giovedì 30 gennaio 2014

Le foto proibite di una signora per bene (1970)

di Luciano Ercoli 



Regia: Luciano Ercoli. Soggetto e Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi, Mahnaén Velasco. Musica: Ennio Morricone. Fotografia: Alejandro Ulloa. Montaggio: Luciano Ercoli. Costumi: Gloria Cardi. Uscito in DVD USA (2006). Produzione: Italia/ Spagna. Produttori: Luciano Ercoli, José Frade, Alberto Pugliese. Case di Produzione: Produzioni Cinematografiche Mediterranee. Trebol Films C.C.. Genere: Thriller erotico. Durata: 93’. Colore. Interpreti: Dagmar Lassander (Minou), Nieves Navarro (Susan Scott) (Dominique), Pier Paolo Capponi (Pierre), Simon Andreu, Osvaldo Genazzani, Salvador Huguet.


Le foto proibite di una signora per bene è un thriller erotico ricco di elementi onirici e psichedelici, sceneggiato alla perfezione da Ernesto Gastaldi, girato con mano solida da Luciano Ercoli (anche montatore e produttore) e accompagnato dalla suggestiva colonna sonora di Ennio Morricone. La storia è basata su un insolito triangolo che compone la lista dei sospettati, ma regista e autori sono capaci di tenere alta la tensione narrativa fino all’ultima sequenza. Lo spettatore viene catapultato in un giallo hitchcockiano nel quale il colpevole potrebbe essere sia una moglie resa folle dalla depressione che vede ombre inesistenti, l’amica gelosa mangiatrice di uomini e persino un marito assassino a caccia di risarcimenti assicurativi. Un film moderno, invecchiato benissimo, che si guarda con piacere e che sarebbe interessante girare di nuovo con strumenti narrativi più espliciti, arricchendo la parte erotica. 

 
Dagmar Lassander è una stupenda moglie frustrata, irretita da un affascinante persecutore con cui instaura un rapporto sadomasochista, approfondito dalla scrittura filmica. Nieves Navarro è un’amica disinibita, spesso seminuda, donna moderna che anticipa i tempi della rivoluzione femminista. Pier Paolo Capponi è diligente in una parte ingrata da marito in crisi economica e affettiva. Non rivelo il finale perché il giallo è talmente ben fatto e il meccanismo della suspense è così ben strutturato che rovinerei il piacere della visione a chi decidesse di compare il dvd uscito negli Stati Uniti nel 2006, oppure di acquistare il film in rete. 


Un giallo erotico come non se ne fanno più, con il marchio italiano ben impresso nelle sequenze oniriche, negli intensi flashback morbosi e in numerose parti a rischio censura. Un film dal tono cupo, angosciante, a tratti perverso, persino claustrofobico, assolutamente da recuperare. L’introspezione psicologica è approfondita, soprattutto Dagmar Lassander fornisce un’interpretazione credibile di una donna controversa, affascinata dal suo stolker ma ancora innamorata del marito. Brava anche Nieves Navarro, stupenda in numerose sequenze hot e del tutto a suo agio in una parte non facile, visto il periodo oscurantista. Ercoli usa molto lo zoom e inserisce alcune sequenze psichedeliche, ma sono mode dei tempi che - se storicizzate - si possono perdonare. La colonna sonora suadente di un Ennio Morricone ancora non troppo famoso fa il resto e prende per mano lo spettatore e lo fa precipitare in un crescendo di perversione e orrore. Cercatelo. Ne vale la pena.



Luciano Ercoli (Roma, 1929) è al primo film da regista, ma l’esperienza non gli manca perché frequenta il mondo del cinema dai primi anni Cinquanta come assistente e aiuto, successivamente produttore di western e film di buon successo popolare. Nieves Navarro è sua moglie ed è stato lui a lanciarla nel cinema italiano, mentre lo pseudonimo di Susan Scott è un'invenzione di Fernando di Leo. Usa molto lo zoom e inserisce alcune sequenze psichedeliche, ma sono mode dei tempi che - se storicizzate - si possono perdonare. La giovane critica considera molto Ercoli, autore di alcune opere giudicate “interessanti” da Roberto Poppi come La morte cammina con i tacchi alti (1971) e Troppo rischio per un uomo solo (1973). 

Marco Giusti intervista Nieves Navarro e Luciano Ercoli (Stracult, 2010):
http://www.youtube.com/watch?v=7WtLzu-oTqI

martedì 28 gennaio 2014

Per conoscere Elo Pannacciò

Elo (Angelo) Pannacciò (Foligno, 1923 - Viterbo, 2001) è un singolare personaggio del cinema italiano che nasce come soggettista e sceneggiatore di Luigi Petrini, debutta alla regia con Lo ammazzò come un cane… ma lui rideva ancora (1971). Tra i suoi film commerciali, tirati via e abbastanza modesti, spiccano due horror come Il sesso della strega (1973), assurdo e strampalato, ma ricco di riferimenti gotici, e Un urlo dalle tenebre (1975). Pannacciò si specializza in erotico, hard, girando anche giovanilistici - balneari. Si firma Angel Valery, Angelo Pann, Angelo Alessandro Pann, Gerald B. Lennox, John Johnatan e spesso risulta anche montatore dei suoi film.


Il sesso della strega (1973)
Regia: Elo Pannacciò. Soggetto e Sceneggiatura: Elo Pannacciò, Franco Brocani. Fotografia: Girolamo La Rosa, Maurizio Centini. Montaggio: Marcello Malvestito. Scenografia: Egidio Spugnini. Aiuto Regista: Salvatore Sicurezza. Direttore di Produzione: Rolando Conti. Musica: Daniele Patucchi. Produzione: Universalia Cinematografica. Distribuzione: P.A.B.. Interpreti: Susan Levi (Mary), Jessica Dublin (Evelin), Sergio Ferrero (Ingrid uomo), Annamaria Tornello (Ingrid donna), Christopher Oakes (Tony), Marzia Damon (Gloria), Augusto Nobile (Edward), Lorenza Guerrieri (Lucy), Camille Keaton (Ann), Maurizio Tanfani (Nath), Ganni Dei (Simon), Simone Santo (Hilton), Ferruccio Viotti (notaio), Irio Fantini (assistente ispettore), Donald O’ Brien (commissario), Giovanni Petti. 


Il sesso della strega (1973) è scritto dal regista con la collaborazione di Franco Brocani. Muore il ricco Hilton e tutti i parenti vengono convocati al suo capezzale da un ingessato notaio che deve leggere il testamento. Parte il meccanismo alla Dieci piccoli indiani di Agata Christie, sfruttato sino all’inverosimile nel cinema italiano di serie B e nel fumetto nero di quart’ordine.  Pannacciò dimostra la sua grande capacità nel fare peggio rispetto alla media nazionale perché imbastisce un film giallo - erotico - horror pieno di buchi di sceneggiatura che non soddisfa nessuno.   La parte poliziesca è ridicola, con un commissario da fumetto impersonato da Donald O’ Brian che irrompe sulla scena in impermeabile, sputa sentenze, si esprime come se fosse Ginko in un episodio di Diablik, e si fa accompagnare da un comico ispettore. La parte horror vede appena un paio di sequenze splatter ma il sangue è troppo rosso per essere vero e la tensione è ai minimi termini. La parte erotica è la peggiore perché il film sembra un porno tagliato, il regista non è capace di sfruttare neppure la sensualità di Camille Keaton e di Lorenza Guerrieri, anche se il finale vede la macchina da presa immortalare il sesso della presunta strega. Una sola sequenza è abbastanza estrema: la fellatio e il rapporto sessuale in chiesa accanto alla tomba del ricco deceduto. Gli eredi vengono uccisi uno dopo l’altro nella villa di famiglia, pare che dietro la strage ci sia lo zampino di una figlia dai poteri stregoneschi (Dublin), ma il finale è molto confuso e lo spettatore non si raccapezza vedendo un killer che si trasforma da uomo a donna mentre muore. 
 

La strega faceva agire il sottoposto sotto l’influenza delle arti magiche, ma è inutile spiegare, perché il doppio finale è ancora più spiazzante. Un film caratterizzato da montaggio lento, fotografia sfocata, recitazione approssimativa, sceneggiatura  strampalata, musica fastidiosa. Un fumetto nero anni Settanta, ma dei peggiori, paragonabile a una pessima imitazione di Satanik. Ricordiamo anche un inutile inserto psichedelico con lunghe sequenze che ricordano il periodo dei figli dei fiori. Gli attori sono da fotoromanzo - Gianni Dei è il peggiore - ma sono anche doppiati male, del tutto fuori sintonia. I dialoghi rasentano il ridicolo, ma non sono da meno le lunghe passeggiate e tante tremule soggettive. Inguardabile. Pannacciò è così. Un mito del trash, che si ricerca per il gusto del così brutto che non può non incuriosire. Il film presenta alcune scene a base di zoomate incredibili e personaggi sopra le righe che producono umorismo involontario. La pellicola è una via di mezzo tra un improbabile horror che racconta una storia di streghe e un film erotico di pessimo gusto. Per Mereghetti si tratta di “un giallo gotico da antologia del brutto, irrecuperabile anche per i cultori del genere, dotato di un intreccio sconclusionato e di parentesi erotiche tediose”. Nocturno: “Un film che raggiunge vette di squallore estetico difficilmente eguagliabili”. Marco Giusti: “Brutto, invedibile, di una noia abissale, proprio per questo imperdibile”. Da dimenticare.



Un urlo dalle tenebre (1975)

Un urlo dalle tenebre (1975) pare che sia stato solo attribuito a Elo Pannacciò, ma che lo abbia diretto Franco Lo Cascio (in arte Luca Damiano), come ha affermato lo stesso regista a Nocturno Cinema. Il soggetto è firmato dal direttore della fotografia Giulio Albonico e la sceneggiatura da Aldo Crudo e Franco Brocani, collaboratori abituali di Pannacciò. Non è facile dirimere la questione, pare evidente il poco amore di Lo Cascio per il genere horror, visto che il film è modesto e mal girato. Sembra che Pannacciò sia subentrato per finire il film, aggiungendo alcune scene ambientate nel manicomio, quindi è giusto attribuirlo a entrambi. Si tratta di un modesto horror esorcistico spinto sul versate del sesso come tradizione italiana, ma il lato originale sta nel fatto che l’indemoniato è un ragazzo. Il regista procede per flashback per una buona mezz’ora facendo quasi perdere il filo degli eventi allo spettatore. Assistiamo a un’assurda finta omelia del Papa in San Pietro che mette in primo piano la presenza del demonio, quindi la scena passa su una suora in confessionale che racconta la possessione del fratello. 


Il medico vorrebbe internare in manicomio il ragazzo, sospettato di isteria, ma la sorella è contraria perché sa come vivono i degenti di certe strutture. Pannacciò inserisce sequenze girate all’interno di un manicomio che presentano una fotografia completamente diversa dal resto del film. Sembra di assistere a spezzoni tratti da un mondo movie, vista la dose di realismo delle immagini. La fiction prosegue con la storia del giovane diventato indemoniato a causa di un medaglione trovato in un fiume e dopo un rapporto con una donna fantasma. Il ragazzo posseduto uccide prima la fidanzata squarciandole il collo e subito dopo la madre facendola cadere dalle scale. Inevitabile l’esorcismo finale a cura di Richard Conte, ma il demonio si impadronisce della sorella che per eliminarlo si suicida. Un ragazzino recupera il medaglione e la storia pare non avere fine. Il film è di pura imitazione, ma è così mal girato che non crediamo abbia fatto nessuna paura alle grandi case produttrici statunitensi. Gli effetti speciali sono risibili, il trucco del ragazzo indemoniato più che patetico, le parolacce fanno sorridere e persino i getti di vomito sono privi di forza. Il film è zeppo di inserti e circola una versione porno girata per il mercato estero. 
 
 
Il cast vede addirittura Richard Conte nei panni dell’esorcista, ma ci sono anche Françoise Prévost, Elena Svevo, Patrizia Gori, Mimmo Monticelli, Corrado Vernè, Sonia Viviani e lo stesso Franco Lo Cascio in un breve cammeo. Secondo Lo Cascio è Patrizia Gori il solo bel ricordo del film, visto che per lei lasciò moglie e figli e si fece sedurre dal più grande amore della sua vita. Peccato per Richard Conte che interpreta l’ultimo film della sua carriera con una storia incredibilmente brutta. Un urlo dalle tenebre si aggiudica la palma del peggior clone de L’esorcista girato in Italia, eccessivo nelle parti erotiche e volgarissimo nelle battute pronunciate dall’indemoniato. 
 
La residua produzione di Pannacciò

La residua produzione di Elo Pannacciò non merita grande attenzione. Parlano i titoli, che preleviamo da I Registi (Gremese) di Roberto Poppi: Subliminal (Una splendida giornata per morire) - Holocaust parte seconda (1978), firmato John Johnatan; Comincerà tutto un mattino: io donna tu donna (1978); Un brivido di piacere (1978); Porno erotico western (1979), firmato Gerald B. Lennox; Sì… lo voglio (1979), firmato Angel Valery; Luce rossa (1979), sempre Valery.  
 
Peccati di giovani mogli (1981), come Angel Valery; Erotico 2000 (1981), ancora Valery; Un’età da sballo (1982); Stesso mare stessa spiaggia (1983), firmato Angelo Alessandro Pann; Fantasia erotica in concerto (1983), come Angel Valery; Mare amore - Frammenti di storie d’amore (1985), come Angelo Pann; Le regine (1986); Femminile desiderio (1986). Pannacciò risulta anche il produttore esecutivo di Sei una carogna… e t’ammazzo! (1971) di M. Esteba. 

 
Inoltre ha sceneggiato: Divisione Folgore (1954) di Dino Coletti, La ragazza dalle mani di corallo (1969) di Luigi Petrini (soggettista); Così così… più forte (1970) di Luigi Petrini (soggettista e produttore). 

Per vedere qualche immagine: http://www.youtube.com/watch?v=Lol9PNc651c
Gordiano Lupi

lunedì 27 gennaio 2014

Il soldato di ventura (1976)

di Pasquale Festa Campanile
 
Regia: Pasquale Festa Campanile. Soggetto: Castellano e Pipolo. Sceneggiatura: Franco Verucci, Castellano e Pipolo, Pasquale Festa Campanile. Fotografia: Marcello Masciocchi. Montaggio: Mario Morra. Effetti Speciali: Armando Grilli, Giovanni Corridori. Trucco: Luciano Giustini. Musiche: Guido e Maurizio De Angelis. Tema Musicale: Oh Ettore, musica di Guido e Maurizio De Angelis, parole di O. Resti. Produttore: Camillo Teti. Durata: 102’. Case di Produzione (Italia/Francia): Mondial Television Film (Mondial Te. fi.), Cité Films - Les Films J. Leitienne, Labrador Films, Imp. Ex. Ci. Distribuzione: Titanus. Interpreti: Bud Spencer, Franco Agostini, Enzo Cannavale, Frédéric de Pasquale, Jacques Dufilho, Andréa Ferréol, Jacques Herlin, Angelo Infanti, Philippe Leroy, Oreste Lionello, Antonio Orlando, Eros Pagni, Renzo Palmer, Gino Pernice, Mario Pilar, Marc Porel, Mariano Rigillo, Mario Scaccia, Riccardo Pizzuti, Giovani Cianfriglia, Claudio Ruffini, Giancarlo Bastianoni, Vincenzo Maggio, Roberto Dell’Acqua, Osiride Pevarello, Anna Ria De Simone, Monica Strebel, Roberto Antonelli, Roy Bosier, Nicolas Barthe, Loretta Persichetti, Guglielmo Spoletini. 
 
Il soldato di ventura (1976) è un film insolito per Pasquale Festa Campanile, che fino a quel momento aveva girato commedie erotiche alte (La matriarca, Dove vai tutta nuda, Il merlo maschio, La sculacciata…), ma si pone come diretta conseguenza del miglior decamerotico (Ius primae noctis, La calandra…)  e di film storici con impostazione comica (La cintura di castità, Rugantino…), prima di sconvolgere il pubblico con un gelido rape & revenge (Autostop rosso sangue). L’Armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli è il precedente comico da tenere in considerazione per comprendere fino in fondo questa pellicola interpretata da Bud Spencer (Carlo Pedersoli), protagonista assoluto, ben supportato da ottimi attori francesi come Philippe Leroy, Andréa Ferréol, Jacques Herlin e Jacques Dufilho.


La maschera comica di Enzo Cannavale, nei panni di un pavido soldato napoletano è molto interessante, ma anche il frate sopra le righe impersonato da Renzo Palmer non è da meno. La pellicola è una sorta di parodia della disfida di Barletta del 1503, contiene molti rimandi storici e tanti nomi di capitani di ventura realmente esistiti, ma il buffo Ettore Fieramosca interpretato dal corpulento Bud Spencer non ha certo pretese di veridicità. L’ambientazione nel 1503 è a dir poco perfetta, come in ogni film di Pasquale Festa Campanile non mancano i mezzi, scenografici e a livello di comparse. Il tono è comico - grottesco, la comicità slapstick - da cartone animato -, costruita su misura per le gag fisiche di Bud Spencer da esperti sceneggiatori come Castellano, Pipolo, Verucci e lo stesso regista. Il montaggio serrato è niente meno che di Mario Morra, nome jacopettiano, importante nella storia del mondo movie. Ettore Fieramosca è un capitano di ventura che comanda cinque soldati, si trova nell’Italia meridionale, coinvolto nella guerra tra Spagna e Francia, passa dal soldo dei francesi alla difesa di Barletta al fianco degli spagnoli quando un soldato italiano viene umiliato da Charles La Motte (un diligente Leroy). Il film narra le gesta eroiche dei soldati di ventura durante la difesa di Barletta e si conclude con la comica disfida in riva al mare tra italiani e francesi, un episodio storico narrato con leggerezza. Lo scontro finale viene girato su una spiaggia della Tunisia, ritenuta più idonea a ricostruire con verosimiglianza l’episodio storico.
 

Il soldato di ventura è una coproduzione italo - francese, che sfrutta con intelligenza la presenza di molti attori che piacciono al grande pubblico - da Bud Spencer a Jacques Dufilho -, girato con maestria, fotografato con cura, immortalando il lungomare pugliese (la spiaggia del Gargano). Alcune sequenze sono state girate a Tarquinia nella chiesa di Santa Maria in Castello, presso il torrione di Matilde di Canossa e a Lucera, nella fortezza svevo - angioina, trasformata in Barletta. Si ricorda con piacere il tema musicale Oh Ettore, scritto da Resti, musicato da Guido e Maurizio De Angelis, freschi del successo di Altrimenti ci arrabbiamo (1974) di Marcello Fondato, con la colonna sonora (Dune buggy) uscita con il nome di Oliver Onions. Bud Spencer affina il personaggio tipico da corpulento Braccio di Ferro in un ruolo dotato di maggiore spessore comico e di una certa caratterizzazione psicologica. Il soldato di ventura ha riscosso un buon successo di pubblico ed è stato esportato, oltre che in Francia, anche in Finlandia, Ungheria, Germania Ovest, Colombia, Svezia, Spagna, Filippine, Paesi Bassi, Grecia, Portogallo e Slovenia. Un cult per la televisione, soprattutto nel periodo natalizio, perché il tono comico - grottesco mette d’accordo grandi e piccini. 
 
Parte della critica non apprezza la leggerezza. Paolo Mereghetti (una stella e mezza): “Semiparodia della disfida di Barletta. Avventure picaresche alla buona, un pelo più smaliziate che nella media dei film con Bud Spencer”. Molto meglio Morando Morandini (due stelle e mezzo): “Quasi tutti colori del comico in un film ricco d’invenzioni”. Pino Farinotti assegna tre stelle e si concentra sul tono dissacrante e grottesco che distrugge un mito del nazionalismo. Il soldato di ventura non è pellicola di grandi ambizioni, ma è un film comico riuscito, senza tempi morti, intriso di comicità semplice e genuina. 


Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

sabato 25 gennaio 2014

La strada (1954)


di Federico Fellini
 

I primi film di Fellini sono atipici per il periodo storico. Fellini è un ideologo del movimento neorealista, autore di molti soggetti, sceneggiature dialettali (Campo de’ fiori) e grande collaboratore di Rossellini, ma come regista evade dal solco neorealista. La sua cifra stilistica tiene conto del realismo, ma lo modifica con gli strumenti del fantastico, della fiaba, del ricordo che si fa rimpianto e bozzetto nostalgico. In questo senso è importante La strada (1954), una favola commovente girata sullo sfondo delle periferie romane, sul lungomare di Ostia, ma pure in mezzo alla neve dell’Appennino. Giulietta Masina è la dolce e ingenua Gelsomina, una ragazza venduta dalla madre all’attore girovago Zampanò (Anthony Quinn). Il rapporto tra la donna e il rozzo datore di lavoro comincia in modo rude, ma poi si modifica in una sorta di affetto a senso unico. Gelsomina sembra un’ingenua donna innamorata che tenta di cambiare Zampanò, indossa una buffa maschera da clown e sfoggia espressioni che ricordano la mimica di Charlie Chaplin e di Stan Laurel. Zampanò non può cambiare, la sua indole è quella del violento uomo di strada che si ubriaca e frequenta prostitute. 
 

Gelsomina conosce un bislacco equilibrista che si fa chiamare Il Matto (Richard Basehart) e in poche scene il regista sottolinea il contrasto tra follia e ingenuità. Gli occhi spauriti di Gelsomina incontrano lo sguardo furbo e divertito del Matto, che prende in giro tutti, anche se il bersaglio preferito resta Zampanò. Fellini inserisce una parentesi sul mondo del circo, presentando un gruppo di girovaghi che si esibisce sotto uno scalcinato tendone. Un bel ricordo del circo d’una volta è rappresentato dal numero con la tromba, provato da Gelsomina in compagnia del Matto. I protagonisti della storia sono dei simboli: Gelsomina (il sentimento e l’ingenua dolcezza), Zampanò (la forza bruta, la violenza, la bestialità) e Il Matto (la follia che diventa saggezza). Zampanò intrattiene il pubblico con il numero delle catene aperte con la forza dei muscoli pettorali e con la gag dell’ignorante che pronuncia ciufile invece di fucile
 

Gelsomina è una mite assistente innamorata, ma il rozzo padrone la trattata come un animale, frustandola quando non pronuncia bene il suo nome, intimando ordini secchi e perentori. Il Matto è un equilibrista da circo che si esibisce a quaranta metri di altezza, parla con un buffo accento toscano, prende in giro Zampanò, ma è gentile con Gelsomina. La fantasia di Gelsomina incontra la follia del Matto, che la spinge a non lasciare Zampanò, perché sotto la sua rude scorza potrebbe battere un cuore capace di sentimenti. “Forse ti vuol bene. E poi se non ci stai tu con lui chi ci sta? Tutto quello che c’è a questo mondo serve a qualcosa…”, dice Il Matto. Gelsomina si convince che Zampanò potrebbe volerle un po’ di bene, anche se pare incapace di provare sentimenti, o forse non li sa esprimere. La tragedia si compie quando Zampanò ritrova Il Matto, lo colpisce con un violento pugno e lo uccide facendogli battere la testa nello spigolo dell’auto. Zampanò si libera del corpo e mette in scena un finto incidente. 
 

Gelsomina impazzisce: la sua ingenuità non resiste davanti alla cruda realtà e comincia a balbettare che “Il Matto sta male”. Gelsomina non mangia, non riesce a lavorare, piange e si lascia deperire. Zampanò cerca di scusarsi: “Non volevo ammazzarlo”. Gelsomina è in preda alla follia: “Voi l’avete ammazzato. Io volevo scappare. Me l’ha detto lui di restare con voi”. Zampanò fugge durante la notte, abbandonando la ragazza al suo destino con un po’ di soldi in tasca, sotto una montagna, ma vicino a un piccolo paese. Passano gli anni, Zampanò entra a far parte di un circo, un giorno si ferma proprio nel paese dove abbandonò la sua assistente e viene a sapere che Gelsomina è morta. Il finale è drammatico e commovente, ma soprattutto intriso di una stupenda poesia che rappresenta la cifra stilistica di Fellini. La bestia scoppia a piangere in riva al mare e comprende di aver perso la sola persona importante della sua vita. La macchina da presa inquadra un volto rigato di pianto e le mani che si spingono sulla spiaggia a stringere granelli di sabbia che scivolano tra le dita.   


Anthony Quinn presta un volto truce per la caratterizzazione del forzuto Zampanò, mentre Giulietta Masina è l’attrice simbolo di Fellini per questo tipo di interpretazioni. Nino Rota compone una strabiliante colonna sonora, forse la migliore della sua carriera, per caratterizzare una pellicola dolce e commovente. Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano collaborano alla sceneggiatura, ma il soggetto è del regista che descrive il suo mondo interiore intriso di sentimento. Fellini realizza un’opera poetica che vince l’Oscar come miglior film straniero e il Leone d’Argento a Venezia.  
 

Molti critici affermano che La strada sarebbe un film sopravvalutato, perché caratterizzato da una poetica miserabilista e patetica che suona un po’ facile (Mereghetti). Non possiamo concordare, perché la storia è originale e commovente, interpretata da attori ben calati nei personaggi e simbolica al punto giusto. La strada è uno dei film più teneri e poetici di Fellini, che immortala la storia di due artisti girovaghi in viaggio attraverso la povera Italia degli anni Cinquanta. Il regista pone l’accento sul rapporto psicologico che lega i personaggi, soprattutto sul legame di riconoscenza e sottomissione tra Gelsomina e Zampanò. Un film come La strada è una svolta radicale nei confronti del neorealismo e definisce i tratti essenziali della poetica di Fellini. Il regista cita questa pellicola come uno dei suoi film più autobiografici, ma non è dato sapere quanto sia vero, vista la sua fama di simpatico bugiardo. Il regista in alcune interviste sostiene che Zampanò sarebbe “un uomo conosciuto al circo quando avevo quindici anni”, in altre “un castraporci che calava ogni tanto su Gambettola, dove aveva casa mia nonna Franceschina e dove io passavo le vacanze, una specie di uomo nero con una parannanza piena di sangue che terrorizzava le donne e di cui le bestie per alcuni giorni presentivano l’arrivo lanciando grida altissime”. Non basta. Altre interviste parlano di un uomo incontrato dalle parti di Viterbo, mentre Giulietta Masina ha sostenuto che la storia è nata intorno alle suggestioni suggerite al marito dalla sua maschera da clown. 


 Tratto dal mio libro FEDERICO FELLINI (Mediane) 

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

venerdì 17 gennaio 2014

Ultracorpo – Boy Snatcher (2011)


di Michele Pastrello



Regia, Sceneggiatura, Produzione: Michele Pastrello. Soggetto: Michele Pastrello, liberamente ispirato a un racconto di Gordiano Lupi (Il frocio). Fotografia: Mirco Sgarzi. Musica: Hosana di Tristeria. Suono: Daniele Serio. Computer Graphic: Alberto Vazzola. Aiuto Regista: Fabio Martignago. Interpreti: Diego Pagotto, Felice C. Ferrara, Elisa Straforini, Dimitri Da Dalt, Guido Laurjni. 


Il film comincia con una citazione da Invasion the Body Snatcher. “Ma i nostri corpi che fine faranno Miles?”. “Non lo so, forse quando il processo è completato, l’originale verrà distrutto, disintegrato”. E poi Sofocle: “Chi ha paura non fa che sentir rumori”. Non troviamo molto horror in questo lavoro di Pastrello, se non in alcune parti oniriche, così come apprezziamo la citazione del cinema fantastico quando la televisione trasmette L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, ma anche del vecchio Dario Argento in un concitato finale tenebroso. Sarei la persona meno indicata per recensire il film, visto che la storia parte da un mio vecchio e sfortunato racconto (Il frocio, 2003), così inviso alla critica - soprattutto omosessuale - da convincermi quasi a ripudiarlo. E invece non era male, almeno sullo schermo, reinterpretato dal bravo Pastrello, che pare abbia subito identica crocifissione mediatica dagli ambienti gay che l’hanno messo al bando, tacciandolo di omofobia. 


Il film è molto psicologico, gioca tutte le sue carte sulla costruzione del carattere di un protagonista maniaco del sesso, dedito ad amori a pagamento e masturbazione. Umberto è attratto sessualmente anche dagli uomini, sarà un omosessuale ad accorgersene, intuendo nei suoi occhi un segnale di via libera.  La scusa per l’approccio del gay è la riparazione di un lavandino nella sua casa di periferia, un incontro imprevisto che scatenerà gli impulsi repressi dell’uomo. Finale macabro, da splatter metropolitano, coraggioso e violento, che fa propendere per una connotazione horror del lavoro di Pastrello. Il frocio è per Umberto un extraterrestre, un ultracorpo, un’entità aliena racchiusa in un singolare baccellone, dalla quale teme persino il contagio, anche se finisce per essere attratto sessualmente. Il finale violento rappresenta il rifiuto dell’uomo normale di accettare la diversità. Meraviglia che questo corto sia stato messo al bando dagli ambienti gay, perché se è vero che la figura dell’omosessuale è fin troppo languida, è anche vero che il personaggio negativo della storia è Umberto. Le intenzioni del regista - come nel racconto messo all’indice - sono l’esatto contrario di quel che certa critica ha voluto leggere. Pastrello realizza un’opera in difesa del mondo gay, contro l’omofobia, un film che è un invito ad accettare la diversità, senza farsi vincere dai pregiudizi. 



Il film è ben girato, ottima la fotografia luminosa della campagna veneta, così come è ben ricostruito il cupo e angoscioso ambiente urbano degradato. Bravi gli attori, in due ruoli non facili, così come sono ben realizzate le scene di rapporto sessuale prostituta - cliente e le sequenze di approccio gay. Perfetto il finale horror, con il gay che sembra Anthony Franciosa quando compare alle spalle di Giuliano Gemma, in un’evidente citazione del maestro Argento. Altri critici hanno intravisto echi di Linch e Friedkin, ma anche Argento di Profondo rosso e non solo Thrauma. La cosa più importante è che non ci sono stereotipi gay che potrebbero essere fastidiosi. Basterebbe la sequenza onirica vissuta da Umberto per promuovere il film, il sogno angosciante nel quale vede il gay come un alieno che lo concupisce, estrae una lunga lingua e penetra il suo corpo.  


 
Ultracorpo è cinema fantastico - minimalista intriso di connotazioni sociali, ma anche un noir metropolitano, cupo e claustrofobico. Recuperatelo su youtube, se non l’avete visto.

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi 

lunedì 13 gennaio 2014

Che? (1972)


di Roman Polanski


Titolo internazionale: What?. Regia: Roman Polanski. Soggetto e Sceneggiatura. Roman Polanski e Gerard Bruch. Fotografia: Marcello Gatti, Giuseppe Ruzzolini (Technicolor). Montaggio: Roberto Silvi. Girato: TODD AO 35. Scene e Ambientazione: Aurelio Grugnola. Arredamenti: Franco Fumagalli. Costumi: Adriana Berselli. Direttore di Produzione: Mara Blasetti. Produttore Esecutivo: Andrew Braunsberg. Produzione: Carlo Ponti. Interni: Villa Carlo Ponti Costiera Amalfitana, Cinecittà spa. Aiuto Regista: Tony Brandt. Operatore alla Macchina. Otello Spila. Musiche: Quartetto per archi “La morte e la fanciulla” di F.Schubert, Sonata a 4 mani KV497 di W. A. Mozart, Sonata “Al chiaro di luna” si L. Van Beethoven, eseguite da Claudio Gizzi. Doppiaggio: Cooperativa Italiana Doppiatori, diretta da Riccardo Cucciolla. Paesi Produzione: Italia (Comapgnia Cinematografica Champion spa), Francia (Les Films Concordia), Germania (Dieter Geissler Produktion). 

 
Interpreti: Marcello Mastroianni, Sydne Rome, Romolo Valli, Hugh Griffith, Guido Alberti, Carlo Delle Piane, Giancarlo Piacentini, Mario Bussolino, Henning Schlueter, Christiane Barry, Pietro Tordi, Nerina Montagnani, Mogen Von Gadon, Dieter Hallerverden, Elisabeth Witte, Franco Pesce, Livio Galassi, Alvaro Vitali, Luigi Bonos, Carla Mancini.


Che? È un film originale sotto ogni punto di vista. Una commedia grottesca liberamente ispirata ad Alice nel paese delle meraviglie, versione per adulti, rivista e corretta in chiave erotico - perversa. Non sono originale. È stato detto e scritto da tutta la critica italiana. Nancy (Rome) è una turista statunitense in vacanza sulla costiera amalfitana che sfugge a un tentativo di stupro da parte di quattro malintenzionati (c’è anche Delle Piane) che le avevano dato un passaggio. Raggiunge una villa (proprietà di Carlo Ponti) a picco sul mare, dove incontra una serie di tipi assurdi che vivono tra quelle mura in attesa della morte del ricco padrone. 


Tra i personaggi più eccentrici: un pappone allupato (Mastroianni), un amministratore sessuofobo che ricorda il suo amore per il piano (Valli), due giovanotti che la invitano a pranzo (c’è anche Polanski), un prete che fa il bagno in mare, un assurdo imbianchini che le dipinge una coscia di azzurro (Vitali), un padrone in fin di vita con la passione per le donne e per i quadri (Griffith). La ragazza, ingenua e incapace di rendersi conto di ciò che le accade, vaga seminuda per casa con un diario dove annota gli eventi, diventando preda di assurdi approcci erotici. Il tono della commedia è grottesco, a tratti surreale, molto vicino al teatro di Beckett e Ionesco, e procede per simboli. Il sesso è il primo tabù che Nancy - Alice deve sfatare nella sua discesa in questo infernale paese delle meraviglie.  

 
Sydne Rome è al primo film importante, diretta da un regista come Polanski e mostra tutta la sua bravura oltre a una bellezza da ventunenne. Si tratta del lancio internazionale in una produzione targata Carlo Ponti, al settimo film, visto che recitava dal 1969 e che a meno di diciotto anni aveva debuttato in Alcune ragazze lo fanno (1969) di Ralph Tomas. Protagonista assoluta di ogni scena, se la cava con autorità, doppiandosi da sola con accento americano, nuda ma mai maliziosa, un’espressione di eterna meraviglia disegnata sul volto.  Non è da meno un grande Marcello Mastroianni che interpreta un assurdo pappone, presunto sifilitico e omosessuale, praticante masochista e molto attratto dalla ragazza. 

 
Romolo Valli regala una partecipazione speciale molto interessante, pure lui beccato con le mani nella marmellata (eufemismo) mentre la ragazza dorme. Tutti gli attori - persino il regista - recitano ruoli sopra le righe nel panorama di una stupenda location amalfitana che mette in scena una caccia alle tette di prim’ordine della Rome, fino alla sua fuga a bordo di un carro carico di maiali, perché il film deve pur terminare. Molti sottintesi sociopolitici, ma anche tanto clima da helzapoppin sessantottino condizionato da una cultura figlia di Andy Warhol, per un film ermetico e confuso che si apprezza più per il significante che per il significato. Una commedia teatrale che racconta le peripezie di una donna ingenua catapultata in un mondo ignoto, a contatto con il vizio, per far esplodere le contraddizioni di una società corrotta.


Un film non del tutto riuscito da ricordare per le prove magistrali di alcuni attori e per alcune sequenze surreali davvero ben girate. Mastroianni vestito da carabiniere che frusta la Rome, ma anche vestito con una pelle di tigre mentre tenta di saltarle addosso; Alvaro Vitali che tinge di azurro una coscia della Rome, Hugh Griffith che chiede come ultimo desiderio di ammirare un seno e poi l’organo sessuale della ragazza. “Ormai preferisce gli oggetti alle immagini”, dice un parente al capezzale, che ricorda quanto il vecchio abbia amato le opere d’arte. 


Roman Polanski è - come la Rome - al settimo film, ma non è certo uno sconosciuto, perché ha girato Per favore non mordermi sul collo (1967) e Rosemary’s Baby (1968). Ha dovuto subire il trauma irrecuperabile della sua vita: la barbara uccisione della giovanissima compagna Sharon Tate da parte di Charles Manson (1969). Che? risente della collaborazione con Gerard Brach e della profonda conoscenza del cinema di Roger Vadim. Un film piacevole ma complesso, nel quale non vanno cercati significati reconditi, molto meglio abbandonarsi al piacere delle immagini, gustare sequenze folli, a tratti geniali, situazioni divertenti e apologhi assurdi.  


Rassegna critica. Paolo Mereghetti (due stelle): “Commedia paradossale, surreale e sempre imprevedibile, servita da un cast in vena di divertirsi, in pratica la versione per adulti di Alice nel paese delle meraviglie. La villa sulla costiera amalfitana si trasforma in una specie di pianeta dell’assurdo (Rulli) che la presenza di un corpo estraneo dovrebbe mettere di fronte alle sue contraddizioni. Ma Polanski, che sembra ricercare lo spirito sarcastico e irrazionale dei suoi primi cortometraggi, non riesce davvero a scalfire l’universo di miti eroici e perversioni sessuali che mette in scena, e il film scivola verso una seconda parte ripetitiva e stanca. 


Restano le prove divertite degli attori e la bellezza - allora davvero solare - di Sydne Rome”. Morando Morandini (tre stelle per la critica, due per il pubblico): “parafrasi grottesca e ribalda di Alice nel paese delle meraviglie in chiave di parodia del sesso e delle sue perversioni. Film disorganico che alterna spunti comici irresistibili a cadute e ripetizioni nella seconda parte”. Pino Farinotti (tre stelle): “Il titolo stravagante si addice alla trama molto curiosa, che è forse la più piccante ed estroversa di Roman Polanski”. 

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

 

domenica 12 gennaio 2014

Sapore di te (2014)

di Carlo Vanzina
 

Regia: Carlo Vanzina. Soggetto e Sceneggiatura: Carlo ed Enrico Vanzina. Durata: 90’. Genere: Commedia. Produzione: Medusa, International Video 80. Distribuzione: Medusa. Fotografia: Enrico Lucidi. Montaggio: Luca Montanari. Musiche: Andrea Guerra. Scenografia: Serena Alberi. Costumi: Grazia Materia. Trucco: Barbara Pellegrini. Interpreti: Vincenzo Salemme (onorevole Piero De Marco), Maurizio Mattioli (Alberto Proietti), Martina Stella (Anna Malorni), Giorgio Pasotti (Armando Malenotti), Eugenio Franceschini (Luca), Matteo Leoni (Chicco), Katy Louise Saunders (Rossella Proietti), Nancy Brilli (Elena Proietti), Serena Autieri (Susy Acampora), Valentina Sperlì (Leonetta De Marco), Paolo Conticini (Renato il bagnino), Virginie Marsan (Francesca), Raffaele Buranelli. Riprese: 4 giugno 2013 - 17 luglio 2013. Location: Forte dei Marmi, Porto Ercole, Cala Violina (GR), Roma, Fregene, San Candido, Val Pusteria, Austria. Colonna Sonora Principale: Gino Paoli “Una lunga storia d’amore”; Stevie Wonderr “I Just called to Say I Love You”; Ricchi e Poveri “Se m’innamoro”. Distribuito in 400 sale, il 9 gennaio 2014. Primo trailer: 18 dicembre 2013.
 
 Martina Stella, Carlo Vanzina, Giorgio Pasotti
 
Ambientazione: estate 1984 e 1985. Location: spiaggia di Forte dei Marmi. In tv vediamo il Maurizio Costanzo Show e il programma comico giovanile Drive In, al cinema esce La chiave di Tinto Brass interpretato da Stefania Sandrelli ma anche Mezzo destro e mezzo sinistro di Sergio Martino. Nel frattempo sulla spiaggia s’intrecciano le vicende di alcuni personaggi che dovrebbero fungere da cartina di tornasole per raccontare la società italiana dei primi anni Ottanta. La classica famiglia romana, formata dal commerciante e tifoso romanista (Mattioli) con moglie burina (Brilli) e figlia diciassettenne (Saunders), che vive un amore conteso tra due studenti universitari (Franceschini e Leoni). Non manca il politico, un ministro socialista napoletano in vacanza con la moglie, interpretato da Salemme, invaghito di un’attrice senza talento (Auteri), che grazie agli intrighi diventerà protagonista del programma Drive In, ideato da Antonio Ricci, ma anche di un film girato a Forte dei Marmi. Una laureanda di Firenze (Stella) - che non si laureerà mai - s’innamora di un playboy di provincia (Pasotti), finisce per sposarlo e mettere al mondo un figlio (forse la storia più debole). Un prestante bagnino (Conticini) fa innamorare le ragazze e finisce per diventare attore, interprete del film girato al Forte come partner della protetta del ministro. I genitori di Franceschini, ricchi borghesi milanesi che leggono Il Giornale e votano a destra, ricordano con malinconia gli anni Sessanta. 

  I fratelli Vanzina, eredi della commedia all'italiana

Sapore di te segna il ritorno sul luogo del delitto, trent’anni dopo il successo di Sapore di mare (1983) e del sequel Sapore di mare 2 un anno dopo (1983), diretto da Bruno Cortini, ma scritto e sceneggiato da Carlo ed Enrico Vanzina. Si torna a Forte dei Marmi, luogo delle vacanze borghesi anni Ottanta, pure se le vere ferie estive dei Vanzina erano a Castiglioncello. “Ma appena possibile scappavamo in auto in Versilia” ricordano i due autori in numerose interviste “tiravamo tardi a ballare, tampinare ragazze, magari solo davanti a uno schiaccino e una birra. Finivamo per far colazione all’alba con un bombolone appena sfornato”. Sapore di te conclude la strofa della famosa canzone di Gino Paoli, cominciata con Sapore di mare, anche se i Vanzina confidano che il titolo ideale (del primo film) sarebbe stato Sapore di sale. Non fu possibile perché era già stato opzionato. La pellicola racconta due estati - 1984 e 1985 - trasferendo le vicende vent’anni dopo rispetto all’ambientazione del film originale. 
 

La sequenza del salvataggio con Mattioli e Salemme

I Vanzina provano a realizzare - per grandi linee e senza approfondimenti socio politici - uno spaccato della società italiana di quel periodo, caratterizzato da craxismo arrogante e prime indagini di mani pulite. Fanno capolino i problemi internazionali: la lady di ferro Margaret Thatcher, il sentore della fine del comunismo con la speranza di un’Europa unita. La factory di attori comprende volti noti del cinema popolare vanziniano, come Nancy Brilli, Maurizio Mattioli e Vincenzo Salemme, ma anche nuovi nomi come Martina Stella, Serena Autieri, Giorgio Pasotti, Matteo Leoni (Disney Channel), Eugenio Franceschini (Una famiglia perfetta) e Katy Saunders (per strizzare l’occhio ai fan dei film tratti dai libri di Moccia). Alcune interviste rilasciate dai Vanzina confermano che il primo Sapore di mare avrebbe dovuto essere girato sul litorale livornese, che - dopo Fregene - era quello meglio conosciuto per motivi familiari. Il fascino della Versilia ebbe il sopravento e fu così che la Capannina di Forte dei Marmi sostituì il Chucheba di Castiglioncello. Un incasso favoloso per i tempi: 10 miliardi di lire, al punto di convincere la produzione a far girare un sequel, meno riuscito, prima della fine della stagione.  
 
 Serena Autieri

Sapore di te è uscito in 400 copie, non male come lancio, ma i film targati Vanzina sono una garanzia di successo. 

 Martina Stella

Riferisce Carlo Vanzina a Claudio Vecoli che lo intervista per Il Tirreno del 9 gennaio 2014: “Il primo Sapore di mare era un film autobiografico, anche se abbiamo dovuto cambiare zona vacanziera, da Castiglioncello a Forte dei Marmi, perché all’epoca i vip come Gianni Agnelli, ma anche i ricchi borghesi, andavano a passare l’estate in Versilia. Era alla Capannina che cantavano Mina e Gino Paoli. Noi stessi scappavamo in Versilia in Vespa, di nascosto dai nostri genitori, per sentire Ray Charles alla Bussola e per frequentare i locali del Forte. Erano anni mitici. La Versilia era il simbolo delle vacanze ideali. Ci sono tanti aneddoti sul quel Sapore di mare che non sono mai stati rivelati. Per esempio non molti sanno che la produzione non gradiva Christian De Sica e Virna Lisi, perché definiti inadeguati, scorbutici, antipatici. Insistemmo per averli e posso dire che il tempo ci ha dato ragione visto il fenomeno cinematografico che è diventato Christian De Sica e il Nastro d’Argento vinto da Virna Lisi proprio grazie al nostro film”. 


  Martina Stella

L’intervista al regista prosegue affrontando il nuovo lavoro e i motivi di un sequel girato a trent’anni di distanza: “Sapore di mare ha cambiato la vita sia a me che a Enrico. Per noi è un film importante. Trent’anni dopo abbiamo deciso di tornare ad affrontare quel tema, anche se spostato in avanti di due decenni. Abbiamo ambientato la nostra storia nel bel mezzo degli anni Ottanta, con tutti i pregi e le contraddizioni di quel periodo. Lo abbiamo fatto con uno sguardo più maturo, visto che anche per noi sono trascorsi trent’anni. Ma utilizzando sempre il nostro stile”. Una tantum i Vanzina affrontano pure il discorso politico, con tutti i limiti di approfondimento che è lecito attendersi da una commedia popolare, scritta e sceneggiata secondo i loro canoni cinematografici. Sentiamo Carlo: “Gli anni Ottanta sono stati caratterizzati anche dalla politica. Per questo abbiamo voluto che nel film ci fossero certi riferimenti. E così uno dei protagonisti è un onorevole socialista che utilizza il proprio ruolo per raccomandare l’amante in un programma tv o per aiutare l’amico che ha bisogno del favore. Avevamo anche pensato di chiudere il film con il suo arresto, ma non volevamo che la nostra storia acquisisse pretese sociologiche o politiche”. 

  Martina Stella

Tra i personaggi minori della commedia troviamo Renato, un bagnino - attore che fa innamorare le turiste straniere, interpretato (in amicizia) da Paolo Conticini. Un omaggio a Renato Salvatori (1933 - 1988), nativo di Seravezza, scoperto da Luciano Emmer proprio mentre faceva il bagnino e lanciato ne Le ragazze di piazza di Spagna (1952), subito dopo protagonista di Jolanda la figlia del Corsaro Nero (1953) di Mario Soldati e della trilogia di Dino Risi con tema poveri ma belli. Renato Salvatori ha una filmografia sterminata, ma si ricorda anche per il matrimonio con Annie Girardot e con la fotomodella tedesca Danka Schroeder, dalle quali relazioni ha avuto due figli (Giulia e Nils). Il declino della carriera lo porta all’alcolismo e alla morte per cirrosi. 

 Katy Louise Saunders

“Ci siamo ispirati a lui, ma è anche vero che a Castiglioncello c’era un bagnino affascinante che tutti chiamavano il divo”, racconta Carlo Vanzina.  
Il film si chiude ai giorni nostri, perché - in piena sintonia con il Sapore di mare classico - finisce per raccontare la vita dei protagonisti fino a passare il testimone alle generazioni successive. Sembrerebbe un’apertura a un possibile capitolo della saga ambientato in tempi moderni.  

 Brilli, Mattioli, Salemme

Nel corso delle interviste rilasciate dai Vanzina per lanciare il film ha fatto scalpore una dichiarazione contro il cinema italiano, strana perché pronunciata da due persone sempre misurate e pacate nei giudizi: “A parte Sorrentino, è un disastro. Un cinema governato dal marketing, fatto solo per partecipare ai festival. Ci sono sempre gli stessi attori, si realizzano commedie fatte male e si è smesso di fare film di genere. Bisogna ricollegare i grandi autori al pubblico e smetterla di fare film solo per i festival o per i giornalisti amici. Sorrentino sbanca ai botteghini perché è un grande autore ma di gusto popolare”.

 Martina Stella e Virginie Marsan

I Vanzina hanno dichiarato alla stampa: “Abbiamo scelto gli anni Ottanta perché c’era una spensieratezza che non c’è più. Oggi le vacanze durano un weekend, all’epoca esisteva la villeggiatura. Il nostro è un film sui destini”. 
È bene dire che della commedia corale alla Dino Risi resta davvero poco in questo Sapore di te, che manca della freschezza e della complessità narrativa di Sapore di mare. Commedia balneare alla Luciano Emmer, ma molto semplificata, con storie di piccoli amori che presentano lo spessore di una fiction televisiva. Il cast è il problema più grande. Funzionano molto bene Mattioli e Brilli come coppia di commercianti in vacanza, lui tifoso romanista, lei burina romana. Mattioli e Salemme ci regalano qualche duetto da veri attori comici, mentre il primo ci delizia con battute calcistiche e con il ricordo della finale di Coppa dei Campioni persa dalla Roma con il Liverpool. Ottimo il ministro socialista che ama ballare, impersonato da Salemme, ispirandosi a Cesare De Michelis ma anche a Bettino Craxi, visto che l’episodio dell’attrice raccomandata in televisione può ricordare il rapporto extraconiugale tra il Presidente del Consiglio e Moana Pozzi. Le colonne portanti del film sono questi tre attori e le loro vicende comiche, anche se la storia che li unisce non è all’altezza delle vecchie situazioni comiche. Le storie giovanilistiche, invece, mancano di freschezza, soprattutto il rapporto burrascoso tra Martina Stella e Giorgio Pasotti (che finisce per morire in un incidente stradale), recitato male e senza un minimo di immedesimazione. Un po’ meglio la storia degli amori contesi che vede impegnati Eugenio Franceschini, Matteo Leoni e Katy Louise Saunders, anche se la trama ricorda molto i fotoromanzi che andavano sempre di moda negli anni Ottanta. Serena Autieri è modesta, così come Paolo Conticini non impersona un bagnino al quale ci si affeziona. Insomma, di personaggi indimenticabili alla Sapore di mare (pensiamo solo alla Selvaggia di Isabella Ferrari) non vediamo neppure l’ombra. Vero è che certe situazioni sono pensate per strizzare l’occhio al pubblico adolescente, quindi possono far presa su certi spettatori, sempre ammesso che gli adolescenti siano un pubblico possibile per questo genere di pellicola. Elemento positivo del film: una perfetta ambientazione negli anni Ottanta, curata nei minimi particolari, dalle divise dei carabinieri agli scompartimenti dei treni, passando per gli stabilimenti balneari, il taglio dei capelli e il modo di vestire. Interessanti alcune citazioni di eventi, pellicole e programmi televisivi del passato, dei quali è bene avere cognizione per apprezzare il film. Un motivo in più per non pensarlo appetibile per gli adolescenti. Pure la colonna sonora non è all’altezza del passato, perché Sapore di mare era un film compenetrato da elementi musicali importanti, al punto di far scoppiare la moda del revival anni Sessanta. Grazie a questo film non credo che nessuno andrà a risentirsi i Ricchi e Poveri. 


Sapore di te è una commedia minimalista, un romanzetto di formazione ai minimi termini, una storia corale di piccoli eventi e amori giovanili. Piacevole, in fondo, ma senza pretese.

Il trailer ufficiale: http://www.youtube.com/watch?v=wJfkBkpe4Uw

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi