lunedì 27 novembre 2017

Venni, vidi e m'arrapaho (1984)


di Vincenzo Salviani


Regia: Vincenzo Salviani. Soggetto: Vincenzo Salviani. Sceneggiatura. Mario Bianchi, Vincenzo Salviani. Fotografia: Franco Campanile. Aiuto Regia: Mario Bianchi. Ispettore di Produzione: Alessandra Spagnuolo. Musiche: Claudio Natili, Silvia Subelli. Edizioni Musicali: Golden Grape sas. Oganizzazione Generale: Gilberto Galimberti. Colore: Augustus Color. Fonico: Antonio Pantano. Trucco: Massimiliano Lucci. Canzoni: Come sarà, Monica, Domenica svortamo, Fever (cantano Gli Arrapathis), Papà uh! Mamma, Il cielo in una stanza (cantano I Milk and Coffe), Luna donna luna (Roby Vandalo), Questo sentimento (Santarosa), La canzone del cacchio (Edoardo Terzo), I Belive (Gli Any Way), Che domenica (I Pom), Ho bisogno di te (I Romans), And I Say (Betty Elso), Bamboline bamboline (Roby Vandalo). Produzione: Samacor Cinematografica srl, Mondial Baia Cinematografica srl. Interpreti: Giziana Spatrisano, Alessandro Cerquetti, Athena Minglis, Giancarlo Capo, Daniela Andriolo, Luciano Pinna. Cecilia Oliva, Maurizio Argentieri, Edoardo Terzo.


Vincenzo Salviani si occupa di cinema dalla fine degli anni Sessanta, rivestendo svariati ruoli legati alla produzione (ispettore, direttore), fino a diventare lui stesso produttore (1974). Non lascia capolavori, ma onesto artigianato, molti film girati da Fernando di Leo lo vedono segretario di produzione (Brucia ragazzo brucia, Amarsi male, I ragazzi del massacro, Il boss), ruolo che ricopre anche in Acquasanta Joe di Mario Gariazzo. Direttore di produzione per Sedicianni e Lo stallone, due erotico - campagnoli di Tiziano Longo. Ancora cinema di Fernando di Leo come ispettore di produzione: La bestia uccide a sangue freddo, Milano calibro 9, La mala ordina. Ma anche Ku fu? Dalla Sicilia con furore di Nando Cicero, L’ultima chance di Maurizio Lucidi, La governante di Gianni Grimaldi, Madeleine… anatomia di un incubo di Roberto Mauri, Il testimone deve tacere di Gianni Rosati, Il venditore di palloncini di Mario Gariazzo e Yuppi Du di Adriano Celentano. Produttore de La profanazione di Tiziano Longo, Ondata di piacere di Ruggero Deodato, L’avvocato della mala di Vincenzo Marras, Uomini si nasce poliziotti si muore di Ruggero Deodato (anche soggetto), Voglia di donna di Franco Bottari, Malizia erotica di Larraz, La moglie dell’amico è sempre più buona di Bosch Palau (anche soggetto e sceneggiatura), Il carabiniere di Silvio Amadio, Il miele del diavolo di Lucio Fulci (anche soggetto e sceneggiatura).


Vincenzo Salviani firma tre titoli da regista, legati da un comune denominatore, sono tutti dimenticabili: la sceneggiata napoletana Pover’ammore (1981), interpretata da Rosa Fumetto e Carmelo Zappulla; Venni, vidi e m’arrapaho (1984), che abbiamo rivisto; l’erotico patinato Sogno proibito (1988), interpretato da Brett Halsey.



Venni, vidi e m’arrapaho resta il suo film di culto, se non altro per l’originalità, per il livello di trash inconsapevole di cui è pervaso, composto com’è da un mix informe di commedia sexy, musicarello, giovanilistico, disco - movie, scritto a pura imitazione di modelli d’oltreoceano come La febbre del sabato sera, Flashdance e Porkys. Salviani dirige (piuttosto male) un gruppo di attori scalcinati - quattro ragazzi e quattro ragazze - pedinandoli nel loro quotidiano (ma Zavattini non c’entra per niente!) fatto di gare di motocross, scherzi feroci, prove musicali, amoreggiamenti vari con fidanzate e con una prostituta amante del pesce, esibizioni in palestra, furtive occhiate a ragazzine che si spogliano e fanno la doccia in palestra. Il film è tutto qui, forse le parti più divertenti sono le canzoncine trash che vanno dalla ritmata Donna luna alla volgarissima Come sarà, che indaga il tormentato io giovanile degli anni ottanta, alla perenne ricerca di una donna, basta che respiri. Il soggetto è composto da una serie di gag stiracchiate che ricordano il barzelletta - movie, raramente strappano il sorriso, come nel caso della lite tra pescivendoli al mercato che serve ai ragazzi per rimediare il pesce con cui pagare la prostituta e il noleggio degli strumenti musicali. Mario Bianchi aiuta sia in fase di sceneggiatura e che di regia, la sua mano greve si nota in più di una situazione, soprattutto nelle numerose citazioni della commedia sexy, ormai scaduta a livelli infimi. Molta discoteca anni Ottanta, con i lenti quando si abbassano le luci, tanta musica stile Bee Gees, ma pure citazioni da Flashdance con alcuni numeri di ballo in una scuola di danza diretta da un istruttore gay (che si chiama Proci). 


Il tempo delle mele non può mancare, a livello di citazione volgare, così come non si scordano citazioni di citazioni, opere - certo non fondamentali - come Brillantina Rock e John Travolto… da un insolito destino. Non dimentichiamo la citazione del titolo: Arrapaho, dei mitici Squallor, che pure non c'entra niente. Un film senza una vera e propria trama, che si segue solo per vedere dove il regista voglia andare a parare. Da nessuna parte, in fondo, ché tutto pare improvvisato, scritto sequenza dopo sequenza, fino alla gara canora durante la quale Edoardo Terzo ci serve come piatto forte il suo celebre samba del cazzo e i nostri Arrapathis ci regalano una spudorata imitazione di Reality. Ma il meglio da un punto di vista canoro è già passato, cose da musical triviale girato tra Villa Adriana e Villa d’Este, ma pure per le vie di Roma, tra i monumenti più famosi, cantando Domenica svortamo, perché lei me la darà, oppure Monica in napoletano, che termina con un vaffanculo rivolto alla ragazza. Un film che sembra una raccolta di videoclip senza senso, sceneggiati usando un collante invisibile, che in fondo si rivede volentieri per rimpiangere un tempo in cui il vitale cinema italiano passava da un capolavoro diretto da Mario Monicelli a una stronzata galattica di Vincenzo Salviani, senza soluzione di continuità. Non ci crederete, ma entrambi i film si vedevano in sala. (Gordiano Lupi - www.infol.it/lupi).

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venerdì 20 ottobre 2017

Riposa in pace, Maestro



Muore all’età di 86 anni Umberto Lenzi (Massa Marittima, 6 agosto 1931 - Roma, 19 ottobre 2017) , un regista del quale non posso dire di essere stato amico, perché anni fa avevo deciso di scrivere un libro sul suo cinema e dopo alcuni approcci e dichiarazioni rilasciate in esclusiva, la cosa finì male, per alcune incomprensioni. Non ci siamo più parlati e - per mia ripicca - ogni volta che lui è venuto a Massa Marittima e a Piombino non sono mai andato a sentirlo. Forse ho sbagliato, perché - nonostante il caratteraccio, difetto che in fondo ci accomuna - era un grande regista, uno che sapeva fare il cinema di genere.  Lenzi si è avvicinato al cinema horror negli anni Ottanta, dopo aver sperimentato gli altri generi popolari come l’avventuroso, il peplum, lo storico, il thriller erotico, il poliziottesco, i Tomas Milian movie, un fumetto movie come Kriminal e persino il sottogenere cannibalico. Non possiamo dire che l’horror sia stato il genere preferito dal regista massetano, ma è anche vero che una volta cominciato a fare cinema de paura ha continuato per oltre un decennio con ottimi risultati.  Se confiniamo i cannibal movie nel sottogenere che contamina horror e avventuroso, dobbiamo dire che il primo horror puro di Lenzi è Incubo sulla città contaminata (1980). Il regista mi disse che questo film gli fu proposto come una classica pellicola di zombi, ma lui la trasformò in  un horror ecologico, imperniato su una contaminazione nucleare che trasforma le persone in creature mostruose bisognose di sangue per sopravvivere. “La sceneggiatura di Incubo era una vera schifezza e io la dovetti rielaborare per intero” mi disse Lenzi. 

Per leggere il resto del pezzo vi invito a collegarvi con Futuro Europa, dove tengo una rubrica di cinema italiano: http://www.futuro-europa.it/25173/cultura/scompare-umberto-lenzi-maestro-del-cinema-genere.html

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sabato 14 ottobre 2017

Pierino contro tutti!



A breve in libreria il primo e unico saggio mai scritto in Italia sulle commedie cinematografiche di Pierino

Pierino è il bambino terribile delle nostre barzellette, noto anche in America Latina, dove viene chiamato Pepito, ma le caratteristiche non cambiano: irriverenza, volgarità, trasgressione, ilarità e sboccataggine. Noi vogliamo parlare solo del Pierino cinematografico, geniale intuizione di Marino Girolami, Gianfranco Clerici e Vincenzo Mannino che produsse sequel, apocrifi, film per la televisione, progetti mai realizzati, idee bruciate sul nascere e persino alcuni film invisibili, vero e proprio incubo dei fan. I film della serie regolare – interpretata da Alvaro Vitali – sono tre: Pierino contro tutti (1980) e Pierino colpisce ancora (1982), diretti da Marino Girolami, mentre il tardo sequel Pierino torna a scuola (1990) è firmato da Mariano Laurenti. Pierino contro tutti fa registrare tra gli otto e i nove miliardi d’incasso (al tempo il biglietto costava 4.000 lire), un successo clamoroso che produce una ridda di imitazioni prima che Girolami possa girare il sequel autorizzato. Chi ha inventato Vitali nei panni di Pierino? Pare che persino Federico Fellini (diresse Vitali sul set di Amarcord) vedesse bene il piccolo attore romano nei panni di Pierino, ma è logico affermare che l’idea fu di Clerici e Girolami, non è lecito sapere quanto sia da imputare al primo e quanto al secondo, ma una cosa è certa: Alvaro Vitali ha le phisique du rôle per interpretare il bambino pestifero delle barzellette. Una mise che non cambia mai: cappello azzurro, fiocco rosso, pantaloni corti, scarpe da tennis, maglioncino senza maniche… risata irriverente, battute salaci, ripetitività della mimica e un immancabile epiteto conclusivo: col fischio o senza?

L’AUTORE: Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Traduce ispanici, si occupa di cultura cubana e scrive di cinema italiano. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: una Storia del cinema horror italiano in cinque volumi. I suoi romanzi Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino (Acar, 2014), e Miracolo a Piombino - Storia di Marco e di un gabbiano, sono stati presentati al Premio Strega. Per Sensoinverso è uscito il suo saggio Storia della commedia sexy all’italiana. Da Sergio Martino a Nello Rossati. Blog di cinema: La Cineteca di Caino (http://cinetecadicaino.blogspot.it/). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti: lupi@infol.it

Autore: Gordiano Lupi
Titolo: PIERINO CONTRO TUTTI. L’eroe popolare delle barzellette: analisi di un fenomeno cinematografico e di costume.
ISBN: 9788867933433
Collana: ItaliaNascosta
Pag. 60
Prezzo: € 12,00
Link sito ufficiale:

domenica 24 settembre 2017

Profondo Rosso


Giovanni Modica

Dario Argento e Profondo Rosso

Profondo Rosso – Pag. 384 – Euro 24,90


Profondo rosso (1975) è il film più importante di Dario Argento, il suo lavoro indimenticabile che ne decreta il successo imperituro. Non siamo ancora nell’horror puro, ma in una cornice gialla classica, contaminata da penetranti elementi macabri. La parte orrorifica prende il sopravvento sin dalle prime sequenze in un teatro, che vedono la sensitiva Helga Ullman (Macha Meril) avvertire la presenza in sala di un omicida e quindi finire massacrata nel camerino. Marcus Daly, un pianista inglese (David Hemmings) indaga insieme alla giornalista Gianna Brezzi (Daria Nicolodi) ed entrambi vengono coinvolti in una spirale interminabile di omicidi. Profondo rosso è un film talmente noto che pare inutile raccontare la trama, anche perché sono stati scritti saggi ponderosi e approfonditi sulla pellicola. Giovanni Modica, invece, con la collaborazione di Luigi Cozzi, non solo non lo reputa inutile, ma dedica al film ben 384 pagine, facendo scomparire il vostro modesto saggista che nella sua sintetica storia del cinema horror italiano ha scritto sul film in questione soltanto una pagina e mezza. In questo libro edito dal negozio di Dario Argento, diretto da Luigi Cozzi - una vita dedicata alla celebrazione di un Maestro che purtroppo non è più così grande - troverete pane per i vostri denti, appagherete ogni curiosità e sazierete la vostra fame di curiosità cinefile. Io posso solo dire che Profondo rosso fa da spartiacque tra il thriller puro e l’horror, segnando la nuova strada di Dario Argento, sempre più in preda a una fantasia macabra e visionaria. L’elemento paranormale è presente, così come incontriamo ambientazioni gotiche e momenti surreali scanditi da apparizioni di pupazzi meccanici. L’estetica dell’omicidio viene perfezionata secondo la lezione di Mario Bava, ma sarà presa a modello anche da autori statunitensi come John Carpenter e Rick Rosenthal nella saga Halloween (1978 - 81). Il merito della sceneggiatura ricca di suspense va diviso tra il regista e Bernardino Zapponi, che inseriscono in una storia gialla elementi macabri e momenti di puro terrore. Funziona tutto, persino la colonna sonora dei Goblin che ha fatto epoca, ma - se vogliamo trovare un difetto - non sono il massimo certi dialoghi impostati e alcuni personaggi monodimensionali. Ottimi i due protagonisti, bene Clara Calamai, Eros Pagni e Gabriele Lavia, che regalano caratterizzazioni memorabili. Un finale a sorpresa mostra il killer riflesso nello specchio del corridoio come se fosse un orribile dipinto, un grande colpo di genio, intriso di fantasia surrealista. Profondo rosso è stato uno dei film più amati degli anni Settanta e il suo successo è ancora ammantato da un alone di leggenda. Giovanni Modica si fa introdurre da Fabio Giovannini, un argentofilo della prima ora, mentre lascia la parola al Maestro in un capitolo finale, inserendo un’intervista datata 2002 che argento aveva concesso a Federico Patrizi. Capitolo dopo capitolo viviseziona il film, dalla scheda tecnica alla scenografia, passando per trama, genesi, soggetto, sceneggiatura, ispirazioni letterarie, attori, locationes, fotografia, montaggio, vecchie recensioni, considerazioni critiche, film e autori che si sono ispirati ad Argento. Invano il vostro povero recensore ha cercato il suo nome tra chi si è occupato di horror italiano e nella fattispecie di Dario Argento. Non l’ha trovato. Peccato di presunzione, certo, ma in fondo gli autori citati in bibliografia sono talmente grandi che il mio piccolo nome di provincia avrebbe stonato. Profondo rosso è un testo fondamentale per capire il cinema  del Maestro dell’horror italiano, un libro che un amante della sintesi e dello stile divulgativo come me non avrebbe neppure concepito di scrivere. Perfetto, invece, per chi non si accontenta. Una cosa da stigmatizzare - comune a tutti i libri della Profondo Rosso - è il prezzo civetta: 24,90. Mica poco in questi tempi di crisi…

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mercoledì 12 luglio 2017

martedì 4 luglio 2017

La comicità di Gigi e Andrea


Acapulco, prima spiaggia… a sinistra (1983)
di Sergio Martino
La parte peggiore della commedia sexy è datata primi anni Ottanta, quando il genere si estingue per carenza di idee, dibattendosi per alcuni anni prima di spegnersi definitivamente. Il canto del cigno della commedia erotica è rappresentato da alcune pellicole con Gigi e Andrea, due comici reduci da un effimero successo televisivo che non reggono la prova del grande schermo. Acapulco, prima spiaggia… a sinistra (1983) è un esempio eclatante. Scritto e sceneggiato dal regista con la collaborazione di Massimo Franciosa. Fotografia di Giuseppe Pinori, musiche di Detto Mariano, montaggio di Eugenio Alabiso, scenografie di Sergio Canevari. Producono Luigi Borghese e Manuel Laghi, per Cinematografica Alex. Distribuisce Variety. Interpreti: Gigi Sammarchi, Andrea Roncato, Gegia (Francesca Antonaci), Simona Marchini, Mirella Banti, Jimmy il Fenomeno, Jacques Stany, Anna Kanakis e Serena Grandi.




Acapulco esiste solo nel titolo come luogo vagheggiato dai due amici bolognesi (Gigi e Andrea) che finiscono per trascorrere le vacanze a Cesenatico, in una squallida pensione, a caccia di donne da rimorchiare. Una pessima pellicola che definirei commedia bolognese di grana grossa, se mi passate un termine coniato per l’occasione. Gigi e Andrea ci provano un po’ con tutte per un’ora e quarantacinque di pellicola (troppo lunga per quel che ha da dire), rimediando brutte figure e sonori ceffoni. Alla fine tornano in città delusi proprio nel giorno di ferragosto, dove si consolano con due bellezze locali. Si ricordano solo espressioni in bolognese che fanno rimpiangere non poco la vecchia comicità stile Banfi - Montagnani.




Le battute sono il massimo della volgarità, si passa da “un gran bel giro di culi”, per arrivare alla protesi nello slip modello Incredibile Hulk di Andrea, finendo con la bella mortadellona da dare in pasto alla ragazza di turno. Andrea mette in scena una stanca verve comico - erotica a suon di “me la dai o no?”, “mica male il culetto di Miranda”, “a me mi diventa duro… sì, ma non è cattivo!”, “che modi da tramviere!” (rivolto al babbo che guida i tram), “quei bei minervoni nostrani con lo zolfone rosso”, “ti tocco? L’aria è di tutti…”, “la vogliamo keniota, ma meglio kegnocca…”. Gigi cerca di fare l’intellettuale ma non è una grande spalla, i tempi comici dei due attori sono televisivi, al punto che il film pare una sit-comedy venuta male. Le donne ammiccanti della vera commedia sexy non ci sono più, qui fanno la parte del leone bellezze prosperose tipo Mirella Banti e Serena Grandi. Sono il massimo del volgare i dialoghi tra Andrea e la bella tabaccaia Mirella Banti con lui a chiedere zolfanelli con la capocchia rossa, citando malamente Fellini.




Da ricordare in negativo anche il discorso sulla protesi al cervello con Andrea che non comprende a cosa possa servire, ché lui quando va a letto con una donna mica le deve dare cervellino fritto! Tra tanta tristezza merita un cenno la canzoncina trash che fa da leitmotiv alla pellicola: Viva le donne che son come l’acqua santa/ quando le tocchi il miracolo non manca/ Miranda dice che l’hai messa pure incinta/ che ci do che ci do che ci do... Il film è recitato male, i due protagonisti non sono all’altezza e non ce la fanno a reggere una trama inesistente infarcita di pessimi dialoghi. Le battute sono vecchie, penose, risapute, non divertono ma fanno innervosire. Tra i comprimari citerei Gegia, miss culetto d’oro, che consola Andrea al rientro da Cesenatico e tutto sommato non interpreta male la meridionale trapiantata a Bologna. Mirella Banti deve solo far vedere un po’ di mercanzia, così Serena Grandi, che dice due battute sul lungomare di Cesenatico. Interessante come viene presentata la Grandi nel ruolo di sexy maschera di un cinema hard gestito dalla madre di Andrea, assunta per combattere la crisi del porno. Serena Grandi veste in pizzo nero, reggicalze, calze a rete e riceve con sorrisi maliziosi alcuni clienti, tra i quali notiamo un gay che sfoggia l’abbonamento.






Il film manca di una vera trama: scorrono sullo schermo una serie di scenette unite dall’esile collante delle ferie a Cesenatico. Simona Marchini è poco utilizzata, interpreta una donna vestita di bianco che appare e scompare sulla strada di Andrea. Le avventure di Gigi e Andrea si trascinano tra intermezzi penosi con una baby-sitter fornita da una ditta seria (ma io non ho mica riso!) che loro si vorrebbero portare a letto, battute stantie come il cannone è vecchio ma spara ancora bene e cazzotti ricevuti da mariti gelosi. Anna Kanakis interpreta una bella ragazza che si fa abbordare da Andrea perché lo crede un riccone in compagnia del cameriere. I due amici finiscono a cena con la ragazza e un’amica, ma fanno la figura dei pidocchiosi (quali sono) perché le portano in un ristorante per camionisti gestito da un esilarante Jimmy il Fenomeno. Pure qui da segnalare una battuta davvero scadente ai danni del tremolante Jimmy: Questo chi è, San Vito? Balla…




Prima di tornare a casa i due amici finiscono con una coppia di ricchi sporcaccioni che pagano per una notte a base di amore di gruppo, ma al mattino non ricordano niente e li cacciano di casa. A Bologna i nostri eroi ritrovano Gegia, miss culetto d’oro, e si consolano con un bel pranzo meridionale in una mansarda del centro. Acapulco è una vera stronzata, conclude Andrea. Per finire in bellezza i due amici vorrebbero convincere Gegia a fare la puttana, ma lei dice che va con gli uomini solo per amore. Le ultime sequenze vedono arrivare un’amica sarda piuttosto bruttina - ma dotata di un gran seno - che va a letto con Gigi per santificare in piena regola il ferragosto. Un film da dimenticare. Non sembra un lavoro di Sergio Martino. Per la volgarità di certe situazioni ricorda il cinema di Gianfranco Baldanello.   

venerdì 9 giugno 2017

Storia della Commedia Sexy


Gordiano Lupi - Storia della commedia sexy aall'italiana
Pagine 230 - Euro 16 - SENSOINVERSO EDIZIONI (Ravenna)
La commedia erotica, detta anche commedia sexy o commedia scollacciata, deriva dalla commedia all’italiana e presenta una commistione di diversi generi cine-letterari. La commedia sexy comincia a far parlare di sé a partire dagli inizi degli anni Settanta, un periodo poco florido per il cinema italiano, che vive all’ombra dei grandi successi statunitensi. I prodotti italiani nascono come puro cinema di imitazione sulla scia dei lavori d’oltreoceano, nella speranza di bissarne i grandi incassi al botteghino. Questo assunto presenta le dovute eccezioni. Pensiamo a un genere come lo spaghetti western che, pur attingendo dal cinema statunitense, da Sergio Leone in poi presenta una ben precisa originalità. Per l’horror vale lo stesso discorso, perché registi come Lucio Fulci, Dario Argento e Joe D’Amato rappresentano una via italiana alla cinematografia del brivido. La commedia sexy, però, è un genere italiano al cento per cento ed è una diretta filiazione della commedia classica, forse è il solo genere a non risentire di alcuna suggestione esterofila. Nella commedia erotica tutto deriva dalla nostra cultura: luoghi, circostanze, situazioni, erotismo morboso e malizioso. I registi che praticano il genere si limitano a trasporre sul grande schermo l’immaginario erotico dell’italiano medio e strizzano l’occhio alle fantasie degli adolescenti. Per questo vediamo sfilare sul grande schermo una serie di bellezze che prendono le sembianze di vigilesse, poliziotte, insegnanti, studentesse, dottoresse, infermiere, maestre di scuola e chi più ne ha più ne metta. Le interpreti della commedia erotica sono attrici belle e maliziose, ma dotate di una sensualità naturale, lontana anni luce dalla bellezza artificiale di certe attrici contemporanee. Queste attrici vestono i panni delle donne che ogni giorno frequentano la vita dell’italiano medio ed è così che il sogno erotico sembra a portata di mano. I registi giocano su questo fatto e accanto alla bellezza di turno utilizzano attori comici bravi ma non belli, come Lino Banfi e Alvaro Vitali, e li mettono al centro di situazioni erotiche piccanti. I sogni del maschio italiano si fanno realtà, anche se sono sempre le donne a condurre il gioco e a far capitolare gli uomini. Le commedie sexy hanno una trama semplice e spesso prevedibile, anche se i film davvero riusciti non sono uguali uno all’altro. I comici bravi improvvisano e caratterizzano certe pellicole, così come i registi più dotati imprimono un marchio d’autore riconoscibile. La commedia sexy, come tanto cinema italiano originale di quel periodo storico, non è cinema di serie B e certa critica importante ha la responsabilità di averne affrettato la scomparsa. Adesso possiamo pure rivalutare la commedia erotica, ma resta il fatto che il nostro cinema ha lasciato morire il suo unico genere originale. La commedia sexy, fin dal suo apparire, riscuote un grande successo di pubblico e nessuna attenzione da parte della critica, che stronca per principio ogni pellicola. In questi film si raccontano spaccati di provincia, gelosie, amori, tradimenti, invidie, sempre con il sorriso sulle labbra, ricorrendo spesso a una comicità di grana grossa. Immancabili le bellezze discinte, le docce, gli sguardi furtivi dal buco della serratura, i reggicalze, le gonne che si alzano improvvise, una scala provvidenziale sotto la quale spiare i segreti del sesso e via dicendo. Possiamo dire, con Gian Luca Castoldi, che è da Signore e signori (1965) di Pietro Germi che la commedia all’italiana comincia a virare verso un erotismo più accentuato. Il primo esempio di commedia sexy, secondo Bruschini e Tentori, è Vedove inconsolabili in cerca di distrazioni (1969) di Bruno Gaburro, mentre per altri resta Mazzabubù… quante corna stanno quaggiù (1970) di Mariano Laurenti. A ben guardare, però, sono due pellicole che possono sempre essere ricondotte nel quadro più ampio della commedia all’italiana. Non è facile indicare con precisione una pellicola che ha cominciato a introdurre varianti sexy nella commedia all’italiana, perché anche nello schema classico un velato erotismo c’è sempre stato. Il modello fondamentale resta Malizia (1973) di Salvatore Samperi, una pellicola di livello superiore alla media che detta gli stilemi imprescindibili del genere. La commedia sexy comincia a farsi spazio nei gusti degli spettatori italiani ormai stanchi del decamerotico. Malizia (1973) di Salvatore Samperi è il film che apre le porte al genere ed è il capostipite di tutte quelle commedie scollacciate che hanno la famiglia come campo d’azione delle situazioni perverse. Chi non ricorda la sexy cameriera Laura Antonelli mentre seduce il giovanissimo Alessandro Momo? Il reggicalze, la scala sotto la quale spiare le gambe, la doccia nuda e il buco della serratura, tutte le malizie del genere cominciano proprio da Malizia. La stessa Laura Antonelli interpreterà altri film sulla stessa falsariga ma non riuscirà mai a bissare il successo dell’originale. Cose come Peccato veniale (1974), Scandalo (1976), Nenè (1977), Casta e pura (1981) e infine il pessimo Malizia 2000 (1991) sono decisamente inferiori. La commedia sexy riunisce due elementi fondamentali: un po’ di sesso non troppo spinto e una comicità di bassa lega, quasi sempre piuttosto volgare. Tra le prime commedie sexy possiamo citare Non commettere atti impuri (1971) di Giulio Petroni con Barbara Bouchet. La commedia sexy si divide in sottogeneri: famigliare, professioni, scolastico e militare, secondo l’ambiente dove viene inserita l’azione comico - erotica. Questi film vengono quasi sempre girati in provincia e riproducono la vita dell’Italia lontana dai grandi centri, spesso è la Puglia che la fa da padrona, forse perché in quel periodo sta cercando un lancio turistico. Sono film che piacciono molto in provincia dove il pubblico frequenta le sale anche solo per guardare le bellezze provocanti delle protagoniste. Logico che ambientare in provincia l’azione filmica comporta una maggior identificazione nei sogni erotici dello spettatore. Le donne sono importanti nella commedia sexy e il buon andamento del film dipende dalla scelta dell’attrice: Edwige Fenech e Gloria Guida vogliono dire successo sicuro presso un certo tipo di pubblico. La prima è indicata per rivestire ruoli da insegnante, poliziotta e dottoressa, mentre la seconda è perfetta come ragazzina maliziosa, studentessa e torbida amante di vecchi sporcaccioni. Altre sexy star da non dimenticare sono Barbara Bouchet, Carmen Villani, Nadia Cassini, Laura Antonelli, ma l’elenco sarebbe interminabile. La commedia sexy non è tale senza le solite scene di doccia, le spiate dal buco della serratura, le trovate da pochade, le volgarità gratuite, le flatulenze, i rumori corporali, le battutacce grevi e volgari. Tutto come da copione. Tra i registi che hanno praticato la commedia sexy citiamo Sergio Martino, Nando Cicero, Mariano Laurenti, Marino Girolami, Michele Massimo Tarantini, Marino Girolami, Gianfranco Baldanello, Mauro Ivaldi, Giuliano Carnimeo, Tiziano Longo, Nello Rossati, Bruno Corbucci e Sergio Corbucci. Non dimentichiamo che si sono cimentati nel genere anche registi come Lucio Fulci, Luigi Cozzi, Joe D’Amato, Umberto Lenzi, Mino Guerrini, Massimo Dallamano e molti altri.





(Foto di libro con Dargys)

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

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giovedì 4 maggio 2017

Donne di marmo per uomini di latta (2016)



di Roger A. Fratter



Regia: Roger A. Fratter. Soggetto e Sceneggiatura: Roger A. Fratter. Fotografia: Lorenzo Rogan. Operatori: Lorenzo Rogan, Stefano Ravanelli. Fotografo di Scena: Marco Paciolla. Scenografia: Celso Albavilla. Trucco: Lahila Laveaux. Montaggio: Roger A. Fratter. Direttore di Produzione: Alban Herizei. Musiche Originali: Massimo Numa, Luciano D’Addetta. Distribuzione Home Video: Foglio Cinema. Durata: 89’. Genere: Drammatico, Erotico, Psicologico. Titolo Internazionale: Marble Women for tin men. Interpreti: Liana Volpi (Roberta), Valentina Di Simone (Simona), Magda Lys (Francesca), Gloria Gordini (Clara), Roger A. Fratter (Giorgio), Anna Palco (Diana), Mery Rubes (proprietaria del night), Beata Walewska (Cinzia), Debby Love (Lucia), Gisy Bergamo (cliente edicola), Giusepe Cardella (Trussani), Massimiliano Aresi (Alessandro), William Carrera (Carlo), Giuliano Melis (scultore), Mark Provera, Max Bezzati, Maurizio Quarta, Fulvio Piavani, Beatrice Chieu, La Dany.


Roger A. Fratter continua a indagare l’universo femminile, dopo Rapporto di un regista su alcune giovani attrici e Tutte le donne di un uomo da nulla, mettendo in primo piano l’erotismo e il contrasto di personalità tra uomo e donna, con la seconda inesorabilmente vincente grazie alle armi della seduzione e del sesso. Donne di marmo per uomini di latta si propone di dimostrare che l’uomo è una cosa insignificante mentre la donna conduce sempre il gioco, è l’elemento determinante del rapporto, tratta l’uomo come meglio crede, non è mai succube ma dominatrice.



In breve la trama. Roberta dirige la rivista Sculturopoli, fondata insieme a Giorgio e all’imprenditore Trussani, è una donna frustrata che tratta male i suoi collaboratori e pretende una servile dipendenza. Vive una sorta d’amore malato con Giorgio, pur essendo la donna di Trussani, odia la collaboratrice Simona - giovane amante di Giorgio - e fa di tutto per licenziarla. A sua volta Giorgio soffre per una situazione familiare difficile, separato dalla moglie, con una figlia adottiva (Francesca) che odia la madre e tormenta il padre, tra sogni incestuosi e sfide provocanti. Non anticipiamo altro a livello di trama per non rivelare colpi di scena e situazioni che portano a un precipitare degli eventi, ma soffermiamoci sulle valenze psicologiche della pellicola. Fratter analizza con maggior profondità del solito il rapporto padre - figlia, portandolo su un terreno pericoloso, spingendo la macchina da presa a perlustrare tentativi di rapporti erotici semi incestuosi. Non solo. La donna è sempre in primo piano, che sia donna - padrona o (più raramente) donna- remissiva, persino donna - angelo vendicatore in un violento finale. L’uomo non ne esce bene, dimostra di non capire l’universo femminile, di restare in superficie, perché i ragionamenti profondi, introspettivi, si registrano soltanto nelle sequenze che vedono una donna davanti alla macchina da presa. Attrici bellissime, come sempre nei film di Fratter, bene le tre interpreti, con una perfida Liana Volpi  calata nel ruolo della  protagonista, mentre Magda Lys è una figlia perfetta, bambola bionda con gli occhi azzurri e i pensieri profondi, per finire con Valentina Di Simone, spogliarellista torbida e sensuale. Liana Volpi è straordinaria in una sequenza altamente drammatica dove subisce una violenza carnale ed è bravissima nei panni di una manager vogliosa e insaziabile, gelosa e cinica, donna in carriera sensuale e sprezzante che manovra i sottoposti come burattini. Roger A. Fratter fa di tutto, in puro stile Joe D’Amato, dalla regia al montaggio, passando per soggetto e sceneggiatura, interpretando persino il ruolo maschile principale. Ottime le musiche di Numa e D’Addetta, impostate su sonorità rap e momenti melodici, buona la coloratissima fotografia digitale di Rogan, montaggio compassato come richiede il tipo di pellicola. Voce fuori campo onnipresente, ma non fastidiosa visto che rappresenta i pensieri delle donne protagoniste, soprattutto della figlia che vive desideri onirici e passioni perverse, trascurata da un padre che vorrebbe tutto per sé. Buona l’ambientazione tra il Lago di Garda e Bergamo con l’idea originale di un incipit psichedelico in sottofondo verde acqua tra piccole gocce che rigano un vetro. Film teatrale e profondo con molti nudi integrali femminili, esibiti con malizia e torbida provocazione, in giochi di seduzione erotica molti intensi. Analisi cinica e impietosa di un rapporto uomo - donna impostato su basi non paritarie, spesso finalizzato al solo rapporto sessuale. La donna è una dama di ferro, simbolo della rivista Sculturopoli ma soprattutto metafora delle idee che pervadono la sceneggiatura. L’uomo è un oggetto inutile, un pezzo di latta, privo di personalità, soggiogato dal seducente potere femminile. Donne di marmo per uomini di latta è un ulteriore tassello nella ricerca narrativa di Fratter, un regista che è passato dal cinema di genere, dagli horror cupi e spettrali degli esordi, a una filmografia di stampo introspettivo e psicologico. Consigliato per un pubblico adulto. Lo trovate in libreria, distribuito da Foglio Cinema, circuito Libroco. Ma anche su IBS e Amazon. Da vedere.

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venerdì 14 aprile 2017

Una vampata d’amore (1953)


di Ingmar Bergman

Regia: Ingmar Bergman.Soggetto e Sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist, Hilding Bladh. Montaggio: Carl - Olov Skeppstedt. Musiche: Karl-Birger Blomdahl. suono: Olle Jacobsson. Costumista: Mago. Direttore di Scena: Crals Ove Carlberg.  Produttore. Rune Waldekranz. Produzione: Sandrewproduktion. Distribuzione: Sandrew Bauman Film. Distribuzione Italiana: Globe Film International. Origine: Svezia (1953). Durata. 92’. Fotografia. b/n. Titolo originale: Gycklarnas afton (La serata dei buffoni). Distribuito in Italia: 1959. Riedizione Televisiva: 1975. Interpreti: Čke Grönenberg (Albert), Harriet Andersson (Anne), Hasse Ekman (Frans), Anders Ek (Teodor), Gudrun Brost (Alma), Annika Tretow (Agda), Erik Strandmark (Jens), Gunnar Björnstrand (Sjuberg), Curt Löwgren (Blom), Čke Fridell (ufficiale), Kiki (il nano), Majken Torkeli (signora Ekberg), Vanjek Hedberg (suo figlio), Curt Löwgren (Blom), Conrad Gyllenhammar (Fager), Mona Sylwan (signora Fager), Hanny Schedin (zia Asta), Michael Fant (Anton), Naemi Briese (signora Meijer), Lissi Alandh, Karl-Axel Forssberg. Olav Riégo, John Starck, Erna Groth, Agda Helin, july Bernby, Göran Lundquist, Mats Hĉdell.

Una vampata d’amore - meglio sarebbe stato lasciare il titolo originale La serata dei buffoni - non è tra i film più noti e celebrati di Ingmar Bergman, contemporaneo a un capolavoro come Monica e il desiderio resta un po’ in ombra, ma la critica francese lo giudica una delle opere nere più riuscite del Maestro svedese. Bene hanno fatto la Ripley’s Film e Viggo srl a riportare sul mercato il DVD di un’opera che in Italia non si apprezzava dalla edizione televisiva del 1975, successiva a quella cinematografica del 1959, visto che da noi Bergman è arrivato con sei anni di ritardo rispetto alla patria di origine. Un DVD realizzato da un master HD CAM in versione originale, fornito dal distributore internazionale NON STOP SALES AB, prezioso e  imperdibile per un collezionista delle opere del regista svedese. La colonna italiana, non essendo più reperibile il negativo colonna, è stata masterizzata e sottoposta a pulizia digitale, a partire da un positivo di 35mm d’epoca stampato dalla Globe Film International per la prima distribuzione italiana del 1959. Non ci sono Extra, questo è il solo limite di un’importante operazione culturale.
Bergman scrive, sceneggia e dirige la storia di Albert (Grönenberg), il direttore di un circo, stanco di tutto, persino del suo lavoro, separato dalla moglie - che rimpiange non per amore ma per la vita borghese - con una giovane amante (Andersson) che a un certo punto lo tradisce con un perfido attore di teatro. Bergman descrive da grande artista il rapporto logoro tra i due amanti, vissuto tra consuetudini e frasi fatte, gelosie e tradimenti, parole non dette e sogni di fuga. Il finale è molto triste, con Albert deriso e malmenato, dopo aver cercato di vendicarsi del rivale, non riesce neppure a suicidarsi e finisce per uccidere l’orso del circo. Tragedia ridicola, se si vuole, perché tutto torna al punto di partenza: il circo riprende il suo girovagare, Albert torna con la sua amante e la vita prosegue tra delusioni, rimpianti e inutili sogni di cambiamento. In fondo, nel breve volgere di una notte, l’uomo e la donna si sono traditi reciprocamene, perché il primo sarebbe tornato a vivere con la moglie, se soltanto lei lo avesse accettato. L’amante, invece, si è lasciata sedurre da uno squallido teatrante che l’ha ricompensata con un gioiello falso ed è andato al circo per deriderla. Bene ha fatto la critica francese a definire il film un’opera nera che mette in scena un’umanità dolente, incapace di cambiare la propria vita, una storia d’amore non convenzionale, dal contenuto introspettivo che anticipa i futuri capolavori. Un film ricco di immagini cruente, fotografia gelida in bianco e nero, soluzioni di regia originali (figure riprese negli specchi, in controluce), poetici piani sequenza e panoramiche di scogliere, prati e montagne che si specchiano nel mare. Romanticismo espressionista che non presta il fianco a sentimentalismi di sorta e a immagini consolatorie, ma sempre crudo e realistico, persino cinico e sadico. Attori straordinari, impostati secondo le regole del teatro, così come il cinema di Bergman resta sempre molto teatrale, anche se la fotografia di Sven Nykvist conferisce un respiro ampio e grande intensità agli esterni.
Bergman afferma nel libro autobiografico Immagini (Garzanti, 1992): “Il film è un tumulto, ma un tumulto ben organizzato. Lo scrissi in un piccolo hotel nei pressi di piazza Mosebacke, la camera era stretta, con una vista di chilometri sulla città e sulla rada. Dall’hotel si scendeva al teatro attraverso una scala a chiocciola segreta. La sera si udiva la musica che veniva dal palcoscenico della rivista. Di notte, nella sala da pranzo dell’hotel, gli attori e i loro bizzarri ospiti facevano festa. In quell’ambiente, in meno di tre settimane, nacque Una vampata d’amore, scritto di getto, dal principio alla fine, guidato dai demoni della gelosia. Qualche anno prima ero stato sconsideratamente innamorato. Con il pretesto dell’interesse professionale spinsi la mia amata a raccontarmi nei dettagli le sue sfaccettate esperienze erotiche. La specifica eccitazione della gelosia retrospettiva mi logorò, graffiandomi nelle viscere e nel sesso”.
Possiamo dire che il film è una combinazione continua di erotismo e di umiliazioni, che parte dall’episodio di Frost e Alma - narrato in un breve flashback - per poi approfondire il sentimento sviscerando la stanca relazione tra Albert e Anne. Una vampata d’amore non fu accolto bene dalla critica, addirittura un critico svedese scrisse di rifiutarsi di valutare ocularmente l’opera del signor Bergman. Il tempo ha dato ragione al grande regista, perché il film è invecchiato benissimo e resiste con la forza del capolavoro al passare del tempo.

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lunedì 6 marzo 2017

Porcile (1968)

di Pier Paolo Pasolini 




Porcile è un film ancora più scomodo di Teorema - sempre sotto sequestro quando cominciano le riprese del nuovo lavoro - perché non si limita a un attacco antiborghese che proviene da un elemento esterno, ma descrive l'implosione della borghesia, la deflagrazione messa in atto dai suoi stessi membri, dai suoi figli ribelli e trasgressivi. Un film girato in economia, in poco più di un mese, ma forse il lavoro più lucido ed emblematico di tutta l’opera pasoliniana. Tratto da una tragedia in versi dello stesso autore, si compone di due episodi apparentemente diversi tra loro, ma uniti da una stessa valenza metaforica. Il primo episodio non fa parte dell'opera teatrale, viene girato nella Valle dell'Etna, ed è la storia di un cannibale (Clementi) che prima uccide il padre poi si spinge a vagare nel deserto, dove continua a mietere vittime, fa proseliti e si ciba di carne umana. Di fronte al patibolo non si pente. Tutt’altro: “Ho ucciso mio padre, mangiato carne umana, ma tremo di gioia”. Il secondo episodio racconta la storia di una famiglia borghese tedesca, il padre (Lionello) è un ricco imprenditore che si alleano con un altro capitalista (Tognazzi), ex criminale nazista, che conosce l'orribile e inconfessabile segreto del figlio: il suo unico amore sono i maiali.


Puro cinema di poesia, come dice Pasolini, pellicola dove ogni gesto è metafora, allegoria pura, ciò che conta non è la storia ma il significato e il significante. Un lavoro a tema, intellettualmente complesso, filosofico quanto grottesco, soffuso di straordinaria bellezza lirica, come nella sequenza del monologo di Julian (il figlio del borghese interpretato da Léaud), che parla del suo amore proibito senza citarlo. Il significato di Porcile sta tutto nella trasgressione, nella dimostrazione dell'assunto che i santi e i diversi, i non ortodossi, i disubbidienti, non fanno la storia, ma la subiscono, agiscono per sé, nella loro diversità, fino a morire vittime del loro non essere conformi, mai in linea con la massa. Sia il cannibale che il ragazzo muoiono sbranati ma in fondo felici nella loro lucida follia, perché hanno raggiunto quello che volevano: l'autodistruzione, unica via possibile in una società che ammette solo uniformità, devozione e obbedienza.


Viene da pensare, oggi, che Pasolini parlasse di se stesso, in questo apologo pervaso da un pessimismo cosmico e da una totale impossibilità di redenzione. Porcile è un film visionario che usa strumenti tipici della cinematografia di genere per esibire l'orrore, dimostrando che trasgredire non basta, non è sufficiente uccidere il padre - come Edipo - e ribellarsi, se la ribellione individuale non serve agli altri, non coinvolge la massa, se resta un atto di puro narcisismo.  Grandi interpreti per un film che tradisce la sua origine e vocazione teatrale, tra tutti Lionello e Tognazzi, nei panni di due laidi borghesi, soprattutto il secondo che resta impresso nell’immaginario grazie a un’inquietante sequenza finale.  Ferreri presta il suo volto a un’interpretazione abbastanza insolita nei anni di un amico di famiglia dell’imprenditore. Davoli è la purezza, il candore, l’ingenuità da ragazzino che porta un soffio di bontà e disperanza in un panorama gretto e arido.


Porcile esce con il consueto divieto ai minori riservato per i film di Pasolini,  viene distrutto dalla critica di destra ma anche da quella sinistra perbenista che non ha mai capito il nostro più grande intellettuale del Novecento. Pasolini si vendica organizzando una prima del film alternativa alla Mostra di Venezia, mostrandolo a pochi intimi, a Grado, dove sta girando Medea. Porcile è un film maturo e consapevole anche da un punto di vista tecnico, dotato di una fotografia originale, parti riprese con la macchina a mano, campi e controcampi teatrali, direzione degli attori discreta e senza intromissioni, montaggio parallelo delle due vicende, uso del silenzio (il primo episodio è quasi del tutto muto) in funzione poetica, paesaggi e campi lunghi superbi. Un film da rivedere, da studiare con attenzione per capire che esiste – ma non è dei nostri tempi - il buon cinema di progetto.



Regia: Pier Paolo Pasolini. Soggetto e Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Fotografia: Armando Nannuzzi (primo ep.), Tonino Delli Colli, Giuseppe Ruzzolini (secondo ep.). Costumi: Danilo Donati. Musica: Benedetto Ghiglia. Montaggio: Nino Baragli. Aiuti Regista: Sergio Citti, Fabio Garriba. Assistente ala regia. Sergio Elia. Produzione primo ep.: Giani Barcelloni Corte, BBG cin. srl. Produzione secodno ep.: Gian Vittorio Baldi, IDI Cinematografica (Roma), I Film dell'Orso, CAPAC Filmédis (Paris). Pellicola: Kodak. Colore: Eastmancolor. Esterni primo ep.: Valle dell'Etna (Catania), Roma. Secondo ep.: Verona, Stra, Villa Pisani. Durata: 98'. Prima ufficiale: Festival di Venezia, 30 agosto 1969.  Intrerpreti: Primo episodio - Pierre Clementi, Franco Citti, Luigi Barbini, Ninetto Davoli, Sergio Elia. Secondo episodio - Jean-Pierre Léaud, Alberto Lionello, Margherita Lozano (doppiata da Laura Betti), Anne Wiazemsky, Ugo Tognazzi, Marco Ferreri (doppiato da Mario Missiroli).



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