martedì 31 maggio 2011

La scomparsa di Antonio Bruschini


Antonio Bruschini ci ha lasciati, con discrezione, come era sua abitudine, senza clamore, come uno dei suoi amati pistoleri del western all’italiana. Non esisteva critico cinematografico più preparato sulla nostra cinematografia di genere, o come lui amava dire - parafrasando Fulci - degenere. Credo di aver imparato molto da Antonio Bruschini, mi ha dato le basi per cominciare a scrivere e a occuparmi di cinema italiano. Possiedo molti suoi volumi di cinema, il mitico Operazione paura - I registi del gotico italiano, edito da Granata Press - scritto insieme ad Antonio Tentori - è stato la base per il mio primo volume della Storia del cinema horror italiano, dedicato al Gotico. Bruschini era nato nel 1956, aveva pubblicato Horror all’italiana (Glittering Images, 1996), ma tra i suoi libri che preferisco c’è l’indimenticabile Malizie perverse (1993), dedicato alla commedia sexy e scritto con Tentori, così come sono notevoli Profonde tenebre (1992) e Mondi incredibili (1994). Il suo saggio dedicato al cinema di Lucio Fulci (Il poeta della crudeltà, scritto con Tentori) - regista che aveva conosciuto personalmente - è il fondamento bibliografico del mio piccolo lavoro Filmare la morte - il cinema horror e thriller di Lucio Fulci, scritto in collaborazione con As Chianese. Da non dimenticare Città violente, sempre scritto con Tentori (erano una coppia molto affiatata), sul cinema giallo e thrilling italiano. Antonio Bruschini era innamorato del western all’italiana, genere del quale aveva una competenza unica e una conoscenza sterminata. Si è occupato di tutto quel che riguarda il cinema italiano, da Tinto Brass al mondo movies, impossibile citare tutti gli articoli e le monografie pubblicate. Ha partecipato a riviste storiche come la bellissima Amarcord di Igor Molino e i suoi saggi sul cinema italiano restano ancora tra le cose più utili per affrontare lo studio della materia. Troviamo suoi scritti in riviste come Nocturno Cinema, Cine 70 e in molte fanzines cartacee e telematiche. Perdiamo Antonio Bruschini. Perdiamo un grande critico di cinema, una persona spontanea, genuina, un vero appassionato, uno capace di farsi Firenze - Massa Marittima per assistere a una retrospettiva dedicata a Umberto Lenzi, uno capace di venire a Massa Carrara per ascoltare un carneade come me che parlo di Lucio Fulci. Non sapevo niente della malattia. Sapevo solo che da un po’ di tempo a questa parte non faceva più niente, non scriveva, non partecipava ai festival. Mi aveva promesso di scrivere per Il Foglio un libro su Pupi Avati. Non ha fatto in tempo. Federico De Zigno, suo grande amico, ha scritto che le ultime parole di Bruschini prima di morire sono state una citazione dal Valdemar di Corman. Grande fino alla fine. Addio Antonio. Ci restano i tuoi libri. Ne faremo buon uso.

Gordiano Lupi

venerdì 27 maggio 2011

Mondo cane (1961) di Gualtiero Jacopetti



Regia di Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi. Montaggio e commento di Gualtiero Jacopetti. Voce off di Stefano Sibaldi. Fotografia di Antonio Climati e Benito Frattari. Musiche di Riz Ortolani e Nino Oliviero. Organizzatore all’estero di Stanis Nievo. Prodotto e distribuito da Cineriz.

Marco Giusti è molto sintetico nel suo Stracult per raccontare un film importante come Mondo cane, ma dice una cosa vera quando afferma che rappresenta la nascita ufficiale del mondo movie. Jacopetti, Prosperi e Cavara realizzano un documentario sensazionalistico sullo stile dei cinegiornali informativi, incentrato su un florilegio di stranezze che si verificano nel mondo. La preferenza dei registi è indirizzata verso le immagini curiose, bizzarre, cruente, orripilanti, scioccanti, tutto ciò che non lascia indifferente lo spettatore. Il pregio fondamentale di Mondo cane sta nella profonda originalità e nell’aver inventato un nuovo modo di fare cinema. La discussione sulla veridicità degli eventi mostrati è ancora aperta, ma non è la cosa più importante. Paolo Mereghetti è deciso nel dire che gli episodi spacciati come reali il più delle volte sono frutto di montaggio o di ricostruzione. Non ne siamo così certi, ma non è importante la ripresa in diretta dell’evento quanto la documentazione storica di un fatto, pur ricostruito con dovizia di particolari. Jacopetti, in ogni caso, va oltre il documentario, concepisce il cinema come sensazione e momento drammatico per stupire lo spettatore. Il film ebbe un notevole successo internazionale, soprattutto per le scandalo prodotto da immagini che il pubblico non era abituato a vedere. L’incasso italiano fu di ben 800 milioni e convinse i registi a realizzare un seguito ufficiale come Mondo cane 2, ma aprì la strada anche a due tardi apocrifi come Mondo cane oggi – L’orrore continua (1985) di Stelvio Massi e Mondo cane 2000 – L’incredibile (1988) di Gabriele Cristanti.


La pellicola comincia con un lungo avviso scritto in caratteri gialli, mentre le immagini mostrano un canile dove le bestie abbaiano disperate e un accalappiacani trascina verso la morte un meticcio senza padrone. Jacopetti avverte il pubblico che le riprese sono vere anche se sembreranno sgradevoli, perché molte cose risultano amare su questa terra e il cronista non può addolcire la realtà, ma deve raccontarla obiettivamente. Gli episodi si susseguono con un montaggio rapido e una sceneggiatura priva di punti morti. Si parte con una commemorazione di Rodolfo Valentino, mito sexy del cinema, nella città natale di Castellaneta. Jacopetti mostra una serie di volti maschili degli anni Sessanta con un esperimento cinematografico pasoliniano per definire una tipologia maschile che veste in un certo modo, usa la brillantina e vorrebbe assomigliare al grande attore scomparso. Per contrasto subito dopo vediamo l’assalto delle fan al nuovo mito sexy, Rossano Brazzi, che viene addirittura spogliato. Jacopetti vuole calcare la mano su un fenomeno di costume per descriverlo fino in fondo, forse l’assalto a Brazzi è ricostruito, ma non è questo che interessa. Si sta parlando del divismo, del delirio femminile nei confronti di certi personaggi del cinema e il modo per rappresentare un fenomeno è cinematograficamente corretto.


Jacopetti, Prosperi e Cavara  ci conducono in Nuova Guinea, dove su spiagge da sogno, vige la caccia al maschio con le femmine che praticano la poliandria. La stessa caccia al maschio esiste nel mondo civilizzato, afferma il commento esterno, perché in Costa Azzurra le donne usano metodi più subdoli  e meno spontanei.
Siamo in Nuova Guinea e gli autori non potevano fare a meno di immortalare immagini curiose e raccapriccianti come la donna che allatta un maialino e una festa collettiva di ex cannibali dove si mangia maiale. Gli animali vengono divorati quasi crudi, cotti a mala pena sulla brace ardente, mentre i bambini giocano a palla con le vesciche. Non manca l’ironia nei confronti del potere: pure tra i selvaggi chi comanda deve mangiare senza dare a vedere che ha fame e poi i cani dei capi sono gli unici ad alimentarsi bene.
L’attenzione di Jacopetti si concentra sugli animali. In California vediamo un cimitero riservato ai cani, mentre a Formosa i cani sono allevati, cucinati e mangiati. A Roma assistiamo a una crudele colorazione di pulcini vivi per confezionare uova di Pasqua, a Strasburgo vediamo oche ingozzate in modo barbaro per ottenere il fois gras. In Giappone massaggiano i vitelli per rendere tenere le carni e danno birra da bere per ingrassare. Le donne della Nuova Guinea, invece, devono essere grasse per piacere al maschio poligamo e per questo mangiano tapioca. Negli Stati Uniti, per contrasto, la donna deve essere molto magra se vuol piacere all’uomo.


Jacopetti, Prosperi e Cavara filmano i mercatini rionali di Hong Kong dove si vendono coccodrilli, ramarri, serpenti, spesso spellati vivi e cotti sul momento. Ritroveremo certe scene nei film di Joe D’Amato con Laura Gemser nei panni di Emanuelle Nera. Il gusto per l’eccesso porta gli autori a riprendere scene (forse false) di un ristorante statunitense dove si servono formiche e altre prelibatezze a prezzi molto alti. In Malesia si mangiano serpenti, mentre a Cucullo, un paesino abruzzese, i serpenti vengono venerati durante una processione che ricorda il miracolo di San Domenico che tolse il veleno ai rettili e rese praticabili boschi e campagne.

Le superstizioni religiose del sud sono un altro tema interessante. Il venerdì santo a Nocera, un piccolo centro calabrese, vediamo il rito dei battenti che si flagellano le carni e cospargono con il loro sangue la strada dove passerà la processione. Le immagini sono montate per contrasto, alternando superstizione e modernità, tradizione e mondo contemporaneo, ma realizzano un mix scioccante che stupisce e fa pensare. A Sidney vediamo da un lato il religiosissimo esercito della salvezza che cura le anime e dall’altro l’esercito delle bagnine che si appresta a salvare i corpi dispensando baci per la respirazione.
Una parte di Mondo cane si occupa degli effetti devastanti della bomba atomica e ci porta in un luogo non precisato dell’Oceano Pacifico dove gli uccelli si nascondono in buche sotterranee e la modificazione ambientale ha prodotto alcune specie di pesci che vivono fuori dall’acqua. Realtà o fantasia non ha importanza, perché lo scopo di raccontare il disastro atomico è raggiunto e chi osserva le immagini pensa che uno sfacelo simile non dovrà più ripetersi. Una stupenda fotografia marina, accompagnata da voli di uccelli e musica suadente, caratterizza le sequenze più suggestive, forse aiutate da una costruzione tecnico - scenografica, ma efficaci. Vediamo uova di gabbiano e di sterna che non si schiuderanno perché l’atomo ha ucciso il seme della vita, mentre un altro effetto della contaminazione atomica è una tartaruga che ha perso l’orientamento. La sua agonia viene filmata passo dopo passo, fino a quando non si abbandona al sole della spiaggia e muove le branchie in un gesto disperato.
In Malesia scopriamo un cimitero sottomarino, perché la religione indigena afferma che il mare lava i peccati, ma i cadaveri diventano cibo per i pescecani che si abituano a mangiare carne umana. Vediamo la pesca degli squali e alcuni uomini mutilati dai famelici morsi, ma anche la terribile vendetta del villaggio sulla bestia che ha divorato un bambino. I pescatori danno la caccia allo squalo e gli mettono in bocca un riccio velenoso che lo farà morire dopo una lunga agonia.
Si torna a Roma dove vediamo cimiteri di frati cappuccini e un’arte decorativa composta di teschi che ricorda il cinema horror. Non crediamo che ci sia niente di vero sulla confraternita dei sacconi rossi che svolge macabri riti sull’Isola Tiberina, dove un cimitero di scheletri è affidato alle loro cure. Tutto questo ricorda I frati rossi (1988), un pessimo film di Gianni Martucci, che forse si è ispirato all’idea di Jacopetti. Per contrasto passiamo alle strade di Amburgo che mostrano una serie di bevitori di birra intenti a praticare il culto della vita, che tornano a casa ubriachi o dormono per strada.
Restiamo sorpresi leggendo il commento di Paolo Mereghetti che giudica sgradevole e ipocrita il commento della voce fuori campo, perché Jacopetti fa parlare le immagini assemblate con un preciso montaggio e scandite da una suggestiva colonna sonora, mentre il commento resta sempre nei limiti del consentito.
Passiamo in Giappone dove conosciamo le usanze di cura per il corpo a base di massaggi e lavaggi, ma anche il trucco funebre per i cadaveri e il denaro bruciato per ottenere un sicuro passaggio nell’aldilà.
Il commento fuori campo risulta debordante ed eccessivo quando Jacopetti racconta le usanze dei cinesi. Il regista afferma che i cinesi sono pigri, non ballano, non nuotano, ma sono bravi soltanto a letto e a tavola. Le immagini hanno il compito di confermare un assunto apodittico e mostrano gruppi di cinesi che festeggiano ogni evento con lauti pranzi. Pare quasi che Jacopetti avesse un conto in sospeso con i cinesi per parlarne in maniera così negativa e seguendo i più vieti pregiudizi e luoghi comuni. Forse è questa la parte più criticabile e meno attuale di Mondo cane, soprattutto quando mostra la casa della morte di Singapore e afferma che i cinesi mangiano anche se una persona che sta morendo e dicono al futuro cadavere: “Se non muori presto la tua buona cena diventa fredda!”. Il montaggio è a tema ed è proteso ad affermare un’assurda teoria anticinese.
Jacopetti mostra tutto il suo disprezzo nei confronti dell’arte contemporanea, paragonando il lavoro di uno sfasciacarrozze a quello di uno pseudo artista che compone sculture a base di lamiere, ma anche di un pittore come Klein che usa modelle umane in funzione di pennelli per comporre quadri completamente blu.
Siamo a Honolulu, nelle Haway,  per vedere le vacanze eccitanti di un gruppo di pensionati nel paradiso della danza e dell’amore. Jacopetti vuol far capire che il paradiso naturale di un tempo non è più tale, perché l’uomo l’ha distrutto, rendendo tutto artificiale. Vediamo un guerriero malese truccato da donna per una festa rituale, un toro decapitato a Singapore in segno di buon augurio e per l’onore di un battaglione. In Portogallo i tori scorrazzano liberi per le strade di una cittadina (Vilafranca di Scira) e gli uomini mostrano la loro virilità combattendo a mani nude. Jacopetti, Prosperi e Cavara filmano in diretta scene macabre con uomini uccisi e travolti dai tori. Non potevano mancare gli aborigeni della Nuova Guinea che l’uomo bianco ha portato fuori dalle caverne in tempi moderni. Il discorso di Jacopetti è dalla parte degli aborigeni e non ha niente di razzista come spesso è stato obiettato, perché l’uomo naturale viene modificato in peggio dalla modernità e perde la spontaneità. 
Mondo cane si chiude proprio con l’immagine degli aborigeni della Nuova Guinea, civilizzati e battezzati, ma che perdono il loro modo di essere uomini e si ritrovano a osservare il volo degli aeroplani come se fossero divinità. La pellicola si chiude con una stupenda fotografia di una notte australiana con i selvaggi che scrutano i misteri del cielo.
Tutto molto interessante e suggestivo, ancora oggi, a distanza di quasi cinquant’anni dalla prima visione. Per fortuna che la critica se ne sta accorgendo. Meglio tardi che mai…

Gordiano Lupi

Per leggere un bel libro su Jacopetti:

domenica 22 maggio 2011

Quelli belli... siamo noi (1970)

   Giorgio Mariuzzo (1939), comincia come aiuto regista, prolifico sceneggiatore nel periodo del decamerotico e della commedia sexy (Interrabang, Decameroticus, La svergognata, La novizia). Preferisce la sceneggiatura alla macchina da presa e lascia un segno indelebile in diversi campi del cinema di genere. Sono molti i film che negli anni Settanta - Ottanta portano la sua firma: I carabbimatti, Mia moglie torna a scuola, La dottoressa sotto il lenzuolo, L’insegnante al mare con tutta la classe, Luca il contrabbandiere, L’aldilà e Quella villa accanto al cimitero. Mariuzzo lavora anche per il piccolo schermo scrivendo alcuni copioni per pellicole televisive come E non se ne vogliono andare, E se poi se ne vanno? e Una casa a Roma.
   Giorgio Mariuzzo dirige soltanto quattro pellicole nel periodo 1970 - 1976, girando un tardo musicarello, un’imitazione di una pellicola western statunitense, un tardo mondo movie e una parodia del peplum.


   Quelli belli… siamo noi (1970) segna il suo debutto in una pellicola che scrive e sceneggia con la collaborazione di Gino Lavagetto e Fiorenzo Fiorentini. La musica è di Mario Rabbiani e il montaggio di Adriano Tagliavia. Si tratta di un musicarello basato sulle canzoni di Maurizio Arceri (noto come Maurizio) che godette di un effimero successo. Tra gli interpreti spiccano Orchidea De Santis (Elisabetta), Carlo Delle Piane (Carlo), Ugo Fangareggi (Ugo), Carlo Dapporto (Padre di Elisabetta), Isabella Bigini (cugina siciliana di Elisabetta), Riccardo Miniggio e Gianfabio Bosco (la popolare coppia comica Ric e Gian), Lino Banfi, Loredana Bertè ed Elsa Vazzoler.
   La trama è semplice, come in tutti i musicarelli, ma non è un difetto perché la pellicola si segue con piacere anche a distanza di molti anni. Maurizio è un meccanico - cantante che si innamora di Elisabetta, ma la ragazza è siciliana e il padre l’ha promessa a un altro uomo. La madre fa capire al marito che i rapporti decisi dalla famiglia non funzionano, anche perché arriva dalla Sicilia una cugina che ha mollato il fidanzato. Elisabetta vede Maurizio insieme a un’altra donna e adesso è lei a non volerne più sapere, ma tutto si sistema, grazie anche agli amici di Maurizio. Il bacio tra i due protagonisti al termine di una languida canzone d’amore è lo scontato finale.
   Il film non è soltanto una scusa per ascoltare le modeste canzoni della ex voce solista dei New Dada (Cinque minuti e poi…, Elizabeth, L’amore è blu…), perché il contorno di comicità costruito da Mariuzzo funziona. Lino Banfi si vede poco ma nelle sequenze iniziali conduce un bel duetto con Carlo Dapporto e lo scambio di battute siculo - pugliesi è un bel pezzo di cabaret. Ric e Gian sono due diligenti imitatori della tecnica comica di Stan Laurel e Oliver Hardy, che citano a profusione nelle gag del motore da smontare e dei capelli da tagliare. Carlo Dapporto è una macchietta riuscita del padre siculo, geloso, possessivo, decisionista, ma in fondo bonaccione e pure vanitoso poeta dilettante che vorrebbe vedere le sue poesie musicate da Maurizio. Orchidea De Santis è stupenda, ben fotografata in tutta la sua giovanile bellezza, indossa minigonne, stivaloni neri, pantaloni a zampa di elefante e riporta con nostalgia alla moda femminile degli anni Settanta. Maurizio è un modesto attore che si riscatta leggermente quando canta, ma per fortuna la spalla femminile è molto brava e basta un primo piano sui suoi occhi per catturare l’attenzione dello spettatore. Isabella Biagini è un’altra interessante presenza comica, sia nei panni della sicula umiliata e offesa dal fidanzato, sia quando imita Mina e se stessa. Ugo Fangareggi e Carlo Delle Piane sono due irresistibili amici di Maurizio, perennemente sfigati, a caccia di donne, ma soprattutto molto divertenti. Loredana Bertè è così giovane da essere irriconoscibile, non siamo riusciti a identificarla, ma è citata nei titoli di testa. Giorgio Mariuzzo realizza una bella ambientazione nella Roma anni Settanta, tra discoteche dove si balla a ritmo di shake, capelloni che non piacciono agli adulti, genitori siciliani che decidono i mariti delle figlie, timide ribellioni post sessantottine e primi segnali di libertà sessuale. Tutte cose che al tempo in cui è stato girato il film non sembravano importanti, ma che oggi assumono una connotazione decisiva. 
   Quelli belli… siamo noi è una pellicola che nella prima parte presenta un alto tasso di comicità, mentre la storia d’amore tra Maurizio ed Elisabetta prende campo nella parte finale. Interessanti alcuni flashback onirici che vedono protagonisti Maurizio e la De Santis, intenti  a pensare al passato sulle note di una canzone d’amore. La parte musicale non infastidisce più di tanto e si sopporta bene ancora oggi, perché la storia prende, diverte, appassiona, soprattutto è ben recitata da attori in gran forma. Da riscoprire.


Gordiano Lupi

sabato 21 maggio 2011

Bingo Bongo (1982)



Bingo Bongo (1982) è uno dei più originali Celentano movie di tutti i tempi, dove l’attore si confronta con la sua leggendaria similitudine con uno scimmione. Interpreti: Adriano Celentano, Carole Bouquet, Felice Andreasi, Enzo Robutti, Walter D’Amore, Roberto Marelli e Sal Borgese. Bingo Bongo (Celentano) è un uomo - scimmia catturato da un gruppo di scienziati che viene portato a Milano per essere studiato, ma la sola a capirlo è l’antropologa Laura (Carole Bouquet), che a un certo punto si licenzia perché non condivide i metodi dei colleghi. Bingo Bongo non resiste alla gabbia, fugge per le strade della città, va a vivere su un albero e si mette a parlare con gli animali cercando di difendere i loro diritti. Il tema dell’animale che deve essere lasciato libero di vivere nel suo ambiente si unisce a quello de la bella e la bestia, perché a un certo punto l’affascinante Laura s’innamora dello scimmione. Celentano compie il suo discorso ecologista fino in fondo e Bingo Bongo diventa campione della convivenza tra umani e animali, perché “il mondo non può più andare avanti così, a cacchio di uomo”. La sceneggiatura è di Franco Ferrini, Enrico Oldoini, Franco Marotta e Laura Toscano, ma la pellicola è una favola d’amore con protagonista un buon selvaggio, costruita su misura per un Celentano santone che dispensa pillole di ecologia. La storia ha il fiato corto, ma la canzone Uh… Uh…, un successo dimenticato di Adriano Celentano che fa parte della colonna sonora, resta un mito del trash: “State attenti cari amici/ che le bestie siamo noi”. La sceneggiatura è modesta e la fiacca parte centrale ci fa ascoltare per intero non solo la citata Uh…Uh…, ma anche Giungla di città, con relativi balletti messi in scena da Celentano e da gruppi di figuranti presso la discoteca Kiwi di Milano. Carole Bouquet salva il film da un punto di vista erotico regalando rapide sequenze di nudo e alcuni palpeggiamenti con Adriano Celentano. Citiamo anche una sexy vestaglia da notte trasparente, alcune sequenze durante veri o finti temporali che spingono Bingo Bongo a dormire con lei, una parte in costume da bagno e un’altra che la vede insaponarsi in una vasca. Molta comicità da cartone animato nelle prime sequenze - che sono le migliori - quando gli scienziati tentano di civilizzare Bingo Bongo. Alcune sequenze sono surreali (lo specchio che risponde), altre vengono riprese dal cinema muto e citano Chaplin (il sistema d’irrigazione che impedisce di bere a Celentano), in ogni caso il molleggiato è molto bravo interpretando un ruolo non facile. Il film rientra nel periodo ecologico di Celentano che compie un discorso deciso contro caccia, zoo, acquari, gabbie, allevamenti intensivi, inquinamento, vivisezione e violenza contro gli animali. Il film si chiude con una citazione a King Kong - domato da Bingo Bongo - che va a vivere con Laura, Bingo Bongo e la scimmietta Renato.

Gordiano Lupi

sabato 14 maggio 2011

Mauro Bolognini, a dieci anni dalla morte

Mauro Bolognini
Precursore della commedia erotica


Mauro Bolognini (Pistoia 28 giugno 1922 - Roma, 14 maggio 2001) meriterebbe una trattazione compiuta, vista la sua importanza come autore nell’economia del cinema italiano. In questa sede ci limitiamo a inquadrare la sua rilevanza come precursore della commedia erotica.
   Bolognini comincia la sua attività dal Centro Sperimentale di Roma, dopo aver compiuto studi di architettura, ma è il cinema la sua vera passione e dopo il diploma di regista lo troviamo attivo sia in Italia - come aiuto di Luigi Zampa - che in Francia, al fianco di Yves Allégret e Jean Delannoy. Il suo primo film da regista è Ci troviamo in galleria (1953), un film varietà basato su molte canzoni di Nilla Pizzi, ma valorizzato dalla presenza di Carlo Dapporto, Alberto Sordi e Sophia Loren. La sceneggiatura è di Steno, Sandro Continenza e Lucio Fulci, che impostano una critica al nuovo media televisivo che farà morire il varietà. Sophia Loren nei panni di una ballerina è alle prese con una delle prime caratterizzazioni e rappresenta il solo momento di casto erotismo della pellicola. Altri lavori successivi sono commedie intimiste e sentimentali che non rivelano un tratto personale ma sembrano influenzate dal neorealismo rosa. Gli innamorati (1955) è una commedia scritta da Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, ma sembra che collabori al soggetto anche Giuseppe Berto. Bolognini gira una commedia neorealista con toni malinconici, una storia d’amore elegiaca e fatalista interpretata da Antonella Lualdi, Franco Interlenghi, Nino Manfredi, Valeria Moriconi e Gino Cervi. La vena d’oro (1955) è una commedia edipica scritta da Guglielmo Zorzi nel 1928, riadattata al cinema per esplorare un rapporto morboso nei limiti del consentito dai tempi. Interprete principale è il giovane Mario Girotti (futuro Terence Hill), nei panni del figlio innamorato di una madre vedova (Marta Toren), deciso a impedire la corte di un professore (Richard Basehart).
   Mauro Bolognini presenta una grande vocazione per la commedia brillante, non dirige mai lavori di puro intrattenimento e fa intuire una grande personalità d’autore. Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (1956) è un film divertente scritto da Ettore Scola, Ruggero Maccari e Nicola Manzari, interpretato da Alberto Sordi, Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Nino Manfredi, Gino Cervi e Valeria Moriconi. Siamo in pieno neorealismo rosa ma viene fuori una tematica della futura commedia all’italiana come quello del rapporto tra cittadini e addetti al traffico. Si ride a sprazzi per merito di grandi attori comici ma il soggetto è piuttosto debole.
   Marisa la civetta (1957) è neorealismo rosa puro e semplice, al punto da sembrare un’imitazione spudorata di Poveri ma belli ambientata a Civitavecchia. Interpreti: Marisa Allasio, Renato Salvatori, Francisco Rabal, Ángel Aranda, Ettore Manni, Polidor, Umberto Orsini ed Enio Girolami. Marisa Allasio è la bella orfanella che vende bibite ala stazione di Civitavecchia e sembra dare speranze amorose a tutti, ma alla fine scapperà con un marinaio. Da notare per la futura commedia erotica una Marisa Allasio che porta scompiglio tra gli uomini ripetendo un ruolo di successo e mostrando vistose scollature. Pier Paolo Pasolini collabora per la prima volta con Bolognini: si nota la sua mano nella descrizione di ambienti provinciali, balere, squadre di calcio e soldati in libera uscita.
   Giovani mariti (1958) è il primo film che mostra le doti registiche di Bolognini e va ben oltre le convenzioni del neorealismo rosa, descrive la vita di provincia con eleganza e stile, mettendo in evidenza il vuoto esistenziale di una generazione. Si nota nella scrittura del film la mano di Pier Paolo Pasolini, ma anche Pasquale Festa Campanile, Piero De Bernardi, Enzo Curreli, Massimo Franciosa e Luciano Martino contribuiscono alla buona riuscita dell’opera. L’ambientazione a Lucca è a dir poco perfetta, anche se le psicologie dei personaggi spesso non sono molto approfondite. Il regista racconta le storie parallele di cinque amici che si sposano ma non per tutti si tratta di vero amore e quando si ritroveranno si accorgeranno di essere davvero cambiati. Antonio Interlenghi è il solo che ammette di non saper amare, mentre Enio Girolami, Gérard Blain, Antonio Cifariello e Raf Mattioli sono gli amici che accettano il matrimonio come logica conseguenza di vita. Nel cast femminile spiccano Sylva Koscina, Antonella Lualdi, Isablle Corey e la debuttante Anna Maria Guarnieri.
   Arrangiatevi! (1959) è superiore, si va ben oltre il neorealismo rosa, ma ne abbiamo parlato a lungo nel capitolo dedicato a Totò.
   Mauro Bolognini collabora sempre di più con Pier Paolo Pasolini e realizza La notte brava (1959), rielaborazione cinematografica de I ragazzi di vita. Il film è interpretato da Jean-Claude Brialy, Rosanna Schiaffino, Elsa Martinelli, Laurent Terzieff, Anna Maria Ferrero, Franco Interlenghi, Tomas Milian, Mylène DEmongeot e Antonella Lualdi. La sceneggiatura è di Pasolini e Laurence Bost, che rielaborano il romanzo per tirare fuori un interessante film notturno basato sulle avventure erotiche di tre ladruncoli di borgata. La critica lo definisce il miglior film di Bolognini, sia per una regia attenta e misurata che per i volti degli attori ben selezionati. Il regista racconta una gioventù disperata  che vive alla giornata tra furtarelli e scappatelle con donne di facili costumi.
   La giornata balorda (1960) è un film che viene fuori dalla collaborazione con Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, perché Bolognini adatta alcuni dei Racconti romani e dei Nuovi racconti romani per rappresentare una Roma estiva, sudata, all’insegna di un’illegalità diffusa, dove non è facile tracciare un confine tra innocenza e colpa. Il film non ha vita facile con la censura del tempo per le tematiche trasgressive che parlano di piccoli delinquenti, truffatori e di un’umanità disperata. Interpreti: Jean Sorel, Lea Massari, Jeanne Valery, Isabelle Corey, Paolo Stoppa, Rick Battaglia e Valeria Ciangottini. Il bell’Antonio (1960) è un lavoro fondamentale di Bolognini, tratto dal complesso romanzo di Vitaliano Brancati che scandalizza l’Italia bacchettona e moralista degli anni Sessanta per il tema delicato dell’impotenza sessuale. Pier Paolo Pasolini e Gino Viscontini collaborano con il regista in qualità di sceneggiatore. La versione cinematografica fa perdere le belle pagine di critica al fascismo che si leggono nel romanzo, perché l’azione si svolge ambientata nella Sicilia degli anni Cinquanta. Tutto il resto è abbastanza in sintonia con la storia di Brancati, ma nonostante la grande interpretazione di Marcello Mastroianni  il tono della pellicola è troppo languido e intimista. Tra gli interpreti: Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Pierre Brasseur, Rina Morelli e Tomas Milian.

   La letteratura italiana diventa la principale fonte di ispirazione di Mauro Bolognini che affronta L’eredità di Mario Pratesi per dedicare un omaggio alla Toscana ne La viaccia (1961), dipingendo con grande cura formale un ritratto di fine secolo della sua regione. Tra gli attori troviamo una bellissima Claudia Cardinale nei panni di una prostututa, Jean-Paul Belmondo e il regista Pietro Germi. Agostino (1962) è ancora un tema scabroso per il cinema italiano, ma Bolognini riesce a portare sullo schermo la torbida gelosia di un figlio innamorato della madre che contrasta la sua relazione con un corteggiatore. Agostino reagisce al distacco della madre frequentando un gruppo di teppisti che gli faranno scoprire in modo traumatico la sessualità. Tra gli interpreti: Ingrid Thulin, Paolo Colombo e John Saxon. Goffredo Parise sceneggia per il cinema il romanzo breve di Alberto Moravia, mentre Bolognini rappresenta con delicatezza il rapporto edipico e il doloroso passaggio all’età adulta. Il film è girato in uno splendido bianco e nero, rappresenta con attenzione la crudeltà nel mondo dei bambini, documenta la differenza sociale tra poveri e ricchi. Agostino ha qualche guaio con la censura perché l’Italia non è ancora abituata ad affrontare simili tematiche.


Senilità (1962) è ispirato all’omonimo romanzo di Italo Svevo, sceneggiato da Tullio Pinelli e Goffredo Parise, per portare sullo schermo scenografie triestine e tipologie psicologiche care al regista, intrise di letteratura europea con riferimenti a James Joyce. La pellicola banalizza il romanzo ed è una modesta storia di amori e fallimenti interpretata da Anthony Franciosa, Philippe Leroy, Claudia Cardinale e Betsy Blair. Molto bella l’ambientazione triestina, autunnale e crepuscolare. La corruzione (1963) è un buon film sugli anni del boom economico scritto da Ugo Liberatore e Fulvio Gicca-Palli. Tra gli interpreti ricordiamo le bellezze femminili di Rosanna Schiaffino e Isa Miranda, mentre il cast maschile comprende Jacques Perrin e Alain Cuny. La storia orbita su un giovane protagonista che vorrebbe farsi prete, mente il padre lo dissuade gettandolo tra le braccia della sua amante. Bolognini affronta diverse scene erotiche e descrive molto bene i turbamenti della carne. In questo periodo Bolognini partecipa a molti film collettivi a episodi come La mia signora (I miei cari e Luciana, 1964), Le bambole (Monsignor Cupido, 1965), La donna è una cosa meravigliosa (La balena bianca e Una donna dolce dolce, 1966), Le fate (Fata Elena, 1967), Le streghe (Senso civico, 1967), L’amore attraverso i secoli (Notti romane, 1967), Capriccio all’italiana (Perché? e La gelosa, 1968). Un bellissimo novembre (1969) è ancora una volta una pellicola letteraria tratta da un romanzo di Ercole Patti, autore siciliano di ottimi racconti erotici, che ricalca in parte la tematica del moraviano Agostino. Ai fini dell’erotismo cinematografico si ricorda una scena che immortala la bellezza di Gina Lollobrigida in sottoveste bagnata. Niente a che vedere con la commedia, comunque. L’assoluto naturale (1969) è ancora erotismo colto, tratto da un testo teatrale di Goffredo Parise. Interprete femminile è la bellissima - e per i tempi molto nuda - Sylva Koscina che uccide il suo amante conosciuto in un motel dopo averlo tradito con due meccanici. Metello (1970) è il romanzo di Vasco Pratolini portato al cinema senza nessuna interferenza registica, un lavoro insolito e quasi anonimo nel quadro della sua filmografia perché pare non sentirsi il cambiamento di linguaggio. Altre opere degne di menzione con riferimenti letterari sono Bubù (1971), Imputazione di omicidio per uno studente (1972), Fatti di gente per bene (1974), Per le antiche scale (1975), Libera, amore mio (1975) e L’eredità Ferramonti (1976). Gran bollito (1977) è una commedia che ricostruisce in chiave horror - grottesca la vicenda di Leonarda Cianciulli, detta la Saponificatrice di Collegno.
   Dove vai in vacanza? (1978) mostra Bolognini alle prese con la commedia erotica vera e propria in un film collettivo che ha come filo conduttore le vacanze, firmato con Luciano Salce e Alberto Sordi. L’episodio di Bolognini è intitolato Sarò tutta per te e vede interpreti Ugo Tognazzi e Stefania Sandrelli per dare vita alla più classica delle situazioni da commedia degli equivoci. Tognazzi è un dentista piantato dall’amante  che decide di raggiungere l’ex moglie (Sandrelli) nella sua villa al mare, ma - nonostante un contrastato riavvicinamento coniugale - il rapporto erotico non si concretizza. Si tratta forse del Bolognini più vicino al pecoreccio e alla commedia sexy di serie B, un film che gli è costato più di una critica negativa, ma che ai nostri fini presenta un certo interesse. Sì buana di Luciano Salce è vera e propria commedia sexy, interpretata da Paolo Villaggio, Gigi Reder e Anna Maria Rizzoli. L’episodio si svolge nella giungla africana dove durante un safari l’ingenuo quanto allupato organizzatore (Villaggio) si fa convincere da una bionda procace (Rizzoli) a uccidere il suo compagno. Una vera e propria satira del racconto Breve vita felice di Francis Macomber scritto da Hernest Hemingway. Il migliore dei tre episodi è Vacanze intelligenti interpretato da Alberto Sordi e Anna Longhi, dove un fruttivendolo e gentile signora si fanno convincere dai figli a passare vacanze alternative. Il finale è qualunquista e presenta tutti i limiti dei film diretti da Sordi.

   Tra gli ultimi film di Mauro Bolognini citiamo La vera storia della signora delle camelie (1981), il televisivo La certosa di Parma (1982) e La villa del venerdì (1991), che ribadiscono uno stile colto e raffinato, grande cura per le scenografie e molti riferimenti letterari. Tra le ultime cose nel segno di Moravia va ricordata la versione televisiva de Gli indifferenti (1987) che va in onda nello stesso anno in cui al cinema viene distribuito il politico - umanitario Mosca addio. Nelle ultime opere di Bolognini troviamo ancora attenzione alla tematica erotica ne La Venexiana (1986), una commedia sexy ambientata nella Venezia del Settecento che mostra con generosità Laura Antonelli senza veli. Pure Monica Guerritore si dà da un gran da fare per far capire di nutrire molte ambizioni nel campo del cinema erotico. La preda contesa è il bel Jason Connery che finisce prima nel letto della vedova matura (Antonelli), poi in quello della giovane dama (Guerritore). Più erotico che commedia e in ogni caso un film da rivedere soprattutto per ammirare la bellezza delle due attrici.

   Il segno distintivo di Mauro Bolognini è la sua grande duttilità nel saper tradurre in immagini capolavori letterari e opere di narrativa, restando fedele allo spirito della parola scritta. 

(tratto dal mio libro inedito La commedia erotica classica - in uscita per Profondo Rosso)

Gordiano Lupi

The Lost City, la mia storia più vera


The Lost City non è Tre tristi tigri adattato per il cinema come ha scritto qualche critico che non sa niente di letteratura cubana e magari parla del romanzo solo per sentito dire. Tre tristi tigri lo portò al cinema Raúl Ruiz, nel 1968, fece tutto da solo, non mi consultò neppure per la sceneggiatura. Non venne fuori niente di buono, ma pagarono i diritti. The Lost City è il film della mia vita, la mia storia più vera, il racconto emozionato del sogno rivoluzionario stemperato in una cocente delusione che mi ha portato all’esilio. Al Tropico di Fico Fellove - un ottimo Andy Garcia - si balla il mambo, il valzer e il cha-cha-cha, mentre una famiglia aristocratica di coltivatori di tabacco è divisa tra rivoluzionari e conservatori. Il patriarca è un grande Tomas Milian, perfetto nella parte del vecchio cubano, proprio come l’avevo immaginato scrivendo il soggetto.
“In questa casa i miei figli sono sempre benvenuti, ma devono sapere che si mangia alle sei di sera in punto. Non un minuto più tardi”. Il problema della famiglia aristocratica è che i figli si perdono per diversi destini in una Cuba prima vessata dagli sgherri di Batista e subito dopo sconvolta dalla Rivoluzione. Le sedie intorno alla tavola sono sempre meno, nonostante il patriarca ammonisca che la famiglia va messa al primo posto, accada quel che accada. Ricardo è il figlio rivoluzionario, torturato in carcere e sfiancato di botte, salvato da un soldato di Batista amico di Fico, che finisce sulla sierra per condividere il destino di Fidel e Che Guevara. Racconto la mia Cuba sconvolta dagli sbirri d’un dittatore mulatto vestito di bianco, da Mayer Lensky e i mafiosi che la infestano per aprire case da gioco e mantenere il racket dei locali. Una Cuba che ti impone di essere con loro o contro di loro, non è possibile fare come Fico Fellove, gestire un cabaret e suonare il piano, senza una posizione politica.
“L’Avana è diventata la capitale del peccato. Ci serve un Cristo con la frusta per cacciare i mercanti dal tempio. Nel mare anche uno squalo può annegare”, mormora il patriarca dai capelli bianchi. Luis è un altro fratello  rivoluzionario che si fa chiamare Peligro ed entra a far parte del Direttorio dopo aver affidato la bella moglie Aurora (Ines Sastre) a Fico. Farà una brutta fine dopo il fallito attentato a Batista, ucciso dai poliziotti di regime che lo braccano nel suo rifugio. Gli sgherri del dittatore uccidono senza pietà, anche quando si trovano di fronte ragazzi, studenti, persone animate da un’idea di cambiamento. Il funerale di Luis lo immagino come uno dei tanti che ho visto, prima e dopo la rivoluzione. Il patriarca continua a cenare alle sei in punto, secondo una buona abitudine borghese, ma un figlio non tornerà più, mentre un altro rischia la vita sulla sierra per la libertà di Cuba. Aurora, la bella cubana dai capelli crespi sprizzante sensualità e dolore, resta sola. Fico si prende cura di lei e i due finiranno per innamorarsi.
“L’Avana assomiglia a una rosa, ha molte spine, dipende da come la prendi, ma alla fine è lei che prende te”, faccio pronunciare a Fico Fellove una frase che ho scritto in troppi libri che avevano una solo protagonista: la mia terra perduta.
Fico conduce Aurora alla scoperta dell’Avana, è un me stesso per interposta persona, un vagabondo della notte, pianista e ballerino come non sono mai stato, innamorato della sua città, delle improvvisazioni di Benny Moré e delle serate al cabaret.
Racconto la fuga di Batista e la fine d’anno al Tropico, l’ingresso dei barbudos e gli orrori alla Cavaña, dove uno spietato Che Guevara giustizia gli uomini di Batista al termine di processi sommari. Fico vede fucilare persino l’amico che aveva salvato il fratello dalla galera. Non importa che i poliziotti si siano macchiati di delitti, sono uomini di Batista e tanto basta per condannarli a morte. I borghesi vengono scacciati dalle terre, lo zio di Ricardo muore d’infarto cardiaco quando il nipote si presenta per requisire il campo di tabacco a nome della Rivoluzione. Il padre è sempre più sconsolato: “Nessuno dice più ciao di questi tempi. Soltanto addio”, sussurra. Ha capito che resta solo la fuga come via di scampo. Prepara la partenza del figlio, perché lui e la moglie sono vecchi per affrontare il cambiamento.
“Il Cristo di cui parlavi è qui, con la sua frusta”, dice Fico. A lui non piace per niente Fidel, non ama i suoi metodi, non capisce come si possano giustiziare persone senza processo, perché si debba impedire di suonare il sassofono in un cabaret perché è uno strumento imperialista.
 “A Cuba abbiamo sempre avuto tanta luce. Non abbiamo mai avuto l’oscurità a mezzogiorno”, dice il padre distrutto dal dolore. Il patriarca dai capelli bianchi perderà un altro figlio, dopo averlo ripudiato, per aver tradito il suo paese e disonorato la famiglia. Ricardo piangerà la morte dello zio che lui stesso ha provocato e alla fine si sparerà un colpo di pistola in bocca.
The Lost City racconta la mia Cuba diventata fidelista. Elezioni perché? Il popolo ha già deciso, scrivevano i giornali.
Fico non ce la fa a restare, ma non riesce a convincere Aurora a scappare via con lui, perché la donna viene coinvolta nella Rivoluzione, sfruttata come la vedova d’un martire, facendo leva sul suo orgoglio e sul ricordo di un marito che aveva combattuto per una Cuba libera. “È una follia. Tutto questo non finirà. Se resti la tua vita apparterrà a loro…”, dice Fico. Subito dopo brinda davanti a Fidel e a Che Guevara al sogno di una Cuba libera, pluralista e democratica, l’unico sogno per cui è morto il fratello, un sogno non realizzato. La partenza di Fico è solitaria, dopo un lungo abbraccio in lacrime con il padre, che è l’immagine riflessa della mia partenza, di uomo in fuga verso l’esilio. Il vecchio patriarca resta a Cuba con la moglie, attende il ritorno del figlio quando tutto sarà finito, si raccomanda ancora una volta di essere puntuale, perché alla sua tavola si mangia alle sei in punto, non un minuto dopo. Fico parte e deve lasciare ogni cosa di valore alla Rivoluzione, umiliazione imposta a tutti i borghesi che decidono di non restare. “Non siete ancora fuggiti e già vi portate via dei souvenir. Non puoi portare Cuba con te”, gli dice con disprezzo un uomo in divisa verde olivo.
Fico raggiunge New York senza denaro e prospettive di lavoro. Finisce a lavare i piatti in un cabaret e subito dopo a suonare il piano per gli avventori. “Quando un uomo è davvero solo anche una lampadina fa compagnia”, dirà un vecchio amico ritrovato. “Il problema dell’esilio è l’esilio”, faccio rispondere a Fico con una frase che troppe volte ho pronunciato. Il mio personaggio ritrovare il vecchio bandito Mayer Lensky, insieme ricordano Cuba, ma lui non è cambiato, non scende a patti con un mafioso. 
“Era una cosa splendida L’Avana. Avremmo dovuto saperlo che ci avrebbe spezzato il cuore”, sono parole di uomo tradito dal più grande amore, una donna bellissima come una città disperata.
Nel finale inserisco un tocco di melodramma romantico alla Casablanca, una cosa che ricorda Bogart in partenza mentre dice addio alla sua bella. Fico ritrova Aurora di passaggio a New York insieme alla delegazione cubana alle Nazioni Unite. Bevono caffè nero e ricordano il passato. Si vogliono ancora bene ma sono divisi per sempre da un triste destino.
“Non c’era più niente per me all’Avana. Non posso essere fedele a una causa persa, ma posso esserlo a una città perduta”, dice il mio personaggio che in fondo è me stesso, un uomo che per tutta la vita ha vissuto nel ricordo di una terra da rivedere.
Fico resta a New York e Aurora torna in una Cuba ormai troppo cambiata. Per amare la sua donna dovrebbe pagare un prezzo troppo alto e rinunciare alla libertà. Preferisce lasciarla partire e rivedere in solitudine i filmati di famiglia con lei protagonista mentre in sottofondo scorrono versi di José Martí.
Sono io Fico Fellove, ma lo sono pure Andy Garcia e Tomas Milian, cubani vittime di un comune destino. Per questo dico che The Lost City è la mia storia più vera, la mia eredità di uomo e di scrittore. Mi spiace soltanto che pochi l’abbiano capito.

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

Il racconto va letto come un apocrifo di Guillermo Cabrera Infante.

mercoledì 11 maggio 2011

Guillermo Cabrera Infante, in arte Cain!


"La mia colpa più grande è la colpa dell’esule: aver lasciato la mia terra per essere un senza terra, aver abbandonato dietro di me chi stava sulla stessa nave, che io ho aiutato a gettare nel mare senza sapere che significava nel male. Ma io non ho abbandonato la mia nave, è stata la mia nave ad abbandonare me. Molti esuli cubani possono dire di non aver mai abbandonato Cuba: è stata Cuba ad abbandonare loro. Ad abbandonare i migliori. Posso fare un piccolo elenco, certo non esaustivo: il comandante Alberto Mora, suicida; il comandante Plinio Prieto, fucilato; il generale Ochoa, capro espiatorio. Ma l’esilio colma la misura dell’abbandono più della morte, perché ci si sente soli, ci si sente naufraghi di una barca alla deriva come la nostra terra perduta".

Guillermo Cabrera Infante ha avuto due amori: L'Avana e il cinema. Almeno due cose ci rendono simili.

Gordiano Lupi

Il mio libro sul cinema di Luigi Cozzi tradotto in inglese

http://www.dvdcineshop.com/catalog/written-directed-lewis-coates-gordiano-lupi-p-42639.html
Il mio libro sul cinema di LUIGI COZZI è uscito in inglese e verrà presentato a Los Angels al Weekend of Horrors di Fangoria.

venerdì 6 maggio 2011

Un nuovo blog di cinema

Inauguro questo spazio dedicato al cinema spiegando le ragioni del titolo. Il cinema è da sempre una delle mie passioni, come lo è Cuba e la sua cultura (anche il cinema cubano, che farà parte di questo spazio). Per questo motivo voglio citare uno scrittore cubano a me caro: Guillermo Cabrera Infante, che scriveva di cinema sotto lo pseudonimo di G. Cain (la sceneggiatura di Vanishing Point è firmata così). Ecco perchè La Cineteca di Caino: nel mio spazio, come un piccolissimo Cabrera Infante, voglio parlare del cinema che amo, alto o basso non importa, non sono definizioni che interessano, basta che sia un cinema fatto con il cuore.
A questo proposito è uscito da pochi giorni il primo volume della Storia del Cinema Horror Italiano - da mario Bava a Stefano Simone - il vol. 1 è dedicato al Gotico. Ecco un cinema che amo e che la critica alta ha sempre stroncato. Il blog servirà anche a questo...

Gordiano Lupi