domenica 22 febbraio 2015

Anonimo veneziano (1970)

di Enrico Maria Salerno


Regia: Enrico Maria Salerno. Soggetto: Enrico Maria Salerno. Sceneggiatura: Giuseppe Berto, Enrico Maria Salerno. Fotografia: Marcello Gatti. Montaggio: Mario Morra. Musiche: Stelvio Cipriani (dirette dall’autore). Edizioni Musicali: C.A.M.. Altre Musiche: La 5° Sinfonia di Beethoven è diretta da Giorgio Gaslini; il Concerto in do minore per oboe e orchestra di Alessandro Marcello è trascritto e diretto da Giorgio Gaslini. Architetto Scenografo: Luigi Scaccianoce. Aiuto Regista: Vittorio Salerno. Mixage: Alberto Bartolomei. Operatore alla Macchina: Otello Spila, Silvano Mancini. Fotografo di Scena: G. B. Poletto. Costumi e Arredamento: Danda Ortona. Effetti Ottici/ Negativi/ Positivi: S.P.E.S. direttore E. Catalucci. Pellicola: Eastmancolor. Registrazione Sonora: Westrex Recording System. Studi Sincronizzazione: C.D.S. con la collaborazione della C.D. srl. Produttore: Turi Vasile per Ultra Film. Direttore di Produzione: Michele Marsala. Organizzazione Generale: Danilo Marciani. Distribuzione: Interfilm. Durata: 94’.


Sgombriamo il campo da ogni possibile equivoco: Anonimo veneziano non c’entra niente con il lacrima movie. I soli punti di contatto sono la struggente colonna sonora - invasiva e pervasiva - e la malattia di un protagonista, mentre viene a mancare tutta la parte strappacuore, la fine lacrimosa, che il regista lascia all’immaginazione dello spettatore.  


Anonimo veneziano è il primo film da regista di un ottimo attore comico - drammatico come Enrico Maria Salerno (Milano, 1926 - Roma, 1994), che scrive il soggetto e si fa aiutare da un narratore di razza come Giuseppe Berto per costruire una solida sceneggiatura e imbastire dialoghi molto letterari. Unico successo commerciale che Salerno tenta di bissare - senza riuscirci - prima con Cari genitori (1972), quindi con Eutanasia di un amore (1978) - dal romanzo di Giorgio Saviane - e infine con l’originale televisivo Disperatamente Giulia (1990). 


Anonimo veneziano vede due protagonisti assoluti: Tony Musante (Enrico) e Florinda Bolkan (Valeria), senza dimenticare una Venezia fotografata da Marcello Gatti senza alcuna tentazione calligrafica e la stupenda colonna sonora di Stelvio Cipriani. Un uomo e una donna in procinto di separarsi si ritrovano in una Venezia invernale e decadente per ricordare i giorni felici d’un grande amore, quando la città sembrava solare e luminosa. La coppia rivive il passato nei luoghi che prendono vita sotto i loro sguardi: la casa del primo rapporto, il ristorante del pranzo di nozze, la prima abitazione, il Canal Grande, i prati in riva alla Laguna. Tra litigi, sogni perduti e recriminazioni arriva improvvisa la rivelazione di Enrico: sta morendo per un tumore al cervello. Il regista è bravissimo a compenetrare il senso di morte che alberga nel cuore del personaggio con la città in disfacimento, una Venezia livida e triste, “destinata a colare a picco, come una nave in fondo al mare”. La musica è la sola salvezza di Enrico, illumina di speranza gli ultimi giorni, anche se dirigere un gruppo di giovani nel suo concerto terminale è poca cosa rispetto alle illusioni del passato. Ma rivedere Valeria, sapere che il figlio di otto anni sta bene e si ricorderà di lui, dedicargli l’ultima sinfonia mentre la saluta in lacrime, è il suo ultimo sogno. Vuole soffrire insieme a lei, dopo averla amata un’ultima volta, comunicare il grande dolore, il senso di impotenza, per poi lasciarsi morire nella sua Venezia. “Perché non dovrei aver paura? Ma in fondo non vorrei morire in un altro luogo che questo, non perché ci sono nato, ma perché intorno a me tutto parla di morte”, dirà Enrico.


Anonimo veneziano è grande cinema, molto più intenso e drammatico di Love story (1970), anche se dal soggetto di Hiller e Segal prende il tema della malattia e lo declina al maschile, oltre a mettere in primo piano un’intensa e struggente colonna sonora. Il flashback è usato alla Bergman, con i protagonisti immersi nelle scene del ricordo, proprio come ne Il posto delle fragole (1957). La scuola prende vita, le voci del pranzo di nozze riecheggiano tra i tavoli del cadente ristorante frequentato soltanto da una coppia di innamorati, la stanza della prima notte d’amore spalanca le finestre sul loro presente. Un film molto teatrale, interpretato magistralmente da due attori ispirati, sostenuto da un testo di grande spessore e da una fotografia veneziana difficilmente eguagliabile. La città prende vita e accompagna i sentimenti dei personaggi, tra la tristezza di una Laguna solitaria, il vento sferzante che si fa largo tra le stradine tortuose, i panni stesi ad asciugare dei quartieri popolari e le panoramiche decadenti per immortalare il senso del tempo perduto. Un film proustiano, se si vuole, che cita direttamente il più grande autore del Novecento durante la sequenza della prova dei vestiti in un negozio di Burano. Persino Flaubert e la sua Madame Bovary sono presenti con un pizzico d’ironia quando il marito afferma che le donne soffrono di bovarismo: sognano di mettere le corna all’amante con l’ex marito. Salerno e Berto non dimenticano di inserire un riferimento politico alla contrastata legge sul divorzio, prima approvata e subito dopo oggetto di referendum popolare. Non solo, illustrano con dovizia di particolari le difficoltà di un rapporto coniugale e le mille sfaccettatura dell’amore, facendo assurgere a figure simbolo i due protagonisti. Ma la cosa più riuscita del film è la contrapposizione tra un luminoso passato e un decadente presente, tra la felicità che caratterizzava i giorni d’un amore intenso e la tristezza di un lugubre quotidiano. Anonimo veneziano è il titolo della sinfonia che Enrico sta portando in scena con un gruppo di giovani allievi, un lavoro che vorrebbe far sentire al figlio quando lui non ci sarà più. Non si tratta di un’invenzione del regista, né di una creazione di Cipriani, ma di un vero “concerto in do minore per oboe e orchestra” composto da Alessandro Marcello (non dal fratello Benedetto, come scrivono alcuni), trascritto e diretto da Giorgio Gaslini. Un altro inserto musicale arrangiato da Gaslini è la Quinta Sinfonia di Beethoven che Enrico finge di interpretare in un teatro vuoto. Tutto il resto è una grande colonna sonora sinfonica di Stelvio Cipriani, musica immortale che resiste persino a una denuncia per plagio perché le battute iniziali sono moto simili a quelle di Love story. Ottima la regia, caratterizzata da un moderato uso dello zoom, molti primi piani, intensi primissimi piani, particolari degli occhi come in un western di Sergio Leone, alcuni piani sequenza, stupende panoramiche e carrellate. Fotografia magistrale. Vediamo un po’ di rassegna critica.


Roberto Poppi (I Registi Italiani): “Anonimo veneziano è un ottimo film, una storia struggente ambientata in una Venezia in disfacimento, una grande interpretazione di Florinda Bolkan e Tony Musante, guidati da un regista in stato di grazia”. Gian Luigi Rondi: “Una meditazione sulla morte e sulla vita: difficili entrambe, dure, dolorose. Con lo sfondo di una città, Venezia, che, se non è morta, sembra morente e può benissimo venire assunta a simbolo di una simile meditazione”. Pino Farinotti (quattro stelle): “Il primo film diretto da Enrico Maria Salerno, uno dei più grandi successi del cinema italiano degli anni Settanta. Una Venezia fotografata splendidamente da Marcello Gatti”. Morando Morandini (due stelle e mezzo, ma cinque per il pubblico): “Straziante corrida coniugale sullo sfondo di una livida laguna. Galeotte furono le musiche settecentesche, la colonna sonora originale e la fotografia. Meglio del contemporaneo Love story, comunque”. Paolo Mereghetti (una stella): “Una Love story all’italiana, uno straordinario successo di pubblico, un’opera prima che usa tutti gli ingredienti del film patetico e strappalacrime, compreso un attacco al divorzio diventato legge proprio in quel periodo”. Non condividiamo una parola!  Gianni Rondolino (Catalogo Bolaffi del Cinema Italiano): “Amore e morte, un tema abusato. Enrico Maria Salerno, novello regista, ci punta tutte le sue carte. C’erano tutti gli elementi perché la cosa riuscisse: due personaggi giovani, belli, Venezia, infine la rivelazione della morte imminente che fa precipitare la storia nella tragedia. Su queste basi non era difficile comporre un film accattivante e commovente. Che negli anni Settanta un’operazione del genere possa ancora riuscire è motivo di studio sociologico”. Marco Bertolino (Nocturno Cinema): “Uno dei punti di forza di Anonimo veneziano è l’ambientazione nella Laguna che, con il suo connubio fra romanticismo e decadenza, innesca l’esplosione del binomio eros-thanatos. Venezia non è meno protagonista dei due fiammeggianti interpreti… un dramma che si consuma nella rievocazione dei ricordi... personaggi affascinanti caricati di spessore simbolico… dialoghi programmatici e teorici… un mélo assoluto della sua epoca”. Marco Giusti (Stracult): “Campione del lacrima movie (sic!) e unico trionfo da regista di Enrico Maria Salerno alla sua opera prima, che non riuscirà più a ripetere il colpaccio. Qui, nel kitsch dell’ovvietà, funziona tutto, la malattia, Venezia, la musica di Benedetto Marcello (sic!) riletta da Stelvio Cipriani, il duo di protagonisti. Allora fece un sacco di soldi, oggi è praticamente invisibile. Da ragazzini storcemmo il naso. Oggi chissà…”. Di kitsch c’è solo un commento come questo, credo, infarcito di errori e pressapochismo.


Anonimo veneziano è recitato in inglese e i due protagonisti (lui statunitense, lei brasiliana) sono doppiati da Sergio Graziani e Maria Pia Di Meo. Anticipa in sala Love story e riscuote un enorme successo di pubblico: quarto incasso stagionale, superiore al concorrente nordamericano basato su identico tema di amore e morte. Enrico Maria Salerno si fa venire l’idea nel 1966 e contatta Giuseppe Berto per la sceneggiatura, ma quest’ultimo declina l’invito e opta per la sola scrittura dei dialoghi. In realtà i dialoghi sono la sceneggiatura, perché “il film è un solo, lungo dialogo tra i due personaggi”, come afferma lo scrittore in un’intervista. Berto pubblica per Rizzoli la riduzione teatrale, un testo drammatico in due atti, nel quale spiega la genesi del film con un’interessante prefazione. Il testo ci permette di sapere che per i ruoli dei protagonisti in un primo tempo si era pensato a Enrico Maria Salerno e Annie Girardot, ma era stata presa in considerazione anche l’ipotesi della bergmaniana Ingrid Thulin. Berto non era molto convinto delle capacità recitative della Bolkan, ma dopo averla incontrata si ricredette e adattò i dialoghi in funzione dell’interprete prescelta. In calce al testo teatrale troviamo questa postilla: “L’autore avverte che, per impegni da lui presi con la società produttrice del film Anonimo Veneziano, questo lavoro non potrà essere rappresentato in pubblico prima dell’ottobre 1973”. Anonimo veneziano è un testo teatrale così riuscito che ancora oggi viene riproposto sulle scene: ricordiamo la recente versione interpretata da Antonella Attili e Paolo Bessegato (2001) e quella con Masha Musy e Max Malatesta (2003).
Un film premiato dalla critica meno miope, oltre che un successo di pubblico: David di Donatello (1971) a Florinda Bolkan (Miglior attrice) e David Speciale e Enrico Maria Salerno. Nastro d’argento (1971) a Marcello Gatti (Fotografia), Stelvio Cipriani (Colonna Sonora), Enrico Maria Salerno (Regia, Soggetto e Sceneggiatura) e Giuseppe Berto (Sceneggiatura). Titoli di altre edizioni per il mercato estero: Adieu Venise (Francia), Des Lebens Herrlichkeit (Germania).





martedì 10 febbraio 2015

Love Story (1970)

di Arthur Hiller
Regia: Arthur Hiller. Soggetto e Sceneggiatura: Erich Segal. Fotografia: Richard C. Katrina. Montaggio: Robert C. Jones. Musiche: Francis Lai. Produzione: Love Story Company, Paramount Pictures. Interpreti: Ali McGraw, Ryan O'Neal, John Marley, Ray Milland, Russel Nype, Tommy Lee Jones.


Love Story è il padre indiscusso di un certo tipo di cinema strappacuore, di cui dobbiamo parlare perché tutti i film italiani con la protagonista che muore per colpa di un male incurabile derivano dal soggetto di Segal. Basti pensare a Dedicato a una stella (1976) di Luigi Cozzi, ma anche a Il maestro di violino interpretato da Domneico Modugno, per non parlare dei lacrima movie con bambini che muoiono di leucemia come L'ultima neve di primavera, che riprende ambientazioni innevate e l'idea di una colonna sonora struggente.
 
Il romanzo di successo deriva dal film e non viceversa, come molti potrebbero pensare, e dà il via alla moda delle novelisation che in parte coinvolgerà la nostra narrativa (molti film di Dario Argento sono diventati romanzi), senza produrre capolavori né fenomeni editoriali. Erich Segal aveva proposto il soggetto ispirato alla vera storia di due studenti del suo corso di letteratura a diverse grandi produzioni ma tutte l'avevano rifiutata, ritenendola "fuori moda" in un periodo storico caratterizzato da lotte femministe, contestazioni e grandi ideali. Avevano torto, perché quando Segal ricavò un romanzo di successo dalla sua sceneggiatura, si fece avanti la Paramount e propose di produrre il film. Non solo, anche il regista Arthur Hiller - subodorando l'affare - volle far parte della torta e si inserì nella seconda società finanziatrice, creata ad hoc, la Love Story Company. La storia è universalmente nota, narrata come un lungo flashback del protagonista, triste e solitario, davanti a un campo di pattinaggio deserto, intento a rievocare il passato. Il meccanismo del ricordo struggente è stato imitato da Raimondo Del Balzo ne L'ultima neve di primavera, ma anche da Armando Nannuzzi nel non meno toccante L'albero dalle foglie rosa. Segal e Hiller raccontano la grande storia d'amore tra Oliver e Jennifer, che si conoscono all'Università e finiscono per sposarsi, nonostante la differenza di classe sociale che li separa e la netta opposizione della famiglia del ragazzo. Una storia d'amore che si dipana tra le nevi di Boston e New York, coltivando piccoli e grandi sogni, tra litigi che subito si ricompongono e frasi a effetto come la ormai famosa "Amare significa non dover mai dire mi dispiace". Jennifer è orfana di madre, ama Bach, Mozart e i Beatles; Oliver studia diritto e ama la sua bella di un amore infinito, taglia i ponti con la famiglia di origine e stringe un bel rapporto con il suocero. Regista e sceneggiatore prima ci mostrano tutta la felicità della coppia fino a coinvolgerci nel progetto di mettere al mondo un figlio, quindi - con micidiale mossa strappacuore - ci danno la notizia che Jennifer morirà presto per colpa di una leucemia incurabile. Il film cambia tono in maniera radicale, persino la musica - pervasiva e immanente - diventa più triste e cadenzata, la macchina da presa del regista si abbandona a lunghe soggettive e numerosi ralenti. L'ultima parte della pellicola è puro lacrima movie, con Oliver che prima cerca di nascondere la verità a Jennifer ma alla fine è costretto a cedere perché la ragazza ha capito che deve morire.

La parte in ospedale che vede i due ragazzi abbracciati nel letto di morte di Jennifer è stata imitata molte volte dal nostro cinema melodrammatico degli anni Settanta e Ottanta. Love Story si ricorda per una fotografia nitida e per le immagini zuccherose, per il racconto sentimentale di una grande storia d'amore e per una colonna sonora struggente, indimenticabile, composta da Francis Lai, che guadagna il solo Oscar della pellicola (su sette nomination). Due milioni di dollari di budget per un successo mondiale di portata epocale, prodotto dalla Paramount solo perché costava poco e con la promessa di ingaggiare nel cast Ali McGraw, fidanzata con uno dei dirigenti della casa produttrice. Un film che segna un'epoca e fa nascere un genere, soprattutto in Italia, dove dopo Incompreso (1966) e L'albero di Natale (1969), i fazzoletti sono in primo piano per un pubblico disponibile a vivere sentimenti forti.

giovedì 5 febbraio 2015

Addio a Monica Scattini

Monica Scattini ci mancherà. Era la commedia ironica, il volto comico femminile per eccellenza del cinema italiano, ma anche di teatro e televisione. La sua caratterizzazione della donna borghese ha fatto scuola, frequentando i set dei Vanzina e di Scola, con intermezzi di Monicelli e Bolognini, senza soluzione di continità.
Figlia del regista Luigi Scattini, comincia a frequentare il cinema sul set paterno ("Mi sembrava un circo, un immenso gioco...", dirà in un'intervista), incontrando persino Buster Keaton nel film che lo vide parlare per la prima volta, al fianco di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (Due marines e un generale). Studia a Roma con Alessandro Fersen, debutta con Bolognini (Fatti di gente per bene, 1974), interpreta l'ultimo film di suo padre: Blue Nude (1977), girato a New York, dove si ferma per frequentare l'Actor's Studio. Fa esperienze internazionali in piccoli ruoli: Toro scatenato di Scorsese (tagliato), Un sogno lungo un giorno di Coppola (1982). In Italia ricordiamo Lontano da dove (1983) di Stefania Casini e Francesca Marciano che le fa vincere un Nastro d'Argento come attrice non protagonista. Ripete il successo con Maniaci sentimentali di Simona Izzo (1994), debutto alla regia. Sono molti i buoni film che la vedono interprete di spicco, sempre vestendo panni ironici e spiritosi da borghese annoiata e un po' sopra le righe. Citiamo due lavori di Scola, fondamentali: Ballando ballando (1983) e La famiglia (1987). Altre commedie che la vedono in primo piano: Rimini Rimini (1987) di Sergio Corbucci, Tolgo il disturbo (1980) di Dino Risi, Parenti serpenti (1992) di Mario Monicelli, Il richiamo della notte e Un'altra vita (1992) di Carlo Mazzacurati, Vacanze di Natale 2000 di Carlo Vanzina, Uomini uomini uomini (1995) e Simpatici e antipatici (1998) di Christian De Sica. Il suo ultimo film è Una donna per amica (2014) di Giovanni Veronesi, che la ricorda così: "Era un'amica che mi faceva ridere". La carriera di Monica Scattini registra alcune tappe internazionali: Nora (2000) di Pat Murphy, Nine (2009) di Rob Marshall, Cloco (2011) di Florent Emilio Siri, un grande successo francese.
Monica Scattini è stata legata sentimentalmente fino al 2011 (per 16 anni) a Roberto Brunetti (Er Patata), ha lavorato per la televisione (La TV delle ragazze, 1988 - 89) dove ha interpretato diverse fiction di successo: Marie Curie (1991), I giudici (1999), Lo zio d'America (2002), La signora delle camelie, Elisa di Rivombrosa, Un ciclone in famiglia (2005 - 2008).
Attrice completa, non ha omesso di fare teatro, meno comico e leggero, con personaggi intensi e drammatici. Si veda il monologo Unghie (2011) dove interpreta un transgender. Nel 2014 ha girato il suo unico film da regista, il corto Love Sharing.
Christian De Sica ha ricordato Monica Scattini con affetto: "Una vera professionista, come oggi è quasi impossibile trovarne. Una perfetta e ironica donna borghese della nostra commedia".
Monica Scattini aveva 59 anni e da tempo lottava contro una malattia.
Perdiamo un volto ironico e sorridente del nostro cinema.