lunedì 6 marzo 2017

Porcile (1968)

di Pier Paolo Pasolini 




Porcile è un film ancora più scomodo di Teorema - sempre sotto sequestro quando cominciano le riprese del nuovo lavoro - perché non si limita a un attacco antiborghese che proviene da un elemento esterno, ma descrive l'implosione della borghesia, la deflagrazione messa in atto dai suoi stessi membri, dai suoi figli ribelli e trasgressivi. Un film girato in economia, in poco più di un mese, ma forse il lavoro più lucido ed emblematico di tutta l’opera pasoliniana. Tratto da una tragedia in versi dello stesso autore, si compone di due episodi apparentemente diversi tra loro, ma uniti da una stessa valenza metaforica. Il primo episodio non fa parte dell'opera teatrale, viene girato nella Valle dell'Etna, ed è la storia di un cannibale (Clementi) che prima uccide il padre poi si spinge a vagare nel deserto, dove continua a mietere vittime, fa proseliti e si ciba di carne umana. Di fronte al patibolo non si pente. Tutt’altro: “Ho ucciso mio padre, mangiato carne umana, ma tremo di gioia”. Il secondo episodio racconta la storia di una famiglia borghese tedesca, il padre (Lionello) è un ricco imprenditore che si alleano con un altro capitalista (Tognazzi), ex criminale nazista, che conosce l'orribile e inconfessabile segreto del figlio: il suo unico amore sono i maiali.


Puro cinema di poesia, come dice Pasolini, pellicola dove ogni gesto è metafora, allegoria pura, ciò che conta non è la storia ma il significato e il significante. Un lavoro a tema, intellettualmente complesso, filosofico quanto grottesco, soffuso di straordinaria bellezza lirica, come nella sequenza del monologo di Julian (il figlio del borghese interpretato da Léaud), che parla del suo amore proibito senza citarlo. Il significato di Porcile sta tutto nella trasgressione, nella dimostrazione dell'assunto che i santi e i diversi, i non ortodossi, i disubbidienti, non fanno la storia, ma la subiscono, agiscono per sé, nella loro diversità, fino a morire vittime del loro non essere conformi, mai in linea con la massa. Sia il cannibale che il ragazzo muoiono sbranati ma in fondo felici nella loro lucida follia, perché hanno raggiunto quello che volevano: l'autodistruzione, unica via possibile in una società che ammette solo uniformità, devozione e obbedienza.


Viene da pensare, oggi, che Pasolini parlasse di se stesso, in questo apologo pervaso da un pessimismo cosmico e da una totale impossibilità di redenzione. Porcile è un film visionario che usa strumenti tipici della cinematografia di genere per esibire l'orrore, dimostrando che trasgredire non basta, non è sufficiente uccidere il padre - come Edipo - e ribellarsi, se la ribellione individuale non serve agli altri, non coinvolge la massa, se resta un atto di puro narcisismo.  Grandi interpreti per un film che tradisce la sua origine e vocazione teatrale, tra tutti Lionello e Tognazzi, nei panni di due laidi borghesi, soprattutto il secondo che resta impresso nell’immaginario grazie a un’inquietante sequenza finale.  Ferreri presta il suo volto a un’interpretazione abbastanza insolita nei anni di un amico di famiglia dell’imprenditore. Davoli è la purezza, il candore, l’ingenuità da ragazzino che porta un soffio di bontà e disperanza in un panorama gretto e arido.


Porcile esce con il consueto divieto ai minori riservato per i film di Pasolini,  viene distrutto dalla critica di destra ma anche da quella sinistra perbenista che non ha mai capito il nostro più grande intellettuale del Novecento. Pasolini si vendica organizzando una prima del film alternativa alla Mostra di Venezia, mostrandolo a pochi intimi, a Grado, dove sta girando Medea. Porcile è un film maturo e consapevole anche da un punto di vista tecnico, dotato di una fotografia originale, parti riprese con la macchina a mano, campi e controcampi teatrali, direzione degli attori discreta e senza intromissioni, montaggio parallelo delle due vicende, uso del silenzio (il primo episodio è quasi del tutto muto) in funzione poetica, paesaggi e campi lunghi superbi. Un film da rivedere, da studiare con attenzione per capire che esiste – ma non è dei nostri tempi - il buon cinema di progetto.



Regia: Pier Paolo Pasolini. Soggetto e Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Fotografia: Armando Nannuzzi (primo ep.), Tonino Delli Colli, Giuseppe Ruzzolini (secondo ep.). Costumi: Danilo Donati. Musica: Benedetto Ghiglia. Montaggio: Nino Baragli. Aiuti Regista: Sergio Citti, Fabio Garriba. Assistente ala regia. Sergio Elia. Produzione primo ep.: Giani Barcelloni Corte, BBG cin. srl. Produzione secodno ep.: Gian Vittorio Baldi, IDI Cinematografica (Roma), I Film dell'Orso, CAPAC Filmédis (Paris). Pellicola: Kodak. Colore: Eastmancolor. Esterni primo ep.: Valle dell'Etna (Catania), Roma. Secondo ep.: Verona, Stra, Villa Pisani. Durata: 98'. Prima ufficiale: Festival di Venezia, 30 agosto 1969.  Intrerpreti: Primo episodio - Pierre Clementi, Franco Citti, Luigi Barbini, Ninetto Davoli, Sergio Elia. Secondo episodio - Jean-Pierre Léaud, Alberto Lionello, Margherita Lozano (doppiata da Laura Betti), Anne Wiazemsky, Ugo Tognazzi, Marco Ferreri (doppiato da Mario Missiroli).



Il mio cinema, due volte a settimana, su Futuro Europa:
http://www.futuro-europa.it/dossier/cineteca

mercoledì 1 marzo 2017

Ciak, si spara



Nico Parente è un saggista cinematografico che conosco molto bene per aver pubblicato - con Il Foglio Letterario - L’esorcista e Mare blu morte bianca, due opere agili e informative, la prima sul famoso film di William Friedkin, la seconda sul fenomeno del cinema degli squali, apocrifi italiani compresi. Non solo. Parente è stato indispensabile anche per completare la corposa Storia del Cinema Horror Italiano in cinque volumi, perché il suo contributo alla parte sui giovani cineasti italiani (quinto volume) è fondamentale. Adesso lo scopro alla corte di Nicola Pesce, giovane e valente editore che fa cose egregie nel campo del fumetto (Jacovitti, Battaglia, Matteucci e chi più ne ha più ne metta) ma che non conoscevo come cultore di cinema. La prefazione è niente meno che del mio amico perduto Fabio Giovannini - perduto nel senso proustiano del termine, sono anni che non lo vedo e che non lo sento - vero esperto del cinema italiano (e non solo!), un autore dal quale tutti noi piccoli autori abbiamo imparato qualcosa. Il libro parte in quarta con la materia viva, da Romanzo criminale a Gomorra e Suburra, analizzando – come dice il sottotitolo - il crimine italiano sul grande e piccolo schermo. Vi confesso di non nutrire alcuna passione per Gomorra (il pessimo non romanzo di Saviano o la serie televisiva di Garrone non fa differenza), ancor meno per il pasticciato Suburra, ma di amare visceralmente il cinema di Caligari e il suo canto del cigno Non essere cattivo. Purtroppo Parente non ne parla, ma mi consolo con la Uno Bianca di Michele Soavi, passato in TV ai tempi dei veri sceneggiati, di cui sono stato un fan sfegatato. In ogni caso Parente ci conferma che i generi - come ai tempi del noir alla di Leo e del poliziottesco - siano cinematografici, politici o letterari, possono aiutare a riflettere sulla politica, sulla realtà, sulle condizioni sociali di un’epoca. E anche se in merito a Gomorra chi scrive ha un pensiero diametralmente opposto a quello di Parente, ritengo utile una pubblicazione che affronta temi e problemi messi in evidenza da Uno Bianca, Romanzo Criminale (film e serie), Gomorra (idem), Vallanzasca, Faccia d’angelo e Suburra. Edizione spartana, con il merito di un costo abbordabile, a imitazione Newton & Compton (mica c’è niente di male), molte foto in bianco e nero, un’intervista finale a Stefano Sollima. Un libro commerciale, visti i tempi, ma corretto. (Gordiano Lupi)


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