo ancora in modo netto, nitido. Perché come quelle non ne avevo mai viste prima e dopo non ce ne sono state altre. Erano diverse da quelle di qualsiasi dolore: l’incredulità veniva prima della disperazione, lo shock precedeva il lutto e le due cose si fondevano in modo apparentemente illogico. Ogni risveglio a Piombino era come nel film “Il giorno della marmotta”, dove si ricominciava sempre da capo, con la stessa narrazione. E che la data che si ripete nel film americano sia proprio quella del 2 febbraio assume interpretazioni che vanno oltre la casualità. L’industria della disinformatija era molto efficiente anche se un po’ cialtrona. Non era epoca di social e di siti internet disinvolti, altrimenti sai che tempesta di post fetidi pieni di menzogne ma pronti a far presa sulla massa dei creduloni?Questo di fatto è un romanzo ma nel leggerlo bisogna sempre aver presente che nulla è stato lasciato alla sceneggiatura più comoda. Oggi, 35 anni dopo, rimettere in fila quei fatti può essere d’aiuto anche per affrontare vicende meno “enormi” di queste e per rivalutare l’importanza di poter contare sull’onestà di chi va a vedere, racconta, analizza, fa le domande giuste. Un testimone della verità come lo sono stati tutti quei colleghi che animavano la redazione piombinese del quotidiano “Il Tirreno”. Era possibile allora e mi piace pensare che possa esserlo ancora oggi.

venerdì 15 dicembre 2023

A tu per tu (1984)

 di Sergio Corbucci

Sergio Corbucci (Roma, 1927 - 1990), dirige un numero incalcolabile di pellicole, spaziando tra i generi più popolari del cinema italiano, ma soffermandosi sulla commedia, rendendo scostumata la commedia di costume e portandovi la parolaccia a ruota libera e il riso di grana grossa (Enrico Giacovelli). Troppo azzeccata la definizione per non riportarla integralmente.

A tu per tu (1984) non è tra i suoi lavori memorabili, tant’è vero che da anni non la vedevamo passare sul piccolo schermo. Benemerita Cine 34 che ha colmato una lacuna, mettendola in programmazione a dicembre 2023, in seconda serata. A tu per tu è farsa poliziesca, girata in un periodo di decadenza cinematografica, interpretata da Johnny Dorelli, Paolo Villaggio, Adriano Pappalardo, Marisa Laurito, Marilda Donà e Moana Pozzi (piccolo ruolo da comparsa sexy, prima del passaggio al porno). Dorelli è un finanziere in bancarotta che coinvolge nei suoi intrallazzi un ingenuo tassista come Villaggio. Una pochade fuori tempo massimo a base di equivoci, travestimenti, scambi di persona che strappa timidi sorrisi fino al rocambolesco finale. I personaggi sono cuciti sugli interpreti, perché Dorelli è l’arrogante quanto fascinoso imprenditore che non ammette repliche al suo volere, mentre Viallaggio è un tassista imbranato con una personalità remissiva a metà strada tra Fantozzi e Fracchia. Marisa Laurito viene imbruttita parecchio per recitare il ruolo da moglie del tassista che si prende come amante il muscoloso Adriano Papalardo. Moana Pozzi s’intravede nel letto di Dorelli (poi di Villaggio) come amante a bordo dello yacht, accanto alla sodale Tracy Spencer (pure lei un futuro nel porno), notevole bellezza di colore. Piccolo ruolo anche per Marilda Donà - starlet della commedia sexy -,  come amante di Dorelli, che s’ingegna a far toccare le cosce dure come il marmo di Carrara al timido tassista. Franco Russell recita come notaio del magnate ed è l’ultima interpretazione in carriera perché muore due mesi dopo la fine delle riprese. Pellicola on the road, strutturata come una commedia gialla, a base di inseguimenti polizieschi e mafiosi, cacce all’uomo e spericolate piroette in elicottero e in automobile. A tu per tu è ambientato tra Liguria (Sanremo, con la finzione che sia Rapallo o Genova), Lazio (Roma), il varesotto, la Francia (Mentone) e la Svizzera (Lugano). A livello di curiosità riconosciamo un appartamento già usato nel cinema italiano, per la precisione da Verdone nel film Borotalco, qui abitazione del finanziere in fuga.


La critica non è mai stata tenera con Sergio Corbucci, considerato un regista popolare che si lascia prendere la mano da volgarità e turpiloquio. Roberto Poppi è inflessibile: “In molte occasioni dimostra troppa accondiscendenza ai gusti di un certo pubblico e certi produttori, calcando il pedale su volgarità e turpiloquio del tutto gratuiti, che contribuiscono allo scadimento della commedia italiana e, in generale, del cinema cosiddetto medio. Gianni Canova è meno caustico: “Sergio Corbucci è regista di consumato mestiere dotato di felice intuito per imbastire storie popolari di sicura presa nei confronti del pubblico. Siano film con Totò, spaghetti-western, fortunate commedie, polizieschi partenopei, sono quasi sempre successi . Porta al successo attori come Adriano Celentano, Johnny Dorelli, Renato Pozzetto, Paolo Vilaggio ed Enrico Montesano”. Sergio Corbucci dice di se stesso: “Sono uno che supplisce con la quantità alla mancanza di qualità”. A parere di chi scrive non è così vero, perché la sua commedia semplice e spontanea, anche se sboccata, conserva il pregio della spontaneità.

Malignant (2021)

 di James Wan

Non è facile trovare un horror originale di questi tempi, anche perché nel campo della narrativa e cinematografia dell’orrore è stato già detto tutto, ma a volte basta raccontare identiche storie con stile diverso, adattare situazioni al mutare dei tempi. Il malese (naturalizzato australiano) James Wan - autore di saghe di successo come Saw, Insidious, The Conjuring, Aquaman … - gira una storia inquietante scritta con Akela Cooper (sceneggiatrice) e Ingrid Bisu, un horror psicologico e soprannaturale, molto violento, che si merita il divieto ai minori di anni 14. Il Covid limita le potenzialità di visione nei cinema, ma il film (uscito in ritardo) in compenso viene passato su diverse piattaforme; noi l’abbiamo visto in Prima Tv su Rai 4, il canale digitale Rai dedicato a horror e thriller. La storia narra una simbiosi assassina tra due gemelli siamesi (Madison e Gabriel) uniti in uno stesso corpo e l’improvviso risveglio dell’entità maschile racchiusa nel cranio della ragazza, dopo un’operazione non del tutto riuscita. Per anni si era creduto che Gabriel fosse l’amico immaginario di Annabelle e che la ragazza soffrisse di disturbi psichici, invece si trattava del gemello  infernale, che chiedeva vendetta verso la madre, colpevole di averlo abbandonato. Non possiamo raccontare altre per non rovinare il gusto di vedere un film che gode di buoni effetti speciali e che - come ai tempi dello splatter - è un trionfo di sangue e omicidi, compiuti grazie a un pugnale dalla lama affilata. Fotografia scura, cupa e angosciosa, come merita il tema della pellicola, musica inquietante, montaggio sincopato, da thriller orrorifico che non concede scampo, con sequenze ad alta tensione. Ottime le parti oniriche, quando Annabelle pare sospesa in un mondo irreale, perché il gemello infernale la obbliga a colpire servendosi di un corpo in comune. Azzeccato l’uso del flashback e della dissolvenza, così come il regista non rinuncia al piacere di narrare una storia, costruendo una sceneggiatura degna di questo nome all’interno di una cornice horror. Una tantum non solo effetti speciali e una catena di omicidi fine a se stessa, tutto è legato dal collante solido dell’amore fraterno e filiale, dalla tragedia di dover combattere contro noi stessi, in questo caso il peggior nemico. Da vedere, se amate il genere. Reperibile su RaiPlay.

Regia: James Wan. Soggetto: James Wan, Ingrid Bisu, Akela Cooper. Sceneggiatura: Akela Cooper. Fotografia: Michael Burgess. Montaggio: Kirk Mori. Musiche: Joseph Bishara. Scenografia: Desma Murphy. Costumi: Lisa Norcia. Produttori: Michael Clear, James Wan. Produttori Esecutivi: Ingrid Bisu, Han Lei, Peter Luo, Eric Mc Leod, Judson Scott. Case di Produzione: Atomic Monster, Boom Entertainment, Boom Studios. Interpreti: Annabelle Wallis (Madison Mitchell), George Young (Kekoa Shaw), Jacqueline McKenzie (Florence Weaver), Ray Chase (Gabriel, voce), Maddie Hasson (Sydney Lake), Michole BrianaWhite (Regina Moss), Jake Abel (Derek Mitchell).

mercoledì 13 dicembre 2023

Cinquant'anni di Amarcord

 L’autobiografia lirica di Amarcord

Amarcord (1974) è un’autobiografia lirica, il film più poetico di Fellini, un punto di arrivo difficile da eguagliare e impossibile da superare. La pellicola rappresenta il quarto Oscar ottenuto dal regista, racconta la Rimini dell’adolescenza, il periodo del liceo e soprattutto l’Italia degli anni Trenta. Protagonista di Amarcord  è una città intera, trasfigurata dal ricordo, il quartiere San Giuliano di Rimini ricostruito a Cinecittà, i suoi grotteschi abitanti, le feste patronali, le adunate fasciste, la scuola, le donne facili, i giovani del paese, gli ambulanti, le prostitute e i matti. Il personaggio di Titta Biondi e la sua famiglia servono a Fellini per ricordare il passato e ricostruire gli anni della sua adolescenza, per scrivere un romanzo di formazione su pellicola che è la storia dell’incontro con la vita. Il tono della narrazione è amichevole, colloquiale, ma poetico, come se il regista raccontasse il periodo dell’adolescenza seduto a cena con vecchi amici. Il film è ambientato in una dimensione fantastica, tra mani che annunciano la primavera e nevicate che simboleggiano il grande freddo, immerso in ricordi lontani, rumori di auto che sfrecciano per le Mille Miglia, il passaggio del Rex e l’improvvisa apparizione di un pavone. Fellini racconta - come Proust - il tempo perduto ed è la cosa che sa fare meglio, sospendendo i ricordi in un’atmosfera sognante. Fellini è autore che sente più congeniale l’analisi poetica dell’intimo, del piccolo mondo antico, rispetto alla critica sociale. I suoi lavori indimenticabili si realizzano quando trova la forza di guardare al passato con malinconica nostalgia, mettendo su pellicola i sogni a occhi aperti, le ansie e i dubbi. Tra le parti migliori di Amarcord segnaliamo le scene ambientate nelle aule del liceo, una raccolta di assurde tipologie di insegnanti e di alunni, esempio da imitare per i registi che frequenteranno il sottogenere scolastico - più o meno alto - negli anni Settanta - Ottanta.  Alcuni personaggi sono indimenticabili: l’Aldina (Donatella Gambini) che fa innamorare i ragazzi, la madre di Titta (Pupella Maggio, doppiata in romagnolo da Ave Ninchi) che muore in ospedale e lascia il figlio disperato, il padre anarchico (Armando Brancia), la bella Gradisca (Magali Noël), la tabaccaia (Maria Antonietta Beluzzi) che Sergio Martino citerà alcuni anni dopo in un film con Gigi e Andrea (Acapulco prima spiaggia a sinistra), Teo lo zio matto (Ciccio Ingrassia) che si mette su un albero, grida: “Voglio una donna!” e scende solo quando arrivano le infermiere.

Il cinema Fulgor e le pellicole in bianco e nero degli anni Trenta sono un altro protagonista del film, rappresentano l’adolescenza del regista segnata dall’amore per il grande schermo. Le confessioni al prete, i ragazzini che si toccano pensando alla tabaccaia, alla Gradisca o alla compagna di scuola, le suggestioni del cinema e delle prime visioni femminili, i turbamenti davanti alla vita che cambia. Fellini descrive le adunate fasciste, i discorsi retorici, le bastonate ai dissidenti e le canzoni patriottiche. Il Grand Hotel di Rimini è un altro protagonista, nei racconti impossibili della voce narrante che ricorda una notte d’amore di Gradisca con un principe e un emiro con trenta concubine.

Non dimentichiamo il mare d’estate che cambia il volto di Rimini, i tramonti rosso fuoco, i ragazzi che si trasferiscono sulle spiagge e sognano incontri con ragazze. “Tu e il babbo come avete fatto a conoscervi? E il primo bacio?”, domanda Titta prima di concludere disperato che lui non combina niente. La malattia della madre di Titta è un momento di grande poesia girato ricorrendo a silenzi e a inquadrature di spalle, senza mostrare volti sofferenti. Il regista sottolinea il grande vuoto nel cuore del marito e del figlio, anche se in vita i litigi erano all’ordine del giorno. Il funerale a piedi, la tristezza del padre, la casa vuota, tutto è costruito ad arte per rappresentare il dolore. La pellicola alterna momenti leggeri a episodi drammatici, ma sa restare in equilibrio senza cadere nella farsa o nel patetico. Il matrimonio di Gradisca nel casolare di campagna è un altro momento intenso che si conclude con la corsa dei ragazzini dietro l’auto di un simbolo erotico che li abbandona. Senza Gradisca si sentiranno un poco più soli e rimpiangeranno le sfide con le palle di neve che avevano per bersaglio un invitante fondoschiena.

Fellini scrive Amarcord con la collaborazione di Tonino Guerra. Il film miscela bene amore, odio e nostalgia, rilegge il passato fascista, mostra la mediocrità del regime ma anche del popolo che l’ha accettato. Vediamo i fascisti con l’olio di ricino, ma anche i maschi che insidiano donne, inventano balle e fanno scherzi stupidi. Tutto è vissuto attraverso la storia dell’adolescenza di Titta  (Bruno Zanin) in una cittadina romagnola degli anni Trenta. Il film è girato completamente a Cinecittà, persino le sequenze del passaggio notturno del transatlantico Rex.

Le musiche di Nino Rota e la fotografia di Giuseppe Rotunno perfezionano una pellicola che si guadagna l’Oscar come miglior film straniero. Amarcord non manca di suscitare polemiche da parte dei perbenisti che lo giudicano zeppo di parolacce e di situazioni spiacevoli. Le femministe criticano il personaggio interpretato da Magalì Noël (Gradisca) senza storicizzarlo, mentre i cattolici si scandalizzano per il seno florido di Maria Antonietta Beluzzi. Segnaliamo una grande interpretazione drammatica di Ciccio Ingrassia nei panni del matto e il volto stralunato di Alvaro Vitali tra i compagni di liceo. Amarcord sbanca il botteghino e fa record di incassi anche negli Stati Uniti.