giovedì 27 marzo 2014

Una vergine in famiglia (1975)

di Mario Siciliano





Regia: Mario Siciliano (alias Luca Delli Azzeri). Soggetto e Sceneggiatura: Mario Siciliano. Fotografia: Gino Santini. Montaggio: Otello Colangeli. Musiche: Carlo Savina (dirette dall’autore/ Edizioni Musicali Cam). Direttore di produzione: Paolo Mercuri.  Aiuto Regista: Antonio Gramaglia. Distribuzione: Cinematografie Internazionali Associate. Produzione: Mario Siciliano per Metheus Film. Interni: Elios (Roma). Interpreti: Franca Gonella, Gianni Dei, Femi Benussi, Giorgio Ardisson, Mario Colli, Carla Calò, Luis La Torre, Enzo Andronico, Ester Carlone, Filippo Torriero, Antonello Baranta, Paola Corazzi, Clara Paoli, Alessandra Palladino, Bruno Brugnola, Bruno Tocci, Patrizia Laricchio, Giovanni Sabbatini, Rosa Maria Calogero.



Mario Siciliano (1925 - 1987) è un regista che proviene dal mondo della produzione, fonda la Metheus, realizza parecchi film avventurosi, firma diverse opere popolari, si dedica alla commedia erotica di ambientazione provinciale e termina la carriera nel mondo del porno. Si firma spesso Marlon Sirko, Luca Delli Azzeri e Lee Castle (per i film hard). Eroticofollia noto anche come Malocchio (1974) è un horror erotico incentrato sulla figura di un serial killer e sulle grazie di Pilar Velasquez, Daniela Giordano e Pia Giancaro. Una vergine in famiglia (1975) è il suo erotico - campagnolo più importante con protagonista Franca Gonella, improbabile vergine in una famiglia di allupati, ma nel cast c'è anche Femi Benussi. Non va dimenticato Campagnola bella (1976), che vede la coppia Gonella - Benussi alla riscossa in mezzo a un gruppo di assatanati provinciali. In questi film erotici si nota la propensione di Mario Siciliano per l'esibizione estrema del corpo femminile e per le scene ai limiti dell'hard. Nel 1980 comincia la sua discesa negli inferi della cinematografia porno con i primi film interpretati da Marina Frajese (La zia svedese) e altri titoli eloquenti (Orgasmo esotico, Porno lui, erotica lei...). 



Mario Siciliano si firma Luca Delli Azzeri per dirigere una commedia sexy abbastanza divertente e trasgressiva che racconta le vicissitudini di Anna (Gonella), figlia vergine che studia dalle suore, educata in una famiglia di depravati. Il padre (Colli) è un avvocato pieno di amanti, la madre se la intende con il parroco (“Sei bella come una Madonna”, le dice in una sequenza a rischio censura ambientata in chiesa), il fratello si dà alla dolce vita, ma dalla ragazzina pretendono verginità e impegno. A nessuno interessano vita scolastica e problemi, ma sono pronti a punire gli errori, spedendola in campagna dalla zia. Anna ha un fidanzato (Dei) che la cerca ancora dopo che il padre l’ha portata a Roma dalla natia Sicilia, per impedire che finisse a letto con lui.

La parte migliore del film è ambientata in Ciociaria, quando la commedia sexy diventa un erotico - campagnolo, sottogenere di cui Siciliano è un esperto. Tra l’altro in questa parte entra in scena un ottimo Enzo Andronico nei panni dello zio sporcaccione che tocca il sedere alle serve e tenta di scoparsi la nipotina. La popolare spalla di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia impersona un assurdo personaggio sessuomane, sempre in tiro e a caccia di carne fresca, impensabile per i tempi che stiamo vivendo, ossessionati dalla pedofilia. Nel 1975, invece, un simile personaggio - estremo e surreale - veniva considerato comico. Franca Gonella, invece, è la lolita nobokoviana, stile Gloria Guida, bionda con gli occhi chiari, che fa innamorare coetanei e uomini maturi, provoca maliziosamente e conduce le danze, concedendosi solo quando decide di farlo. Da ricordare un ballo campestre, scatenata e seducente, da film di Kubrick, ma anche alcune perversioni con lo zio e insieme ai compagni.


Non manca il voyeurismo che mette alla berlina la curiosità degli spettatori ed è incarnato da un Enzo Andronico interessato alle effusioni erotiche tra la ragazzina e il fidanzato. La terza parte del film si svolge in una finta Calabria ed è ancora sottogenere erotico - campagnolo con la stupenda Femi Benussi nei panni (per lei) consueti di cameriera sporcacciona che si concede al pubblico interpretando sequenze bollenti ai limiti dell’hard. Franca Gonella in fuga perde la verginità con il primo che capita e finisce tra le braccia di un uomo maturo (Ardisson) mentre Gianni Dei se la fa con la Benussi.


Il finale è quasi da love story, con tanto di filippica contro l’ipocrisia dei vizi privati e delle pubbliche virtù, per sottolineare la commistione di generi messa in campo dal regista. Siciliano gira con stile da cinema hard, al punto che molte sequenze sembrano uscite da un porno tagliato e spesso viene il dubbio che esista una versione addizionata con inserti a luci rosse. Un film esplicito, giudicato erotico, stroncato da tutta la critica alta, ma che va storicizzato ai tempi in cui il sesso era una visione proibita, riservata alle anguste sale di un cinema di terza visione. Il film è uscito in Germania con il titolo Eine Jungfrau in blue jeans. Una vergine in famiglia costa una denuncia per atti osceni a Franca Gonella, conclusa con una sentenza a quattro mesi di reclusione (con la condizionale), nonostante il suo ruolo fosse più casto rispetto alle altre attrici. Purtroppo la bionda interprete incappò in identica condanna l’anno successivo, partecipando a La bolognese di Alfredo Rizzo. Una leggenda metropolitana dà per morta Franca Gonella, ma sono tutte balle; tra l’altro partecipa ancora a qualche produzione ed è laureata in storia del cinema.

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

mercoledì 26 marzo 2014

I mondo-movie, panoramica sintetica



Il paese del sesso selvaggio (1972) di Umberto Lenzi è il primo film a soggetto del filone avventuroso - cannibale che nasce dall’esperienza dei tanto esecrati mondo-movie, lavori a metà tra la finzione filmica e il documentario. Sono opere datate anni Sessanta - Settanta, che si spingono fino agli anni Ottanta nelle propaggini meno interessanti, capaci di filmare con occhio gelido e crudo realismo la violenza sui corpi, la devastazione della carne e della mente umana. Sono reportages nei quali è difficile separare realtà e finzione, spesso bollati come snuff e accusati di filmare la morte.  La critica importante ha sempre relegato i mondo-movie nella sfera del trash (cinema spazzatura), ma ormai sappiamo che la critica intellettuale non apprezza il cinema di genere, caso mai si riserva di rivalutarlo alla morte del regista o dell’attore di turno (Mario Bava e Totò insegnano). È riduttiva una bocciatura senza appello, visto che i mondo movies esercitarono un enorme fascino sul pubblico, oltre a influenzare gran parte del cinema di genere italiano. Tra l’altro ci sono stati film insospettabili che si sono presi l’accusa di snuff, come Soldato blu (1970) di Ralph Nelson. Nelle sequenze finali i soldati americani attaccano un villaggio cheyenne e vengono filmati particolari così crudi e realistici da sembrare veri. Assistiamo a scene con donne seviziate e mutilate, bambini decapitati e mattanze di giovani guerrieri. Si tratta di uno spietato ritratto della realtà, una ricostruzione precisa e documentata di un eccidio indiano tristemente accaduto. Snuff (1974) di Michael Robert Findlay (coproduzione Usa-Argentina) è una pellicola che racconta le gesta della famiglia Manson. Nel finale una ragazza è condotta con l’inganno in un set cinematografico dove viene torturata, mutilata e infine squartata. La scena fu spacciata per vera, non è stato mai chiarito se si trattava soltanto di pubblicità, ma propendiamo per la seconda ipotesi. Nell’incertezza la diffusione di Snuff venne bloccata e il film è diventato un cult rarissimo ricercato dagli appassionati. A parte la digressione sugli snuff (sull’argomento si legga per dettagli un pezzo di Marco Castellini all’indirizzo internet www.horrorcult.it) vediamo di fare una rapida carrellata sul genere mondo movies, vera e propria anticipazione del cinema cannibalico italiano. 
 
Alessandro Blasetti è il precursore di una moda documentaristica dal taglio erotico che cerca di mostrare in maniera scientifica e distaccata il rapporto sessuale in tutte le sue implicazioni. Europa di notte (1959) rappresenta un passo in avanti rispetto al documentario anni Cinquanta che evitava con cura ogni aspetto salace o morboso. In questo lavoro troviamo la musica di Domenico Modugno e un’intervista al transessuale Coccinelle, ma il viaggio alla scoperta dei piaceri notturni delle capitali europee è anche un modo per mostrare audaci numeri di strip-tease. La pellicola era molto castigata, ma per i tempi che viveva la nostra Italia moralista e bacchettona fu un vero scandalo e di conseguenza un grande incasso al botteghino. Non per niente i commenti e il soggetto sono di Gualtiero Jacopetti che pochi anni dopo svilupperà la felice intuizione. Molti registi italiani si misero a inseguire il successo di Europa di notte e cominciarono a girare documentari con riferimenti al sesso. Il tema era sempre lo stesso: si partiva da scene vere, se ne aggiungevano altre dichiaratamente false e si costruiva una pellicola con valenza erotica. 


Il mondo di notte (1960) è un documentario erotico di Luigi Vanzi, ma ancora una volta troviamo Gualtiero Jacopetti alla stesura del soggetto. Il film riscosse un buon successo, al punto che il produttore Gianni Proia fece uscire Il mondo di notte 2 e una puntata numero 3, distribuita negli Stati Uniti sotto il titolo di Ecco e narrata da George Sanders. Ecco mostrava addirittura una castrazione con i denti e i particolari di una messa nera.  Alessandro Blasetti cercò di bissare il successo del suo primo lavoro con Io amo, tu ami… (1961), un documentario - fiction interpretato da Giuliano Gemma ricco di riferimenti sessuali, ma non ebbe la stessa fortuna. Roberto Bianchi Montero, dopo aver girato il film a soggetto La Pica nel Pacifico (1959) si avvicinò al documentario sexy con Notti calde d’oriente (1962) e realizzò una vera e propria serie di lavori a imitazione di Blasetti e Jacopetti, ambientati nelle atmosfere delle calde notti del mondo. Non riscossero molto successo.  


Mondo cane (1962) di Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi e Paolo Cavara è il primo vero e proprio mondo movie, un documentario a tinte forti dove il regista propone immagini di vario tipo: una strana riunione di sosia di Rodolfo Valentino, gli effetti orripilanti delle radiazioni nucleari su uomini e animali, la cucina orientale che serve in tavola piatti a base di cani e serpenti. La pellicola ebbe un notevole successo, tanto che nel 1963 uscì Mondo cane 2, realizzato dalla produzione con gli scarti del primo film. Jacopetti non ha mai riconosciuto la paternità della pellicola che pure gli viene attribuita, in collaborazione con Franco Prosperi, anche perché non ha curato il montaggio. Italia proibita (1963) vede alla regia il giornalista Enzo Biagi, che collabora con Brando e Sergio Giordani per firmare il suo unico film. Luigi Scattini e Mino Loy, invece, girano Sexy magico (1963). I temi sono sempre gli stessi: un po’ di sesso, qualche riferimento alle usanze regionali, abitudini e vizi erotici degli italiani. Il direttore della fotografia Osvaldo Civirani gira in dodici giorni Sexy proibito (1963), seguito da Tentazioni proibite (1964), ambientato ad Amburgo, Berlino, Londra e Parigi. Luigi Scattini si firma Silvano Secelli per realizzare L’amore primitivo (1964), un lavoro originale, a metà strada tra film a soggetto e documentario. Jayne Mansfield è una bella antropologa spiata da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia mentre visiona un reportage sui costumi sessuali dei popoli primitivi. Scattini gira anche Svezia, Inferno e paradiso (1967), forse il lavoro maggiormente responsabile di aver mitizzato la libertà di costumi scandinava rispetto alla nostra arretratezza culturale. La Svezia era il sogno di tutti i maschi latini, sembrava una lontana mecca di libertà alla quale far riferimento per poter vedere in santa pace un corpo di donna nuda e magari conoscere una femmina disinibita. Scattini gira anche Angeli bianchi… angeli neri (1969) sulle magie vere o presunte di maghi, ipnotizzatori e ciarlatani. Il pelo nel mondo (1964) è un lavoro interessante sulla prostituzione nella società contemporanea, curato da Antonio Margheriti e Marco Vicario. Peccato per il titolo triviale che serviva ad attirare pubblico al botteghino. Nude calde e pure (1964) di Virgilio Sabel e Lamberth Santhe è una coproduzione italo - francese che racconta i costumi sessuali della libera Polinesia e li paragona alla retriva Europa.  

Silvio Bergonzelli gira due pseudo mondo-movie come Silvia e l’amore (1968) e Le dieci meraviglie dell’amore (1968). Si tratta di due film a soggetto. Nel primo la protagonista racconta le proprie esperienze sessuali di coppia a un medico, ma il tutto è abbondantemente recitato e non c’è niente di documentaristico. Nel secondo ci sono sei studenti che vogliono presentare una tesi sull’evoluzione dei costumi sessuali degli italiani. Falso rigore scientifico a imitazione del successo internazionale di Helga (1967) di Erich F. Bender. Il perbenismo ipocrita della società italiana non permetteva di mostrare erotismo e sesso senza una pseudo costruzione scientifica. Il diario proibito di Fanny (1968) di Sergio Pastore è un altro pseudo mondo-movie che pare un manuale di educazione sessuale per principianti. Scusi, lei conosce il sesso (1968) di Vittorio De Sisti è un altro viaggio a soggetto nel mondo del sesso, composto da una serie di interviste e immagini che vorrebbero raccontare l’evoluzione sessuale. Nel labirinto del sesso (1968) di Alfredo Brescia spiega comportamenti e abitudini sessuali degli italiani, ma non è un documentario perché ci sono attori che recitano a soggetto. L’unico mondo-movie girato da una donna è Riti segreti (1972) di Gabriella Cangini, che parla di sterilizzazione maschile, culti masturbatori e fallici, afrodisiaci e alcune bizzarre patologie. Rivelazioni di uno psichiatra sul mondo perverso del sesso (1972) del pessimo Renato Polselli è un altro film erotico con pretese pseudo scientifiche da mondo-movie, ma si ricorda addirittura per essere stato uno dei primi film italiani addizionati con inserti porno. 

Mille peccati… nessuna virtù (1969) di Sergio Martino, invece, è un vero e proprio mondo-movie sui costumi sessuali che si sforza di raccontare l’importanza del sesso nella società contemporanea. Martino sembra dire: “Fate l’amore invece di usare la droga” e compone un interessante affresco sui pericoli della tossicodipendenza. Sergio Martino gira anche America così nuda così violenta (1970) e I segreti delle città più nude del mondo (1971), veri e propri mondo-movie ricchi di sequenze erotiche, strip-tease, scene prelevate da locali notturni europei e usanze sessuali. Mondo erotico (1972) di Filippo Maria Ratti, firmato Peter Rush, analizza il fenomeno del nudo e dei costumi sessuali in continua evoluzione nella società occidentale. Gianni Proia è un altro autore - produttore che va citato per Realtà romanzesca (1969) e Mondo di notte oggi (1975), scritto e letto da Oreste Lionello, ma caratterizzato da una serie di doppi sensi molto grevi. Si tratta del solito viaggio di notte alla scoperta dei costumi sessuali occidentali, delle trasgressioni e degli spettacoli erotici. 


Si giunge a un punto di non ritorno perché il sesso è sempre più presente al cinema e nella vita italiana. Vittorio De Sisti si concede persino il lusso di ironizzare sull’erotismo nella chiesa cattolica con Sesso in confessionale (1974). Citiamo anche Mondo porno oggi (1976) di Giorgio Mariuzzo, che cavalca una moda ma non ha niente di porno. L’Italia in pigiama (1976) di Guido Guerrasio non è un mondo-movie, ma racconta le abitudini sessuali degli italiani. Molto interessante Tomboy - I misteri del sesso (1977) di Claudio Racca, un documentario divulgativo sul sesso che si avvale di interventi qualificati. Sesso perverso – mondo violento (1980) è l’immancabile tardo e volgare contributo di Bruno Mattei al genere, un collage di falsi provini che trattano i negri come esseri inferiori e le donne come lesbiche. Nudeodeon (1978) di Franco Martinelli, parafrasa il titolo di una fortunata trasmissione televisiva (Odeon) che per prima ebbe il coraggio di mostrare un nudo femminile frontale, ma realizza anche un documentato studio sui costumi sessuali degli italiani. Il vero e proprio mondo-movie erotico modifica i suoi contenuti e non esiste più come momento conoscitivo perché il cinema erotico e quello a luci rosse sono alla portata di tutti. Il documentario erotico lascia il posto a opere squallide che raccontano scene fintamente reali ricostruite in studio che sembrano dei porno casalinghi. Citiamo Noi e l’amore (1985) di Antonio D’Agostino, un florilegio senza precedenti di depravazioni sessuali, e il più convincente Love duro e violento (1985) di Claudio Racca, che prosegue il discorso iniziato con Tomboy, ma con immagini più crude e scioccanti. Abbiamo l’esibizione di varie frattaglie, ma anche un ripugnante cambio di sesso, la macellazione dei maiali e un inserto che sembra snuff perché la leggenda narra che una ragazza è stata scuoiata dal vero. 

Da dimenticare I vizi segreti degli italiani (quando credono di non essere visti) (1987), girato dal pessimo produttore - regista Camillo Teti, interpretato da Moana Pozzi e Ramba che intervistano passanti sul tema del sesso. Mondo cane di Jacopetti rivive un momento di gloria sul finire degli anni Ottanta grazie a un’idea del produttore romano Gabriele Crisanti. Prima esce Mondo cane oggi (1985), firmato Max Steel, pseudonimo dell’ottimo regista di polizieschi Stelvio Massi, e subito dopo Mondo cane 2000 – l’incredibile (1988), firmato dallo stesso Crisanti. Il primo lavoro conserva motivi di interesse, pure se i tempi sono cambiati e il mondo-movie non è un genere che può ancora scandalizzare. Il secondo film è montato da Cesare Bianchini e presenta un volgarissimo commento di Luigi Mangini. Stelvio Massi si rifiuta di firmare la regia.Abbiamo lasciato da parte il discorso sugli Africa-movie, sottogenere importante della categoria mondo-movie. 


Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi realizzano il fondamentale Africa addio (1966), un documentario ricco di mattanze di animali. Vediamo elefanti trucidati per privarli delle zanne d’avorio, gambizzazioni di bestiame come ritorsione verso gli allevatori, rapimenti di piccoli animali per venderli agli zoo, eccidi di tranquilli ippopotami per portare la carne al mercato. Non solo: ci sono anche scene realistiche di fucilazioni di prigionieri e particolari efferati della guerra civile in Kenia. La macchina da presa si sofferma spietata sui corpi mutilati e scaraventati ai bordi delle strade. Jacopetti dipinge un quadro disarmante di un’Africa che passa dal colonialismo all’anarchia selvaggia. Un film sconvolgente che va considerato un capolavoro capace di far nascere un vero e proprio sottogenere: l’Africa movie. Africa sexy (1963) di Roberto Bianchi Montero viene distribuito alcuni anni prima di Africa addio, a causa di molti problemi in sede di censura che ritardarono l’uscita del documentario di Jacopetti (pronto dal 1963). Montero è interessato soprattutto alla descrizione delle abitudini sessuali degli indigeni e non si cura di ampliare il suo orizzonte visivo. I lavori di Jacopetti sono oggetto di separata trattazione, perché è lui il creatore del genere e il vero innovatore del modo di fare documentario antropologico. Ricordiamo in questa sede anche La donna nel mondo (1963), girato con Franco Prosperi e Paolo Cavara, che ha come tema la condizione femminile nei punti più disparati del globo. Addio zio Tom (1971), girato con Prosperi, è il suo ultimo mondo-movie, accusato di razzismo e qualunquismo, ma in realtà solo un documentario satirico e anticonformista realizzato con passione e originalità. Jacopetti finì al centro di uno scandalo che lo isolò sempre più fino ad allontanarlo dal mondo del cinema italiano. Tra gli altri mondo-movie africani di un certo interesse citiamo Le schiave esistono ancora (1964) di Maleno e Roberto Malenotti (padre e figlio), ma pare che abbia collaborato pure Folco Quilici, non accreditato per non aver portato a compimento il film. Molte scene sono eccessive, ma la pellicola resta interessante per la descrizione di un fenomeno reale come il commercio di esseri umani. 


I fratelli Angelo e Alfredo Castiglione sono antropologi, esploratori e giornalisti che si dedicano al genere realizzando alcune pellicole interessanti. Africa segreta (1969) è il loro primo lavoro girato insieme a Carlo Guerrasio, vera e propria antropologia divulgativa frutto di cinque anni di ricerche, anche se il principale interesse dei registi pare essere attinente alla sfera dei comportamenti sessuali. Africa ama (1971), prodotto da Alberto Grimaldi e narrato da Riccardo Cucciolla, vuole essere uno studio antropologico su usi e costumi delle popolazioni africane. Vediamo la circoncisione, l’infibulazione e molti riti che hanno come base un erotismo semplice e naturale che non presenta elementi morbosi. Magia nuda (1974) è un altro lavoro dei Castiglione, che vede il commento esterno scritto da Alberto Moravia e recitato da Riccardo Cucciolla. I riti magici delle popolazioni africane presentano molti riferimenti sessuali, ma non c’è mai la volontà di esibire gratuitamente. Il lavoro più importante dei fratelli Castiglione è Addio ultimo uomo (1978), prodotto da De Laurentiis, impostato come documentario etnografico per raccogliere le testimonianze dalla voce degli ultimi stregoni. La pellicola non raggiunge l’originalità di Africa  addio, ma con una fotografia nitida e un buon commento musicale fa conoscere riti tribali che hanno come tema la morte, il sesso e il ruolo della donna. I fratelli Castiglione descrivono con dovizia di particolari i riti funebri, i sacrifici animali, l’oroscopo dei sassi per conoscere il futuro dell’anima e il pasto accanto alla salma che sarà portata a compiere un ultimo giro per il villaggio. In Africa quando muore un membro del villaggio si perde una parte della piccola società e tutti partecipano al lutto, come momento collettivo di condivisione.  La morte viene presa per quello che è: il momento terminale della vita, accettato come un fenomeno naturale che scioglie l’anima dai legami terreni. Se muore un guerriero vengono rotti sul cadavere gli oggetti che gli appartenevano e infine sono gettati in una grotta. I giovani guerrieri si fustigano con insistenza per offrire al cadavere il loro coraggio e per rendere onore a un uomo valoroso. La malattia si scaccia con le armi della magia: uno stregone accarezza il dorso di una capra per trasmetterle il morbo, quindi abbatte l’animale con furia selvaggia. Il mercato è il regno delle donne, tra pesci secchi, pane di sale, birra di miglio e unguenti, vede contrattazioni di genti e razze diverse che si incontrano e scambiano prodotti. Al mercato si vende pure carne di cane abbrustolita sulla fiamma, dopo aver privato la bestia dei genitali.  La tesi dei registi è che l’ultimo uomo non è mai solo, vive una vita naturale, in perfetta armonia con la natura, ma il difetto del film è che spesso punta al sensazionalismo fine a se stesso e presenta momenti ripetitivi. La scena del taglio del pene di un soldato catturato è il momento più  raccapricciante della pellicola, molti critici affermano che non è una ripresa dal vero, ma i fratelli Castiglione giurano sul realismo. La festa dell’amore è un altro bel momento documentaristico che riprende i giovani mentre si cospargono il cranio con cera d’api, si fissano piume in testa, dipingono il corpo, indossano maschere e si spalmano unguenti. Una ragazza non unta è come nuda e non si può presentare al rito dell’amore fatto di danza e musica. Lo stile è a imitazione di Jacopetti, perché mostra per contrasto l’atteggiamento freddo e distaccato delle donne europee, ma si poteva evitare una parte dichiaratamente commerciale composta di filmati hard. I registi mostrano interessanti momenti di vita africana: la lotta cruenta tra guerrieri con un coltello legato al polso, la costruzione comune di una casa composta di fango, paglia e legno, la preparazione del cibo a base di semplici focacce. L’ultimo uomo non vive di egoismo, ma di momenti sociali che esprimono la sua voglia di comunicare e di aiutare chi ha bisogno. La danza manifesta sempre spiritualità e serve a celebrare un momento importante della vita comune, così come il tatuaggio è una carta d’identità tribale che per le donne presenta valenza erotico - estetica. I registi ci tengono a mostrare le differenze con la nostra società dei consumi e si schierano sempre dalla parte di chi conduce una vita naturale. L’ultimo uomo non vive di vanità estetiche ma di rituali culturali. Il rito della consacrazione del fallo fa capire l’importanza della fertilità per i popoli primitivi che impongono alle donne di ungere e alimentare il fallo di pietra simbolo della procreazione. Il finale recita: “Nessun uomo è un’isola tutta per sé” e “Non andate a chiedere per chi suona la campana: essa suona anche per te”, realizzando un valido supporto filosofico. I vecchi custodiscono i segreti della biblioteca dell’ultimo uomo, ma la civiltà che arriva da lontano modifica la cultura. Ricordiamo che il montaggio è di Rita Olivati Rossi e Ugo De Rossi, la fotografia di Alfredo Castiglioni, il testo di Vittorio Buttafava (voce di Riccardo Cucciolla), mentre il commento musicale è di Franco Godi. Africa dolce e selvaggia (1982) è l’ultima opera di Angelo e Alfredo Castiglioni costruita a base di sensazionalismo e scene di selvaggio naturalismo. Nel 1975 esce Ultime grida dalla savana di Antonio Climati e Mario Morra con il commento esterno scritto da Alberto Moravia. Si tratta di un lavoro a soggetto, ma due scene terribili si ricordano dopo anni dalla visione per la perfezione con cui vennero realizzate. La prima è quella della caccia agli indiani da parte dei bianchi con le conseguenti violenze dopo la cattura (castrazioni, decapitazioni e scotennamenti si sprecano). La seconda è la tragica fine di Pit Doenitz, un turista che durante la gita al parco naturale di Wallase si fa venire la brillante idea di uscire per la savana a fotografare i leoni. L’uomo viene sbranato e la macchina da presa filma i particolari dell’esecuzione e dell’orribile pasto. Pare certo che la scena degli indios venne realizzata grazie a sofisticati effetti speciali. Non siamo altrettanto sicuri per quel che concerne la morte dell’uomo sbranato dai leoni. Il regista la presentò come una ripresa eseguita da uno dei turisti a bordo della jeep. “Ho solo aggiunto qualche effetto splatter”, disse Climati. In questi casi è difficile distinguere la realtà dalla pubblicità per creare interesse intorno a una pellicola. Il film - documentario è un catalogo di scene più o meno raccapriccianti che tendono a creare un effetto disturbante nello spettatore. Colgono nel segno, non c’è che dire. Ultimo mondo cannibale (1976) di Ruggero Deodato è un film avventuroso - cannibalico di pura fiction, ma condividiamo l’opinione di Antonio Tentori che lo definisce filiazione diretta dei mondo movies da cui riprende la descrizione dell’orrore in diretta, ma anche pellicola capace di fissare definitivamente le coordinate del filone cannibalico. Veri e propri mondo-movie sono Le facce della morte (1981) di Conan Le Cilaire (pseudonimo collettivo che comprende di sicuro Mario Morra) è una rassegna di orrori vari: esecuzioni di condannati a morte, dissezioni di cadaveri in obitorio, macelli comunali, disastri. Le facce della morte 2 (1982), sempre di Le Cilaire, cavalca il successo del precedente ed è ancora più allucinante nel mostrare i possibili modi di morire corredati da un fastidioso commento fuori campo. Cannibali domani (1983) di Giuseppe Scotese è forse il film documentario meno violento e professionale nel quale si prova a fare un lavoro di denuncia e di commossa partecipazione. Dolce e selvaggio (1983) di Mario Morra e Antonio Climati (gli stessi autori di Ultime grida dalla Savana) è un film datato che descrive la violenza tra animali e la caccia tra uomo e animale. Dimensione violenza (1984) di Mario Morra è un documentario internazionale che mette in mostra esecuzioni sulla sedia elettrica, taglio delle mani a ladri arabi, cuccioli di foca abbattuti e altre prelibatezze. Nudo e crudele (1984) di Adalberto Albertini (Albert Thomas) ricerca orrori di ogni genere e ci mostra gli uomini proboscide, gli ultimi cannibali, gli alligatori antropofagi e un transessuale operato. Mondo senza veli (1985) di Adalberto Albertini (Albert Thomas) è solo un contenitore di cose macabre e bizzarre che ne fanno una chicca per gli amanti delle curiosità da baraccone. 

Un libro fondamentale per capire il genere:

 

lunedì 24 marzo 2014

GUALTIERO JACOPETTI E IL MONDO MOVIE

Rassegna della critica cinematografica

Il miglior libro in circolazione sul cinema di Gualtiero Jacopetti
Stefano Loparco, Gualtiero Jacopetti. Graffi sul mondo, Ed. Il Foglio letterario p. 340, Euro 16

La monumentale Storia del Cinema Italiano di Gian Piero Brunetta dedica poche righe a Gualtiero Jacopetti (pag. 423 - vol.4): “Un grande successo hanno i film di Gualtiero Jacopetti (il primo è Mondo cane del 1962), a cui si deve riconoscere il merito di aver scoperto e contribuito a diffondere, spacciandolo per documentario realistico, il gusto sado-masochista per lo spargimento di sangue, la brutalità, la violenza, la morbosità e ogni situazione cruenta”. È un giudizio limitante, perché il noto critico cinematografico confina Jacopetti nel campo del cinema sadomasochista. 

Il Dizionario del cinema italiano del Poppi ci dice che Gualtiero Jacopetti nasce a Barga il 4 settembre 1919, comincia come giornalista e direttore di cinegiornali, esordisce nel cinema scrivendo il commento a Europa di notte (1959), celebre reportage di Alessandro Blasetti, e traducendo, per la versione italiana, un’altrettanto conosciuta inchiesta del francese Françoise Reichenbach: L’America vista da un francese (1960). Jacopetti scrive subito dopo Che gioia vivere!, diretto nel 1961 da René. Clément, una modesta ricostruzione comica dell’epoca fascista interpretata da Alain Delon, Barbara Lass, Gastone Moschin e Ugo Tognazzi.  

Il successo di pubblico giunge inaspettato con Mondo cane (1961), che inaugura un genere completamente nuovo per la cinematografia europea: quello del documentario scandalistico, violento, scioccante, che con immagini di inusitato verismo, crudeli e sadiche, tendeva a impressionare lo spettatore rivolandogli aspetti sconosciuti di riti e usanze proprie di numerose popolazioni. Il critico Paolo Mereghetti distrugge l’opera, assegna una sola stella e parla di un documentario che assembla immagini ed episodi curiosi, esotici, violenti e voyeuristici, spacciati come reali ma il più delle volte frutto di montaggio o ricostruzione. Il critico milanese giudica sgradevole e ipocrita il commento della voce fuori campo, ma affonda il coltello nella piaga affermando che in futuro Jacopetti farà di peggio. Mondo cane 2 (1962) è oggetto di ulteriore critica negativa come campionario residuale di immagini violente e ripugnanti. Il Morandini è ancora più lapidario: due film ignobili di grande successo. A nostro giudizio i due importanti critici sono troppo drastici nel condannare un intero genere cinematografico che nasce con Jacopetti e manifesta una certa originalità, riconosciuta da Pino Farinotti per il primo Mondo cane


Jacopetti affronta l’inchiesta sull’universo femminile con La donna nel mondo (1963), che presenta il sottotitolo di Eva sconosciuta ed è dedicato alla giovane compagna scomparsa Belinda Lee. Jacopetti è soggettista, sceneggiatore e montatore, affiancato dagli abituali collaboratori Paolo Cavara e Franco Prosperi. Per Paolo Mereghetti la pellicola non merita più di una stella perché le immagini accostano in maniera assolutamente gratuita donne-sacerdote e circoli lesbici, lamentatrici funerarie di Orgosolo e ballerine di tamuré a Tahiti, prostitute in vetrina ad Amburgo e mogli in attesa di divorzio a Las Vegas, cercando unicamente l’effetto sorpresa e l’inquadratura trasgressiva. Per Mereghetti è da bocciare anche un commento esterno che giudica nichilista, cinico e sgradevole, soprattutto irritante nella finta ironia di voler sottomessa la donna all’uomo. Il Morandini non è meno drastico quando parla di stile da rotocalco, nichilismo reazionario e finta irriverenza goliardica. I critici salvano soltanto la bella fotografia di Antonio Climati. 


Jacopetti affronta il documentario etnografico, presentando l’Africa in un’ottica che gran parte della critica ha definito razzista e reazionaria. Africa addio (1966) è il risultato finale di un’analisi all’interno del continente nero e dei suoi aspetti più sanguinari della situazione post coloniale. Paolo Mereghetti boccia il film senza possibilità di appello, definendolo un documentario cinico e parziale con un commento fuori campo particolarmente qualunquista. L’Espresso rivelò addirittura lo scandalo della finta realtà jacopettiana, perché documentò la sospensione della fucilazione di tre ragazzi neri per cambiare obiettivo alla macchina da presa. Alcuni ex collaboratori come Paolo Cavara accusano Jacopetti di mistificazione per aver premeditatamente costruito sequenze documentarie, ma l’accusa non è stata mai totalmente provata. Marco Giusti trova del buono in Africa addio, salvando l’intera opera solo per la visione del lungo trailer animato realizzato dai fratelli Pagot. Il critico romano parla anche di una classicità trashistica e di una grandezza insita in un film che è stato il capostipite di tanti Africa movie italiani. Il Morandini detesta la pellicola al punto di non commentarla, mentre Pino Farinotti concede addirittura tre stelle, motivandole con la grande confezione tecnica. Noi siamo dalla sua parte, visto che stiamo parlando di cinema e non dobbiamo analizzare il contenuto ideologico di un’opera, ma il modo in cui viene realizzata. Va da sé che la presa di posizione ideologica di Jacopetti è molto forte e presta il fianco a vibranti polemiche. 


Addio zio Tom (1971), realizzato come il precedente da Jacopetti e Prosperi, è una ricostruzione storica costruita con stile da giornalismo televisivo sul tema dello schiavismo. Il budget è molto alto, ma per Paolo Mereghetti il prodotto finale è decisamente basso, caratterizzato da un cinismo di fondo, un montaggio voyeurista e un gusto perverso per le immagini scioccanti. Il critico milanese rincara la dose e afferma che Addio zio Tom è un esempio del peggior qualunquismo razzista al punto di voler far passare per vera la tesi dell’inferiorità razziale dei neri. Il film doveva durare 138 minuti ma sono stati ridotti a 100 dopo una denuncia per oscenità e l’obbligo di cambiare il titolo in Zio Tom. Fa molto discutere la decisione di girare il film ad Haiti accettando la collaborazione del sanguinario dittatore Papa Doc che fornisce molte comparse. Marco Giusti definisce la pellicola non male, soprattutto per le grandi scene di nudo che al tempo facevano un certo effetto. Morandini sceglie ancora di non parlare del film, mentre per Farinotti è realizzato con la scusa di raccontare lo schiavismo, ma con la precisa volontà di mostrare scene di nudo.  

Belinda Lee

Mondo candido (1975) è l’ultima opera uscita al cinema di Jacopetti e Prosperi, questa volta si tratta di una fiction vera e propria, un libero adattamento del Candido di Voltaire, sceneggiato dai due registi e dal critico cinematografico Claudio Quarantotto. Per Mereghetti è il miglior lavoro di Jacopetti, visto che concede una stella e mezzo, ma il giudizio è ancora negativo: il qualunquismo filosofico fa coppia con il più scontato degli spiriti goliardici… un guazzabuglio di luoghi comuni che servono solo a far vedere un po’ di donne spogliate. Il critico milanese conclude che si tratta di un film troppo ricco produttivamente e troppo presuntuoso per diventare un reperto trash. Marco Giusti definisce Mondo candido come una fellinata filosofica partendo proprio dal Candido di Voltaire e spaziando sul sesso, l’Irlanda e i rapporti tra arabi e israeliani. Ritiene che sia da ritrovare come icona del trash più eccesivo, sia per il cast (Salvatore Baccaro è un orco pazzo che tenta di violentare una morta) che per le scenografie. Il film nasce con il titolo in lavorazione de La vita è bella, persino Jacopetti non lo ama molto, per averlo girato in mezzo a rapporti non idilliaci con Prosperi e con la produzione. Morandini sceglie ancora la via del silenzio, mentre Farinotti equivoca sul senso perché parla di un adattamento del Candido di Voltaire alla moda dei Mondo cane. 

Il Dizionario del Poppi conclude l’analisi della figura di Jacopetti affermando che il suo cinema è da considerare una testimonianza di una certa realtà presente nel nostro secolo, magari distorta e mal presentata per eccessivo zelo e attaccamento a un’ideologia non condivisibile. L’Enciclopedia Garzanti del Cinema recita una pesante stroncatura, viziata da una contrapposizione ideologica di fondo: “Gualtiero Jacopetti (Barga, 1919) - regista italiano. Sceneggiatore di Europa di notte (1959), di A. Blasetti, esordisce con il successo internazionale di Mondo cane (1962): crudeltà di varia natura e inserti documentaristici su costumi esotici e religiosi di varie regioni del mondo vengono montati nel solco di una ostentata spettacolarizzazione e sul filo di un commento off di raro qualunquismo e ipocrisia. Coadiuvato da Franco Prosperi (suo collaboratore fisso) e da Paolo Cavara, replica su standard più ripugnanti (Mondo cane 2 - 1963) prima di affrontare con ottica reazionaria e fazioso cinismo (oltre al sospetto di una tendenziosa manipolazione del girato) la fine del colonialismo in Africa addio (1966). Il soggetto grottesco di ispirazione letteraria di Mondo candido (1975) ne conferma lo stile pretestuoso e delirante”. 

Per fortuna che in tempi recenti alcuni autori hanno tentato una rivalutazione del regista contribuendo a realizzare un’inquadratura storica del genere mondo movies. Tra tutti citiamo Franco Grattarola di Cine 70, ma anche la redazione di Nocturno Cinema rappresentata da Manlio Gomarasca e Davide Pulici. Roberto Curti e Tommaso La Selva, nel pregevole volume Sex and violence - percorsi nel cinema estremo, edito da Lindau, perfezionano una critica accurata e scevra da pregiudizi ideologici. Secondo i due critici il pubblico degli anni Settanta non fa distinzione tra esotismo ed erotismo, frequenta sia il documentario che la fiction, per questo motivo decreta il successo di reportage osé come Europa di notte di Blasetti. Il documentario esotico nasce come esigenza di confronto con l’esterno che indirettamente serve a raccontare un sistema di valori italiano in rapida mutazione, caratterizzato da aperture fintamente disinvolte al nord e rigidità ancestrali al sud. Il documentario si afferma anche in una manciata di film inchiesta caratterizzati da uno stile zavattiniano come l’opera collettiva Le italiane e l’amore (1962) e Comizi d’amore (1965) di Pier Paolo Pasolini, lavori impregnati di una passione civile che non ha niente in comune con i mondo movies alla maniera di Jacopetti. 

I titoli dei mondo movies presentano sempre parole chiave come sexy, nudo, notte, mondo e le pellicole seguono uno schema preordinato. Il racconto viene costruito come un mosaico che non ha niente di narrativo ma sfrutta la tensione dello spettatore per indirizzarla al frammento successivo. Il documentario erotico non si estingue per effetto dei mondo movies, ma i due generi per un certo periodo tentano di fondersi (Africa sexy e Mondo nudo) prima che il documentario sexy si estingua, ormai incapace di soddisfare le istanze di pseudo emancipazione sessuale del pubblico borghese cui si rivolge. Il documentario sexy finisce per presentare una ripetitiva serie di strip-tease che annoia lo spettatore e alla fine anche la misoginia tipica del filone è controproducente. 

La tesi abbastanza condivisibile di Curti e La Selva è che “Jacopetti spettacolarizza il film etnografico, enfatizzandone l’arbitrarietà e la tendenziosità, cogliendone la potenzialità della televisione come manipolatrice di verità, appropriandosi dei luoghi comuni più vieti (la Sacndinavia come culla del libero amore, l’equazione tra emancipazione femminile e disinibizione sessuale in La donna nel mondo) e rivoltandoli cinicamente contro i fruitori senza un briciolo della dolorosa sensibilità del Pasolini di Comizi d’amore, ma con una vis polemica debordante”. 


È molto importante analizzare il cinema di Jacopetti e Prosperi senza farsi condizionare da pregiudizi e cattive letture, soprattutto dalle accuse di razzismo e fascismo che si leggono un po’ ovunque. Jacopetti non è un netturbino cinematografico, ma - come lui stesso si definisce nel corso di un’intervista - è un voltairiano patito. Forse sono proprio l’illuminismo e l’enciclopedismo di Voltaire, Diderot e D’alambert la chiave di volta per comprendere il suo cinema. Mondo cane (1962) andrebbe visto come illusione illuministica, come ambizione di abbracciare la totalità delle conoscenze umane, catalogando gli episodi come tante voci enciclopediche. In parte può essere anche vero, ma non basta. Il documentario di Jacopetti non è mai del tutto oggettivo, ma il commento esterno cerca di far dire certe cose alle immagini. Jacopetti prosegue con lo stile sarcastico della Settimana Incom e nei suoi film usa la voce fuori campo per dare un senso prestabilito al montaggio. Franco Prosperi è il tecnico della coppia, il suo ruolo è quello di illustrare dal punto di vista visivo, di far vedere allo spettatore usi, costumi, immagini scioccanti. Gualtiero Jacopetti  cura commento e montaggio per svelare i segreti e dare un’impostazione ideologica al materiale girato. Tutto questo si chiama utilizzo a tesi del montaggio, più che documentario asettico. Un altro elemento fondamentale da tenere presente in questi mondo movies è la ricostruzione di alcuni avvenimenti a beneficio della macchina da presa, in modo tale che reale e fasullo si intersecano e si confondono. Lo spettatore non riesce a distinguere vero da falso, anche perché spesso la finzione jacopettiana è più credibile della realtà stessa. Jacopetti è voltairiano fino in fondo, perché è convinto che le sue opere devono servire a dare un contributo per risolvere i problemi del tempo. 


Curti e La Selva affermano che “l’impianto visivo crudele ed estremo del cinema di Jacopetti e Prosperi non è solo uno strumento al servizio di un sensazionalismo di cassetta, ma anche riflesso di una precisa esigenza estetica e ideologica - specie in Africa addio e nelle opere successive. Nelle opere di Jacopetti la carrellata sul nostro pianeta porta paradossalmente a un moralismo nostalgico che nasconde uno spirito antimoderno al servizio di un antiumanismo che si oppone frontalmente alla retorica e terzomondista dell’epoca”. Condividiamo in pieno. 

Il mondo movie modifica il suo atteggiamento con Paolo Cavara, ex collaboratore di Jacopetti che abbandona il gruppo per mettersi in proprio,  ma produce una brusca virata al genere in direzione della pura fiction. Cavara gira nel 1967 L’occhio selvaggio, un film che dimostra grande risentimento nei confronti di Jacopetti. Il protagonista della pellicola di Cavara è un regista interpretato da Philippe Leroy che non arretra davanti a niente pur di ultimare il proprio documentario-shock. Cavara critica Jacopetti al punto di riprendere in chiave grottesca l’episodio incriminato raccontato da Carlo Gregoretti su L’Espresso a proposito di Africa addio, con Leroy e l’operatore Gabriele Tinti che fanno spostare un vietcong condannato alla fucilazione davanti a un muro bianco perché la ripresa venga meglio. L’occhio selvaggio è scritto dal regista con Fabio Carpi con Ugo Pirro (Tonino Guerra e Alberto Moravia collaborano ala sceneggiatura), non è un mondo movie ma un film a soggetto, criticabile sin quanto si vuole, ma resta opera dignitosa e complessa che tiene in equilibrio poesia e autocritica. Cavara riflette sulla situazione contemporanea, analizza la crisi dell’occidente, critica la riduzione a mercanzia del genere umano e riflette sui meccanismi che scattano nella mente dello spettatore durante la visione. Si tratta di un’operazione metacinematografica, puro cinema sul cinema, che porta a riflettere in maniera profonda sulla manipolazione della realtà. Jacopetti si adegua al cambiamento dei tempi e gira Addio zio Tom (1971), pellicola che sconvolge i benpensanti per il commento dal contenuto razzista e per le immagini sconvolgenti. Jacopetti ricostruisce la storia della schiavitù ma non gira un documentario, piuttosto confeziona un pamphlet su una tesi precostituita. Mondo candido (1975) è il suo ultimo lavoro ed è un ritorno a Voltaire, sia per ispirazione che per condivisione e struttura dei temi. Jacopetti fa capire con il suo cinema che esiste una frattura insanabile tra verità e finzione: riprendere oggettivamente la realtà è impossibile, ma soltanto l’occhio selvaggio della macchina da presa riesce a ricrearla. La soluzione proposta e praticata per molti anni è stata quella di fabbricare prove per dimostrare la veridicità della realtà rappresentata, ma al tempo stesso ha decretato la soccombenza della realtà di fronte alla finzione
 
Il mondo movie subisce la sua degenerazione con prodotti come Ultime grida dalla Savana (1975) e Savana violenta (1981) di Antonio Climati e Mario Morra, ma anche con Addio ultimo uomo (1978) di Alfredo e Angelo Castiglioni.  I film di Climati e Morra sono vere e proprie fiction che si basano sulla spettacolarizzazione della violenza e sulla ripresa di alcuni rituali indigeni piuttosto raccapriccianti. Il commento fuori campo è scritto niente meno che da Alberto Moravia e vorrebbe dimostrare che Rousseau si sbagliava e che le leggi naturali si basano sulla sopraffazione.  


Addio ultimo uomo è un documentario etnologico che documenta riti ancestrali e usanze di alcune tribù dell’Africa centrale, come culti fallici, sacrifici animali e spellature di defunti. La violenza è molto esibita, notiamo evirazioni, amputazioni, immagini di guerra e operazioni chirurgiche. Il commento è scritto da Vittorio Buttafava. I fratelli Castiglione avevano girato in precedenza Magia nuda (1975), per documentare riti magici ancora esistenti nel nostro pianeta soprattutto in zone ancora primitive. Savana violenta viene distrutto dalla critica che lo definisce un contenitore di immagini pseudo documentaristiche tendenti al raccapricciante, al gratuitamente crudele e al sanguinario in genere. Curti e La Selva sostengono che tutta questa serie di film riversano sugli schermi una quantità torrenziale di immagini brutali. Tutto vero. Siamo in linea con la richiesta di elementi scioccanti già pretesa dai generi horror, poliziesco ed erotico. La violenza di queste pellicole è spesso fasulla e certe atrocità sono girate per l’occasione. Hanno fatto storia l’episodio del turista sbranato dal leone in Ultime grida dalla savana e il taglio del membro in Addio ultimo uomo, anche se i fratelli Castiglioni insistono sulla veridicità. 
 
 
L’esperienza dei mondo movies produrrà tutto il sottofilone dell’horror cannibalico, ma anche le pellicole della serie Emanuelle Nera giurate da Aristide Massaccesi. Lo schema vede Laura Gemser in giro per il pianeta a caccia di reportage sensazionali, ma soprattutto in Emanuelle in America (1976) si trova a contato con bestialità, orge, bordelli per sole donne e soprattutto un famigerato filmato snuff spacciato per vero al momento dell’uscita del film. Cannibal holocaust (1979) di Ruggero Deodato  tira le somme di un intero decennio, è un atto di accusa verso le finzioni giornalistiche e cinematografiche, ma deriva direttamente dal mondo movie come film cannibalico che eredita la propensione alle atrocità, inserite in un contesto narrativo. Il mondo movie si stempera nel nuovo genere cannibalico, pura fiction che conserva stralci delle vecchie sensazioni.  

Le ultime opere classificabili come mondo movie sono Dolce e selvaggio (1983) di Climati e Morra, Dimensione violenza (1984) del solo Morra, che certificano la morte del documentarismo cinematografico per cedere il passo a quello televisivo. Mondo cane oggi – L’orrore continua (1985) di Stelvio Massi e Mondo cane 2000 – L’incredibile (1988) di Gabriele Crisanti rappresentano il canto del cigno del genere, disastrose e indifendibili visioni di stranezze che non hanno niente del cinema jacopettiano.  Le riprese dei due film e il soggetto sono di Stelvio Massi, ma il regista di polizieschi non amava quel tipo di cinema, al punto di non voler firmare il secondo lavoro costruito con gli scarti del primo. 
 L'ultimo saggio su Jacopetti è il più completo ed esaustivo. Stefano Loparco ha fatto un ottimo lavoro di ricerca, esaustivo e ben documentato. la recensione estrapolata da NOCTURNO CINEMA lo conferma. Edizioni Il Foglio - ilfoglio@infol.it

sabato 22 marzo 2014

Il padrone del mondo (1982)

di Alberto Cavallone


Regia: Dirk Morrow (Alberto Cavallone). Soggetto: Nicolò Pomilia. Sceneggiatura: Alberto Cavallone, José Luis Martinez Molla. Fotografia: Sandro Mancori, Maurizio Dell’Orco, Gianfranco Maioletti. Montaggio: Alberto Cavallone, Stefano Pomilia (assistente). Costumi: Maria Pia Luzi. Musiche: Alberto Baldan Bembo. Cameramen: Aldo Marchiori, Giovanni Brescini, Giovanbattista Marras. Trucco: Rosario Prestopino. Effetti Speciali: Roberto Pace. Produzione: Falco Film srl (Roma) e Stefano Film. Produttore: Luciano Ceprani. Interpreti: Sven Kruger, Sacha D’Arc, Viviana M. Rispoli, Vittoria M. Garlanda, Aldo Sambrell, Serafino Profumo, Fabio Baciocchi, Paolo Bernacchioni, Tristano Iannetta, Adriano Chiaramida, Massimo Pompei, Adriana Giuffrè, Gianfranco Amoroso, Edoardo Terzo, Roberto Trinci, Pietro Angelo Pozzato, Nicola Di Gioia, Gina Giuri, Marina Medde, Gabriella Montemagno, Antonio Mea, Salvatore Bardaro, Massimo Bardaro, Michele Knewels, Renato Moriconi, Maurizio Faraoni, Palmiro Liotta, Sebastiano Tosto, Luciano Casamonica, Patrizia Salerno, Zaira Zoccheddu, Daniela Airoldi. 


Il padrone del mondo è stato girato da Cavallone con pochi mezzi, tra le Canarie e le campagne laziali, ispirandosi a La guerra del fuoco (1981) di Jean-Jacques Annaud, divagando intorno a una sua sceneggiatura originale scritta per un film di Umberto Lenzi: La guerra del ferro - Ironmaster (1982). La guerra del fuoco è il capostipite del sottogenere clava movie, racconta il viaggio di tre uomini preistorici in fuga da una tribù di antropofagi alla ricerca del fuoco, che sono capaci di conservare ma non di accendere. Il soggetto è ricavato dal romanzo di J. H. Rosny Aîné, sceneggiato da Gérard Brach, girato con perizia (e con mezzi ingenti) da Jean-Jacque Annaud, tra Kenia, Irlanda, Scozia e Canada.  Desmond Morris è consulente per i linguaggi gestuali e Anthony Burgess per i suoni gutturali. Un film che vince un Oscar per i trucchi e che si ricorda per molte scene di nudo di Rae Dawn Chong. Filologicamente corretto e ben girato. La guerra del ferro - Ironmaster (1983) è il primo clone italiano, girato da Umberto Lenzi, scritto e sceneggiato da Alberto Cavallone, Dardano Sacchetti, Luciano Martino e Gabriel Rossini. Un film trash, tutto sommato, soprattutto per i costumi, per gli improbabili interpreti (i costumi di Pamela Prati e George Eastman toccano livelli di ridicolo difficilmente eguagliabili) e per la scarsità di mezzi. Pamela Prati è più nuda e sexy di quanto lo fosse la Chong nel film originale. La guerra del ferro è una storia avventurosa di battaglie tra cavernicoli per un posto da capotribù che toccherà al più forte e soprattutto allo scopritore del ferro. Un clava movie ridicolo, come scrivono molti critici importanti. Non hanno tutti i torti se lo prendiamo sul serio. 


Il padrone del mondo come qualità di girato non è lontano dal film originale, cosa encomiabile perché i mezzi di cui Cavallone dispone sono davvero scarsi. Abbiamo visto la versione inglese Master of world, con sottotitoli in greco, perché non è facile reperire la traccia italiana, mai uscita sul mercato e non distribuita. In ogni caso si apprezza senza problemi perché non ci sono dialoghi ma soltanto musica suggestiva, suoni gutturali, rumori e fotografia coloratissima. Nella nostra copia non abbiamo trovato nei titoli di testa lo pseudonimo Dirk Morrow attribuito al regista, ma forse era soltanto nella versione italiana. Cavallone affronta la cultura tribale primitiva e vorrebbe descrivere il delicato passaggio culturale dai primi fonemi alla capacità di esprimersi. In breve la trama. Siamo agli albori della storia dell’umanità. Il regista ci presenta alcune tribù caratterizzate da diversi stadi evolutivi che si muovono in una scenografia composta da montagne, fiumi e radure, combattendo per sopravvivere e difendendosi da bestie feroci. Conosciamo un orso colossale, il nemico più infido tra tutte le belve incontrate, nemico dei nostri cavernicoli e in alcuni casi adorato come divinità. Cavallone tenta di non cadere negli stereotipi, ricostruisce ambienti e scenari secondo le più recenti scoperte antropologiche ed etnografiche. Il soggetto è poco originale, ma il regista pone l’accento sulla rivoluzione intellettuale, sull’articolazione del linguaggio, accompagna lo spettatore alla scoperta della nascita del vero uomo. Cinema puro composto di rumori, immagini, vento che fruscia, suoni gutturali,  fonemi dei primitivi, musica gelida e intensa. Cavallone racconta i comportamenti tribali di uomini primitivi che hanno scoperto il fuoco, si vestono con le pelli degli animali che uccidono e vagano per laghi e foreste. I primitivi di Cavallone lottano come selvaggi per conquistare il territorio e per possedere una donna che assicuri la riproduzione della specie. Interessanti e molto cavalloniane le sequenze in cui gli uomini divorano il cervello dei nemici per acquisire il loro coraggio e le loro capacità intellettive. Apprezziamo crani di primitivi fatti a imitazione degli uomini e teste fracassate con la materia cerebrale che fuoriesce per essere divorata. Parti da puro cinema horror, più gore che splatter, ma filologicamente corretto, secondo il regista. Molti inserti da mondo movie cercano di colmare le lacune di budget quando si tratta di inquadrare condor, aironi, scimmie, lupi e sparvieri. La colonna sonora di Alberto Baldan Bembo è intensa, gelida e suggestiva, contribuisce a creare momenti di suspense durante le fasi delle battaglie tribali. Cavallone ricostruisce il primitivo rapporto uomo - donna, ma sfuma sui rapporti sessuali e non riprende mai un nudo integrale, inoltre ricostruisce nel finale una singolare quanto credibile sequenza di parto. Le sequenze i lotta sono intrise di un realismo crudo anticonvenzionale, mentre l’ambientazione preistorica è ottima, nonostante lo scarso budget, e tutte le parti da action movie sono girate a ritmo sostenuto. La cosa migliore resta la lotta uomo - orso, con la ricostruzione di una credibile vittoria umana, senza far ricorso a inserti posticci o a trucchi di scena. Fotografia luminosa, tendente al rosso e al celeste, tramonti coloratissimi, zummate a iosa, persino inutili, ma era un problema dei tempi. cavallone gira con sapienza tecnica e si dimostra ottimo direttore di attori che istruisce a dovere. 


Il padrone del mondo è un film poco visto, persino poco cercato, perché di non grande importanza per capire la filosofia del regista. Di fatto non aggiunge niente sulla poetica cavalloniana ed è inutile per capire i film migliori di un regista problematico, surrealista ed estremo. In Italia è inedito, a parte una proiezione al San Panfilo, un cinema d’essai romano. Realizzato per salvare la Stefano Film (e la Falco), ma finì per inabissarsi nel naufragio economico dei produttori. Il crack economico si verificò durante la lavorazione del film alle Canarie, e la pellicola fu utilizzata per far nascere perdite sul bilancio, sanare utili e risolvere problemi di tasse. 
Paolo Mereghetti (una stella e mezzo) riconosce i debiti d’ispirazione con La guerra del fuoco, ma afferma che “non è girato tanto peggio” oltre a essere coerente perché “i personaggi si esprimono solo a grugniti”. Condivisibile l’affermazione finale secondo la quale “Cavallone non riesce a concretizzare le intenzioni presenti in sceneggiatura: raccontare la prima rivoluzione intellettuale, il passaggio alla parola”. In definitiva, secondo il critico milanese: “La vicenda prende una piega da monotono film d’avventura, con scampoli horror e meno sesso del previsto”. Se è il sesso che interessa, non ce n’è per niente, come non si tratta di un film d’avventura, ma di un preistorico che solo a tratti lascia intuire lo stile di Cavallone. Marco Giusti (Stracult): “Curioso preistorico con idee che vede protagonisti gli uomini delle caverne in un zona di transizione tra la parola e il mutismo. Grande scena con un orso vero, che in un primo tempo era stato costruito come un pupazzo da Rosario Prestopino, ma non ci si poteva stare dentro oltre i tre minuti. Il protagonista Sven Kruger è un ragazzo svedese figlio di un funzionario della Fao, mentre Sasha D’Arc è un ex pugile jugoslavo. Completamente ignorato in Italia, è andato bene all’estero”. Interpretazione autentica di Alberto Cavallone, intervistato da Nocturno Cinema: “È un film estremamente documentato: tutti i teschi ritrovati nelle grotte, vicino al Principato di Monaco, presentano buchi nella testa perché questa gente mangiava il cervello… che poi il nutrirsi di cervelli abbia portato l’uomo a essere sempre più intelligente, questo è tutto da discutere. Gli attori mi seguirono molto bene nel film, li ho preparati io personalmente in palestra per insegnarli come muoversi”. Per quel che mi riguarda, una piacevole sorpresa.