martedì 29 luglio 2014

È forte un casino (1982)

di Alessandro Metz


Regia: Alessandro Metz. Soggetto e Sceneggiatura: Leo Chiosso, Sergio D’Ottavi, Alessandro Metz. Costumi: Luciana Marinucci. Scenografia. Mauro Vigneti. Montaggio: Alberto Moriani. Fotografia: Giuseppe Berardini. Musiche: Stelvio Cipriani. Aiuto Regia: Filiberto Fiaschi. Operatore alla Macchina: Sergio Melaranci. Edizioni Musicali: Peer-Southern, Milano. Produzione: Giuseppe Zaccariello per la Kappa Film srl (Roma). Produttore Associato: Pierandrea Caleo. Direttore di Produzione: Giuseppe Mangogna. Interpreti: Bombolo, Enzo Cannavale, Licinia Lentini, Gianni Ciardo, Carolina Palermo, Sandro Ghiani, Xiomara Gonzales, Tognella, Carlo Gravina, Jimmy il Fenomeno, Ennio Antonelli. Interni: De Paolis.



Alessandro Metz (Roma, 1940) si cimenta nella sua ultima regia con È forte un casino!, dopo Pierino il fichissimo e Care amiche mie (1981), anche se imperversa nel mondo del cinema fino al 1994 con ruoli di aiuto regista e sceneggiatore. Missione eroica - I pompieri 2 (1986) di Giorgio Capitani lo vede regista della seconda unità, mentre con Castellano & Pipolo è un regista aggiunto, vista la grande collaborazione sul set dei film ai quali Metz partecipa.



È forte un casino! è La stangata (1973) di George Roy Hill in salsa romanesca, ispirato anche a Gli amici di Nick Hezard (1975) di Fernando di Leo, dignitosa riduzione italica del capolavoro nordamericano. È forte un casino! è soprattutto farsa caciarona, pochade basata sulla comicità fisico-verbale di Bombolo e Cannavale (coppia dai sincronizzati tempi comici) e sull’avvenenza delle protagoniste femminili.



In sintesi la trama. Un gruppo di imbroglioni composto da Bombolo, Cannavale, Ghiani, Tognella e Palermo vive di espedienti. Il primo colpo andato male è il tentativo di vendere Castelgandolfo a un emiro, ma anche il secondo non va meglio. Cannavale legge l’annuncio di una ricca ereditiera e con l’aiuto di Bombolo - domestico in una villa signorile - si sostituisce al padrone di casa, assente per un viaggio. Bombolo si finge maggiordomo, Ghiani e Palermo camerieri, Tognella autista. Tutto va a rotoli: il vero conte (Ciardo) di cui Cannavale aveva preso le sembianze torna in villa prima del previsto e pone fine alla messa in scena. Si scopre pure che la ricca ereditiera è una truffatrice come il nostro gruppo di sprovveduti. Alla fine gli imbroglioni decideranno di unire le forze per dare vita a nuove truffe. 



Si ride per merito di Bombolo e Cannavale, anche se la sceneggiatura è televisiva, piena di momenti morti nella fase centrale e conclusa da un finale prevedibile. Tognella è come sempre irritante, spesso pure incomprensibile, mentre Ghiani se la cava con diligenza nel solito ruolo da tonto. Ottimo il cast femminile. Ricordiamo docce e brevi momenti sexy di Licinia Lentini, ultima bellezza della morente commedia sexy, ma anche alcuni nudi frontali della poco nota  Xiomara Gonzales. Carolina Palermo non lesina sequenze audaci prima della fuga con il conte, Gianni Ciardo, che - more solito - non entusiasma.



Frasi epocali di Bombolo: A me me pare ‘na stronzata!; Sorco’ per dire sor conte, aggiungendo subito: “No, non dico a lei…”, riferito a una bella ragazza come forma contratta di sorcona (bella fica in romanesco); “Vado in cantina a famme un goccetto de’ vino che quast’acqua m’ha fatto du’ palle così!” (dopo l’ennesima caduta in piscina). Ennio Antonelli è un benzinaio romanesco che prende alla lettera l’espressione mi dia un colpetto ai vetri: usa il mazzuolo e frantuma il parabrezza. Jimmy il Fenomeno è un barista scemo e credulone che cambia i pagherò forniti dalla banda di imbroglioni.



Tutta la seconda parte della pellicola è una pochade erotica condita di bagarre (cadono tutti in piscina), scambi di coppie e di camere, irruzioni a sorpresa di personaggi che cambiano il corso degli eventi. Elementi di commedia sexy: il voyeurismo di Bombolo con la Gonzales spiata dal buco della chiave - in sintonia con lo spettatore - e le docce delle protagoniste.



Il titolo del film è una frase che i protagonisti pronunciano almeno una volta nel corso della storia, riferita alle più disparate situazioni. Marco Giusti su Stracult sostiene : "È forte un casino! è uscito nel 1987 ed è l'ultimo lavoro di Bombolo (Franco Lechner), morto alcuni mesi dopo la fine delle riprese". Non è vero.

domenica 27 luglio 2014

La principessa nuda (1975)

di Cesare Canevari


Regia: Cesare Canevari. Soggetto: Antonio Lucarella. Sceneggiatura: Antonio Lucarella, Cesare Canevari. Fotografia. Claudio Catozzo (Telecolor). Montaggio: Cesare Canevari, Jolanda Adamo. Architetto, Scenografo, Costumista: Alberto Giromella. Musiche: Detto Mariano. Canzone: A beautiful lady, canta Hously Rose. Edizioni Musicali: S.A.A.R. (Milano).  Produzione: Andromeda srl. Direttore di Produzione: Ruggero Gorgoglione. Organizzatore: Gaspare Palumbo e Giuseppe Brizzi. Aiuto Regista: Daniele Sangiorgi. Teatri di Posa: Icet De Paolis spa. Esterni: Milano, Monza. Doppiaggio: Cooperativa di Lavoro Fono Roma, Cooperativa Doppiatori. Interpreti: Ajita (Wilson), Tina Aumont (Gladys), Jho Jhenkins, Rosa Daniels, Jon Lei, Walter Valdi, Achille Grioni, Franz Drago, Luigi Pistilli, Angelo Ciccone, Carmelita Curatolo, Tom Gerard, Corrado Nardi, Silvio Nobili, Franco Potron, Domenico Seren Gay, Luca Siloni.


La principessa nuda è il primo film interpretato (addirittura da protagonista) dal transessuale (operato) Ajita Wilson, che si ricorda per corpo statuario (un metro e ottanta di altezza) scolpito dal bisturi, seno posticcio, grande fotogenia e totale inespressività. Crediamo che l’interesse e l’alone di mistero di cui il film è ancora ammantato sia merito della Venere d’Ebano, che per anni ha giocato sul dubbio e non ha manifestato con chiarezza la sua ex mascolinità. Cesare Canevari (Milano, 1927 - 2012) ha fatto di meglio, basti pensare all’erotico patinato  Io Emmanuelle (1969) con l’intensa Erika Blank e allo stupendo western Matalo! (1970), ma anche di peggio, come il nazi erotico L’ultima orgia del II reich (1976), davvero fuori tempo massimo. Spesso anche montatore delle sue opere, soggettista, produttore e sceneggiatore, termina la carriera con Allarme nucleare (1979) e Delitto carnale (982).


La scritta che campeggia in apertura de La principessa nuda è quanto di più falso si possa immaginare, perché il film non è frutto di fantasia, ma si ispira alla vicenda di Elizabeth Bagaya de Toros, ministro e amante del dittatore ugandese Idi Amin Dada. Elizabeth venne destituita ed espulsa dal paese per una vicenda di foto erotiche scattate negli Stati Uniti e per aver avuto un rapporto sessuale con un diplomatico europeo in un bagno di Orly. 


La principessa nuda nasce come un film osteggiato dal governo ugandese che fa sapere di non gradire la trasposizione cinematografica della vicenda, ma Canevari e Lucarella sfruttano commercialmente la faccenda, parlando di minacce, di attori di colore che rifiutano le parti, di insopportabile clima di tensione intorno al loro lavoro. Fatto sta che il film incassa 400 milioni di lire, vuoi per la curiosità di vedere all’opera Ajita (presentata come Venere d’Ebano), vuoi per il clima di mistero che l’ufficio stampa riesce a creare. Il divieto ai minori di anni diciotto aumenta l’interesse per i cultori del cinema erotico. Canevari sceglie Ajita Wilson per il ruolo della protagonista, nonostante la totale inespressività del volto, perché aveva bisogno di una nera e vide la sua foto in un’agenzia. Era importante tenere nascosto il suo passato mascolino (aveva cambiato sesso a metà degli anni Settanta) e del fatto che fosse stata impegnata in alcuni spettacoli come travestito nel quartiere a luci rosse di New York.


Il film racconta la storia di un’affascinante ministro (Wilson) che viene spedita a Milano dal crudele dittatore Caboto - un nazista suggestionato dall’opera di Hitler - per convincere alcune aziende italiane a firmare un contratto di somministrazione di cemento e mattoni per la costruzione di case in cambio di prodotti locali. In Italia incontra un giornalista (Pistilli) che sa molte cose del suo scabroso passato e una spia americana che diventa la sua segretaria tuttofare (Aumont). Entrambi s’innamorano di lei, in maniera diversa, ma entrano in gioco anche diversi compatrioti che vorrebbero scioglierla dal legame con il dittatore per farla diventare paladina della libertà del popolo. 


Walter Valdi è l’industriale più grottesco, tipico commenda milanese, non insensibile al fascino della principessa, ma che chiama i neri vaka putanga (come nella canzone di Gaber) e pensa che portino ancora l’anello al naso. Canevari gira con il suo stile sporco, ricco di zumate e di primi piani, ma anche di flashback onirici, riprese estemporanee con la macchina a mano e di arditi piani sequenza, realizzando un lavoro a metà strada tra il politico - sociale e l’erotico estremo. Notiamo similitudini con Alberto Cavallone, sia per le tematiche che per il modo di affrontarle, anche quando il regista prende in giro l’arte moderna con la caratterizzazione di un pittore russo che compone opere viventi di body art a base di donne nude. 


Canevari ritrae le proteste di piazza degli studenti contro la mandataria del dittatore omicida premiata all’università e introduce come ricordi onirici immagini di stragi di massa che sembrano uscite da un mondo movie. Si riprende il vecchio discorso di Gualtiero Jacopetti, di un’Africa lasciata in balia di se stessa e dei signori della guerra (Africa addio). Molte scene erotiche, piatto forte del film, tra amori lesbici appena accennati con la Aumont, riti magici africani e una cruda sequenza di violenza carnale nel parco, con sodomizzazione della Wilson. La scena erotica più riuscita e conturbante vede protagonisti Wilson e Pistilli, per citare l’incontro amoroso realmente accaduto in un bagno tra la principessa e un cittadino europeo. 


Altre sequenze torbide sono molto cavalloniane, a partire dalla presenza di un nano erotico che se la fa con donne di colore e che s’invaghisce di Ajita. Notiamo suggestioni esotico-erotiche da Il Dio serpente di Piero Vivarelli, durante la sequenza tribale con donne nude indemoniate dopo un’evocazione alle divinità. Un flashback splatter - erotico (una fellatio simulata e il taglio del pene di un amante con un colpo di machete) riporta la principessa a un passato da schiava erotica dal quale decide di liberarsi con l’aiuto del giornalista. A parte alcune fantasie lesbiche di Tina Aumont, citiamo una lunga doccia nuda della Wilson che nasconde bene il passato androgino, anche se l’inespressività del volto resta il suo tratto più marcato. Il finale è affidato alla voce narrante. Tre anni dopo Caboto viene fucilato, la Taslamia è di nuovo libera, la principessa torna in patria, acclamata come la presidentessa nuda. A Milano, Pistilli - che ha fatto la buona azione di non pubblicare lo foto scandalo della principessa - è il nuovo direttore del giornale.


La critica. Marco Giusti (Stracult). “Istant-movie di Canevari basato sulla storia vera della principessa ugandese Elisabeth Cristobal Bagaya, amante del dittatore africano Idi Amin Dada. Notevolissimo. (…) Ajita Wilson e Tina Aumont sono fantastiche. Il film vanta molti fan”. Delirium: “Devi sperimentare questo tipo di cinema per crederci!”. Paolo Mereghetti (una stella): “All’inizio il tono è satirico, ma poi si sfalda tra voyeurismo, orge felliniane con nani, sequenze che non vanno da nessuna parte… momenti di comica assurdità, non sempre involontaria, anche se irrecuperabili… l’unica cosa importante è il pelo, come dice Pistilli”. Troppo duro. 


Condivido di più l’ampia trattazione di Roberto Cozzuol - Italia Film 1960 – 1990 (https://www.facebook.com/groups/560081527383095/) - che riporto: “Particolarmente riuscita (grazie anche alle musiche) la descrizione della Milano by night: un tripudio di luci a neon, locali notturni e pubblicità a iosa, dove si insinuano scene di malavita che paiono estrapolate da un poliziottesco. Modeste le interpretazioni. Per un regista, come Canevari, che ha sempre lavorato con budget ridotti o ridottissimi, questo La principessa nuda è perfino eccessivo in termini di povertà dei mezzi e delle idee sul copione; la sceneggiatura di Canevari e Antonio Lucarella (che pare prenda spunto da un fatto concretamente avvenuto e pertanto si premura di non fare cominciare il film prima di aver esplicitato con una didascalia che la storia è totalmente un prodotto di fantasia!) è stiracchiatissima, “spalmando” una trama minuscola su quasi cento minuti di pellicola. 


Inoltre, al di là dei nomi di Tina Aumont e di Luigi Pistilli, il cast risulta pressoché anonimo e a tutti gli effetti gli attori non sono eccezionali; qualcosa di buono si può dire delle musiche di Detto Mariano, anche se in una scena di ballo, improvvisamente, compare dal nulla una versione strumentale di Birthday dei Beatles, mai accreditata né sui titoli di testa, né su quelli di coda. Canevari si occupa anche del montaggio, curiosamente con lo pseudonimo (?) di Cesar Canevari (o si tratta di un semplice refuso di titolazione?); a risollevare dal nulla completo della trama e dal morboso erotismo/esotismo privo di reali contenuti, pure un po’ in odore di razzismo (alla Jacopetti e Prosperi, per intenderci), ecco che giungono le innegabili doti tecniche e visive del regista. La scena finale di sesso, girata col grandangolo ad amplificare la sensazione orgasmica o l’accoppiamento doppiato con versi di animali feroci sono sicuramente idee stimolanti; già meno intrigante pare l’idea di inserire una scena di orgia con tanto di nano, una bizzarra soluzione che richiama alla mente i deliri di Alberto Cavallone. Tanti nudi, tanto sesso abbastanza esplicito, dialoghi miserrimi e una storia, come già detto, proprio piccina piccina: non è questo il miglior Canevari”.


Storia modesta, sceneggiatura tirata via, montaggio e fotografia buoni, ottime musiche di Detto Mariano, interessante il tema sociale e l’accusa ai governi africani dittatoriali. Bravi Pistilli, Valdi e Aumont. Intrigante - nonostante tutto - il debutto della Wilson. Poco altro da salvare. Uscito in Spagna: La princesa desnuda, in Francia (1980) come Parties déchainées e in Germania come Black Magic.


sabato 26 luglio 2014

Pierino il fichissimo (1981)

di Alessandro Metz


Regia: Alessandro Metz. Soggetto e Sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Alessandro Metz. Scenografia e Arredamento: Bruno Amalfitano. Costumi: Barbara Pugliese.  Montaggio: Vincenzo Tomassi. Fotografia: Maurizio Maggi (Telecolor). Organizzatore Generale e Direttore di Produzione. Pietro Innocenzi. Musica. Stelvio Cipriani (Edizioni Musicali Cam - Prkima Edizioni Musicali, Roma). Aiuto Regista: Marina Mattoli. Operatore Alla Macchina: Giancarlo Martella. Elettricista. Fernando Massaccesi. Produzione: International Apollo Films (Roma). Interni: Elios (Roma). Interpreti: Maurizio Esposito, Tuccio Musumeci, Adriana Russo, Gastone Pescucci, Sandro Ghiani, Vincenzo Crocitti, Eleonora Cajafa, Nino Terzo, Aldo Ralli, Diego Cappuccio, Tognella, Lino Spadaro, Graziella Polo, Gianni Ciardo, Sal Borgese, Alessandra Vazzoler, Sandra Canale, Jimmy il Fenomeno, Clara Rita Ziniti, Amalia Gialli, Antonio Viespoli, Bobby Rhodes, Fabrizio Diaz, Stefano Gragnani, EnzoAndronico.


Pierino contro tutti (1981) è uno dei film per cui sarà ricordato Marino Girolami, che rivitalizza il barzelletta movie e apre la strada a una serie infinita di sequel apocrifi. I veri film di Pierino vedono Alvaro Vitali dare corpo a una serie di barzellette scurrili e risapute, inaugurando un filone che fa furore per un paio d’anni nel cinema italiano. Michela Miti impersona la supplente sexy che fa andare Pierino (e il pubblico) in visibilio quando mostra le gambe dietro la cattedra e si abbandona a brevi scene di nudo. La serie prosegue con Pierino medico della S.A.U.B. di Giuliano Carnimeo (1981), in realtà una sorta di parodia de Il medico della mutua (1968) di Luigi Zampa, poco collegata a Pierino. Pierino colpisce ancora di Marino Girolami (1982) è il vero sequel, l’ultimo Pierino realizzato da Girolami che gira anche una miniserie televisiva diffusa da alcune reti private laziali. Pierino torna a scuola di Mariano Laurenti (1990) è il canto del cigno del sottogenere, un remake tardivo che vede l’ex miss Italia Nadia Bengala al posto di Michela Miti, la sora Lella invece del nonno Riccardo Billi e Giulio Massimini per Enzo Liberti. Citiamo un orribile Pierino Stecchino, girato nel 1992 da Claudio Fragasso, che riscuote una fredda accoglienza da parte del pubblico. Alvaro Vitali prende in giro Roberto Benigni e ironizza su Johnny Stecchino, ma non è Totò e neppure Franco Franchi.


Il successo della serie ufficiale produce un proliferarsi di falsi pierini come il terribile Pierino il fichissimo di Alessandro Metz (1981), sceneggiato da Sacchetti e interpretato da Maurizio Esposito. Pierino aiutante messo comunale… praticamente spione di Mario Bianchi (1981) è un altro imbarazzante prodotto che si salva per la conturbante presenza di Laura Gemser. Il tremendo (in tutti i sensi) Pierino si chiama Tony Raggetti e i siparietti comici sono irritanti. Il film è composto da una serie di avventure scollegate tra loro, l’unico interesse per lo spettatore resta la dottoressa Gemser, medico condotto a Bolsena. Tra gli apocrifi, Pierino la peste alla riscossa (1982) di Umberto Lenzi è quello girato con maggiore professionalità e con attori degni di questo nome. Il Pierino di Lenzi è il toscanissimo Giorgio Ariani.


La palma del Pierino più trash, invece, spetta ad Alessandro Metz (1940), figlio del grande Vittorio (1904 - 1984), che debutta con questa sorta di pochade scoreggiona che finisce in bagarre condita di flatulenze a ripetizione. Metz firma pochi film da regista ma è molto attivo come aiuto e come sceneggiatore, irrinunciabile collaboratore di Castellano & Pipolo. Il suo Pierino ha il volto e la mimica di un improponibile Maurizio Esposito, attore televisivo durato lo spazio d’una stagione e (per fortuna!) scomparso nel niente, che non ha le physique du rôle di Alvaro Vitali ed è quasi più irritante di Raggetti. Tra i Pierini apocrifi si salvano Ariani e un minimo la Marfoglia per l’originalità del suo Pierino al femminile. 


Il film è sceneggiato dal regista con la collaborazione di Dardano Sacchetti, che non si è sprecato, forse si riconosce la sua mano nella sequenza del malavitoso che violenta la cameriera e minaccia il carabiniere. Per il resto buio totale. Due film in uno, macchiette frammentarie, episodi scollegati che si riappiccicano forzosamente in un finale super trash a suon di scorregge. Barzelletta-movie scolastico, farsa in un ristorante squinternato, vignette sui carabinieri (da querela!), commedia sexy (pessima), plagi da Totò e Peppino (la scenetta dello scroccone di polpette che per mangiare s’inventa le anime da salvare e da condannare), farsa scoreggiona. Molte sequenze sono pura comicità slapstick, cartoni animati veri e propri, condite da grottesco oltre ogni limite e surreale dispensato a volontà. 


Tutto questo è Pierino il fichissimo, che si ricerca e si vede con piacere proprio per il suo essere brutto, al di là di ogni possibile immaginazione. Lo spettatore attende la trovata successiva per capire fino a che punto il regista ha deciso di porre il limite oltre il quale non sia lecito andare. Si tocca il vertice del surreale quando a Sandro Ghiani, carabiniere idiota, chiedono di “friggere i pesci nel frigo”. Il militare impugna la pistola e bussa alla porta del frigo, i pesci rispondono intimoriti e quando lui si manifesta gridano: “Siamo fritti!”. Missione compiuta. Parte sexy per Adriana Russo, contesa da tutti, ma rispettata dallo sciocco fidanzato (Ghiani), brava a recitare in ciociaro e a cercare di risollevare il livello infimo della farsa. A un certo punto entrano in scena due camionisti assurdi (Tognella e Spadaro) come avventori del ristorante, davvero poco comici, ma soprattutto inutili. 


Gastone Pescucci è bravo nel ruolo del matto e si ricorda per la battuta razzista del borotalco per negri fatto con i fondi del caffè. Jimmy il Fenomeno è il postino sciocco che recita persino qualche battuta e afferma a ripetizione di non essere cretino. Gianni Ciardo è il peggiore di tutti (a parte Esposito), tentativo di attore comico napoletano, che riesce solo a irritare. Crocitti e Ralli sono diligenti. Nino Terzo è il comandante dei carabiniere dalla voce afona con la moglie scoreggiona che in un gran finale spazza via tutti dall’osteria, nonostante il tappo al culo messo dal marito. Finale a Piazza Navona con Pierino strillone: “Edizione straordinaria! Pioggia di merda a Roma! Vacca a Torino accecata da un tappo!”.



La critica. Non piace neppure a Marco Giusti (Stracult), che vede nel cast persino Ugo Fangareggi (non c’è!) e assegna a Mertz il merito di aver diretto “il primo dei falsi Pierini”. Giusti riconosce che il livello delle trovate è volgarissimo e che soltanto “il finale è grandissimo per merito della moglie scoreggiona di Nino Terzo”. Giulio Pavone: “Questo film è girato con i piedi”. Pino Farinotti trova una trama da raccontare in un film che non ha uno straccio di consequenzialità logica, poi concede una stella. 


Morandini finge di dimenticare l’esistenza della pellicola. Paolo Mereghetti (una stella): “Pierino racconta barzellette scatologiche, tira sassi nel sedere della maestra (non è vero, i sassi nel sedere li tira a una bellona nelle prime sequenze per farle sgonfiare il posteriore e alla moglie di Terzo nel finale per farle saltare via il tappo al culo, ma alla maestra si limita a tirare giù i pantaloni in una sequenza poco riuscita, nda) e rovina la vita del suo prossimo. Collage di barzellette per cerebrolesi girato senza nemmeno Alvaro Vitali (è un apocrifo, Mereghetti!, nda) e non un briciolo di professionalità”. Praticamente mi dà del cerebroleso, ché io l’avrò visto quattro o cinque volte in vita mia e ancora ci rido, pure se riconosco la pochezza della materia, anzi, direi (viste le scorregge) l’estrema volatilità della narrazione.

mercoledì 23 luglio 2014

Il poliziotto è marcio (1974)

di Fernando di Leo

Il poliziotto è marcio (1974) è sceneggiato da Fernando di Leo su soggetto di Sergio Donati. La fotografia è del solito Franco Villa e il montaggio del fido Amedeo Giomini. Le musiche sono del collaudato Luis Enriquez Bacalov e le scenografie di Francesco Cuppini. Producono Galliano Juso e Ettore Rosboch per Cinemaster/Mount Street Film (Roma) e Mara Film (Parigi). Distribuisce un colosso come Titanus. Interpreti: Luc Merenda, Richard Conte, Delia Boccardo, Raymond Pellegrin, Salvo Randone, Gianni Santuccio, Vittorio Caprioli, Rosario Borrelli, Monica Monet, Gino Milli, Elio Zamuto, Loris Bazzocchi, Marcello Di Falco, Massimo Sarchielli, Marisa Traversi e Sergio Ammirata.


   Il protagonista è il giovane poliziotto Malacarne (nome che è tutto un programma) della questura di Milano, che da tempo riceve mazzette dai boss Mazzari e Pascal attivi nel contrabbando di sigarette e caffè. Il regista presenta subito alcune scene crude e realistiche che documentano scontri tra malavitosi per il predominio nel mercato della droga. Il boss Pascal scatena i suoi uomini e ordina di uccidere i rivali con bastonate e colpi di mitragliatrice, fino a eseguire una vera e propria strage in un capannone. Entra in gioco il commissario e alcune scene di azione documentano il suo impegno per sconfiggere il traffico di droga. Assistiamo a una fuga di criminali, un ottimo inseguimento da poliziottesco classico e infine a un’eroica cattura eseguita da Malacarne. L’incipit è da cinema poliziesco, sono degni di nota gli inseguimenti per le strade di Milano e sui navigli, a base di frenate, sterzate, collisioni, auto affiancate e speronate. Malacarne è un uomo nelle mani della mafia, pure se viene presentato come un eroe quando cattura due sudamericani coinvolti in un traffico d’armi. Ha un’amante, una casa bellissima e conduce una vita agiata grazie ai soldi della malavita. Vittorio Caprioli interpreta un meridionale stizzoso e polemico che presenta al comando dei carabinieri una denuncia pericolosa, ma non se ne rende conto. Un’auto si è fermata sotto la sua abitazione, bloccando la via d’uscita e alcune persone sono scese provocando schiamazzi. Purtroppo non si sono limitati a questo ma hanno anche ucciso un ragazzo di famiglia nobile, una cosa che il meridionale non può sapere. Pascal e Mazzari chiedono a Malacarne di far scomparire la denuncia che potrebbe smascherare gli assassini. Il poliziotto entra in crisi e comprende che il giro si sta allargando, soprattutto non vuole saperne di aiutare la mala se entrano in ballo armi e droga. “Sono sempre stato pagato per favorire un traffico di caffè e sigarette” dice. “I tempi cambiano e anche i soldi che ti diamo sono aumentati…” risponde Pascal. Malacarne si trova coinvolto in una brutta storia. Intanto ci rendiamo conto che anche il luogotenente Garrito è corrotto, perché incassa la sua parte dal commissario che gli intima di vendere il suo Ferrari, perché può far scoprire il gioco. Malacarne deve far scomparire la denuncia che inchioda i colpevoli, un atto protocollato proprio da suo padre, maresciallo dei carabinieri vecchio stampo dotato di grande senso morale. Il contrasto tra la fedeltà al dovere del padre e l’immoralità del figlio occupa la parte centrale della pellicola, ma alla fine il carabiniere decide di consegnare la denuncia perchè venga distrutta. “Non ti far più vedere a casa mia” intima.  Malacarne si mostra esitante, dubbioso, capisce di aver commesso un gesto pericoloso e che adesso non si limita a coprire due contrabbandieri. Al tempo stesso, però, i due boss non si fidano più e decidono di passare all’azione nei suoi confronti, dopo aver fatto fuori il vecchio napoletano che aveva inoltrato la denuncia. Pascal fa uccidere prima il padre di Malacarne e subito dopo la sua amante, scatenando la reazione del poliziotto che si trasforma in una belva. Il leitmotiv è tipico del cinema dileiano e ricorda la trama de La mala ordina. Malacarne uccide alcuni gregari di Pascal, poi fa fuori anche il boss con l’approvazione di Mazzari, durante una riunione organizzata per fingere una riappacificazione. Il finale non è per niente consolatorio e anche il poliziotto corrotto viene ucciso dal luogotenente Garrito, che prenderà il suo posto agli ordini del boss Mazzari.  “Mi dispiace, commissario” dice. Un colpo alla nuca esplode sulla parola fine e un ralenti interminabile mostra il dolore misto a sorpresa del commissario.


   Il poliziotto è marcio è il titolo italiano del romanzo Rogue Cop di William P. McGivern (1954), dal quale deriva il film Senza scampo di Roy Rowland (1954). Di Leo prende soprattutto il titolo del romanzo ma alcuni spunti ispirano lui e Sergio Donati per la costruzione della trama. Rogue Cop racconta la storia di due fratelli poliziotti, uno corrotto e l’altro onesto, che entrano in conflitto quando si tratta di identificare l’autore di un omicidio. Il poliziotto corrotto è sul libro paga di un boss della malavita e cerca di impedire che il fratello risolva il caso. Di Leo non si discosta molto da questo canovaccio e racconta il contrasto tra padre e figlio, il primo integerrimo maresciallo dei carabinieri e il secondo corrotto commissario di pubblica sicurezza al servizio di due boss. Il film arriva nelle sale subito dopo Il boss ed è abbastanza in sintonia con le tematiche e la filosofia del lavoro precedente. Non ci sono personaggi positivi - a parte il padre maresciallo - e anche qui troviamo un poliziotto corrotto interpretato da Luc Merenda, anche se meno evidente del Torri/Garko che abbiamo apprezzato ne Il boss


Le prime sequenze mostrano Malacarne come un poliziotto modello, una sorta di eroe che arresta banditi e si fa onore senza pretendere attenzione da parte dei giornalisti. Il poliziotto sembra un disinteressato tutore dell’ordine che non pensa alla carriera ma solo alla tutela del cittadino. In un secondo tempo apprendiamo che è soltanto un uomo corrotto che recita una parte, pagato per coprire la malavita e loschi traffici di caffè e sigarette. Il fatto che si lasci corrompere solo per il contrabbando di merce innocua e non accetti di collaborare per droga e armi lo rende appena più simpatico, ma la corruzione resta. Il poliziotto dileiano è lontano mille miglia da quello esemplare del poliziottesco classico. Il regista approfondisce il contrasto tra le due figure cardine della storia. 


Il padre è un carabiniere integerrimo alle soglie della pensione, uno straordinario Salvo Randone che si cala nella parte da grande attore di teatro. Il figlio è soltanto un uomo piccolo, un poliziotto imborghesito che non crede nel dovere e non se la sente di rinunciare alla vita lussuosa che conduce grazie alla malavita. Il punto più alto del melodramma è la lite con il padre, accompagnata a dovere dalla musica intensa di Bacalov. Cerco di trascriverlo a memoria. Luc Merenda: “E non facciamo il melodramma! Sissignore, sono corrotto! Sono un infame, un traditore! Ho sessanta milioni da parte, un’amante di lusso e quando alzo la voce tutti si schiaffano sugli attenti! E allora?”. Salvo Randone: “Ti pagano? Ti sei venduto? Tu, mio figlio...”. Merenda: “Ma chi sei tu per farmi la morale? Io ti ho visto leccare le scarpe per tutta la vita. Quante volte hai massacrato di botte dei poveracci con la benedizione dei superiori? Quante prove hai fabbricato per trovare dei colpevoli qualsiasi? Quanti soprusi, quanti inghippi... per un panettoncino a Natale! Pure questa è corruzione, ma corruzione da fessi!”. 


Alla fine il padre accetta di consegnare il documento protocollato, ma ormai Pascal ha dato l’ordine di farlo fuori, così come deve essere eliminata la fidanzata (una Delia Boccardo poco utilizzata). Il commissario si salva dalla bomba collegata al campanello di casa ma al suo posto muore un collega. Di Leo è bravo anche nella rappresentazione della morte quando gira tre feroci esecuzioni che si susseguono in breve tempo. Vittorio Caprioli viene soffocato con un sacchetto insieme al gatto, Salvo Randone è affogato in un naviglio e Delia Boccardo viene massacrata di botte sul letto di casa e quindi finita con il filo del telefono legato al collo. Pare che dalla pellicola uscita nelle sale sia stata eliminata la scena in cui Merenda, accecato dalla rabbia, getta la testa di Conte nel lavandino. Un finale nerissimo e imprevedibile chiude un ottimo film che fa calare il sipario sulla prima fase dell’opera dileiana, quella degli indimenticabili noir metropolitani duri e realistici.


   Il poliziotto è marcio è un poliziottesco atipico, alla di Leo, senza personaggi positivi ed è il primo film noir che non viene realizzato dalla sua casa di produzione, ma su commissione di Galliano Juso ed Ettore Rosboch. Il film è piuttosto riuscito, visto che di Leo e Donati riescono a scrivere una storia originale e meno convenzionale dei soliti poliziotteschi che andavano di gran moda. Prima di tutto c’è la figura del poliziotto corrotto, resa molto bene da Luc Merenda e bilanciata da quella di un padre carabiniere che ha l’espressione intensa di Salvo Randone. Nel poliziottesco classico il commissario è un eroe senza macchia e senza paura, affronta i banditi con metodi spicci e fuori dalle regole, si mette contro i superiori, ma alla fine sconfigge sempre il cattivo di turno. Il poliziotto dileiano, invece, è marcio, corrotto fino al midollo, ma ritrova la sua dignità di uomo di fronte agli eventi tragici della vita. La morte del padre e dell’amante, trucidati dalla mala, innescano una reazione da belva che già avevamo visto nei film del regista pugliese. Delia Boccardo è brava nella parte dell’amante e alla fine viene uccisa dalla mala che vuole scaricare il suo uomo. Il poliziotto non fa una bella fine e muore stritolato da un ingranaggio di corruzione del quale lui stesso aveva fatto parte. La bravura del regista sta nell’aver costruito una figura insolita di poliziotto, dinamico ed eroico nelle sue azioni, ma corrotto perché non sa rinunciare a fare la bella vita. 


Un poliziotto corrotto già lo abbiamo incontrato ne Il boss, magistralmente interpretato da Gianni Garko, ma qui Luc Merenda dà vita a una figura più complessa, perché il suo tutore dell’ordine conserva alcuni sprazzi di eroismo e di lealtà. A suo modo Malacarne ha un codice d’onore e al momento giusto lo tira fuori e si ribella. Il luogotenente Garrito, invece, è irrecuperabile e niente lo può riscattare da un destino che lui stesso sceglie per prendere il posto di Malacarne. Garrito è simile al poliziotto corrotto interpretato da Garko ne Il boss, mentre Luc Merenda è una carogna da noir che nel finale si riscatta e suscita la simpatia dello spettatore. Luc Merenda si cimenta in un ruolo insolito e completamente fuori registro rispetto ai poliziotti senza macchia e senza paura che aveva sempre interpretato. Questo è il suo primo film con di Leo, ma si trova bene e in seguito ne interpreterà altri due. Tra gli interpreti merita un cenno Vittorio Caprioli, attore feticcio del regista, che con la sua comicità napoletana stempera i momenti di tensione. 


Caprioli mette in moto involontariamente tutti i meccanismi perversi della storia, solo per colpa di una denuncia per schiamazzi notturni. Raymond Pellegrin è un cattivo perfetto che veste bene i panni dell’implacabile Pascal, malavitoso che ragiona a colpi di mitra e di efferati omicidi. Richard Conte rappresenta la malavita in doppio petto, quella disposta a pagare e a ragionare prima di uccidere, ma che all’occorrenza elimina gli uomini pericolosi per difendere i propri interessi. Di Leo è molto bravo anche a sottolineare il rapporto padre - figlio, dopo che il padre ha scoperto la sua corruzione. La musica intensa di Bacalv sottolinea momenti commoventi e drammatici, soprattutto la delusione di un padre che per anni ha servito fedelmente lo Stato. Stupendo il finale con un colpo di pistola alla testa che uccide il commissario e la morte viene filmata lentamente, sequenza dopo sequenza, con un ralenti straordinario.


Paolo Mereghetti nel suo importante Dizionario concede due stelle e scrive: Nella sceneggiatura del regista è evidente la volontà di dissacrare i cliché del poliziottesco alla Maurizio Merli, costruendo un personaggio pieno di contraddizioni e nemmeno simpatico: peccato che il racconto spesso si sfilacci, malgrado accelerazioni brutali che lasciano il segno. Concede due stelle anche Pino Farinotti, ma al solito non motiva la decisione e sintetizza la trama. Marco Giusti nel suo Stracult si limita ad apprezzare la bellezza di Monica Monet che interpreta una parte rapidissima da cronista, ma sul film non si pronuncia. Tra l’altro credo che sia uno dei pochi film da lei interpretati e non saprei neppure dire quale fosse il suo vero nome. Monica Monet è uno pseudonimo inventato da di Leo che nasconde una ragazza milanese che frequentava un corso di giornalismo. Come dire che nella pellicola finisce per recitare la parte di se stessa. Il Morandini non cita neppure l’esistenza del film e mi pare piuttosto grave, perché le omissioni che riguardano il cinema dileiano sono numerose e incomprensibili. Pietro Bianchi su Il Giorno del 1974 rappresenta la critica contemporanea all’uscita del film: Si tratta di un film svelto e ben ambientato a Milano e dintorni che cela un baco come il protagonista. Non si capisce come, con tutta la carne al fuoco che offre la cronaca nera, il regista si sia impantanato in un groviglio poco credibile, tenebroso senza giustificazione e del tutto improbabile. Terminiamo con il parere del regista: “Credo di essere stato l’unico ad aver girato un film che parlasse della corruzione delle forze dell’ordine ne Il poliziotto è marcio. Il solo titolo e i manifesti irritarono il Viminale a tal punto che ricevetti telefonate minatorie da voci che a quel ministero facevano riferimento. Va da sé che forse le telefonate le fecero quelle bestie stupide e feroci conosciute come benpensanti” (da Nocturno Cinema - Dossier di Leo).


Il mio libro sul regista edito da Profondo Rosso

venerdì 18 luglio 2014

Piange… il telefono (1975)

di Lucio De Caro



Regia: Lucio De Caro. Soggetto: Lucio De Caro, tratto dalla canzone Piange… il telefono (Le téléphone pleure) di Claude Françoise e Jean Pierre Bourtaire, testo originale di F. Thomas; testo italiano di Domenico Modugno. Sceneggiatura: Lucio De Caro, Lina Agostini. Montaggio: Ornella Micheli. Fotografia: Sergio Salvati. Direttore di Produzione: Alfonso Donati. Produzione: Coralta Cinematografica Srl (Roma). Aiuto Regista: Renato Ferraro. Operatore alla Macchina: Franco Bruni. Fotografo di Scena: Gianfranco Massa. Scenografia e Costumi: Massimo Lentini. Musica: Domenico Modugno. Direttore Musica: Angelo Giacomazzi. Interni: Studi Dear (Roma). Vestiti defilé Danaud: André Laug. Interpreti: Domenico Modugno, Francesca Guadagno, Marie Yvonne Danaud, Claudio Lippi, Louis Jourdan, Gigi Ballista, Belinda Braun, Alain Corot, Stelio Candelli, Riccardo Parisio - Perrotti, Franco Odoardi.



Piange… il telefono è un film interessante perché presenta un’insolita contaminazione di generi, partendo dal sentimentale permeato di melodramma e spingendosi sui terreni impervi d’un lacrima movie soffuso di musicarello.



Giuseppe Lucio De Caro (Pescara, 1922), che Roberto Poppi - nel suo prezioso Dizionario - descrive come assistente di Mario Soldati, sceneggiatore e modesto regista “dal 1974 al 1976 di alcuni lavori presto dimenticati”. Debutta nel 1943 (a ventun anni) con Il ventesimo duca. Dirige la versione italiana di Manù il contrabbandiere (1947 - 48), fa il giornalista, sceneggia il primo poliziottesco: La polizia ringrazia (1971) di Stefano Vanzina, la sua cosa migliore. Collabora con Vanzina, scrive i soggetti di alcuni Piedone, lo troviamo con Lizzani in televisione, dirige Processo per direttissima (1974), Piange… il telefono (1975) e Come ti rapisco il pupo (1976).



Piange… il telefono è un film costruito sulla canzone, con varianti e inevitabili aggiunte, mentre alcuni versi restano non sceneggiati. Grande colonna sonora di Domenico Modugno, con la popolare canzone che scorre insieme ai titoli di testa e nel triste piano sequenza finale. Era dai tempi del musicarello che non accadeva, un intero film basato su una canzone, anche se non è un vero e proprio musicarello, perché di canzoni si sente solo Piange… il telefono.



De Caro racconta a tinte melodrammatiche la storia d’amore tra il pilota Andrea Balestrieri (Modugno) e la modella Colette (Danaud), destinata a non avere lieto fine perché l’uomo si ammala di cuore ma non rinuncia a volare e finisce per pilotare gli aerei di una banda di trafficanti d’armi. Viene catturato e resta prigioniero dei guerriglieri per sette lunghi anni, mentre nasce sua figlia Chiara (Guadagno), la moglie si sposa con il medico che la fa partorire e si convince d’essere stata tradita. Andrea ritorna a Roma dopo la prigionia, cerca di parlare con la moglie ma viene respinto, ha un colloquio con il compagno, telefona spesso e vede la figlia. Non le dice che è il padre, ma diventa suo amico e le raccomanda di stare sempre con la madre, anche quando lui non verrà più. Andrea ha sei mesi di vita, il cuore l’ha tradito e la morte l’attende dietro l’angolo.



Un film che risente di evidenti limiti di sceneggiatura, dialoghi troppo impostati e una recitazione teatrale, ma che ha dalla sua una magistrale fotografia di Salvati (stupendi paesaggi marini, vedute di Roma e Taormina) e una grande musica di Modugno. La prima parte scorre come una love story, puro cinema sentimentale con frasi tipo “lassù qualcuno ti ama” e dialoghi banali tra Modugno e l’amico pilota (niente meno che Claudio Lippi!). Buone alcune sequenze di volo e anche l’atterraggio di fortuna del velivolo con la successiva prigionia in un’Africa che nasconde la Sicilia orientale. Troppo lunghe le scene di sfilata, dove Marie Yvonne Danaud fa il suo vero mestiere, visto che come attrice lascia a desiderare. Un film antiabortista (“la scelta di non far nascere un figlio deve essere meditata”, dice il medico), che migliora nella seconda parte quando assume tomi da blando lacrima movie



Il ritorno del padre tocca l’apice del sentimentalismo con la telefonata straziante alla bambina che ricalca il testo della canzone. Francesca Guadagno è spontanea, tenera, credibile, così come Louis Jourdan non è male, anche se troppo impostato. Domenico Modugno è bravo sia quando canta che quando recita, ma non lo scopriamo certo noi. Stupendo un piano sequenza di Modugno sul mare con la musica della canzone in sottofondo. Bellissimo l’apologo del pagliaccio che vola in cielo dopo essere caduto dal trapezio, che vuol far capire alla bambina il senso della vita e della futura assenza. Regia senza infamia e senza lode, anche se un eccesivo uso dello zoom rende irritanti alcune sequenze. Lacrima movie atipico, in ogni caso, perché è il padre a morire, il regista lo lascia soltanto intuire, proprio come nella canzone. “Piango al telefono l’ultima volta ormai/ ed il perché domani tu lo saprai…”, canta Modugno in sottofondo mentre saluta la bambina e si allontana sul viale verso un futuro che non avrà lunga durata.



Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Come dice una comparsa, sembriamo proprio in un melodramma all’italiana (…). Ispirato a una canzone francese portata al successo in Italia da Modugno, un esempio di cinema popolare irrimediabilmente datato anche se costruito con una certa efficacia melodrammatica, a cui non giova il tentativo metacinematografico di esplicitare i meccanismi del genere attraverso la figura del medico che si prende cura della protagonista e che spiega - a lei come al pubblico - quello che di solito nei mélo rimane implicito (compreso una tirata a favore della vita e contro l’aborto)”. Pino Farinotti (una stella) è ingiusto e superficiale: “Trama pretesto per sfruttare una canzonetta di successo”. Sergio Germani: “Mélo fiammeggiante”, una definizione nuova ma poco comprensibile. Marco Giusti (Stracult): “Un lacrima-movie ben costruito da Lucio De Caro che nasce da una canzone francese portata al successo in Italia da Modugno. Cultissimo per tutti”.



Un film importante per gli storici del cinema popolare e per gli amanti della commistione dei generi che ritroveranno momenti d’un cinema del passato che non può tornare.


Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

giovedì 10 luglio 2014

Morituris (2011)

di Raffaele Picchio



Regia: Raffaele Picchio. Soggetto: Tiziano Martella; Raffaele Picchio. Sceneggiatura: Gianluigi Perrone. Fotografia. Daniele Poli. Montaggio: Daniele Martinis. Produttori: Vincenzo Manzo, Gianluigi Perrone, Raffaele Picchio, Pierpaolo Santagostino. Casa di Produzione: Fingerchop Movie Production. Dvd: Sinister Film (2013). Genere: Horror. Durata: 83’. Interpreti: Valentina D’Andrea, Andrea De Bruyn, Desirèe Giorgetti, Francesco Malcom, Giuseppe Nitti, Simone Ripanti.


Morituris è un film horror indipendente molto coraggioso che sfida gli strali della censura esibendo la violenza con compiaciuto realismo, come da tempo non vedevamo. Raffaele Picchio per la sua opera prima prende come punto di partenza il cinema exploitation anni Settanta - Ottanta, cose come Non violentate Jennifer, ma indirettamente anche L’ultima casa a sinistra e Cannibal Holocaust.


In breve la trama. Tre ragazzi rimorchiamo due ragazze e le invitano a un fantomatico rave party in un bosco. In realtà è tutto un trucco per approfittare di loro, violentarle e torturarle fino alla morte. Ma il bosco è abitato da oscure presenze, gladiatori d’una città perduta che si risvegliano e compiono una singolare giustizia a suon di crocifissioni.



Un film cattivo, spietato, per niente consolatorio, la rappresentazione di un male capace di portare soltanto un male maggiore, introdotto da un filmino in superotto stile Strega di Blair e Cannibal Holocaust che mostra un eccidio familiare nel bosco degli orrori.



Morituris viene girato per due mesi in un bosco dalle parti di Roma, con la macchina a mano, riprendendo tutte le suggestioni della notte, l’atmosfera di una città morta infestata da gladiatori zombi. Il film parte lento, dialoghi impostati, recitazione carente, una sequenza in auto che ricorda la prima mezz’ora di In the Market, lunga e ridondante. Si entra nel vivo quando la storia si trasforma in un torture-porn con allucinanti sequenze di stupro, credibili e ben realizzate. 




L’attore più perverso è Giuseppe Nitti che trova una buona intesa con Desirèe Giorgetti e realizza un’indimenticabile sequenza di violenza carnale, a tratti esplicita, in altri frangenti raccontata grazie agli occhi spiritati della ragazza. Sono queste le sequenze che hanno scandalizzato i censori, oltre a una scena girata in interni che vede un sadico torturatore inserire un topolino nella vulva della vittima. Il film doveva essere distribuito a partire dal 19 novembre 2012, ma la Commissione di Revisione Cinematografica ha negato il nulla osta. 


La motivazione è allucinante, più delle sequenze incriminate, perché dopo quattordici anni si torna a parlare di “offesa al buon costume”, visto che “gli atti di violenza e di perversione sulle donne, sono motivati dal gusto della sopraffazione e dall’ebbrezza della propria forza rafforzata dal consumo di alcol e droga”. La Commissione aggiunge: “I giustizieri si accaniscono sia sui ragazzi, rei di violenza e sadismo, sia sulle ragazze vittime dei loro carnefici. Infine, negli atti di perversa violenza viene impiegato un topolino come un oggetto sessuale”. La Commissione giudica la pellicola “un saggio di perversità e sadismo gratuiti”. 


Il film viene pubblicato in DVD in Francia, Finlandia, Danimarca, Giappone e in Germania (censurato). In Italia esce il 18 febbraio 2014 per la Sinister Film. Siamo contrari da sempre a ogni tipo di censura, perché una pellicola destinata a un pubblico adulto non deve essere giudicata da un punto di vista morale ma tecnico - estetico. 


Morituris presenta carenze di sceneggiatura e una fotografia discutibile, ma grandi effetti speciali di Sergio Stivaletti che riportano all’artigianato anni Settanta - Ottanta, tra calchi di gesso, crani modellati sui volti dei protagonisti, marmellata per ricreare pelli smembrate, trucco mirabile per realizzare i gladiatori. Digitale poco o niente, per fortuna. Al critico non può interessare se i protagonisti sono personaggi negativi, sadici razzisti dediti ad alcol e cocaina, perché tutto fa parte della rappresentazione del male e chi decide di vedere Morituris sa cosa l’attende. Le scene di stupro sono credibili, le soggettive dei gladiatori come presenze demoniache inquietanti, le sequenze che vedono la crocifissione dei cinque ragazzi macabre al punto giusto, le flagellazioni e le decapitazioni realistiche. Difetti evidenti la mancanza di tensione narrativa, la ripetitività delle situazioni, la carenza di storia, una fotografia troppo scura che spreca i mirabili effetti speciali di Stivaletti.



Morituris è un film che rifiuta le mezze misure, mostra la violenza al cento per cento, non lascia niente all’immaginazione, proprio come la vecchia exploitation tanto cara al regista, che cita pure la strage del Circeo. I tre personaggi maschili sono antipatici, ragazzi borderline, rappresentano l’ipocrisia, la rabbia dei coatti, la consapevolezza del male. Picchio giustifica la scelta fotografica, afferma di aver voluto una rappresentazione realistica del bosco di notte, ma se riguarda il girato si deve rendere conto - perché sembra un ragazzo intelligente - che spesso lo spettatore si perde le sequenze migliori. Tre toni di fotografia, per gli interni un caldo rosso acceso, per gli esterni uno spettrale azzurro tendente al nero, quando scoppia il male un rosso fuoco, per le violenze il buio del bosco di notte. I gladiatori zombi sono dei singolari giustizieri senza morale, dispensano il male assoluto che non guarda in faccia a nessuno, che sfocia improvviso e supera il sadismo agghiacciante dei persecutori. Un’incoraggiante opera prima, pur con i limiti che abbiamo cercato di mettere in evidenza. Picchio può fare di meglio, anche perché mostra di non badare ai moralisti.