domenica 26 giugno 2011

La mandragola (1965), l'erotismo secondo Lattuada



La mandragola (1965) è una commedia di Niccolò Machiavelli, rivista e modernizzata per il cinema da Alberto Lattuada, con la collaborazione di Luigi Magni e Stefano Strucchi. Fotografia di Tonino Delli Coli, scenografie di Carlo Egidi, costumi di Danilo Donati. Esterni girati a Urbino. Interpreti principali sono Rosanna Schiaffino, Philippe Leroy e Totò, ma ricoprono ruoli di un certo peso Romolo Valli, Jean-Claude Brialy, Nilla Pizzi, Jacques Herlin e Mino Bellei. Callimaco (Leroy) si innamora di Lucrezia (Schiaffino) e per diventare suo amante sfrutta l’ingenuità del marito (Valli) e il desiderio frustrato di avere un figlio. Il piano elaborato dal giovane consiste nel fingersi medico e prescrivere alla bella moglie del notaio un infuso a base di mandragola, radice capace di guarire la sterilità di una donna, ma letale per il primo uomo che abbia rapporti con lei. Non è niente vero, ma il marito ci crede, il finto medico somministra alla paziente una tisana di vino rosso e cannella, si traveste da rozzo popolano e si fa catturare dal marito per finire nel letto della moglie. Donna Lucrezia apprezza le doti di amante del giovane, passa tutta la notte con il bel Callimaco e - una volta scoperto l’arcano - decide di assumerlo come medico personale per godere a lungo dei suoi servigi amatori. La pellicola è interessante da un punto di vista erotico, “mette in scena la filosofia di un libertino che contrasta superstizione e bigottismo” (Mereghetti), ma soprattutto rappresenta la filosofia di Lattuada attualizzata al 1500. Rosanna Schiaffino è la protagonista assoluta da un punto di vista erotico, i suoi nudi sono frequenti ma molto censurati, così come è interessante il ruolo di Totò nei panni dell’ipocrita frate Timoteo, che aiuta Callimaco a mettere in pratica il suo obiettivo.
   La madragola è un decamerotico colto ante litteram, per meglio dire è un precursore del sottogenere, contiene in nuce tutti gli elementi che saranno volgarizzati da pellicole girate in pochi giorni e con mezzi ridotti. Abbiamo il marito sciocco e cornuto, il furbo giovanotto che insidia la bella moglie, le grazie discinte di donne disponibili e il tono farsesco che permea l’intero lavoro. Il film anticipa la commedia sexy, citiamo la sequenza girata nelle terme con un gruppo di uomini che paga un biglietto per guardare le donne seminude da fori praticati in una parete divisoria. Rosanna Schiaffino è bellissima e solare, spesso inquadrata in pose sensuali, seminuda, di spalle, coperta da rapidi asciugamani e da una macchina da presa che la riprende solo in zone consentite. Molte le sequenze calde, sforbiciate dalla censura ma reinserite nella copia restaurata, come la parte in cui il marito cerca di curare la sterilità della moglie con pietre caldissime posizionate sul ventre. Per i tempi bigotti insistere su gambe, ombelico, fianchi e parti intime di una donna era il massimo dell’erotismo.

Gordiano Lupi

Una vita nel mistero in uscita in dvd



Dal prossimo mese di luglio, il primo lungometraggio del giovane regista sipontino Stefano Simone sarà in tutte le cineteche d’Italia.

Dal prossimo mese di luglio, il primo lungometraggio “Una vita nel mistero” del giovane regista sipontino Stefano Simone sarà disponibile in tutte le cineteche d’Italia. Il regista ha firmato da poco un contratto con la Terminal Video, casa di distribuzione bolognese, che si occuperà della distribuzione del film a livello nazionale. Grande soddisfazione per il giovane regista 25enne che finalmente inizia a vedere i primi frutti dopo anni di studi, gavetta e lavoro con la realizzazione di numerosi cortometraggi di spiccato valore, che gli hanno consentito di essere ben apprezzato dal pubblico e dalla critica.
"Riuscire a piazzare sul mercato al primo colpo il mio film d'esordio a 25 anni – dichiara Simone - è per me un enorme successo. Credo sia il risultato di un ottimo lavoro di gruppo formato da persone che hanno sempre creduto in questo progetto. La lavorazione di un film richiede sempre un enorme sforzo fisico, mentale ed economico, specie quando si lavora, come me, nel campo dell'indipendenza, con budget irrisori (quando ci sono); perciò, raggiungere questi risultati, significa vedersi premiato il lavoro e ciò ti sprona ad andare avanti e cercare di fare sempre meglio".


Il film, che dura 86 minuti, è stato girato in alta definizione a 24 fotogrammi al secondo in stile documentaristico tra Manfredonia e San Giovanni Rotondo. L'opera vanta un cast di attori tutti sipontini e vede nel ruolo dei protagonisti Tonino Pesante e Dina Valente. La storia racconta l’amore di una coppia borghese che travalica la vita terrena, i piccoli gesti di tenerezza del marito, la sofferenza della moglie per una grave malattia, la grande fede che unisce entrambi, gli eventi miracolosi che portano prima a una guarigione inspiegabile e poi alla morte della donna.  
“Una vita nel mistero”, inoltre, si è classificato al primo posto, quale miglior film indipendente 2010, nel concorso indetto dalla webzine IndieHorror.
Simone ha appena terminato le riprese del suo secondo lungometraggio dal titolo “Unfacebook”, interamente girato a Manfredonia e con un cast tutto di giovani attori sipontini. Si tratta di un thriller (anche se il genere non è proprio ben definito ma ricco di svariate contaminazioni dall’horror, al noir, al drammatico). La trama, tratta dal racconto Il prete di Gordiano Lupi, affronta l’uso smodato ed eccessivo di internet, e in particolare dei social network da parte delle giovani generazioni, tali da diventarne completamente succubi e dipendenti fino a confondere il mondo reale da quello virtuale.
Ora, il giovane regista sipontino, al fine di promuovere al meglio il film che sarà trasmesso sul canale 302 di Streamit.tv, parteciperà a vari concorsi e festival a livello nazionale e internazionale nella speranza di poter conquistare ulteriori riconoscimenti.

Gordiano Lupi
(fonte: Stefano Simone)


Nella foto: La copertina di Cappuccetto Rosso, mediometraggio tratto dal mio omonimo raconto.
Per scaricare gratuitamente l'e-book IL PRETE: www.infol.it/lupi

Ivan Zuccon - Tra Lovecraft e Fulci

Ivan Zuccon (1972) si appassiona al genere horror, gira film in Super 8 e subito dopo in video, si dedica ai cortometraggi e infine spicca il salto verso il cinema professionale. Le sue pellicole nascono quasi sempre in lingua inglese, perché - vista la particolarità del mercato italiano - è più facile vendere film horror in Europa e negli Stati Uniti. Zuccon è un nome noto a tutti gli appassionati del genere horror, nostalgici di grandi presenze come Lucio Fulci, Joe D’Amato e Mario Bava, che ritrovano in pellicole cupe e spettrali un profumo di tempi lontani. Zuccon si avvale della collaborazione dell’ottimo Ivo Gazzarrini, scrittore e sceneggiatore horror che pesca a piene mani nell’opera di H. P. Lovecraft, inserendola in un contesto contemporaneo. La sua troupe conta su un buon musicista come Marco Werba e validi effettisti come Fiona Walsia e Massimo Storari. Il regista lavora in proprio a un montaggio rapido e serrato, realizzando pellicole ad alta tensione davvero ben costruite.


   L’altrove (2000) - The Darkness Beyond risente dei limiti tipici di un’opera prima, ma fa intuire doti e possibilità espressive. La sceneggiatura (a tratti farraginosa) è di Enrico Saletti e Ivan Zuccon, produce Valerio Zuccon per Arabesque Film. Fotografia e montaggio sono del regista, in puro stile Joe D’Amato. Il film è più un mediometraggio che un lungometraggio, visto che dura soltanto settanta minuti. Interpreti: Emanuele Cerman, Laura Coratti, Giuseppe Gobbato, Roberta Marrelli, Michael Segal, Massimo Storari e Caterina Zanca. La storia è tratta da un racconto di Howard Phillips Lovecraft, autore importante nell’ispirazione del regista. Si comincia da Baghdad nel 1571, dove un filosofo arabo svolge una traduzione dal Necronomicon, il libro dei morti, ma durante il lavoro viene colpito da un’entità invisibile e resta ucciso. Passano cinquecento anni e ci troviamo in un mondo sconvolto da una guerra condotta da un gruppo di folli che odiano l’umanità. I soldati sono esseri umani, ma agiscono su influsso dei Grandi Antichi che vogliono eliminare la popolazione terrestre. Un drappello di militari vive un’avventura piena di incubi e costellata da ogni sorta di tortura. Gli effetti speciali sono molto suggestivi e l’ambientazione decadente conferisce alla storia un tono melodrammatico. Una donna legge parti del Necronomicon dove si parla di maschere e dei meandri dell’altrove mentre sullo sfondo si ode una vecchia radio che racconta episodi di una guerra senza scampo. L’azione si svolge in un cupo notturno, il colore dominante è un tenebroso blu scuro, mentre la nebbia scandisce i tempi dei flashback segnati dalla maschera applicata sul volto. Una musica cupa e spettrale scandisce i momenti della guerra che viene combattuta in una scenografia desolata. Il film è molto teatrale, scorre su dialoghi impostati, forse eccessivamente recitati e verbosi, ma mai scadenti. L’orrore della guerra è ben rappresentato, così come l’altrove di lovecraftiana memoria pare cupo al punto giusto. Una porta nel buio conduce nei meandri dell’altrove, un tunnel oscuro dal quale non è possibile fare ritorno, una sorta di aldilà nel quale i soldati vanno a morire, inghiottiti da un’oscura entità soprannaturale. “Chi entra nell’altrove muore”, dice il soldato superstite mentre narra la sua avventura alla ragazza. La soggettiva della presenza misteriosa che uccide è ben fatta, così come gli effetti splatter sono essenziali e credibili. La scenografia che funge da teatro all’azione è fantastica, sembra un quadro di un pittore futurista, spettrale e senza speranza, composta di rocce nude e pianure desertiche. Zuccon riesce a trasferire su pellicola la magia dei racconti di Lovecraft, elevando il tasso orrorifico con sequenze splatter di feti estirpati e di donne uccise immerse nel sangue. I soldati con i cervelli spappolati sono un altro elemento splatter ben costruito, così come le torture eccesive e truci, a base di macabre mutilazioni, sembrano anticipare film contemporanei come Hostel (2005). “Esiste un destino peggiore della morte”, minacciano le inquietanti presenze assassine che vogliono impossessarsi del Necronomicon. La pellicola è girata in gran parte in interni oscuri e claustrofobici, l’horror è palese, mai suggerito, zeppo di momenti eccessivi come torture con i fili elettrici. “Noi siamo il male e governiamo gli uomini servendoci di schiavi”, avvisano le presenze assassine che hanno reso schiavi i soldati. L’oscurità, il male, il buio assoluto inghiotte anime e fa apparire soldati con il volto trafitto da chiodi, mentre un ralenti anticipa un flashback onirico che presenta una colorazione anticata. Il Necronomicon viene affidato a un convento, copiato da monaci amanuensi, diviso in varie parti e disperso in molte zone del mondo. Le creature delle tenebre non riescono a recuperarlo, ma alla fine tutto sembra solo un sogno della ragazza che aveva indossato la maschera. Adesso la maschera che provocava allucinanti visioni brucia e l’incubo pare concluso, ma vediamo un’immagine del futuro poco rassicurante. Un uomo trova ancora una volta il Necronomicon e viene aggredito da un’entità misteriosa. L’orrore spalanca di nuovo le porte. 


   Maelstrom - il figlio dell’altrove (2001) è il secondo film di Zuccon, vero e proprio sequel de L’altrove, tratto come consuetudine da un racconto di Howard Phillips Lovecraft. La sceneggiatura è di Enrico Saletti, ma anche questa volta registriamo limiti di scorrevolezza, forse ancor più evidenti che nel primo lavoro. Produce Valerio Zuccon per Arabesque Film. La fotografia cupa e spettrale è di Andrea Marchi, il montaggio è a cura del regista, gli ottimi effetti speciali e il trucco sono di Massimo Storari. Le musiche sono di Nicola Morali e i costumi di Donatella Ravagnani. Interpreti: Michael Segal, Emanuele Cerman, Roberta Marrelli, Giusepe Gobbato, Alessio Pascutti, Francesco Malaspina, Caterina Zanca, Laura Coratti, Giorgia Bassano, Liliana Letterese, Piergiorgio Schiona e Roberta Romagnoli.
   Il film racconta una nuova lotta tra gli umani e l’altrove descritto nei romanzi di Lovecraft, ma cita pure L’aldilà di Lucio Fulci, soprattutto lo splendido finale con i protagonisti perduti nella scenografia surreale di un quadro. Ci troviamo in un futuro apocalittico, da film postatomico, vediamo gli umani alle prese con i Grandi Antichi che vogliono renderli schiavi. Un plotone di soldati, composto da uomini e donne, cerca di non soccombere all’assedio, condotto dagli uomini dei Grandi Antichi, lottando contro una sorte che sembra ineluttabile. La pellicola non si sviluppa seguendo una trama logica e lineare, ma vive di suggestioni oniriche e di notevoli effetti visivi. Lo splatter la fa da padrone, ma anche le sequenze fantastiche non sono meno importanti. Un uomo crocefisso scende dalla croce e uccide un soldato, sentiamo il pianto di un bambino inciso su un nastro insanguinato, vediamo due mani che sbucano dal terreno, afferrano una donna e permettono che un demone la violenti. Una fotografia surreale corretta in studio descrive un mondo apocalittico popolato da presenze oscure che vengono dal passato per uccidere e schiavizzare. La pellicola è molto psichedelica, la scenografia ricorda i deserti lovecraftiani, mentre il tema portante è quello della lotta alle presenze demoniache. Il figlio dell’altrove è nato dalla violenza carnale e adesso si muove per notturni stupendi, cupi e surreali, illuminati da una luna piena che rende livida l’angoscia. Gli effetti visivi sono fantastici: cieli arrossati in modo innaturale, nuvole biancastre, mentre il sole pare sciogliersi al tramonto. Il limite del film sta in un eccesso di sperimentalismo e in una sceneggiatura poco curata, ma la genialità del regista viene fuori con prepotenza, perché le soluzioni visive sono potenti. Un esempio importante lo vediamo nella sequenza del figlio che nasce come una larva, già adulto, uscendo da un bozzolo come una farfalla. Il figlio dell’altrove è una sorta di anticristo fortissimo e invincibile che come primo atto di violenza uccide la madre e le spreme il cuore. L’essere infernale elimina con freddezza chi cerca di fermarlo e lo fa nei modi più atroci. Il film procede con l’incedere lento di un peplum macabro, Maelstrom sembra un Maciste al negativo, un eroe fortissimo, ma nero e turpe. Il tono della pellicola fa pensare a un melodramma fantastico, del tutto soprannaturale, basato sull’assioma che “nell’altrove non esiste la morte vera, ma una morte sofferente”.  I dialoghi sono la cosa peggiore, lo sceneggiatore abbonda in usurati americanismi (fottuto) che stridono con lo svolgimento della storia. Lo scenario spesso assume l’aspetto di un western vecchia maniera con duelli all’ultimo sangue e uomini uccisi per non farli soffrire. La sfida finale si svolge con un sottofondo musicale alla Ennio Morricone e sembra un duello tra pistoleri, invece che lo scontro terminale tra una strega e il figlio dell’altrove. Notiamo anche elementi fantasy che si mescolano a sequenze splatter per esibire un cuore spaccato in due e un feto estirpato dal ventre di un’orribile strega. La conclusione di un film soprannaturale che si sviluppa in notturni surreali e macabri si riassume in poche battute. “L’altrove è sempre esistito dentro di noi. Loro siamo noi e noi siamo loro. Gli Antichi sono sempre stati accanto a noi, da qualche parte. Chi sopravive regnerà sugli umani, ma senza il Necronomicon diventerà un flagello per l’umanità”. Resta un lavoro minore di Zuccon, ma la forza visiva di molte scene lo rende un prodotto interessante.


   La casa sfuggita (2003) è noto anche con il titolo anglofono di The Shunned House ed è tratto da alcuni racconti di Howard Phillips Lovecraft, pure se il fulcro della storia deriva da La casa stregata. La sceneggiatura è di Enrico Saletti, mentre fotografia e montaggio sono di Ivan Zuccon. Produce Valerio Zuccon per Studio Interzona. Effetti speciali e trucco sono di Massimo Storari, i costumi di Donatella Ravagnani e le musiche degli AcidVacuum. Interpreti: Giuseppe Lorusso, Federica Quaglieri, Emanuele Cerman, Silvia Ferreri, Michael Segal, Cristiana Vaccaro, Nicolò Viganelli, Nicoletta Verri, Claudio Viganelli, Roberta Marrelli, Cinzia Vaccari, Stefania Andreotti, Enrico Saletti, Micaela Antolini e Roberta Romagnoli.
   Il film è ambientato a Frassinese Polesine, girato quasi completamente negli interni spogli e disadorni di una casa cadente che prende vita nelle sequenze oniriche che riportano indietro nel tempo. Un giornalista, in compagnia della sua donna, entra in un’antica dimora che è stata teatro di efferati delitti. Nel corso della visita vengono avvolti da una misteriosa cortina di terrore e una serie di incubi fa rivivere i fatti del passato fino a riportarli alla realtà storica. La trama non è la cosa più importante di una pellicola che fa della suggestione visiva e delle immagini efferate la sua vera forza. La sequenza che introduce all’apoteosi di terrore vede un bambino rincorrere una palla nella casa stregata, subito due mani possenti lo afferrano e lo fanno sparire nel nulla. Una serie di foto d’epoca di volti umani segna lo scorrere del tempo e dopo venticinque anni entriamo nella casa che un tempo era stata la Locanda del Crocevia. In questo luogo morivano molte persone e nessuno sapeva il motivo, come ne La casa stregata di Lovecraft. Il film è ricco di suggestioni visive come apparizioni improvvise di donne che pregano, cadaveri di suicidi appesi a una corda, uomini sgozzati, donne in un lago di sangue e altri effetti splatter ben realizzati. La sceneggiatura lascia a desiderare a livello di coerenza narrativa, generando un film cervellotico e non facilmente inquadrabile. Il montaggio è piuttosto lento, ricco di flashback e di parti oniriche, visto che il racconto si basa su incubi e suggestioni. I piani narrativi sono due, si passa con disinvoltura dal presente al passato, spesso confondendo le idee allo spettatore. L’atmosfera è cupa e notturna, il vento soffia inclemente, spenge candele, spalanca finestre, porta sentori di morte e di oscure presenze. Molto spettacolare il suicidio di una ragazza muta che si strappa le vene a morsi, quindi termina l’opera tagliandole con l’archetto di un violino. Il sangue schizza in abbondanza, ricopre volti e corpi dei protagonisti, mentre esseri soprannaturali giungono dal passato e sconvolgono il presente. La pellicola è apprezzabile per gli effetti speciali e per la grande potenza visiva degli immagini che fanno intuire il talento di Zuccon. Tutto il film è costellato di terribili uccisioni e macabri suicidi, mentre il regista inserisce un riferimento a Salvador Dalí con gli orologi che si liquefanno e segnano lo scorrere del tempo. Tra le mura di quella casa si diventa pazzi, proprio come ne La casa stregata di Lovecraft, e non c’è niente che può fermare l’incedere della morte. “Siamo ovunque tu voglia essere”, sussurrano le presenze demoniache e ci riportano in un clima tipico de l’altrove lovecraftiano, tanto caro a Zuccon. “Il posto delle cose non è dove crediamo che sia”… e le porte si aprono verso una nuova realtà, basta compiere un sacrificio di sangue. Il film termina con un’immagine simile al prologo, perché torna in scena il bambino con la palla, ma questa volta è il giornalista a portare fuori il pallone. Alcuni brani di Paganini, violinista maledetto, sono parte integrante della colonna sonora. Non è uno dei migliori film di Zuccon, ma per il violento impatto visivo ne consigliamo la visione.  


   Bad Brains (2005) è interpretato da Emanuele Cerman e Valeria Sannino, prodotto da Timeline e Studio Interzona. Si tratta di un buon horror come si facevano una volta, un lavoro intenso e claustrofobico, dai toni onirici sempre presenti, ben girato in un interno decadente e angoscioso, fotografato in modo cupo e inquietante, raccontato a colpi di flashback che tengono in ansia lo spettatore. A tratti viene in mente il Joe D’Amato dei lavori più duri, tipo Rosso sangue e Antropophagus, soprattutto nella scena dove il folle serial killer si ciba dei resti delle vittime. Il film è ben recitato da attori calati nella parte, su tutti metterei una sensuale Valeria Sannino credibile in alcune scene erotiche davvero ben girate. Non è da meno Emanuele Cerman, nei panni di un killer psicopatologico che sdoppia la personalità con un surreale fratello da lui ucciso quando era bambino. La storia è ben scritta e sceneggiata a dovere, quindi parte del merito va ai bravi autori Ivan Zuccon e Ivan Gazzarrini. Il regista Zuccon lavora in puro stile Massaccesi, perché è anche direttore della fotografia e realizza il montaggio. Il film è costellato di scene terribili e truculente, mosche e sangue, massacri e morti scannati, cannibalismo, incubi fusi alla realtà e deliri onirici che ricordano le trame del miglior Lovecraft. Un folle serial killer uccide con la complicità della sorella e la loro unione di sangue è totale, visto che tra i due esiste un rapporto d’amore incestuoso. La terribile coppia tortura le vittime, le riprende con una telecamera prima di farle morire, filma le sofferenze e lo scannamento finale. L’uomo dà il colpo di grazia per poi tuffare le mani nelle ferite, cibarsi delle interiora e degli occhi della vittima. L’antefatto che scatena il delirio dei due assassini va ricercato in un trauma infantile, quando la ragazza ha ucciso la mamma e il ragazzo si è liberato del fratellino a colpi di coltello. I due killer sono una coppia stile Erika e Omar, dove lei è la mente e lui il folle esecutore, ma entrambi cercano all’interno dei corpi la chiave della loro follia, forse proprio l’anima che hanno perso il giorno del duplice delitto. La pellicola ricorda la vecchia scuola italiana dell’horror erotico, anche perché le scene di sesso tra i due protagonisti sono realistiche e ben girate. I due assassini sono legati a doppio filo, un destino comune li porta a scoprire cosa c’è nell’oscurità, ma sanno bene che può essere solo la morte. Alicia tratta una prigioniera come una bambola di carne, la fa diventare folle, mentre ricorda la sua infanzia e rivede le coltellate inferte alla mamma. La sorpresa finale non va rivelata perché il film perderebbe interesse, ma dobbiamo dire che nella trama è importante l’alternarsi di presente e passato, soprattutto il ripetersi degli orrendi delitti infantili. Alla base di tutto c’è una personalità folle che vede cose inesistenti, parla con la madre morta e sente un dolore nella testa che lo spinge a uccidere.
   Bad Brains non è un horror fantastico ma un racconto del terrore. Tutto è possibile, purtroppo, pure un killer folle che cambia voce e si immedesima nel ricordo del fratello ucciso, anche i fatti narrati che si ispirano a un’angosciante realtà. Neppure il finale porta sicurezze, ma lascia lo spettatore sconcertato, perché la figlia del killer può essere il filo conduttore verso nuove orribili avventure. Un doppio finale, come nella miglior tradizione dell’horror italiano, per un ottimo film che consigliamo di riscoprire.


   NyMpha (2006) è un nuovo horror interessante scritto e sceneggiato da Ivan Zuccon insieme al fido Ivo Gazzarrini ed è un vero peccato che certe pellicole abbiano mercato soltanto negli Stati Uniti. In Italia il nome di Zuccon non è molto noto perché i grandi produttori non rischiano con una pellicola horror nostrana e certi film vengono realizzati da produzioni indipendenti. Interpreti: Tiffany Shepis, Allan McKenna, Caroline DeCristofaro, Michael Segal, Alessandra Guerzoni, Francesco Primavera, Giuseppe Gobbato, Caterina Zanca, Federico D’Anneo. Il nuovo film di Zuccon è girato interamente in inglese e sottotitolato in italiano, sia perché la storia parla di una ragazza inglese che deve farsi suora, sia perché in questo modo è più facile venderlo oltreoceano. NyMpha è un interessante tonaca - horror che a tratti ricorda La monaca nel peccato di Joe D’Amato, ma che ha una sua ben definita originalità. Il film racconta la storia di Sarah (un’affascinante ed espressiva Tiffany Shepis), una ragazza inglese che vuole farsi suora di clausura in Italia nel convento del Nuovo Ordine. Sarah è costretta a incontrare Dio in modo orribile, attraverso operazioni chirurgiche effettuate da un medico prezzolato che la priva di udito, vista, tatto e parola. Non è certo Dio l’entità misteriosa che governa le sorti del convento e che spinge un gruppo di suore allucinate a compiere azioni inquietanti. Zuccon è bravo a tratteggiare i caratteri dei protagonisti e a spingere lo spettatore dentro una spirale orrorifica che si dipana con grande tensione e scene a effetto. Sarah soffre per le torture praticate e rivive visioni relative al passato del convento, ma soprattutto ripercorre la triste sorte di una ragazza di nome Nympha. Per correttezza nei confronti dello spettatore è bene non rivelare la parte che vede protagonista un nonno vittima di una follia religiosa che lo porta a compiere atti orrendi. Nympha viene educata al timore di Dio, crede che nella soffitta di casa ci sia un’entità misteriosa affamata di carne umana, vede il sangue uscire da porte e finestre, sente dentro di sé il terrore del passato. Le scoperte di Nympha e di Sarah sconvolgeranno le loro vite ma pare scontato che per entrambe resta una sola via d’uscita. NyMpha è una storia horror a sfondo religioso, scritta e sceneggiata da Ivan Zuccon e Ivo Gazzarrini, che sfrutta effetti speciali interessanti, atmosfere cupe e claustrofobiche già viste nel precedente Bad Brains ed effetti gore e splatter che seguono la lezione del miglior Fulci. Il film si pone come continuatore della tradizione horror italiana e miscela parti orrorifiche a parti erotiche, soprattutto a sfondo lesbico. È interessante ricordare il sogno di Sarah mentre immagina di far l’amore con Nympha in una scena molto ben girata e recitata con naturalezza. La fotografia è cupa, il colore dominante è un verde scuro, la maggior parte delle azioni si svolgono di notte. Gli effetti speciali sono ben realizzati, soprattutto le scene di sangue che filtra dalle pareti, le feroci mutilazioni praticate su Sarah e le sequenze dove sciami di mosche volano su cadaveri decomposti. Un horror angosciante e cupo, basato sui ricordi e girato con la tecnica del flashback resa da continue e brusche dissolvenze. Nella pellicola sono presenti citazioni di vecchi horror italiani, forse inconsapevoli e frutto del background culturale di regista e sceneggiatore. La mente va a Dario Argento, sia nella scena con la piccola Nympha che vede accanto un cavallo a dondolo, così come si pensa a Phenomena durante la sequenza con lo sciame di mosche. Alcune parti girate nel convento ricordano Joe D’Amato (La monaca nel peccato, Immagini di un convento), ma pure il taglio della lingua, efferato e credibile, fa venire a mente una scena di Caligola interpretata da Michele Soavi. Sono presenti anche suggestioni dall’opera di Lucio Fulci, vero poeta del gore e dello splatter, il regista italiano che meglio ha saputo filmare la morte. NyMpha è girato in interni ma in alta definizione ed è distribuito sul mercato Home Video.


   Colour from the dark  - Il colore del male (2009) è l’ultimo lavoro di Zuccon, interpretato in inglese (sottotitoli in italiano) da buoni attori come Debbie Rochon (Lucia), Michael Segal (Pietro), Marysia Kay (Alice), Gerry Shanahan (Giovanni), Eleanor James (Anna), Matteo Tosi (Don Mario), Emmett J. Scanlan (Luigi), Alessandra Guerzoni (Teresa) e Massimo Storari (soldato nazista). Il film è scritto e sceneggiato dal regista e da Ivo Gazzarrini. Musica di un ispirato Marco Werba. Producono Studio Interzona e Arabesque Film.  
   L’azione si svolge nel 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale. La location - suggestiva e tetra al punto giusto - è uno sperduto casolare di campagna. Pietro e Lucia sono due poveri contadini che vivono del lavoro nei campi, insieme ad Alice, sorella sordomuta e handicappata di Lucia. Pietro soffre per una malformazione al piede, zoppica vistosamente, ma è un uomo robusto e manda avanti tutto il lavoro, Lucia si dedica alla casa e alla sorella. Un giorno, mentre Alice prende l’acqua dal pozzo, accade un evento incredibile. Il secchio resta impigliato sul fondo e quando Pietro lo libera sembra venir fuori una luce aliena dalle profondità della terra. Da quel momento succedono eventi straordinari e terrificanti che coinvolgono Pietro e il resto della sua famiglia. Non è il caso di raccontare la trama, perché lo spettatore perde la gioia della visione, ma è bene dire che il film è ricco di effetti splatter e cita più volte L’esorcista (1973) di William Friedkin e L’anticristo (1974) di Alberto De Martino. Lo spettatore precipita in una spirale di orrore fin dalle prime scene, quando assiste agli incubi di Alice, terrorizzata dalla cantina, dal pozzo e dalla sua bambola di stoffa. Un trionfo di schizzi di sangue onirico fa capire i problemi mentali di Alice, mentre Pietro e Lucia osservano atterriti e cercano di non svegliarla. Regista e sceneggiatore sono bravi a inserire nel racconto tematiche come la Seconda Guerra Mondiale e la persecuzione degli ebrei. Il personaggio di Teresa - uccisa da un ufficiale nazista - che si nasconde dai vicini di casa (Anna e Giovanni) serve ad attualizzare la vicenda. Il cadavere in decomposizione della ragazza accompagna lo spettatore nel rapido sviluppo della storia, subito dopo la scoperta di Alice. Il tema del pozzo che si apre e scatena una forza misteriosa si può ricondurre a vecchi ricordi fulciani contenuti ne L’aldilà – E tu vivrai nel terrore (1981), ma anche al meno esaltante Le porte dell’inferno (1989) di Umberto Lenzi. Lo scrittore di Providence nel racconto originale parla di forze aliene che si liberano e producono effetti orribili, più che di demoni che entrano da porte infernali. Gazzarrini e Zuccon ci lasciano nel dubbio, ma non è così importante. Il film gode di grande tensione, ottimi effetti notturni, bella fotografia anticata color seppia, eccellenti ricostruzioni scenografiche, perfetta ambientazione d’epoca e caratterizzazione dei personaggi immune da difetti di approssimazione. La ricostruzione di una casa di campagna anni Quaranta, arredata con tavoli in legno, mobili tarlati e candele consumate per leggere a letto, è degna di menzione. Gli effetti speciali sono la cosa migliore del film, tra crocefissi che cadono dopo essere stati contaminati da un alone nero, pomodori che maturano rapidamente e subito dopo vanno in decomposizione, un cielo tetro, nero, quasi infernale che accompagna un crescendo di orrore. L’entità malefica liberata dal pozzo fa miracoli demoniaci e contamina la zona circostante. La prima persona contagiata dal morbo è Lucia, che cambia carattere, vuol far l’amore come non l’ha mai fatto e mostra occhi neri, diabolici. Gli effetti speciali che presentano Lucia indemoniata sono ottimi: la donna si taglia la guancia e dalla ferita esce un occhio, poi si sveglia insanguinata e non ricorda più niente. Il film è scandito dal passare dei giorni della settimana, ci accompagna in un abisso senza speranza modificando la fotografia che diventa sempre più cupa e abbonda di toni grigi. Lucia si accoltella una mano, sputa al marito, bestemmia, aggredisce un prete che vorrebbe esorcizzarla, ma finisce massacrato a colpi di crocefisso.
   Zuccon è bravo a mostrare il progressivo deteriorarsi di uomini e ambiente, inquadrando i campi sempre più distrutti e le persone che modificano il loro carattere. Alicia accoltella la bambola ed è sempre più preda di incubi terrificanti, pure se come per miracolo ha cominciato a parlare. Pietro non zoppica più, ma si accorge presto che quell’evento straordinario non è opera divina. Gli effetti speciali esorcistici ricordano il film di Friedkin (il fiato gelido, le grida, il volto che si modifica…) ma sono utilizzati con grande originalità. Anna e Giovanni sono due buoni personaggi di contorno, come vicini di casa coinvolti nella spirale di terrore. Luigi, il fratello di Pietro che torna dalla guerra e resta coinvolto nel massacro, è un altro personaggio azzeccato. Uno degli aspetti migliori della pellicola resta lo squallore riprodotto in maniera credibile, tra frutti del terreno che marciscono e la casa che va in malora. Il film è una storia nera senza speranza, molto contemporanea, soprattutto perché lo scontro tra Dio e dèmoni non prevede un lieto fine. La fotografia cupa, angosciosa, nera, squarciata da improvvisi lampi di luce inserisce bene la storia in una campagna desolata che si trasforma in uno spaccato d’inferno. Il demone liberato ti entra dentro, ti succhia la vita e distrugge ogni cosa vivente, senza lasciare traccia di speranza. Ricordiamo che il cast vede alcune belle presenze femminili, come nel vecchio cinema horror italiano, e che non mancano alcune parti erotiche di buona fattura. Debbie Rochon (l’indemoniata Lucia), dopo Valeria Sannino (Bad Brains) e Tiffany Shepis (Nympha), incrementa il numero di attrici sexy impiegate da Ivan Zuccon. Pare che il progetto di girare Colour from the dark sia stato più volte accantonato da Zuccon, a causa di numerose difficoltà, ma alla fine il film è venuto fuori molto bene. A nostro giudizio è la cosa migliore girata dal regista tra quelle viste sino a oggi.

Il sito ufficiale di Ivan Zuccon: http://www.ivanzuccon.com/

Pointblank recensisce il mio libro sull'horror italiano

Storia del cinema horror italiano Vol. 1 – Il Gotico

Autore: Gordiano Lupi
Titolo: Storia del cinema horror italiano Vol. 1 – Il GoticoCasa editrice: Il Foglio
Collana: Cinema
Dati: 225 pp., brossura
Anno: 2011
Prezzo: 15.00 €
Web info
Gli appassionati di cinema Horror saranno contenti del progetto avviato dalla casa editrice Il Foglio: una vera e propria ricostruzione del cinema horror made in Italy, con tanto di filmografia dettagliata dei maggiori autori del genere e spazi importanti anche per i registi minori, quelli che, tra un film e l’altro, hanno avuto il tempo e la voglia di confrontarsi con l’horror, come Camillo Mastrocinque, Damiano Damiani e anche il Federico Fellini di Toby Dammit, episodio del film Tre passi nel delirio (1967). Il lavoro di Lupi si mostra come una sorta di vera e propria opera omnia dell’horror nostrano. Il libro che presentiamo, Storia del cinema horror italiano Vol.1 – Il Gotico, è solo il primo di sei volumi creati con l’intento di mettere un po’ d’ordine in un genere considerato minore, ma che ha avuto tra le sue fila maestri e artigiani di grande livello, primo fra tutti Mario Bava.
L’operazione è costruita in modo molto intelligente e ricercato: affiancare in maniera cronologica i registi con la storia del genere, partendo appunto da Riccardo Freda, autore a cui viene riconosciuta la realizzazione del primo horror italiano – I vampiri (1957). In questo primo volume Gordiano Lupi ricostruisce il genere gotico, forse il più raffinato all’interno dell’horror, e di nomi da citare ce ne sono tanti. Se, come detto, si comincia con Riccardo Freda, sviluppando la sua filmografia, il passo successivo è quello di dare ampio spazio a Mario Bava, sicuro maestro dell’horror italiano e ancora attuale ispiratore di molti lavori nostrani e, soprattutto, americani (basta rileggere delle interviste rilasciate da Tarantino, Landis e Dante). Al regista sanremese Lupi offre molto più spazio, anche perché, se di gotico si vuol parlare, non si può fare altro che stazionare sui lavori di Bava, e soffermarsi su due opere fondamentali della sua filmografia: La frusta e il corpo (1963) e Gli orrori del castello di Norimberga (1971). E poi, per affondare ancora di più il colpo e offrire a Bava quella riconoscenza che purtroppo ancora oggi viene meno, viene offerta un’intervista a Dardano Sacchetti, sceneggiatore e collaboratore del regista. Intervista, questa, che ne accompagna altre due, ad Antonio Tentori ed Ernesto Gastaldi, che permettono ai lettori di entrare completamente all’interno dell’universo horror gotico italiano.
Infine, per completare l’opera, Lupi sorvola anche gli autori minori, non dimenticando di fare un salto all’interno di “generi e impegno”, e ripescare opere che proponevano un horror alternativo rispetto al genere maggiore praticato all’epoca: da Ubaldo Ragona a Brunello Rondi, fino all’horror intellettuale di Federico Fellini e del già citato Toby Dammit.
Gordiano Lupi offre un affresco esauriente dell’horror gotico, realizzando un’opera che non solo può interessare gli amanti del cinema (e del genere), ma anche a coloro che, non esperti, hanno deciso di aprirsi alla visione dell’horror italiano classico. Un lavoro che riesce a rivalutare un genere sempre troppo sottovalutato in Italia, ma che ha offerto tante buone operazioni non solo mediatiche, ma anche intellettualmente riuscite. Aspettando gli altri volumi, si spera che abbiano la stessa qualità del primo. Ma conoscendo l’autore e la casa editrice, non sovvengono molti dubbi.

sabato 25 giugno 2011

Franco Giraldi, dallo spaghetti western alla commedia erotica


Franco Giraldi (Comeno, Gorizia, 1931) comincia come critico cinematografico de L’Unità, esordisce nel cinema come aiuto regista, collabora a film impegnati socialmente (Giovanna, Uomini e lupi, Un ettaro di cielo, La strada lunga un anno, Il gobbo, Laura nuda, Tiro al piccione…) e realizza alcuni buoni documentari (La Trieste di Svevo, Il Carso…). Si fa le ossa come direttore della seconda unità di film di grande successo nei generi peplum e spaghetti western, che vanno per la maggiore nei primi anni Sessanta. Tra le regie della seconda unità ricordiamo: Romolo e Remo (1961) e Il figlio di Spartacus (1962) di Sergio Corbucci, I malamondo (1963) di Paolo Cavara, La costanza della ragione (1963) di Pasquale Festa Campanile, Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone, Massacro al grande Canyon (1964) di Sergio Corbucci e Alfredo Antonini. Tra tutte risulta importante la preziosa collaborazione con Sergio Leone (Per un pugno di dollari, 1964), utile nei suoi primi lavori di taglio western come Sette pistole per i Mac Gregor (1966), Sette donne per i Mac Gregor (1967), Sugar Colt (1967), Un minuto per pregare…. un istante per morire (1968), firmati spesso con lo pseudonimo anglofono di Frank Garfield. 


   Sette pistole per i Mac Gregor (1966) si avvale della sceneggiatura di Fernando di Leo (si firma Fernando Lion), già collaboratore di Sergio Leone, Duccio Tessari e Vincent Eagle (alias Enzo Dell’Aquila). Si tratta del classico spaghetti western senza grandi ambizioni che racconta la storia di sette fratelli incarcerati ingiustamente che evadono di galera per dare la caccia a uno sceriffo corrotto. Sette donne per i Mac Gregor (1967) è il sequel del precedente, narra la caccia a un bandito che ha rubato l’oro alla famiglia Mac Gregor. La pellicola - girata in Spagna - anticipa il western comico e farsesco che sarà di tipico della coppia Bud Spencer - Terence Hill. Le musiche di Ennio Morricone sono le stesse utilizzate in Per un pugno di dollari, gli sceneggiatori sono ancora una volta Fernando di Leo ed Enzo Dell’Aquila. Il film non è firmato Frank Garfield nelle copie italiane che per la prima volta mostrano il vero nome del regista.


   Sugar Colt (1967) è il western più originale di Giraldi, che si firma con il suo nome e si avvale di sceneggiatori come Sandro Continenza, Fernando di Leo, Augusto Finocchi e Giuseppe Mangione. Ottime musiche di Luis Bacalov. Tra gli attori ricordiamo Soledad Miranda, musa ispiratrice di Jess Franco, morta giovanissima. L’originalità della pellicola risiede nel tentativo di miscelare western, commedia e anticipazioni di Vietnam-movie. Il film è ambientato al termine della guerra di secessione. Sugar Colt è un finto medico, in realtà agente governativo con l’incarico di indagare sulla sorte di un battaglione nordista imprigionato da un vendicativo sudista. Tra le trovate migliori della pellicola ricordiamo Sugar Colt che mette su una scuola per insegnare alle donne a sparare. Molte sequenze sono girate alla perfezione e il finale non si dimentica. Un minuto per pregare…. un istante per morire (1968), noto anche come Escondido, è un western dal volto umano che racconta le vicissitudini di un bandito in cerca di redenzione, intenzionato a comportarsi come tutti gli altri uomini. Purtroppo viene ucciso da due cacciatori di taglia inconsapevoli del provvedimento di grazia emanato da un giudice. La figura dell’eroe tormentato, diventato fuorilegge non per sua colpa, è ben delineata. Ultimo western di Giraldi, che si firma con il nome italiano, collabora con gli sceneggiatori Ugo Liberatore, Alfredo Antonini e Louis Garfinkle, e utilizza un buon cast, ma la pellicola non è del tutto convincente. Colonna sonora di Carlo Rustichelli. 


   Il cinema più importante di Franco Giraldi, caratterizzato da un taglio personale, attenzione ai toni sfumati, alle psicologie dei personaggi e ai contenuti più qualificati, comincia con La bambolona (1968). Il cast della pellicola è composto da Ugo Tognazzi, Isabella Rei, Lilla Brignone, Corrado Sonni, Margherita Guzzinati, Susy Andersen, Filippo Scelzo, Ignazio Leone. Il soggetto è tratto dal romanzo omonimo di Alba De Cespédes. La sceneggiatura è di Ruggero Maccari e Franco Giraldi. La colonna sonora è di Luis Bacalov.
   Il maturo avvocato Giulio Broggini (Tognazzi) si invaghisce della formosa diciassettenne Ivana (Rei), recita la parte del fidanzato davanti agli interessati genitori (Brignone e Sonni), che fiutano la possibilità di vedere debiti pagati e figlia sistemata. La sua vita da scapolo impenitente, frequentatore di donne dell’alta borghesia, è sconvolta da un’improvvisa passione per una popolana, non troppo bella, una donna di cui “si vergognerebbe in pubblico”, ma della quale non può fare a meno. La ragazza è la più scaltra di tutti, perché ha capito che l’avvocato vuole solo portarsela a letto. Finge apatia, non concede niente al fidanzato e architetta un piano con la complicità di un coetaneo. A un certo punto pensa addirittura di uccidere l’avvocato e di entrare nella sua casa per derubarlo. Alla fine si accontenta di un anello da due milioni di lire e inventa una gravidanza indesiderata che le frutta un altro milione per pagare il medico e il suo silenzio. 
   Franco Giraldi gira la sua prima pellicola personale adattando insieme a Ruggero Maccari il romanzo omonimo di Alba de Cespédes. La bambolona è una satira di costume, malinconica e amara, ma al tempo stesso presenta elementi di commedia sexy, a tratti morbosa e ai limiti del taglio censura per il periodo storico. Giraldi costruisce un film interrotto da interessanti parti oniriche che rappresentano gli incubi e le paure ancestrali del protagonista. Il regista inserisce il tema dell’omosessualità con il personaggio di un cameriere gay, timoroso che venga scoperta una relazione con un presunto nipote. Molte le sequenze sexy: fugaci carezze sotto il tavolo, baci rubati, mani che si infilano nella scollatura e si spingono ad alzare la gonna. Una sequenza a teatro, durante Il barbiere di Siviglia è una vera e propria parte a rischio censura. La macchina da presa insiste sulle gambe della Rei, inquadra calze sotto il vestito, baci appassionati e scollature appariscenti. 
   Giraldi stigmatizza una certa Italia repressa dal punto di vista sessuale, ma anche i desideri proibiti e i vizi dell’alta borghesia. “Non ci sarebbero puttane se non ci fossero porci disposti a pagare”, è la filosofia della pellicola espressa da Isabella Rei nel rocambolesco finale. Uno zio inesistente è il protagonista delle parti oniriche, durante le quali Tognazzi lo immagina amante e rivale, ma anche impegnato a studiare le sue vere intenzioni. Molto felliniana la parte onirica con la danza delle cento donne che si potrebbero comprare al posto di un anello da due milioni. La musica di Luis Bacalov introduce una sequenza di seni nudi e di lunghe gambe di figuranti e comparse. 
   Ugo Tognazzi è il mattatore della pellicola, regala una grande interpretazione, aggiornando il personaggio innamorato di una lolita, protagonista de La voglia matta (1962) di Luciano Salce, pellicola più riuscita e dotata di maggiore ironia. Isabella Rei - per la prima volta sullo schermo - non è da meno, nella parte di una diciassettenne apatica e assente, che finge di stare al gioco del fidanzamento, ma organizza una trama per far cadere il maturo pretendente. Bravi anche Lilla Brignone e Corrado Sonni, come laidi genitori che pensano soltanto al denaro, a risolvere i problemi economici e a piazzare la figlia nel mondo della borghesia. 


   Cuori solitari (1970) è un’altra interessante commedia erotica interpretata da Ugo Tognazzi, Senta Berger, Silvano Tranquilli, Gianna Serra, Christopher Hodge, Piero Mazzarella, Clara Colosimo, Edda Di Benedetto e Orso Maria Guerrini. Giraldi sceneggia il film con la collaborazione di Ruggero Maccari, critica ancora una volta la classe borghese dipingendo un laido proprietario di una bella casa sul lago di Como (Tognazzi) che per ingannare la noia del quotidiano propone alla moglie (Berger) di provare l’ebbrezza dello scambio di coppie. La commedia vive i momenti migliori nella parte in cui i coniugi tentano di scegliere i candidati al ruolo, perché si presentano una serie di soggetti mostruosi e inaffidabili. Il dramma si fa interessante nel finale, dopo l’ultima esperienza, quando la compagna pare prenderci gusto e per il borghese annoiato non sarà facile tornare alla detestata routine. La moglie, infatti, si innamora dell’uomo con cui stanno provando a realizzare lo scambio di coppia e il marito cerca di correre ai ripari troncando la relazione. Il meccanismo filmico di Giraldi è simile a quello intrapreso ne La bambolona, perché si tratta di una commedia di costume per criticare la borghesia, i vizi privati e le pubbliche virtù, insistendo nella descrizione di una società ipocrita e corrotta. Non mancano i rivoluzionari di maniera tipici del periodo storico. Franco Giraldi riesce a mettere in scena la crisi della coppia e - tra alti e bassi - descrive a dovere la monotonia del rapporto matrimoniale. La colonna sonora è di Luis Bacalov, mentre il montaggio è di Franco Arcalli. La pellicola deve molta della sua forza alla grande interpretazione di Ugo Tognazzi e Senta Berger.


   La supertestimone (1971) è un film di grande successo dal genere indefinibile, perché i toni comici si stemperano in malinconia e diventano dramma. Grande cast: Ugo Tognazzi, Monica Vitti, Orazio Orlando, Véronique Vendell, Nerina Montagnani e Franco Balducci. Il soggetto è di Luisa Montagnani, la sceneggiatura di Tonino Guerra e Ruggero Maccari, la fotografia di Carlo De Palma, le musiche sono dell’esperto Luis Bacalov. Tognazzi è perfetto nella parte di un pappone condannato per omicidio e incastrato dalla testimonianza decisiva di una zitella, magistralmente interpretata da Monica Vitti. A un certo punto la donna si convince di essersi sbagliata, scagiona il magnaccia e lo sposa, ma la sua fine è quella di andare a battere sul marciapiede. La donna comprende sulla sua pelle di aver sbagliato tutto, perché l’uomo che ha sposato è un omicida  e uno sfruttatore. La forza della pellicola sono i personaggi grotteschi, che il regista rende credibili, anche grazie a una sapiente sceneggiatura.


   Gli ordini sono ordini (1972) sfrutta ancora una volta la bravura di Monica Vitti come attrice comica, ma anche il resto del cast è importante: Orazio Orlando, Luigi Proietti, Claudine Auger, Luigi Diberti, Corrado Pani ed Elsa Vazzoler. Monica Vitti è perfetta nei pani della casalinga frustata, sposata con un bancario veneto e insoddisfatta della vita che conduce. A un certo punto sente una voce del subconscio che la convince a concedersi a sconosciuti e la spinge a tradire il marito. Le azioni della donna sono in apparenza insensate, ma volute dalla sua parte più recondita. Il marito non sopporta più quella situazione e i due finiscono per lasciarsi, ma la donna incontra sulla sua strada uomini che non sono migliori del coniuge. Lo scultore interpretato da Luigi Proietti sembra un intellettuale aperto e rispettoso della sua autonomia, ma dopo un po’ di tempo si mostra nella sua vera essenza, cerca di modificare il carattere della donna e la fa scappare. Il marito si riavvicina alla moglie, vorrebbe farla tornare a casa, ma la scelta finale della donna sarà quella di stare da sola. Gli sceneggiatori sono ancora una volta Tonino Guerra e Ruggero Maccari, ma il soggetto deriva da un racconto di Alberto Moravia contenuto nella raccolta Il paradiso. Non è uno dei migliori film di Giraldi, perché la sovrastruttura femminista - di moda nel periodo storico - fa perdere freschezza alla pellicola. Per fortuna Monica Vitti evita di prendersi sul serio e imposta il personaggio con toni farseschi che salvano l’aspetto comico - ludico di un film tutto sommato godibile.
   La rosa rossa (1973) è una pellicola storica prodotta dalla RAI per il cinema ma poco distribuita, interpretata da Alain Cuny, Antonio Battistella, Elisa Cegani, Margherita Sala, Susanna Martinkova e Giampiero Albertini. La storia è tratta da un romanzo del mistero di Antonio Quarantotti Gambini e Giraldi ne ricava un buon affresco d’epoca che compone con ironia l’elegia dei sentimenti. La storia è ambientata nel periodo tra le due guerre, in un paese friulano dove fa ritorno un nobile ufficiale partito trent’anni prima. La pellicola è basata sui ricordi ma il più intenso è quello di una rosa rossa che una donna innamorata metteva ogni giorno nella camera dell’ufficiale. Quando il gesto si ripete a distanza di anni, l’uomo muore, ma resta ignoto il nome della misteriosa amante. Colonna sonora del grande Luis Bacalov.


   Colpita da improvviso benessere (1976), noto anche come Mercati generali, è un’altra interessante commedia con venature erotico - sociali interpretata da Mario Carotenuto, Franco Citti, Giovanna Ralli, Alesandra Vazzoler, Glauco Onorato e Stefano Satta Flores. Il soggetto è di Barbara Alberti e Amedeo Pagani, sceneggiato da Ugo Pirro e Carlo Vanzina. Molto brava Giovanna Ralli nei panni di Betty, la pescivendola che studia ogni mezzo pur di vincere la concorrenza, non disdegnando manovre illecite. Vende pesce guasto e truffa i rivali, ma in questo modo viene colpita da improvviso benessere, che però dura poco. Perde il banco ai mercati generali, anche se era diventata amante di un ispettore sanitario per evitare i controlli. Il funzionario integerrimo non si lascia corrompere e la denuncia. Franco Giraldi realizza un’ultima convincente opera cinematografica che anticipa i tempi del consumismo sfrenato, delle frodi alimentari e degli imprenditori disposti a tutti pur di far soldi. Il film è una commedia all’italiana, resa piccante da brevi parti erotiche, ma soprattutto è una satira feroce del consumismo e della corruzione italica. Gli attori sono bravissimi: Giovanna Ralli è una pescivendola perfetta, ma anche Franco Citti è un amante senza sbavature, anarchico e surreale, piange dopo aver visto Sacco e Vanzetti, schiaffeggia i preti  sotto il monumento di Giordano Bruno. Le musiche sono ancora una volta di Luis Bacalov. 


   A questo punto Franco Giraldi comincia a dedicarsi alla televisione, realizza sceneggiati, documentari e film per il piccolo schermo come Il lungo viaggio (1975), Un anno di scuola (1976), La città di Zeno (1977), La giacca verde (1979), Accadde a Weimar (9182), Mio figlio non sa leggere (1983), Il corsaro (1984), L’addio a Enrico Berlinguer - Ciao Enrico (1984), Il corsaro (1985), Tre vite parallele (1985), La fronda inutile. Ciano, Bottai e Grandi (1986), Rosa. Quattro storie di donne (1987), Nessuno torna indietro (1988), Isabella la ladra (1989), Una vita in gioco (1990), La bugiarda (1990), L’avvocato Porta (1997 - 1999), Pepe Carvalho (due episodi del 1999), Un altro mondo è possibile (2001), Firenze, il nostro domani (2003).


   Ricordiamo tra i migliori lavori televisivi Un anno di scuola (1976), tratto dai Racconti (1929) di Giani Stuparich, premio per la miglior regia e della critica al Festival di Praga, capace di raccontare lo stupore che una classe maschile prova all’arrivo della prima studentessa. Il regista racconta la sua terra e compone un mirabile affresco in tre puntate della Trieste di fine secolo. Degno di nota anche il documentario La città di Zeno (1977), che rende omaggio a Italo Svevo e a Trieste, come già aveva fatto nel 1962 con un cortometraggio dedicato allo scrittore istriano. La giacca verde (1979) è tratto da un racconto di Mario Soldati ed è ambientato nel ventennio fascista. Il corsaro (1985) è interpretato magistralmente da Philippe Leroy e porta sul piccolo schermo per tre puntate la storia del bucaniere Peyrol in lotta contro gli inglesi durante le guerre napoleoniche. La bugiarda (1990) è interessante, perché si tratta del remake televisivo della commedia cinematografica di Luigi Comencini (1965), interpretata da Catherine Spaak. Francesca Dellera, purtroppo, non ha molto in comune con l’attrice che l’ha preceduta e l’operazione risulta fallimentare. L’avvocato Porta (1997 - 1999) è una delle cose migliori realizzate da Giraldi per la televisione, perché sfrutta le caratteristiche peculiari di Luigi Proietti e Ornella Muti. La storia è una commedia garbata con toni di giallo che racconta le vicissitudini di un avvocato delle cause perse e le sue sbandate amorose. Toscano e Marotta sono gli sceneggiatori, che si ripetono per le nuove avventure - sempre su Canale 5 - dove l’avvocato cialtrone Proietti è affiancato da Maria Grazia Cucinotta. Pepe Carvalho (1999), invece è un fallimento estivo, sottolineato dalla presenza di Valeria Marini nel cast. Giraldi firma due episodi della serie programmata su Rai Due. 


   La frontiera (1997) è un modesto lavoro per il cinema, tratto dal romanzo di Franco Vegliani,  ma ridotto a ben poca cosa in una riduzione interpretata da attori poco in forma come Raoul Boca e Marco Leonardi. Altri interpreti: Claudia Pandolfi, Giancarlo Giannini, Omero Antonutti, Werner Egger. Si tratta di una pellicola bellica, ambientata nel 1941, in un’isola dalmata diventata territorio italiano. Niente di memorabile.


 Voci (2002) è l’ultimo dimenticabile film di Franco Giraldi per il cinema, interpretato da Valeria Bruni Tedeschi, Miki Manojlovic, Gabriella Pession, Gabriele Lavia, Sonia Bergamasco, Rossella Bergo, Imma Piro, Erika Blanc e Franco Diogene. Un film fuori dalle vecchie corde cinematografiche di Giraldi, ma vicino ai lavori televisivi di taglio noir e thriller, tratto da un romanzo anonimo di Dacia Maraini e sceneggiato dal regista con la collaborazione di Serena Brugnolo, Alessio Cremonini e Chiara Laudani. Niente di memorabile, un giallo inconcludente con protagonista una giornalista che hanno visto in pochi, un prodotto che ricorda le peggiori fiction televisive.
   Franco Giraldi resta un regista interessante, che non ha realizzato molti film per il grande schermo e a un certo punto della sua carriera ha preferito la più comoda strada televisiva. La sua commedia, venata di blando erotismo, è attenta ai caratteri e alla psicologia dei personaggi, ma soprattutto cerca di mettere alla berlina vizi italici e corruzione borghese. 

Gordiano Lupi

mercoledì 22 giugno 2011

Mangialibri parla della mia Storia del cinema horror italiano - vol.1

Storia del cinema horror italiano Vol. 1 – Il Gotico

 Storia del cinema horror italiano Vol. 1 – Il Gotico
Il primo volume della collana che Gordiano Lupi ha voluto dedicare alla storia del cinema horror italiano è incentrato sul gotico, il sottogenere forse meno celebrato tra quelli che hanno dato vita alla stagione d’oro della settima nella nostra penisola negli anni settanta. Un filone che ha permesso a registi come Riccardo Freda e Mario Bava di sperimentare nuove strade dell’orrore e di dar vita a pellicole immortali come “La frusta e il corpo”, “Gli orrori del castello di Norimberga” o il frediano “I vampiri”. I protagonisti del volume non sono solo i soliti noti come quelli già citati, ma anche registi apparentemente minori come Giorgio Ferroni, Antonio Margheriti, o sceneggiatori che hanno scritto la storia del cinema di genere italiano come Ernesto Gastaldi e Dardano Sacchetti…
Opera ambiziosa quella che promette Gordiano Lupi: a questo primo volume seguiranno, al ritmo di due libri all’anno, altre cinque “puntate”. Una dedicata a Dario Argento e Lucio Fulci, un’altra a Joe D’Amato e ai Cannibal movie, una quarta sull’horror metropolitano e lo splatter, una quinta incentrata sull’orrore degli anni ottanta e un’ultima che va ad indagare gli ultimi vent’anni di storia di cinema “de paura” in Italia.  Il taglio di questo volume è allo stesso tempo compilativo e storico: molto informato, farcito di tante curiosità, notizie, aneddoti, il libro sviscera la carriera dei registi cardine del genere attraverso un percorso in rigoroso ordine cronologico. Interessante l’idea di dedicare un lungo capitolo ai protagonisti “secondari” del gotico all’italiana, a quelle decine di registi, attori, sceneggiatori, produttori che idolatrati dai fan restano sconosciuti al grande pubblico. Una lettura sicuramente consigliata ai neofiti del genere, che pur non aggiungendo nulla a tutto quello che è stato scritto prova a mettere ordine ad un tema che nonostante sia stato studiato in lungo e in largo presenta ancora aspetto bui e confusi.
 
Michelangelo Pasini

martedì 21 giugno 2011

Café Express (1979) di Nanni Loy


Café Express (1979) è uno dei capolavori di Nanni Loy, come afferma la critica più avveduta. “Amaro spaccato di una piccola umanità cinica e cialtrona che si arrangia e sopravvive vendendo abusivamente caffè sui treni” (Canova). “Un film dal sapore neorealista interpretato da un inarrivabile Nino Manfredi nei panni di un povero venditore di caffè abusivo sui treni” (Poppi). La sceneggiatura è del regista che si avvale della collaborazione di Nino Manfredi ed Elvio Porta. Interpreti: Nino Manfredi, Vittorio Caprioli, Vittorio Mezzogiorno, Adolfo Celi, Gigi Reder, Lina Sastri, Luigi Basagaluppi, Tano Cimarosa, Maurizio Micheli, Clara Colosimo, Leo Gullotta, Silvio Spaccesi, Marzio Honorato, Marisa Laurito, Antonio Allocca, Nino Vingelli, Nino Terzo, Giovanni Piscopo e Franca Scagnetti. La musica - suggestiva e d’atmosfera - è della cantautrice Giovanna Marini. Gli elementi da commedia sexy si limitano al fugace incontro tra Marisa Laurito e il suo amante, consumato a bordo del treno grazie a Manfredi che sorveglia lo scompartimento. Il film è grande commedia all’italiana, di costume, impegnata a raccontare la vita di un venditore abusivo di caffè sul treno Palermo - Napoli, che vive con un figlio malato e l’handicap di un braccio di legno. Le avventure del venditore mostrano la sua lotta con i ferrovieri e i carabinieri che lo perseguitano ma anche con i borsaioli che lo vorrebbero reclutare nella banda. Adolfo Celi è un terribile ispettore del ministero dei trasporti che alla fine mostra il suo lato più umano. Vittorio Mezzogiorno è un borsaiolo dal coltello facile che mette nei guai il venditore di caffè subendone la reazione coraggiosa e rabbiosa. Vittorio Caprioli è il borsaiolo più elegante, un truffatore in guanti bianchi, mellifluo e intrigante. Lina Sastri è una suora molto intensa che accudisce i suoi orfanelli con tenerezza. Marisa Laurito si esibisce in un’insolita interpretazione sexy, condita di molta ironia, ma mette in mostra anche le lunghe gambe. Gigi Reder è un infermiere che procura le medicine per il figlio di Manfredi e interpreta il solito personaggio eccessivo con diligenza. Leo Gullotta è un patetico strabico che rimpiange di non aver coronato il piccolo sogno di fare il carabiniere. Maurizio Micheli è un bauscia milanese che beve il caffè adulterato dal borsaiolo e denuncia il venditore abusivo. Molte le macchiette irriverenti e persino alcuni momenti volgari (il borsaiolo orina nel caffè che viene servito ai passeggeri), ma il film non ne risente, perché diverte e fa pensare. Il treno è un microcosmo sociale interessante e Nanni Loy indaga su una serie di tipologie umane che frequentano la seconda classe fumatori, usando molta camera a mano e sfruttando l’esperienza acquisita nelle candid camera di Specchio segreto. La macchina da presa cattura luci e odori indelebili, racconta la vita di borsaioli, contrabbandieri, ricchi milanesi, suore in compagnia degli orfani, pendolari, piccoli truffatori e amanti che si danno appuntamento a bordo del treno.


Café Express è una pellicola sull’arte di arrangiarsi che Michele Abbagnano, venditore abusivo di caffè, esercita per sopravvivere. I racconti che Manfredi propina ai singoli avventori per giustificare la mano di legno, diversi per ogni incontro e adattati alla psicologia del personaggio, sono il leitmotiv ironico del film. Alla fine veniamo a sapere che la mano non è di legno, ma si tratta di un trucco per nascondere un arto paralizzato che spaventerebbe le persone. Lo stile di Nanni Loy è realistico - si ricordano le sequenze iniziali tra vento inclemente, pioggia e cigolare d’imposte -, il racconto del dramma umano è intenso e partecipe, la regia senza difetti. Per concludere dobbiamo accennare al rapporto di complicità che si crea tra padre e figlio, dopo che quest’ultimo è scappato di collegio per vivere con il genitore. Nel commovente finale il figlio finge un malore per salvare il padre dalla prigione. Nessuno se la sente di firmare la denuncia, neppure l’ispettore Adolfo Celi, tanto meno il carabiniere che è figlio di povera gente. Michele Abbagnano viene lasciato libero e può tornare a  vendere caffè sui treni. Un grande film che racconta la vita quotidiana, alternando commedia e tragedia, melodramma e ironia.