giovedì 28 febbraio 2013

JULIO GARCÍA ESPINOSA

Per conoscere il cinema cubano
Terza Puntata - I PROTAGONISTI

JULIO GARCÍA ESPINOSA

Julio García Espinosa nasce all’Avana nel 1926. Comincia la carriera artistica molto giovane, in teatro, come attore e regista. Lavora anche in radio, come sceneggiatore e direttore della programmazione. All’inizio degli anni Cinquanta studia in Italia al Centro Sperimentale di cinematografia di Roma. Nel 1953 è aiuto regista di Luigi Zampa nel film Anni facili. Al suo rientro a Cuba fonda, insieme ad altri colleghi, il gruppo Teatro Estudio e diventa responsabile della sezione cinematografica dell’Associazione Culturale Nuestro Tiempo.


El megano (1955)

Nel 1955 dirige il documentario El Mégano, considerato il precedente storico dell’attuale cinema cubano e una delle opere che sono all’origine del movimento del Nuevo Cine Latinoamericano. Il documentario racconta le disumane condizioni di vita e di lavoro in cui versavano i carbonai della Penisola di Zapata prima del 1959. Il regime di Batista lo fa sequestrare e ne proibisce la diffusione, ma dopo il trionfo rivoluzionario si trasforma in un simbolico documentario di denuncia. La sceneggiatura è curata anche da Tomás Gutiérrez Alea, Alfredo Guevara e José Massip. Con il trionfo della rivoluzione cubana Espinosa diventa responsabile della sezione artistica dell’Esercito ribelle. Maestro delle nuove generazioni di cineasti cubani, tra i fondatori dell’ICAIC - che dirige dal 1982 al 1991 - e della Escuela Internacional de Cine y Televisión de San Antonio de Los Baños. Fa parte del Consiglio superiore della Fondazione del Nuevo Cine Latinoamericano. Al suo impegno nella formazione e nella pratica del cinema, Julio García Espinosa affianca una vasta produzione teorica. Il saggio Per un cinema imperfetto, pubblicato e diffuso in tutto il mondo, è un vero e proprio manifesto cinematografico.

Cuba nel 2009 dedica un francobollo a Reyna y Rey

Reina y Rey (1994) è il suo ultimo film a soggetto, ottiene il premio per il miglior film al Festival Ispanoamericano di Huelva (1994) e al Festival di Cartagena de Indias (1995). Tra i suoi documentari sono interessanti anche i brevi La vivienda (1959) dove analizza le differenti abitazioni dei cubani nella Città dell’Avana e Sexto aniversario (1959), che celebra il sesto anniversario dell’inizio della lotta rivoluzionaria. Cuba baila (1960) è il suo primo lavoro a soggetto che racconta la festa dei quindici anni di una figlia e i problemi di una madre che desidera organizzarle la miglior festa possibile. La storia è una scusa per raccontare le aspirazioni e le frustrazioni della piccola borghesia prima della rivoluzione. Soggetto e sceneggiatura sono del regista ma collaborano anche Alfredo Guevara e Manuel Barbachano Ponte. Interpreti: Raquel Revuelta, Alfredo Perojo, Vivian Gude e Humberto García Espinosa. Di minor interesse sono Patria o Muerte (1960), che si limita a filmare la sfilata celebrativa del primo maggio, e Un año de libertad (1960) che celebra i primi risultati della rivoluzione.


El joven rebelde (1961) è una pellicola interessante che racconta la storia di Pedro, un giovane contadino che abbandona la sua casa per unirsi all’esercito ribelle e combattere sulla Sierra Maestra. Il film vede la collaborazione alla sceneggiatura di Cesare Zavattini e realizza un mix perfetto di azione, amore, amicizia, lotta per la sopravivenza e voglia di vincere per cambiare il mondo di un gruppo di guerriglieri. La battaglia di Guisa sarà decisa per Pedro e lo trasformerà in un vero combattente. Tra gli sceneggiatori ci sono anche José Massip, José Hernández ed Hector García Mesa. Interpreti: Blas Mora, Wember Bros, Carlos Séssamo, José Yedra, Reinaldo Meravilles e Amanda López. Aventuras de Juan Quinquín (1967) è il film più amato da Julio García Espinosa. Juan Quinquín è un contadino che non si rassegna alla sua sorte, insieme all’amico Jachero e all’amata Teresa affronta diverse avventure prodotte dalla sua voglia di cambiare. Il film si basa sull’omonimo romanzo di Samuel Feijóo ed è sceneggiato dal regista. Ottime le musiche di Leo Brouwer, Luis Gómez e Manuel Castillo. Interpreti: Julio Martínez, Edwin Fernández, Adelayda Ramat, Enrique Santiesteban, Augustín Campos, Manuel Pereiro, Anneris Clech e Mayda Limonta. Tercer mundo, tercera guerra mundial (1970) è un documentario molto critico sui crimini commessi dagli Stati Uniti in Vietnam, mentre La sexta parte del mundo (1977) è un omaggio al sessantesimo anniversario della rivoluzione sovietica. Son o no Son (1980) è una fiction quasi documentaristica che critica la massificazione della cultura, soprattutto la sua banalizzazione che va sempre a discapito delle culture nazionali. Interpreti: Enrique Arredondo, Centurión, Wilfredo Fernández, Daisy Granados, Eslinda Núñez, Carlos Ruiz de la Tejera, Sonia Calero, Leo Brouwer, Cuerpo de Baile del Cabaret Tropicana, Orquesta Chapotín, Miguelito Cuní. La musica e la danza cubana sono alla base del film, come si vede dai protagonisti. 


La inútil muerte de mi socio Manolo (1989) è basato sull’opera del drammaturgo cubano Eugenio Hernández, ma la sceneggiatura è del regista. Cheo va a trovare il socio Manolo che non vede da molti anni. Bevono insieme per festeggiare l’incontro, ricordano con allegria e nostalgia i vecchi tempi. Il rimpianto prende il sopravvento quando nel bel mezzo dei ricordi i due amici si vedono obbligati a raccontare la loro realtà e vengono fuori i problemi della vita quotidiana. Ottima la colonna sonora di Livio Delgado e Juan Blanco. La fiction è quasi un dramma teatrale, ben interpretato da  Mario Balmaseda, Pedro Rentería e Ikay Romay. El Plano (1993) racconta le vicissitudini di un professore che in una scuola di cinema impartisce lezioni a cinque alunni di nazionalità diverse. Il professore insegna la teoria con passione progressista ma è incapace di affrontare la realtà e questa contraddizione sarà ancora più evidente nella relazione con una ragazza. La pellicola racconta una storia ma insegna anche l’arte cinematografica e presenta i lavori realizzati dagli alunni. La musica è di Pablo Menéndez. Gli interpreti sono Miguel Coyula, Carmen Daysi, María I. Díaz, Leonardo Guilarte, Nguyen Quan Minh, Mirta Ibarra, Adolfo Llauradó e Frank González. Reina y Rey (1994) è l’ultimo lavoro di fiction di Julio García Espinosa che si serve della storia di Reina - una donna anziana che vive in compagnia del cane Rey, suo unico conforto - per raccontare il conflitto tra ciò che siamo e quel che vorremmo essere. La storia prende una piega drammatica quando ritornano da Miami gli antichi padroni della casa abitata dalla donna e dal cane. Enredando sombras - Cien años de cine en Ámerica Latina y el Caribe (1998) è l’ultimo lavoro di Espinosa, un documentario commemorativo in occasione dei cento anni del cinema latinoamericano. Il regista cita un verso del poeta cileno Pablo Neruda e racconta lo sviluppo cinematografico del continente latinoamericano. Il lavoro si compone di dodici episodi, ognuno diretto da un regista latinoamericano. Espinosa si occupa del capitolo 8: Un grito, 24 cuadros por segundo. Juan Carlos Tabío realizza il settimo: Memorias de una isla.
Julio García Espinosa svolge un grande lavoro teorico, conoscitivo e didattico all’interno del cinema cubano. In Italia conosciamo le sue tesi cinematografiche grazie al volume La doppia morale del cinema (Giunti, 2000), che raccoglie molti suoi saggi teorici. Il lavoro come soggettista e sceneggiatore di Espinosa è notevole, perché troviamo la sua firma in numerosi copioni di opere fondamentali del cinema cubano. 


FILMOGRAFIA ESSENZIALE

El Mégano (1955) (doc.)
Sexto aniversario (1959) (doc. 18’)
La vivienda (1959) (doc. 12’)
Esta tierra nuestra (sceneggiatura)
Cuba baila (1960) (fiction)
Patria o Muerte (1960) (doc. 26’)
Un año de libertad (1960) (doc. 27’)
El joven rebelde (1961) (fiction)
Cuba 1958 – Año nuevo (1962) (sceneggiatura)
Un día en el solar (1963) (sceneggiatura)
Un huésped (1967) (sceneggiatura)
Aventuras de Juan Quinquín (1967) (fiction)
Lucía (1968) (sceneggiatura)
La primera carga al machete (1969) (sceneggiatura)
Tercer mundo, tercera guerra mundial (1970) (doc.)
Los días del agua (1971) (sceneggiatura)
Viva la República (1972) (sceneggiatura)
No tenemos derecho a esperar (1972) (sceneggiatura)
Introducción a Chile (1972) (sceneggiatura)
Girón (1972) (sceneggiatura)
Diques de Vietnam (1973) (sceneggiatura)
Ustedes tienen la palabra (1973) (sceneggiatura)
XX años (1973) (sceneggiatura)
El programa del Moncada (1973) (sceneggiatura)
El estraño caso de Rachel K (1973) (sceneggiatura)
El otro Francisco (1974) (sceneggiatura)
Operación Triángulo (1974) (sceneggiatura)
De cierta manera (1974) (sceneggiatura)
Cuadra por cuadra (1974) (sceneggiatura)
Con las mujeres cubanas (1974) (sceneggiatura)
Mella (1975) (sceneggiatura)
Patty Candela (1976) (sceneggiatura)
La guerra de Angola (1976) (sceneggiatura)
La Batalla de Jigüe (1976) (sceneggiatura)
La sexta parte del mundo (1977) (doc.)
Son o no Son (1980) (fiction)
La inútil muerte de mi socio Manolo (1989) (fiction)
El Plano (1993) (fiction)
Reina y Rey (1994) (fiction)
Enredando sombras - Cien años de cine en Ámerica Latina y el Caribe (1998) (doc.)

In grassetto le pellicole da regista, per le quali ha curato anche soggetto e sceneggiatura.

Dedicheremo un approfondimento successivo alla pellicola Reyna y Rey, l'ultimo film a soggetto di Espinosa.

Gordiano Lupi

giovedì 21 febbraio 2013

ALEJANDRO BRUGUÉS


Alejandro Brugués nasce a Buenos Aires nel 1976 ma è cubano di adozione. Studia pubblicità, filologia e psicologia. Laureato alla Scuola Internazionale di Cinema di San Antonio de los Baños, sceneggia diverse pellicole (Tres veces dos di Lester Hamlet, 2004, Frutas en el café di Humberto Padrón e Bailando Cha cha cha di Manuel Herrera, 2005). Nel 2007 gira il suo primo film: Personal Belongings - Efectos personales, del quale è anche sceneggiatore, una storia d’amore e tentativi di fuga nella Cuba di oggi. Il suo lavoro d’esordio ottiene riconoscimenti nei Festival del Cinema Latinoamericano di Guadalajara, Avana, Utrecht e Miami.


Personal Belogings (2007) è una pellicola originale ambientata all’Avana, ben fotografata da Omar García e Mailín Milanés in suggestivi notturni e in stupende carrellate psichedeliche color seppia. Nelson Rodríguez è autore di un montaggio serrato che il regista intervalla con immagini computerizzate del lungomare girate a velocità maggiore per sottolineare lo scorrere del tempo. La colonna sonora composta da X Alfonso (Havana Blues), Sergio Valdés e Marlon Morato è a base di rock moderno e canzoni d’autore che profumano di vecchi boleri messicani. Il suono è di Javier Figueroa e Osmany Olivare. Direzione artistica di Ludwig Fernández. Gli interpreti principali sono: Caleb Casas, Heidi García e Yasser Vila. Il regista scrive soggetto e sceneggiatura, la casa di produzione è indipendente (Inti Herrera per Producciones de la 5ta Avenida), si tratta di una coproduzione con la Bolivia, ma con il sostegno immancabile del’ICAIC. Il film ottiene diversi riconoscimenti, tra il 2007 e il 2008: Festival del Cinema di Guadalajara (menzione), Festival del Cinema Povero Humberto Solás (Premio Speciale della Giuria) e Festival del Nuovo Cinema Latinoamericano (Miglior opera prima).


La famiglia di Anna scappa da Cuba a bordo di una zattera, ma lei non è d’accordo, vive volentieri nel suo paese dove svolge il lavoro di medico e non fugge con loro. Pare decisa a dimostrare che a Cuba si può vivere, distruggendo i ricordi del passato e tuffandosi nel presente. Ernesto è un cubano che escogita ogni mezzo per scappare dal paese e con la collaborazione di tre amici - due uomini e una donna - il suo unico impegno è finalizzato alla fuga. Gli effetti personali di Ernesto stanno tutti in una piccola valigia che tiene nella sua auto e sono ricordi d’infanzia, lui vive in una vecchia Lada color verde dopo essere stato cacciato di casa perché deciso a scappare. Ana ed Ernesto si conoscono casualmente al pronto soccorso e dopo alcune vicissitudini si innamorano fino a quando lui va a vivere nella grande casa della ragazza. I loro percorsi sono divergenti: la prima ama il suo paese e non lo lascerebbe mai, il secondo vive in funzione della fuga. L’amore mette in crisi la decisione di Ernesto e il finale lascia le cose in sospeso perché il regista - con grande intelligenza - evita l’effetto telenovela e si limita a inquadrare Ana in lacrime di fronte a Ernesto che ha appena ricevuto il visto per partire. Il futuro è nella vita, pare dire Brugués. La triste realtà è il quotidiano dei cubani, fatto di simili situazioni. 


Alejandro Brugués apprende la lezione di Humberto Solás e si candida come erede del Visconti dei Tropici con una pellicola di esordio che non teme di affrontare i problemi e di raccontare la vita con realismo e senza edulcorazioni. La macchina da presa immortala panoramiche psichedeliche di Centro Avana, si sofferma su luoghi poveri e decadenti, desolate periferie e case distrutte dal tempo. Vediamo L’Avana di notte, Coppelia, calle 23, La Rampa, il Malecón, Miramar, ma anche i quartieri poveri e le periferie polverose. La musica passa dal rock al bolero, sottolineando le parti trasgressive e i momenti romantici. I personaggi principali sono approfonditi psicologicamente, mentre i tre amici rivestono un ruolo di contorno e sono più caricaturali. A un certo punto assistiamo a un colpo di scena da telenovela: si scopre che il capo medico di Ana è il padre di Ernesto e chiede alla ragazza di non farlo partire. Il regista cerca di mantenere il discorso nei limiti del contesto rivoluzionario ma lo spettatore attento riconosce le critiche decise. Ana ed Ernesto guardano il telegiornale e lui afferma: “Non ti infastidisce che le buone notizie accadano tutte a Cuba e le cattive soltanto all’estero?”. Un chiaro appunto alla mancanza di libertà e ai notiziari di Stato che sono veline di regime. Un amico afferma: “L’arma potente della rivoluzione sono le donne. Se ti innamori è finita. Ti fanno dei figli, ti legano e allora devi rassegnarti. Non scappi più”. Vediamo un apagón che lascia la casa al buio illuminata da una stupenda luna piena per sottolineare i problemi energetici. Abbiamo la tematica del matrimonio d’interesse e il cubano che pur di scappare accetta ogni compromesso. Il desiderio di fuga pervade il film come pervade la vita quotidiana, come un momento imprescindibile da tenere in debita considerazione. Per contrasto abbiamo soltanto l’amore che porta a meditare se sia il caso di mollare tutto e fuggire. Il regista non mette altri valori sul piano della bilancia: solo l’amore può convincere a non scappare da Cuba e spesso non basta perché il desiderio di libertà è troppo forte. Ana è il personaggio positivo, la donna rivoluzionaria che brucia i ricordi quando la famiglia fugge, vive in una casa immensa senza quadri e priva di foto, tenta di trattenere il suo amore con tutti i mezzi ma non sa se ce la farà. Il rapporto tra Ana ed Ernesto a tratti ricorda Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci, perché i due non vogliono sapere niente l’uno dell’altro,visto che le loro strade sono divergenti. Il tono del film è triste, malinconico, tipico cinema povero alla Solás, la pellicola narra una storia d’amore e di fughe, girata in un color seppia tendente al ruggine che rende ancora più decadente il contesto. Il film è romantico ma il taglio è moderno, soprattutto non trascura le problematiche sociali e tiene presente la lezione di registi come Gutiérrez Alea e Juan Carlos Tabío. Si tratta di una commedia sentimentale ma dotata di uno stile proprio, tipicamente cubano. Sono ottime alcune parti erotiche, mai preponderanti sul lato sentimentale che procede come un triste bolero. La giustificazione del titolo Effetti personali sta nella voglia di fuga del personaggio di Ernesto. “Prima di salire sull’aereo non dimenticate i vostri effetti personali”, dicono gli altoparlanti. Ernesto viaggia sempre con la valigetta accanto.  Alejandro Brugués è interessato a mostrare il contrasto tra i cubani che restano e quelli che partono, le loro imprescindibili ragioni e i motivi che li spingono a scelte divergenti. Ci riesce bene costruendo due psicologie realistiche e diffuse nella Cuba quotidiana.


Nel 2010, Alejandro Brugués gira un nuovo film: Juan de los Muertos  (http://www.juandelosmuertos.com), un’insolita commedia - horror a tema zombi, prima nella storia della cinematografia cubana. La vicenda è ambientata in un’Avana realistica ma notturna e spettrale, invasa da una legione di zombi cannibali. La nuova pellicola di Brugués è coprodotta dalla spagnola La Zanfoña Producciones e dalla cubana Producciones de la 5ta Avenida. Brugués afferma: “Si tratta di un divertimento per tutti e non solo per gli amanti dell’horror”. Ed è proprio vero. La fiction comincia con il panico che serpeggia tra la popolazione per la diffusione di un virus che rende zombi, la televisione di regime accusa - come sempre - i servizi segreti statunitensi e i dissidenti, ma la realtà è ben diversa. 


Il protagonista di questa originale versione del mito zombi è l’attore Alexis Díaz de Villegas, che interpreta Juan, sterminatore di morti viventi a prezzi modici. Juan ha quarant’anni, passati vivendo a Cuba senza impegnarsi in nessuna attività. Questo è il suo stile di vita ed è disposto a fare qualsiasi cosa per difenderlo, in compagnia dell’amico Lazaro, altrettanto vagabondo ma più stupido. Il suo unico legame affettivo è con la figlia Camila, una bella ragazza che non vuole rapporti con il padre, perché lo ritiene capace solo di mettersi nei guai. A un certo punto le persone diventano violente e si attaccano le une contro le altre. I mezzi di comunicazione ufficiali non trovano di meglio che accusare i dissidenti, definiti agenti al soldo degli Stati Uniti. Ma gli attacchi continuano, un semplice morso contagia altre vittime e l’unico sistema per eliminare la persona infetta è distruggere il suo cervello. Juan decide da buon cubano ingegnoso che il miglior modo per affrontare la situazione è costruire un businnes dall’emergenza. All’insegna dello slogan: “Juan de los muertos, uccidiamo i vostri cari”, compone un piccolo gruppo di ammazza zombi composto da Lazaro, il figlio Vlady e Camila, sobbarcandosi il compito di uccidere a prezzi modici i familiari zombi. La piaga sembra incontrollabile e alla fine la sola soluzione sembra quella di gettarsi in mare per scappare dall’isola. Juan de los muertos non si arrende, rifiuta l’idea della fuga, si mette alla guida dei suoi concittadini e diventa un eroe che lotta per la salvezza della patria.
Molte le letture sociologiche di questa commedia - horror che fa pensare a un capovolgimento della vecchia lettura dello zombi in funzione anticapitalista. Nel film cubano il popolo fugge da un’isola infestata da zombi e non è difficile identificare nei morti viventi la gerontocrazia la potere.


Il protagonista del film è Alexis Díaz de Villegas, ma tra gli attori ci sono anche i cubani Jorge Molina, Andros Perugorría (figlio del grande Jorge Perugorría interprete di Fresa y chocolate, Miel para Oshún, Barrio Cuba…), Jazz Vila, Eliecer Ramírez e la spagnola Andrea Duro. In questa coproduzione cubano - spagnola si segnalano: ICAIC (Instituto Cubano del Arte e Industria Cinematográficos), Canal Sur, Televisión Española, la Giunta dell’Andalusia e i progetti Ibermedia, Cinergia e Latinofusión. In passato gli unici esempi di cinema horror cubano sono stati due lungometraggi a disegni animati di Juan Padrón: Vampiros en La Habana (1985) e Más vampiros en La Habana (2003). Juan de los muertos è stato presentato al Festival del Cinema Latinoamericano dell’Avana nel dicembre 2011, dove gareggia nella categoria miglior lungometraggio di fiction (Premio Coral).


“Sono sopravvissuto al periodo delle fuga dal porto di Mariel, alla guerra d’Angola, al Periodo Speciale e a tutto quel che è venuto dopo”, così si presenta il protagonista del film, facendo capire subito  le intenzioni ironiche del regista. Juan de los muertos non è un horror drammatico, ma un’irriverente commedia macabra che ironizza sui problemi del quotidiano.  Brugués gira una pellicola ricca di elementi tipici del genere horror (azione, sangue, corpi in decomposizione...), ma il soggetto e la sceneggiatura sono legati alla realtà cubana: di fronte all’invasione di zombi il protagonista inventa il modo di “sfruttare la situazione” e mette in piedi un’attività contrassegnata dallo slogan: “Juan de los muertos. Uccidiamo i vostri cari”. Juan (Alexis Díaz de Villegas) diventa cacciatore di zombi a capo di una squadra singolare: la figlia, il miglior amico, il figlio dell’amico, un travestito e un compare muscoloso che ogni tanto sviene perché non sopporta la visione del sangue. Juan affronta gli zombi affamati di carne umana in un’assurda avventura che mette in primo piano tematiche cubane come l’esilio, la separazione delle famiglie e la mancanza di aspettative tra i giovani. 


Brugués realizza un lavoro di graffiante satira politica: i morti viventi sono presentati dalla televisione di regime come “gruppuscoli di dissidenti al servizio del governo degli Stati Uniti”. Juan de los muertos ironizza persino sulla sanità pubblica, uno dei vanti della rivoluzione cubana, quando un anziano vicino del protagonista si trasforma in un morto vivente e la moglie incolpa “le medicine scadute che gli hanno dato in ospedale”. Brugués realizza una pellicola ricca di umorismo, portando la macchina da presa a scoprire scenari simbolici dell’Avana come il Malecón, dove si verifica una strage di morti viventi accanto alla Sezione d’Interessi degli Stati Uniti, e Piazza della Rivoluzione, che si riempie di teste mozzate da un “religioso yankee” in visita a Cuba.  Il pubblico avanero non è abituato agli effetti speciali nelle pellicole cubane, ma ha accolto con entusiasmo la scena della distruzione del Capitolio, colpito da un elicottero, e il crollo del Focsa, uno degli edifici più alti della città. Nella seconda sequenza il regista inserisce un elemento umoristico quando i protagonisti si dicono soddisfatti di poter vedere finalmente il tramonto. 


Juan de los muertos è una pellicola politicamente coraggiosa, perché fa satira su argomenti pericolosi. Alcuni spettatori non sembrano sorpresi: “Negli ultimi tempi assistiamo a maggiori aperture in tema di libertà di critica”, dice uno studente di informatica. Altri compagni di corso concordano con la sua idea, affermano di essersi divertiti molto, perché il film presenta momenti esilaranti. All’Avana si attendeva con ansia il debutto di questa pellicola e soprattutto i giovani hanno preso d’assalto il cinema. Alejandro Brugués si dice un appassionato del genere zombi, del cinema di intrattenimento di fine anni Settanta e del regista nordamericano Steven Spielberg. “Per me aver girato questa pellicola è la realizzazione di un sogno infantile. Oltre tutto ho potuto parlare di come siamo fatti noi cubani e com’è la nostra realtà quotidiana, ha detto Brugués. A nostro parere nel film sono presenti molte citazioni del cinema di Quentin Tarantino, soprattutto in alcune scene d’azione all’arma bianca e nelle sequenze acrobatiche che vedono decapitare gli zombi con machetes affilati. 


Juan de los muertos è uscito in Europa a gennaio 2012, ma in Italia non ha ancora trovato produttori. Proiettato nel corso dei festival del cinema di Sitges (Spagna), Toronto (Canada) e Leeds (Gran Bretagna), dove ha ottenuto il premio del pubblico. In cartellone al Festival di Mar del Plata, in Argentina, al Festival di Chicago e al Fantastic Fest negli Stati Uniti. A febbraio 2013 vince il Premio Goya, riservato alla miglior pellicola ispanoamericana, un vero e proprio Oscar del cinema spagnolo.  Brugués, molto emozionato, ritira il premio nel Centro Congressi Principe Felipe de Madrid e afferma: “Questo riconoscimento apre una porta per il cinema indipendente cubano che nessuno potrà chiudere”. Il regista riceve il premio insieme agli attori Alexis Díaz de Villegas e Jazz Vilá. “Ringrazio e saluto con calore tutti i cubani, soprattutto coloro che rendono possibile fare cinema a Cuba, dove non abbiamo niente ma facciamo di tutto”, ha detto Vilá. Il regista dedica il premio alla moglie: “Ogni mattina fa in modo che mi alzi con la voglia di raccontare storie. Mi sono sempre piaciute le pellicole di zombi, inoltre avevo voglia di utilizzare l’umorismo nero presente nella realtà cubana”. 


FILMOGRAFIA ESSENZIALE

Tres veces dos (2004) (Scen. sec. episodio - Regia: Lester Hamlet)
Frutas en el café (2005) (Scen.- Regia: Humberto Padrón)
Bailando Cha cha cha (2005) (Scen.- Regia: Manuel Herrera.)
Personal Belongings (2007)
Juan de los muertos (2010)

Gordiano Lupi

lunedì 18 febbraio 2013

Juan de los muertos vince il Premio Goya


La pellicola cubana Juan de los muertos di Alejandro Brugués ha vinto domenica a Madrid il Premio Goya riservato alla miglior pellicola ispanoamericana, un vero e proprio Oscar del cinema spagnolo.  Brugués, molto emozionato, ha ricevuto il premio nel Centro Congressi Principe Felipe de Madrid affermando: “Questo riconoscimento apre una porta per il cinema indipendente cubano che nessuno potrà chiudere”. Il regista ha ricevuto il premio insieme agli attori Alexis Díaz de Villegas e Jazz Vilá. “Ringrazio e saluto con calore tutti i cubani, soprattutto coloro che rendono possibile fare cinema a Cuba, dove non abbiamo niente ma facciamo di tutto”, ha detto un emozionato Vilá. Il regista ha dedicato il premio alla moglie “che ogni mattina fa in modo che mi alzi con la voglia di raccontare storie”. Juan de los muertos utilizza la commedia horror per fare satira politica raccontando una storia di zombi che invadono Cuba. Un’infezione sta trasformando in zombi gli abitanti dell'Avana, mentre Juan e un gruppo di amici decidono di mettere in piedi un'attività per sterminare i morti viventi. Juan de los muertos comincia ad avere buone entrate economiche, mentre dal governo cubano si insiste nel dire che gli zombi sono agenti pagati dagli Stati Uniti per far cadere la rivoluzione. “Mi sono sempre piaciute le pellicole di zombi, inoltre avevo voglia di utilizzare l'umorismo nero presente nella realtà cubana", ha detto Brugués in un'intervista. Juan de los muertos è il secondo lungometraggio di Brugués, che ha esordito con Personal Belongins (Effetti personali).

Gordiano Lupi

domenica 17 febbraio 2013

La bella vita (1994)


di Paolo Virzì


La bella vita (Italia - Commedia -1994)
Regia di Paolo Virzì. Soggetto e Sceneggiatura: Francesco Bruni e Paolo Virzì. Scenografia: Attilio Capelli. Costumi: Maria Giovanna Caselli. Direttori di produzione: Francesco Fantacci e Cesare Jacolucci. Suono in presa diretta: Bruno Pupparo. Montaggio: Sergio Montanari. Fotografia: Paolo Carnera. Musiche: Claudio Cimpanelli (Emi Music). Realizzato da Paolo Vandini per la Time International Film srl. Prodotto da Roberto Cimpanelli. Aiuto regista: Gianluca Greco. Interpreti: Claudio Bigagli (Bruno), Sabrina Ferilli (Mirella), Massimo Ghini (Gerry Fumo), Giorgio Algranti, Emanuele Barresi, Paola Tiziana Cruciani, Ugo Bencini, Raffaella Lebboroni, Roberto Marini, Silvio Vannucci, Mario Erpichini. Titoli in lavorazione: Dimenticare Piombino, Il fumo di Piombino

Ferilli - Bigagli

La bella vita è il primo film di Paolo Virzì, quello che dà il via alla sua epopea livornese partendo dalla provincia più depressa: Piombino. Virzì racconta il dramma di una cittadina industriale che nel 1992 vive il declino inesorabile del mercato dell’acciaio e subisce un regresso economico di portata epocale. Piombino è una città simbolo del lavoro operaio, vive da sempre con il motto “pane e fumo”, un luogo dove i genitori educano i figli al rispetto per le ciminiere. Fino a quando da quelle bocche voraci uscirà fumo tutto andrà bene. Il 1992 è l’anno degli scioperi a oltranza, dei blocchi ferroviari, della Cassa Integrazione Guadagni a zero ore, delle lettere di licenziamento. L’anno della crisi. Virzì descrive il dramma di una città, di un microcosmo di provincia, senza demagogia, con semplicità. Fonde ,dosando sapientemente gli ingredienti della commedia, il dramma privato di una famiglia che si sfalda con il dramma pubblico di una città alla deriva. La bella vita è commedia all’italiana vecchio stile, tra momenti di commozione e parti leggere, senza esagerare né su un versante né sull’altro. Un lavoro equilibrato che fa pensare, sorridere e persino versare qualche lacrima.

Il regista Virzì

La storia è raccontata in prima persona dalla voce narrante di Bruno, operaio metalmeccanico di Piombino, stratagemma che provoca nello spettatore un notevole coinvolgimento. Si parte da un flashback sul matrimonio di Bruno e Mirella con i compagni di lavoro che appena finito il turno si precipitano in Comune per le nozze. Bella la scena iniziale con una Fiat Ritmo scassata che corre dentro lo stabilimento e si fa largo tra buche e pozze fangose. Come è notevole la scena degli operai che scappano via al suono della sirena per farsi belli e cambiarsi d’abito dentro la macchina.
“Ma con la Ritmo, via…”
“Solita figura da morti di fame!”
Le battute in livornese sono eccezionali e strappano il sorriso.

Sabrina Ferilli

Bruno spiega che conobbe Mirella all’Elba, si sposarono nel 1989, dopo sei anni di fidanzamento, quando l’Italia era la quinta potenza industriale del mondo e gli operai venivano trattati come signori. Il flashback serve a presentarci i due ottimi protagonisti: Claudio Bigagli, un operaio metalmeccanico credibile, ben calato nella parte, e Sabrina Ferilli che dà vita a un complesso personaggio di moglie tormentata. Ricordano Accardo e Acerbo nel fondamentale My nime is Virzì (Le Mani, 2010) che Sabrina Ferilli è stata una precisa scelta del regista, visto che la produzione avrebbe preferito Nancy Brilli. Virzì aveva visto la Ferilli in Americano rosso di Alessandro D’Alatri e in Diario di un vizio di Marco Ferreri e ne era rimasto entusiasta. Il produttore accetta di ingaggiare l’attrice romana, ma pretende che vengano inserite un buon numero di sequenze erotiche.

Bigagli - Ferilli

Il racconto di Bruno ci porta al 1992, anno che segna l’inizio della crisi siderurgica e una stagione di lotte operaie che non cambieranno la situazione. Virzì descrive le assemblee, le riunioni, gli scioperi, accenna ai blocchi ferroviari alla stazione di Campiglia Marittima, mostra le differenze tra chi voleva fermare la produzione e chi voleva andare avanti a ogni costo. Il regista mette in evidenza i sogni degli operai che tentano di mettersi in proprio, che negoziano la buona uscita, persino il licenziamento. Si astiene da giudizi - non è compito di un buon narratore - ma si capisce che sta dalla parte di chi avrebbe voluto lottare sino in fondo per la difesa del posto di lavoro.

Sabrina Ferilli

Tra chi sogna di mettersi in proprio c’è pure Bruno Nardelli che vorrebbe aprire un’attività legata alla siderurgia insieme ai due amici Batoni e Manzani Un sogno che resterà tale. Non è più il tempo per sognare una ripresa dell’industria dell’acciaio. Fare in proprio un lavoro simile è pura follia.

Ferilli sexy

Virzì gira ottime panoramiche del centro storico di Piombino, ritaglia stupende fotografie di Piazza Bovio che si affaccia sull’isola d’Elba e sul Canale, ma soprattutto insiste sul lato operaio della città. Le acciaierie la fanno da padrone, inquadrate a più riprese per dividere i le diverse sequenze. I quartieri dove Virzì ambienta la storia sono i più popolari (Cotone, Gagno, Tolla Alta), molte scene si svolgono al Porto e dentro la stessa acciaieria. Il regista vuol fare un’epopea della classe operaia, descriverne la fine, il canto del cigno. Bruno e Mirella abitano in una casa popolare, non hanno figli, lui soffre di una cardiopatia congenita, adesso deve fare i conti con la crisi economica, lei invece fa la cassiera in un supermercato.

Ferilli ancor più sexy

Una sera a teatro Mirella conosce Gerardo Fumaroli, detto Gerry Fumo, l’ancorman di Canale 3, la televisione locale che anche loro seguono. Massimo Ghini è perfetto nella parte di un uomo vuoto e affascinante, antipatico e bello, che irretisce Mirella nella sua trappola. Il marito è troppo preso dalle sue preoccupazioni per accorgersi di ciò che sta accadendo. Gerry corteggia Mirella, la invita a pranzo, le dedica una canzone in televisione, fa la spesa nel supermercato dove lavora. Fino a quando la donna cede. Nel contesto del tradimento Virzì inserisce gli scioperi degli operai, le lotte sindacali, un accenno alla canzone di Marco Masini che le commesse cantano al supermercato (Vaffanculo) e la minaccia della cassa integrazione che si fa sempre più vicina. Non mancano intense parti erotiche che Massimo Ghini e Sabrina Ferilli interpretano con professionalità e che non disturbano nell’economia del film. Ottime le sequenze girate dentro la fabbrica, così come è suggestiva la fotografia di una Piombino notturna, simile a un’immensa acciaieria, che disegna la disperazione d’una città senza lavoro. Ricordiamo la sequenza delle lettere che giungono dall’azienda a Bruno e al vicino di casa. I due amici vanno a bere insieme per consolarsi che è arrivata la Cassa Integrazione ma dal giorno dopo Bruno scivola nella depressione più nera. Le giornate sono eterne, Bruno si alza tardi, vaga per la città in motorino, non sa cosa fare. Il vicino Danilo Brogi è in garage a pulire i fucili e attende la stagione della caccia. Una colonna sonora languida e struggente accompagna i pensieri cupi di Bruno, i pensieri di una generazione di operai. “Si fa la bella vita, eh?” dice il Brogi. Bruno accenna di sì con la testa ma poi cade di motorino. La disperazione è palese ma si fa finta di niente, si cerca di dire che tutto va bene, almeno davanti agli altri, si cerca di convincersi per sperare ancora.

Nancy Brilli poteva essere l'interprete femminile...

Mirella e Gerry si vedono di nascosto e fanno l’amore in auto come due ragazzini. Bruno è così preoccupato che non si accorge di niente mentre i suoi amici sanno che la moglie ha una tresca con il giornalista. Rossella, una sindacalista da sempre innamorata di Bruno, gli apre gli occhi e lui decide di spiare la moglie quando esce da lavoro. Un giorno Bruno scopre tutto. Al porto, sotto una pioggia torrenziale, vede Mirella salire nell’auto di Gerry. Ottime le sequenze sotto la burrasca, come è ben raccontata la disperazione di Bruno che si vede crollare il mondo addosso. Bruno caccia di casa Mirella dopo una scenata, anche se lei non vorrebbe andarsene e gli assicura che è tutto finito. Bruno non riesce a capire.

Sabrina Ferilli

Torna la voce narrante di Bruno. Apprendiamo che Mirella è andata a vivere con Gerry e fa pure lei “la bella vita” nel villino di Salivoli con il giornalista. Bruno riprende con gli amici il progetto di mettersi in proprio e insieme comprano un terreno vicino al mare per aprire il capannone. Per ottenere un prestito in banca Bruno convince il padre a firmare una fideiussione con il suo appartamento come garanzia di solvibilità. Una scena commovente vede Bruno a confronto con il padre: “Il mondo là fuori sta cambiando e te c’hai sonno” dice Bruno. “Essere babbo di un industriale mi fa schifo”, risponde il babbo e subito dopo rincara: “Non vedo l’ora di morire per non sentirlo più questo puzzo”. La seconda affermazione riguarda l’odore di fabbrica che proviene dalla finestra, fa male sentirla uscire dalla bocca di una persona che ha vissuto con il fumo davanti agli occhi, assaporando pane e odore di stabilimento. In ogni caso il progetto è bloccato dalla banca per insufficienti garanzie e il direttore dopo una cena a base di pesce congeda gli aspiranti industriali. A cena vediamo un patetico incontro tra Bruno e Mirella: lei è a tavola con Gerry e Bruno molla tutto per andare a salutarla. Quando i tre amici lasciano il ristorante, un vibrante litigio provoca un malore al cuore malandato di Bruno che cade a terra e si ritrova in un letto d’ospedale. Tutti gli amici si recano al capezzale, persino la sindacalista Rossella che è sempre innamorata di lui. Intanto tra Mirella e Gerry le cose non vanno più così bene, ci sono spesso discussioni, anche lui risente della crisi cittadina e la sua Canale 3 non trova sponsor pubblicitari. Mirella decide di far visita a Bruno, quando lui la rivede la perdona e decidono di tornare insieme. La figura di Rossella è molto toccante, una donna sempre presente per amore, ma pronta a cedere il posto ancora una volta alla moglie che ritorna. Virzì è molto bravo a stemperare la tensione inserendo una battuta indovinata di un caratterista. “Il Tirreno me lo compra lei, domani?”. Il vicino di letto ha capito che l’altra donna non tornerà più. Gerry torna con la vecchia amante Marisa e apre un negozio di tabacchi dalle parti di Parma. Ma il lieto fine non è scontato. Il matrimonio di Mirella e Bruno continua a traballare, tra loro non c’è più amore, ma solo freddezza e un muro che li separa. Si fa in tempo a vedere il vicino spararsi un colpo di fucile in bocca che Bruno e Mirella si lasciano di nuovo. Forse per sempre. Il regista lascia un finale aperto. Bruno accompagna Mirella alla nave e lei torna all’Elba. Ma un anno dopo cominciano a scriversi e si raccontano la vita. Bruno ha aperto uno stabilimento balneare con i tre amici proprio dove volevano fare il capannone industriale, Mirella fa la baby sitter e la maestra d’asilo. Chissà come andrà a finire. “A Piombino tutto passa ma la vita continua”, conclude Virzì. Una splendida fotografia da cartolina su Piazza Bovio protesa sull’Isola d’Elba ce lo fa capire.

Ferilli supersexy

Il finale è toccante. L’amore di Bruno e Mirella forse non è destinato a morire, può risorgere dalle ceneri del passato, così come sta rinascendo Piombino grazie a una nuova speranza. Il futuro è il turismo, sembra dire Virzì, e se una ciminiera di troppo deturpa il panorama non fa niente, “ci si mette una siepe”.

Ferilli al mare

Tra i tanti premi collaterali della Mostra del Cinema di Venezia 1994 il Ciak d’oro assegnato a La bella vita, quale miglior film presentato nel Panorama italiano, fu quello che trovò la maggior unanimità di consensi. Il film vince un David di Donatello per il miglior regista esordiente e due Nastri d’Argento, uno per Virzì e uno per la Ferilli. L’opera di esordio di Virzì si segnala per la professionalità degli interpreti e per la solidità della struttura narrativa. Sabrina Ferilli viene lanciata proprio da questo film, non solo per la bellezza conturbante, ma anche per il lato comico. “È un Totò con le tette”, afferma Virzì. Ghini e Bigagli sono due professionisti che prestano le loro maschere - la prima amara, la seconda goliardica - a due personaggi ben tratteggiati. Il film è girato in economia, ricorrendo a molti figuranti locali, costumi inventati sul momento e scenografie di fortuna. “Il film è rudimentale, coi primi piani e le scene ferme”, dice Virzì. Si nota, è vero, ma il fascino naïf che emana resta intatto forse proprio per quel motivo. Lo sceneggiatore Francesco Bruni ha molti meriti, la storia raccontata è un vero e proprio romanzo per immagini. I personaggi di Virzì mostrano un’anima, il suo melodramma di provincia è dotato di molto cuore e poca retorica. Virzì costruisce un film  garbato e  sommesso, dai toni lievi e coinvolgenti, ai limiti della commozione. Pochi i difetti tipici di un’opera prima. Forse solo l’eccessiva intromissione nella storia della voce narrante che cerca di ovviare a qualche discontinuità nel ritmo narrativo e anche una serie di inquadrature troppo lineari e accademiche. Per il resto un film da vedere e da rivedere sempre con piacere.  Incasso ottimo: un miliardo e trecento milioni. A Piombino resta in cartellone quasi un mese scatenando furiosi dibattiti sulla stampa locale tra chi concorda con la visione del regista e chi avrebbe voluto una maggior attenzione al contesto esterno alla fabbrica. Non era compito di Virzì fare un film cartolina e neppure una favola buonista.


Il trailer del film

La critica è abbastanza soddisfatta. Pino Farinotti concede due stelle: “C’è qualcosa che lega questo film a Romanzo popolare di Mario Monicelli… i risultati sono soddisfacenti e il film risulta godibile. Discreto successo di pubblico. Risente di molti debiti verso la commedia all’italiana”. Farinotti imputa a Virzì una certa mancanza di originalità, anche se afferma che la confezione è buona. Morando Morandini arriva a due stelle e mezzo (tre di pubblico): “Pulizia descrittiva nell’analisi del malessere - antropologico e culturale prima che sociale - del ceto operaio che ha smarrito la propria identità, un trio d’attori che funzionano, comprimari con le facce giuste, ma anche una certa mancanza di energia narrativa, visibile specialmente nella ricerca annaspante di un finale”. Paolo Mereghetti conferma due stelle e mezzo: “Un esordio sincero che non si ferma alle mere storie di corna condominiali tanto in voga nel cinema italiano, ma inserisce la crisi coniugale in una prospettiva più ampia: quella di una vita di provincia in cui la ristrutturazione industriale incrina i valori e le possibilità di un’esistenza dignitosa e dove la televisione offre tentazioni volgari e illusorie. Debole (anche se apprezzabile) il tentativo di descrivere il mondo sindacale e operaio; riuscito, invece, li sforzo di creare personaggi che non siano marionette al servizio di un copione stereotipato. Non cinema da camera più servizi, ma cinema di attori e di storie con un certo spessore, senza lieto fine consolatorio. La Ferilli, ancora una volta, si conferma come la presenza più solida e luminosa nel panorama delle attrici italiane”.

Gordiano Lupi

martedì 12 febbraio 2013

Sophia (2012) di Stefano Simone


Titolo: SOPHIA
Origine: Svizzera
Anno: 2012
Durata: 19'

Regia: Stefano Simone
Interpreti: Barbara Vescovi, Teresa La Scala, Dario Bernasconi, Fabrizio Boo
Scritto da: Teresa La Scala
Musiche: Luca Auriemma
Fotografia: Antonio Universi
Montaggio: Stefano Simone



Sophia (2012) - episodio del film collettivo Amores, che pare non verrà realizzato - è l’ultimo lavoro di Stefano Simone, che gira un corto di 19’, dal taglio fantastico, ben fotografato nel suggestivo paesaggio montano della Svizzera Italiana. La storia parte da un vecchio libro di leggende del Canton Ticino, riecheggia Lovecraft con la tesi del volume maledetto, ma anche certi film di Lucio Fulci e Dario Argento. Una ragazzina si lascia con il fidanzato, prende in prestito dalla biblioteca un volume di leggende e - poco a poco - si rende conto che ogni storia letta provoca un’incredibile scomparsa o un omicidio efferato.
I passi del libro maledetto recitati in sottofondo introducono una storia tenebrosa che segue le tracce d’una leggenda, sia quella del tosatore, dei folletti che popolano il fiume o di un killer imprendibile che uccide e nasconde i corpi in un sacco.
Ottimo il soggetto, meno brillante la sceneggiatura, troppo impostata e didascalica, vittima anche di un montaggio lento e a tratti confuso. Il tono è suggestivo, le riprese esterne sono molto buone, sembrano citare Cappuccetto rosso (2009), un vecchio mediometraggio del regista, ma anche il notevole Unfacebook (2011).


La musica sintetica accompagna un crescendo di tensione, spesso stemperato e poco efficace, come non dovrebbe accadere in un thriller fantastico. Interessante l’uso della soggettiva, con la macchina da presa che segue il protagonista dell’evento macabro per sfumare al momento opportuno. Il regista sceglie di non mostrare i delitti ma lascia intuire, accompagnando lo spettatore fino al momento terminale, per poi staccare sulla lama, sul corpo che cade, sul killer che uccide. L’amante del cinema horror più efferato resterà deluso dal taglio non esplicito che il regista ha voluto dare alla sua ultima opera, anche perché Simone aveva abituato il pubblico a particolari gore e splatter molto cruenti. Teniamo conto che Sophia è un corto nato all’interno di un progetto scolastico che doveva coinvolgere altri autori, quindi forse non era il caso di calcare la mano sul macabro. La recitazione merita un capitolo a parte. Premesso che nessuno vuol gettare la croce addosso a tanti ragazzi volenterosi che hanno dato il massimo, riteniamo che il regista debba rendersi conto che per fare un buon film servono buoni attori. Impossibile uscire da questa lapalissiana realtà.


Sophia è mal recitato, zeppo di dialoghi impostati, di sequenze lentissime che vedono personaggi uno di fronte all’altro intenti a dire battute delle quali sono i primi a non essere convinti. Peccato, perché l’idea del corto è valida, la storia interessante, la fotografia suggestiva, la musica intensa e il montaggio sufficiente. Il regista mostra di saperci fare con la gestione delle immagini, soprattutto nelle riprese in esterno, mentre è meno abile nella direzione degli attori (un difetto che lo accomuna a Dario Argento!). Attendiamo Simone alla prova di un nuovo lungometraggio, consideriamo Sophia una pausa di riflessione, un lavoro di passaggio, che presenta elementi positivi da sviluppare in pellicole di più ampio respiro.   

Gordiano Lupi

sabato 9 febbraio 2013

Godzilla, re dei mostri

recensione di Mario Bonanno

A me la storia che i monster movies siano roba per under 16 non mi ha mai convinto. Non bisogna essere Sigmund Freud per accorgersi che i film sui mostri all’assalto del pianeta (ma anche i film sugli “animali killer”) rimandino all’archetipo, alle paure ancestrali e dunque all’inconscio del genere umano. Certo bisogna volervi leggere tra le righe, essere esenti dal rigor mortis mentale che affligge larga parte della consorteria intellettual-chic, anti-gramscianamente disorganica al punto da permettersi la perenne puzza sotto il naso.
In buona sostanza: King Kong, Godzilla, lo Squalo & Co. - quanto meno nelle loro migliori espressioni/declinazioni cinematografiche - sono (cattivi) soggetti da prendere "terribilmente" sul serio; cartine tornasole dello specchio dei tempi, emblemi immaginifici di antropologia e psicologia sociale, né più né meno che Polifemo e l’Idra dalle molte teste. Leggere il monumentale “Godzilla il re dei mostri” (Davide Di Giorgio, Andrea Gigante, Gordiano Lupi, Edizioni Il Foglio, 2012) per credere: trattasi di uno studio analitico del fenomeno Gojira (in giapponese, lingua natale del mostro) che gli appassionati del genere - ma anche i cinefili senza paraocchi - non devono perdersi assolutamente.
Trecento e rotte pagine (con diverse foto in b/n) per esplorare i significati reconditi e manifesti di una saga inaugurata nel 1954 dal film di Ishiro Honda, e da lì pressoché infinita. Senza entrare necessariamente nello specifico delle cifre, qualcosa come 29 pellicole, svariati fumetti, videogame, cartoon, serie tv (per tacere del merchandising planetario), che per un pupazzone animato a metà strada tra un T-Rex e un peluche da ipermercato, mi sembra affatto male. Al di là della parvenza freak, Godzilla resta dunque un archetipo cui è impossibile sbarazzarsi e/o fare a meno. In neanche sessant’anni di vita è stato emblema (bau bau) del terrore post-atomico nipponico, dell’antiamericanismo, della Guerra Fredda, persino del dopo-comunismo. Il suo status ontologico è mutato col mutare dei tempi e dei plot: da distruttore indefesso di megalopoli ad alleato del genere umano nella lotta con mostri di diversa specie (il territorio è mio e lo gestisco io), quindi di nuovo emissario del Male nel remake di Roland Emmerich del 1998 (e non crediate sia finita: per il 2014 si aspetta infatti una nuova versione godzillesca made in USA). A dispetto della sua riconducibilità al "sentire" socio-culturale giapponese - oltre il trauma della distruzione atomica di Hiroshima e Nagasaki, incarna anche la paura di una natura-contro, tutt’altro che benigna (si legga in tal senso l’ottimo saggio di Giorgio Mazzola, ospitato nel libro, a partire da pag. 21) - l’appeal del mostro ha travalicato i confini, contagiando il resto del mondo (suvvia chi non conosce Godzilla?).
Merito dei topoi trasversali incarnati dal lucertolone, contigui a quel campionario fantastico - invasioni aliene, esperimenti genetici, raggi gamma, creature invincibili - che, di film in film, ha parlato e parla all’immaginario collettivo degli spettatori. Spesso la cultura pop rivela dei popoli tanto quanto un saggio accademico, con il vantaggio di divertire di più. Tornando a questo "Godzilla" cartaceo è un libro assolutamente da consigliare, e anche il suo prezzo è abbordabile: appena 15 euro!

venerdì 8 febbraio 2013

Il profeta (1967)

di Dino Risi


Regia: Dino Risi. Soggetto: Ruggero Maccari, Ettore Scola, Dino Risi. Sceneggiatura: Ettore Scola, Ruggero Maccari. Fotografia: Alessandro D’Eva. Montaggio: Marcello Malvestito. Scenografia: Giovanni Natalucci, Piero Poletto. Musiche: Armando Trovaioli. Interpreti: Vittorio Gassman, Ann-Margrett (Ann Margaret Olsson), Oreste Lionello, Liana Orfei, Fiorenzo Fiorentini, Enzo Robutti, Yvonne Sanson. Produttore: Mario Cecchi Gori. Durata: 100’. Genere: Commedia. Colore. Italia, 1968.


Il profeta è un film figlio del Sessantotto, una pellicola generata da un clima culturale ben determinato, che va storicizzata per essere apprezzata fino in fondo. Dino Risi ha fatto di meglio, certo. Ma questa parabola anticonsumistica, impostata sul ritorno alla vita naturale, è ancora un prodotto godibile che strappa il sorriso e fa riflettere.

Vittorio Gassman è Pietro Breccia, un uomo stufo della civiltà che veste i panni dell’eremita, si lascia alle spalle modernità e famiglia, per ritirarsi sul Monte Soratte, vicino Roma, dove conduce vita da asceta. La civiltà dei consumi è inutile e corruttrice, lui non capisce la pubblicità, il traffico, la congestione delle strade, ma neppure i movimenti hippie, i figli dei fiori, le donne che pretendono diritti. Non ha fatto i conti con la televisione, grande corruttrice che irrompe nella sua vita, lo fa diventare un personaggio, dando in pasto agli spettatori la vita di un eremita, come se fosse una fiction. Finisce la pace, l’uomo è risucchiato dalla civiltà dei consumi, che lo normalizza, lo sfrutta, lo fa diventare uno dei tanti, persino peggiore di chi criticava.


Durante la sua permanenza romana si innamora di Maggie (Ann-Margrett), hippie disinibita che guida la moto e sfoggia una mise sessantottina a base di minigonna e stivaloni, infrangendo con lei il voto di castità. Oreste Lionello (doppiato, lui che è stato un grande doppiatore…), invece, è Puccio, losco giornalista che architetta imbrogli per sfruttare la notorietà del profeta. Pietro Breccia perderà l’amore, si lascerà corrompere da denaro, civiltà dei consumi e ricchezza, rinnegando la sua filosofia e gli ideali per cui aveva abbandonato la famiglia. Sposa la sorella di Puccio (Liana Orfei), apre il ristorante Dal Profeta, dove i camerieri indossano un tipico vestito di finta pelle di capra e diventa un imprenditore di successo.


Il profeta è una commedia gradevole, a metà strada tra il taglio realistico e il surreale, apprezzata dal pubblico, ma poco gradita dalla critica. Ettore Scola e Ruggero Maccari ci mettono le loro idee originali che hanno reso grande la commedia all’italiana, Armando Trovaioli una musica suadente a base di canzoni d’epoca (Bada Caterina), ma la stampa parla di “una rimasticatura de Il tigre (1967) con intenzioni di critica sociale e satira dei costumi non del tutto riuscite” Persino Dino Risi pare che abbia risposto a un giornalista del Corriere della Sera: “Un film di cui preferirei non parlare”. Troppo caustico.


Il film diverte, la commedia ha buoni tempi comici e Vittorio Gassman è ben calato nella parte di uno strampalato profeta che prima aborre la civiltà e dopo si lascia incantare dai sogni di ricchezza. Bene anche Oreste Lionello come laido giornalista speculatore che segue il profeta e ne individua le potenzialità economiche. La pellicola è interessante anche come spaccato di un’Italia che non esiste più, tra comuni di giovani, figli dei fiori, ragazzine in minigonna, prima pubblicità televisiva (Carosello), supermercati e traffico a base di Fiat Cinquecento.


Pino Farinotti la vede come noi, perché concede tre stelle, ma non motiva. Morando Morandini fa parte della critica che non gradisce: un stella, ma senza commentare. Per il pubblico restano due stelle. Paolo Mereghetti concede una stella e mezzo, ma distrugge il film: “Una satira qualunquista e meccanica sulla capacità di reintegrazione e assorbimento della società dei consumi e del successo, tutta affidata alle capacità istrioniche di Gassman, tra gag e battute non molto riuscite”.


Non è così vero. Gassman è importante, certo, ma le idee ci sono e la critica sociale non è così qualunquista. Il tema della società dei consumi che impedisce una vita naturale è più che mai attuale. Da rivedere, senza pregiudizi.

Per vedere alcune sequenze:



Gordiano Lupi