domenica 31 maggio 2015

Amore tossico (1983)

di Claudio Caligari




Regia: Claudio Caligari. Soggetto e Sceneggiatura: Guido Blumir, Claudio Caligari. Consulenza scientifica: Guido Blumir. Fotografia: Dario Di Palma. Montaggio: Enzo Meniconi. Musiche: Mariano Detto. Edizioni Musicali: Triple Time. Canzoni del tema: Acqua azzurra acqua chiara (Mogol - Battisti), Per Elisa (Battiato - Pio - Visconti). Aiuto Regista: Stefano Oddi. Operatore alla Macchina: Roberto Di Palma. Assistente Operatore. Antonio Scaramuzza. Fotografo di Scena: Carola Saltamerenda. Fonico: Roberto Alberghini. Microfonista: Antonino Pantano. Trucco: Teresa Cicchetti, Enzo Baraldi. Segretario di Produzione: Paolo Trotta. Consulenza Medica: dr. Antonio Severini. Amministrazione: Maria Lavinia Gualino, Gian Luigi Bruni. Assistente al Montaggio: Francesco Malvestito.  Capo Squadra Macchinisti: Luciano Micheli. Capo Squadra Elettricisti: Luciano Michisanti, Franco Brescini. Macchine da Presa: Arco 2 srl. Mezzi Tecnici: Tecnica Cinematografica srl. Sonorizzazione: Internazionale Doppiaggio. Sviluppo e Stampa: Cinecittà spa. Ispettore di Produzione: Bruno Tribbioli. Scenografia e Costumi: Lia Morandini, Maurizio Santarelli. Organizzatore Generale: Roberto Giussani. Casa di Produzione: Iter International spa. Produttore. Giorgio Nocella. Durata: 96’. Genere. Drammatico, droga movie. Interpreti: Cesare Ferretti, Michela Mioni, Enzo Di Benedetto, Roberto Stani, Clara Memoria, Dario Trombetta, Loredana Ferrara, Mario Afeltra, Fernando Arcangeli, Gianni Schettini, Mario Caiazzi, Silvia Starita.


droga movie sono un sottogenere cinematografico interessante che ha caratterizzato gli anni Ottanta del cinema italiano. Il primo film di questo tipo è Tunnel (meglio noto come Eroina), girato da Massimo Pirri nel 1980 e presentato al Festival di Venezia nello stesso anno. Nelle sale si vedrà solo tre anni dopo, in una nuova edizione. Interpreti: Helmut Berger, Corinne Cléry, Marzio C. Honorato, Franco Citti e Francesca Ciardi.  Il film tenta di costruire uno spaccato sociale romano mostrando i tossici dei primi anni Ottanta, ma gli attori sono professionisti e l’idea del regista sarebbe quella di dipingere la fine di una generazione utilizzando il volto distrutto di Berger. L’esperimento riesce fino a un certo punto. Si racconta la storia di uno spacciatore in fin di vita (Berger), di una bella ragazza abbastanza ingenua che si droga (Cléry) e di un bieco Honorato. I tre vivono su un autobus tra droga e sesso, crisi di astinenza e spaccio di stupefacenti, fino al tragico finale. La scena più sconvolgente della pellicola è quella che mostra una pera nell’organo sessuale della Cléry.


Amore tossico, girato nel 1983 da Claudio  Caligari, è il vero film cult in tema di droga movie, un’esperienza singolare di pellicola realistica girata in presa diretta. Il film è ambientato a Ostia nel mondo dei drogati e descrive la quotidiana caccia alla roba da parte di un gruppo di amici. Cesare Ferretti, Michela Mioni, Enzo Di Benedetto, Roberto Stani, Loredana Ferrara e Clara Memoria sono tutti attori non professionisti, soprattutto ex drogati. Recitano le parti dei personaggi con i loro nomi di battesimo e utilizzano un linguaggio trucido da borgatari che costituisce un mix riuscito di dialetto romanesco, gergo della malavita e del mondo dei tossici. I rumori di fondo tipici di un film inchiesta completano il quadro, al punto che - pur trattandosi di fiction - sembra proprio che gli attori recitino scene della loro vita. Non è così, ma di fatto interpretano un mondo e compiono dei gesti che conoscono molto bene, quindi risultano impeccabili nella finzione scenica. 


Vediamo l’acquisto delle siringhe, dei limoni, della droga, una scena veritiera dei tre amici che preparano la dose e se la sparano in vena. I protagonisti sono ex drogati, la condizione delle loro vene lo dimostra a sufficienza, così come è realistica la parte in cui vomitano dopo aver preso la dose. Vediamo il gruppo di tossici alle prese con il metadone e il servizio sociale che tenta di recuperarli, le sedute psicologiche e le rapine per procurarsi la roba. La sequenza con Loredana che si spara un’endovena nel collo è realistica e ben interpretata, ovviamente nella siringa c’è acqua distillata al posto di eroina bianca. Il linguaggio del film è un’altra perla da segnalare: uno schizzo (una dose), uno strappo (uno scippo), una chiusura (un furto), svoltare (comprare la droga e farsi), la spada (la siringa). Si racconta la prima volta che ci siamo fatti di cocaina, quasi come se si parlasse del primo amore, e la prima pera è vissuta in modo romantico. Il film è girato come un documentario, freddo e glaciale nella prima parte, al punto di scuotere i benpensanti convinti che sul set si faccia sul serio. Si parla di uso e spaccio di droga come se fosse la cosa più normale del mondo, si esibiscono transessuali e prostitute che si vendono per comprare la dose, si punta l’indice accusatore su papponi e sfruttatori dei tossicodipendenti. Un protettore sfrutta le drogate in crisi di astinenza, promettendo dosi in cambio di prestazioni sessuali alle sue dipendenze per clienti selezionati. Una scena molto trash vede un travestito innamorato di Cesare che avvicina due suore vestite di bianco per scandalizzarle: “Ma perché me piace tanto er cazzo? Le dia una palpatina, sorella…”.


Alcuni ex drogati raccontano la calata negli inferi del mondo della tossicodipendenza e la preparazione delle dosi è descritta in modo particolareggiato: cucchiaio, accendino, filtro, siringa e penetrazione in vena. I due protagonisti innamorati (Cesare e Michela) parlano di smettere ma non ce la fanno e quando decidono di farsi l’ultima pera è troppo tardi. La coca, presa come ai vecchi tempi, iniettata in vena sotto il monumento in memoria di Pasolini, produce il danno irreparabile.


La seconda parte del film è troppo drammatica, finisce per scadere nel banale con la sequenza della overdose di Michela davanti al monumento di Pasolini. La scena è così tecnicamente ben realizzata da sembrare vera, anche se i flashback romantici di Cesare risultano eccessivi. La corsa all’ospedale è inutile, i medici tentano di salvare la ragazza ma c’è poco da fare mentre Cesare disperato ricorda il passato. Il fallito suicidio di Cesare a Ostia, la sua corsa di nuovo verso Roma, la polizia che uccide il protagonista, completano il quadro di una conclusione troppo melodrammatica. La prima parte della pellicola, invece, è ben sceneggiata ed è credibile come se fosse un documentario nel mondo dei tossici, realizzato da Caligari e Blumir.


La critica non è uniforme. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Fenomenologia dell’uso e dello spaccio della droga girata con stile documentaristico e interpretata da drogati autentici, che cede in un finale banalmente drammatico. La regia vorrebbe essere distaccata, ma è tanto piatta che rischia di essere voyeuristica (le scene nell’endovena nel collo)”. Morando Morandini (due stelle e mezzo): “Ambientato a Ostia e dintorni, è, in chiave di cinema verità, una fiction di cui sono interpreti veri giovani drogati con le braccia trafitte di buchi e di lividi, le fantasie e pulsioni di morte, i comportamenti e le liturgie, il ribaldo vitellismo, la pena e il disordine del vivere, la tetra allegria. Fu definito un film tagliato, come si dice dell’eroina (o del vino), fatto di roba buona (efficace) e di roba meno buona, come nel finale retorico e melodrammatico. Film postpasoliniano per l’ambientazione, l’onesto atteggiamento frontale, il linguaggio disadorno e lucido che nasce dal rispetto e suscita pena”. Pino Farinotti concede tre stelle, valutazione condivisibile, ma si limita a sintetizzare la trama fino all’epilogo melodrammatico della morte di Cesare per mano di due poliziotti che avevano tentato di fermarlo. Marco Giusti (Stracult): “È rimasto un film unico, curioso, assolutamente anomalo. Opera prima di Claudio Caligari sul mondo e sottomondod ella droga a Roma, con veri drogati, quasi tutti scomparsi e finiti male (a cominciare dalla protagonista Michela Mioni per finire con la poetessa Patrizia Vicinelli). Quando uscì a Venezia venne accusato di paolinismo a buon mercato, di dipendenza da troppi padroni - cioè Gaumont e Marco Ferreri che, caso più unico che raro, lo sponsorizzava all’americana - di bassa sociologia.  Ma il film ha una forza e un realismo estranei al cinema di quel tempo, perfino nei suoi eccessi. Si sprecano gli schizzi, le scene che vorrebbero essere emblematiche, come il quadro costruito con il sangue dei ragazzi che si bucano, i troppi omaggi a Pasolini (Michela muore a Ostia davanti al suo monumento, Cesare viene ucciso dalla polizia come Franco Citti in Accattone), i flashback sballati. Ma il viaggio da Ostia a Roma in attesa della roba, il trucidume dei primi anni Ottanta è fotografato con un tempismo agghiacciante. Ultratrash, ultrarealistico. Un film perso da molto tempo (ora ritrovato, disponibile in dvd, nda). Caligari tornerà alla regia quindici anni dopo, grazie a un altro regista, Marco Risi, che gli produrrà l’interessante Il colore della notte”. Il titolo corretto della pellicola è L’odore della notte, ma Giusti non può scrivere una voce senza inserire un errore, forse fa parte del suo stile. Roberto Poppi (I Registi Italiani): “Cruda e spietata cronaca della quotidianità disperata di due giovani tossicodipendenti”.


Amore tossico viene premiato al Festival di Venezia come miglior opera prima, riceve un riconoscimento speciale nella sezione De Sica, ed è distribuito con il patrocinio di Marco Ferreri che lo difende da tutte le critiche negative. Riceve anche il Premio Selezione Speciale al Festival di Valencia, mentre Michela Mioni ottiene il Premio come miglior interprete femminile al Festival di San Sebastiano.


Amore tossico è un film singolare, atipico, curioso, che descrive il sottomondo della droga facendo parlare attori estrapolati dall’ambiente della tossicodipendenza. I protagonisti non si sono più visti in altre pellicole e da quel che si legge pare che siano finiti quasi tutti male. Cesare Ferretti, il protagonista principale, pur disintossicato dall’eroina, è morto di Aids il 17 marzo del 1989, come la poetessa Patrizia Vicinelli - nel film interpreta la pittrice che dipinge quadri con il sangue dei tossici - ex Gruppo 63, morta di Aids nel 1991 e Loredana Ferrara (22 settembre 1991). Michela Mioni, la protagonista femminile premiata a San Sebastiano, è ancora viva, ma ha avuto guai giudiziari pochi mesi dopo l’uscita del film. Roberto Stani (Ciopper, nel film) ha continuato a fare l’attore di teatro di taglio pasoliniano, legati al mondo del carcere, ed è morto il 15 luglio 2011, in Africa (dove si trovava per sposarsi), per malaria.


Il regista afferma. “Erano attori non professionisti, scoperti da me e da Blumir nel mondo della droga, alcuni ne erano usciti, altri meno. Era importante che conoscessero bene l’ambiente per conferire realismo alla sceneggiatura, ma dovevano anche essere capaci di recitare. Non fu facile scegliere. Capitava che dovessimo sostituire qualcuno perché arrestato dalla polizia e allora lo rimpiazzavamo con delle comparse somiglianti”. Amore tossico è stato tacciato di pasolinismo a buon mercato e di bassa sociologia. Non condividiamo. Resta un film eccessivo e realistico, forte quanto basta e ricco di scene simboliche. Il quadro costruito con il sangue dei ragazzi che si bucano è un vero colpo di genio del regista. “Questo sì che è un quadro vero. Fatto di vita. Fatto di sangue. Di sangue nostro”, dice Cesare. Un’opera ancora oggi definita di culto che segna per sempre la carriera di Caligari. Inquietante la colonna sonora di Mariano Detto, musica gelida, intensa, psichedelica, interrotta da un paio di canzoni leggere intonate dai tossici: Acqua azzurra acqua chiara e Per Elisa. Fotografia sporca di Dario Di Palma, pellicola quasi graffiata che - insieme al suono in presa diretta e al montaggio compassato - conferisce realismo alla narrazione.

Claudio Caligari

Gli anni Settanta - Ottanta sono il periodi di maggior diffusione della droga pesante in Italia, la stampa affronta il problema, ma in modo soft, senza spiegare i motivi per cui la gente si droga. Caligari e Blumir vengono dal documentario e dalla saggistica sul tema della tossicodipendenza, conoscono a fondo il tema e pongono l’accento su quello che molti non osano dire. Il regista non ha difficoltà a esibire la ricerca del piacere, di un piacere tutto interno e personale, non condivisibile, che gli stupefacenti offrono a buon mercato. Caligari aveva già girato un documentario sull’eroina, con Amore tossico decide di realizzare fiction veritiera, affrontando un argomento che i media rimuovono sistematicamente. Amore tossico vive anche di situazioni grottesche, ai limiti del comico, immerso nel mondo illegale della periferia romana, recitato da un gruppo di ex drogati che diventano uomini di fiducia del regista. Caligari acquisisce il gergo dei drogati, della malavita e della borgata, scrive un soggetto con l’aiuto dei ragazzi che agiscono come veri esperti, ma si serve anche di un consulente medico per girare le scene con le iniezioni in vena. La sceneggiatura viene modificata ben quindici volte, perché Caligari tiene conto delle critiche del gruppo di ex drogati e vuole realizzare un film che sia un vero spaccato di realtà degradata. “Il mondo della droga è così singolare che solo chi l’ha vissuto può renderlo sulla scena”, afferma Caligari. Il regista è bravo a scegliere ex tossici che sanno recitare e che soprattutto non interpretano se stessi ma una sceneggiatura realistica. Molti critici sono caduti nell’inganno di pensare che Amore tossico sia la vera vita dei protagonisti, mentre si tratta di pura fiction interpretata da attori che conoscono bene l’argomento di cui parlano.
Il regista ha rilasciato alcune interessanti dichiarazioni che sono reperibili tra gli extra del dvd edito da Surf Video - Dnc.

Valerio Mastandrea ha prodotto l'ultimo film di Caligari

“Fu un film molto difficile da fare. Avevamo scritturato degli ex tossicodipendenti che condividevano l’operazione politica del film, ma c’era il problema che ogni tanto uno di loro veniva arrestato prima di girare una scena. Allora dovevamo ingaggiare avvocati per tirarli fuori, spesso pagare costose cauzioni. Fu una vera avventura, il budget era basso, girammo tutto in un mese. Decidemmo di girare il momento delle iniezioni in vena in modo realistico, con riprese in primo piano, ricche di particolari. Le scene più sconvolgenti erano quelle che mostrano vere iniezioni in vena di sostanza liquida. Non si trattava di droga ma di sostanze disintossicanti e neutre che gli ex tossicodipendenti non prendevano volentieri. La scena di Loredana che si buca nel collo con acqua distillata per simulare eroina bianca è stata realizzata con l’ausilio di un gigantesco specchio fuori campo perché vedesse bene dove doveva infilare l’ago. Il problema di girare le sequenze con iniezioni di finta droga nelle vene fu quello di convincere i drogati a non prendere sostanze tossiche”.

Valerio Mastandrea e Claudio Caligari

Il film racconta la storia della droga in Italia che comincia a diffondersi con la cocaina e l’anfetamina, per poi passare a eroina e sostanze ancora più letali. Alcune sequenze della sceneggiatura non sono state girate, forse per una sorta di autocensura che lo stesso Caligari si impose. Il taglio consiste in alcune sequenze molto dure che ricostruivano il mondo della droga in carcere. La sceneggiatura non girata narra l’arresto del protagonista che passa una notte in galera con altri tossici, alla fine si vede un drogato che s’impicca in preda a una crisi di astinenza. Dopo il suicidio del tossico il protagonista viene trascinato in un’altra cella da alcuni secondini e riempito di botte. La scena era ispirata a una storia vera, ma la produzione decise di tagliarla - d’accordo con il regista - perché troppo cruda per il momento storico, visto che si parlava di eroina in carcere e di botte inferte dai secondini.

Mastandrea e Caligari sul set dell'ultimo film

Claudio Caligari (Arona, Novara 7 febbraio 1948 - 26 maggio 2015) è autore di interessanti documentari, soprattutto Perché droga, diretto con Daniele Segre. nel 1975. Ricordiamo altri lavori di impostazione socio-culturale realizzati con la collaborazione di Franco Barbero: Lotte nel Belice, La macchina da presa senza uomo, La follia della rivoluzione, La parte bassa. Tre film a soggetto, ma Amore tossico è il suo lavoro di culto. Torna al cinema ben quindici anni dopo con L’odore della notte (1998), tratto da un romanzo di Dido Sacchettoni, che Roberto Poppi definisce “un film molto ben girato che cerca di riprendere il discorso avviato dal cinema poliziottesco degli anni Settanta, ma con le ambizioni stilistiche dell’autore con la A maiuscola”.  Malato da tempo, muore a soli 67 anni. Aveva appena terminato di girare un nuovo lungometraggio: Non essere cattivo, prodotto da Valerio Mastandrea. Speriamo di vederlo presto. I funerali del regista si sono svolti a Roma, il 28 maggio, nella Chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo. 

Una versione ridotta di questo articolo è uscita su Futuro Europa: http://www.futuro-europa.it/, per cui scrivo recensioni e articoli legati al mondo del cinema.

giovedì 28 maggio 2015

Sistemo l’America e torno (1974)

di Nanni Loy


Regia: Nanni Loy. Soggetto: Piero De Bernardi, Leo Benvenuti. Sceneggiatura: Piero De Bernardi, Leo Benvenuti, Nanni Loy. Fotografia: Sergio D’Offizi. Montaggio: Franco Fraticelli. Musiche: Luis Enríquez Bacalov. Scenografia. Aurelio Crugnola. Distribuzione: Titanus. Durata: 106’. Genere. Commedia - Drammatico. Interpreti: Paolo Villaggio, Sterling Saint-Jacques, Armando Brancia, Alfredo Rizzo, Rita Savagnone, Christa Linder, Carla Mancini, Fernando Cerulli, Nello Pazzafini, Jeff Brown.


Sistemo l’America e torno (1974) è una spietata analisi del razzismo negli Stati Uniti, sceneggiata da regista con la collaborazione di Piero De Bernardi e Leo Benvenuti. Un impiegato di Busto Arsizio (Villaggio) si reca negli Stati Uniti per scritturare Ben Ferguson, un giocatore di colore di basket (Saint-Jacques) per la squadra aziendale, guidata da un ricco e arrogante imprenditore (Rizzo). Il cestista milita nel movimento antirazzista delle Black Power, si fa notare per dimostrazioni e proteste anche durante le gare. Inoltre pare non avere nessuna voglia di venire in Italia, porta il povero Villaggio a vagare per gli Stati Uniti mentre ritarda con diverse scuse la partenza. Commedia all’italiana insolita per lo sguardo impietoso sugli Stati Uniti, che vede un Paolo Villaggio in gran forma interpretare un ruolo diverso, prima da provinciale alla scoperta di un nuovo mondo, infine protagonista di un’impensabile tragedia. 



Impegno politico notevole, a tratti persino eccessivo, sia per lo sviluppo che per il finale imprevedibile e cruento, ma un certo modo di affrontare i problemi da parte degli intellettuali era figlio dei tempi. Amiamo di più il Nanni Loy di Detenuto in attesa di giudizio e Caffè Express, ma Sistemo l’America e torno resta un’interessante pellicola on the road, girata in presa diretta, con stile documentaristico e da reportage, che porta alla scoperta di New York, Detroit, Reno, New Orleans, Miami e Atlanta. Proprio in quest’ultima città il giocatore disputerà l’ultima partita con la sua squadra, ma non partirà per l’Italia perché la protesta inscenata insieme ai compagni di colore gli costerà la vita. Finale tragico con Villaggio che torna in Italia e a bordo dell’aereo piange per la morte del giocatore, ormai diventato suo amico.


Un film non molto uniforme, a volte ripetitivo, ma interessante per il tentativo di capire la società nordamericana e il razzismo, superando facili stereotipi. Il viaggio che il giocatore fa compiere a Villaggio diventa una sorta di itinerario spirituale alla scoperta di una cultura ignota, tra mostre d’arte afroamericana, movimenti politici di protesta, aggressioni a ricchi imprenditori e partite di basket ben ricostruite. La scoperta straordinaria e sconvolgente sarà quella di trovarsi di fronte a una società razzista con una polizia ostile alla parte nera della popolazione e un’evidente segregazione razziale, persino in ambiente scolastico e ospedaliero. Nanni Loy affronta il problema della marginalità dei neri, il degrado degli ambienti in cui vivono, la diffidenza dei bianchi, la disoccupazione e i quartieri fatiscenti dove vengono confinati. Altra accusa importante: i neri vengono considerati solo nel mondo dello sport dove sono utili per vincere competizioni e aggiudicarsi medaglie. 


Se le cose sono cambiate - anche se momenti di razzismo di tanto in tanto affiorano - il merito è stato anche di simili operazioni intellettuali. Niente da dire sulla tecnica. Fotografia sporca, macchina a mano, zoom usato con proprietà, piani sequenza poetici, stile da film inchiesta. Villaggio è bravissimo, un anno primo del successo fantozziano e ancora attore poco noto al grande pubblico. Meno bravo Sterling Saint-Jacques, attore di modeste qualità, mentre il resto del cast è pura coreografia. Il finale è un trionfo della commedia all’italiana, che racconta la vita e non è soltanto farsa, ma vive di momenti drammatici intensi. La denuncia non è mai di maniera e non scade nella macchietta pietosa e compassionevole.


La critica. Morando Morandini (due stelle e mezzo - tre per il pubblico): “Commedia all’italiana in trasferta USA con esplicito impegno politico, guidato da un Loy scombinato ma efficace. Paolo Villaggio è in gran forma. Insolito sguardo sull’America”. Pino Farinotti concede tre stelle limitandosi a sintetizzare la trama. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Il vecchio motivo del provinciale nel nuovo mondo è alla base di un ibrido che indugia nel reportage sensazionalistico e poi scivola nella tragedia. Messaggio politico progressista molto forzato, ma che allora andava di moda”.


Approfittiamo per ricordare in sintesi la carriera di un nostro importante regista abbastanza dimenticato. Nanni Loy (Cagliari, 1925 - Fregene, 1995) si laurea in giurisprudenza, frequenta il Centro Sperimentale Cinematografico e si diploma in regia. I suoi primi lavori sono cortometraggi (Pittori davanti allo specchio, Dipinti biografici), apprendista a bottega di buoni registi (soprattutto Luigi Zampa) e dal 1949 al 1953 aiuto sul set di alcune pellicole: La figlia del mendicante, Africa sotto i mari, Il capitano di Venezia, Amo un assassino, Camicie rosse, Processo alla città, Anni facili, Canzoni di mezzo secolo, Canzoni canzoni canzoni, Casa Ricordi, Maddalena e Ragazza d’oggi


Il primo lavoro che lo vede regista come responsabile della seconda unità è Tam Tam Mayumbe (1955). Collabora con Gianni Puccini per Parola di ladro (1957) e i due registi sono entrambi all’esordio dietro la macchina da presa. La coppia di registi ottiene ancora un buon successo di pubblico con Il marito (1958), interpretato da Alberto Sordi.  Primo film da solista. Audace colpo dei soliti ignoti (1959), intelligente sequel de I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli. Un giorno da leoni (1961) e Le quattro giornate di Napoli (1962) sono le prime opere che secondo la critica rivelano la spiccata personalità di Nanni Loy (si veda Roberto Poppi e Gianni Canova). Nel 1964 Nanni Loy approda in televisione per dirigere Specchio segreto, un programma che ha modificato il modo di fare intrattenimento televisivo. Gag create a tavolino mentre una telecamera nascosta dietro uno specchio segreto filma le reazioni delle persone alle provocazioni. 


Alcune gag da ricordare: il marito tradito, il fidanzato scemo, la zuppetta nel bar, il disoccupato che reclama diecimila lire davanti alla fabbrica e il balbuziente. Un successo enorme di pubblico, anche se la critica non è d’accordo perché rimprovera al regista di lavorare secondo sceneggiature studiate in precedenza. Il programma è un’idea originale di Nanni Loy che riveste un ruolo importante da attore - guastatore, una sorta di Candid Camera artigianale ispirato al programma statunitense. Tutti lo ricordiamo inzuppare il cornetto nel cappuccino dello sconvolto avventore di un bar per studiare le reazioni dell’italiano medio. Molti i lavori interessanti: Made in Italy (1965), Il padre di famiglia (1967), Rosolino Paternò soldato (1969), Detenuto in attesa di giudizio (1971),  Sistemo l’America e torno (1974), Signore e signori buonanotte (1976), Basta che non si sappia in giro (1976), Quelle strane occasioni (1976), Café Express (1979), Testa o croce (1982), Amici miei - Atto III (1982), Mi manda Picone (1983). 


Nanni Loy torna in televisione con la fiction Gioco di società (1989) e i suoi ultimi lavori per il cinema sono ancora due opere su Napoli come il musical teatrale Scugnizzi (1989) e la commedia ironica Pacco, doppio pacco e contropaccotto (1993). Gli ultimi lavori di Nanni Loy sono il film televisivo A che punto è la notte (1994) e la regia teatrale di Scacco pazzo (1994). In televisione ricordiamo il regista alle prese con buoni programmi di varietà come Il tappabuchi e il rievocativo Ieri e oggi. Nel 1970 interpreta Marcovaldo, dai racconti di Italo Calvino, per la regia di Giuseppe Bennati. Nanni Loy ha una buona attività come attore: Le belle famiglie, I complessi, Lettera aperta a un giornale della sera, Incensurato provata disonestà carriera assicurata cercasi, Tre canaglie e  un piedipiatti e Tre tigri contro tre tigri. Il regista - per tutta la vita grande tifoso della Lazio - muore a 69 anni a Fregene, il 21 agosto del 1995 e viene sepolto al cimitero del Verano, a Roma.    Le pellicole di Nani Loy si segnalano per un’intelligente critica di costume, mai qualunquista, che ci permettono di inserirlo nel ristretto gruppo di registi che meglio hanno saputo narrare i mutamenti avvenuti nell’Italia del dopo boom, fino ai primi anni Novanta.


Gian Piero Brunetta scrive: “Loy è soprattutto un regista che ama osservare gli altri, che descrive il dibattersi di personaggi comuni nelle ragnatele burocratiche, giudiziarie, esistenziali, come nella normale routine quotidiana, tentando di far sentire il senso della propria protesta civile con un tono di voce moderato, ma con pugno fermo. Mantiene nelle sue storie il gusto per l’accadimento imprevisto, lo stupore e l’ammirazione sia per la creatività italiana del vivere giorno per giorno che per la stupidità burocratico - istituzionale che assume proporzioni iperboliche. I suoi film mantengono l’imprinting stilistico - morale del cinema di Luigi Zampa, con cui Loy ha fatto l’apprendistato e come insieme aiutano a ricostruire il ritratto antieroico del viaggio dell’italiano medio lungo la storia di quest’ultimo cinquantennio. 


Il tempo lavora a favore dei film di questo regista, accentua il retrogusto amaro delle sue commedie, ma anche il tipo di coinvolgimento e di partecipazione affettiva alle avventure picaresche dei suoi protagonisti. Se da Zampa ha ereditato la vena di scetticismo, da Eduardo De Filippo il senso di una tradizione profonda, il desiderio di cogliere al di là del gioco delle maschere e degli stereotipi, dei meccanismi della commedia, il senso della perdita dello spirito della napoletanità, del degrado inesorabile dell’anima napoletana” (Storia del cinema italiano - vol.4 - dal miracolo economico agli anni novanta, pp. 309-310).

Gordiano Lupi scrive di cinema su Futuro Europa: http://www.futuro-europa.it/

martedì 26 maggio 2015

La cameriera seduce i villeggianti (1980)

di Aldo Grimaldi


Regia: Aldo Grimaldi. Soggetto e Sceneggiatura: Dardano Sacchetti. Fotografia: Angelo Lotti. Montaggio: Luigi Gorini. Musiche: Piero Umiliani. Scenografie: Franco Bottari. Trucco: Pietro Tenoglio. Produzione: European Film Distribuzione. Distribuzione: Harold Film. Durata: 92’. Genere: Commedia Sexy. Interpreti: Anna Maria Rizzoli (moglie di Orazio), Carlo Giuffrè (Orazio), Pippo Santonastaso (Amedeo), Ada Pometti (Guendalina, la cameriera), Raf Luca (Billy), Maurice Poli (Il Marsigliese), Giorgio Bracardi (Amedeo Ferretti), Isabella Biagini (Pucci Ferretti), Tognella (non accreditato).


Aldo Grimaldi (1942 - 1990), figlio del regista - sceneggiatore Gianni, si forma alla scuola di Matarazzo, Fizzarotti, Russo e Steno, esordisce alla regia nel musicarello con Al Bano e Romina Power (Nel sole, 1967), prosegue nel solco di un cinema commerciale dirigendo - tra gli altri - alcuni Franco & Ciccio movie. Nel campo del sexy citiamo Quando le donne si chiamavano madonne (1972), un decamerotico sofisticato interpretato da Edwige Fenech e Don Backy (si veda Le Dive Nude - il cinema sexy di Gloria Guida e Edwige Fenech - Profondo Rosso, 2006) e Amanti miei, un erotico spinto ma di poche pretese interpretato da Cindy Leadbatter e Anna Maria Clementi. Aldo Grimaldi lascia il cinema con il terribile Champagne in Paradiso (1984), un ritorno del musicarello con Al Bano e Romina che fanno la storia dei loro successi. Non se ne sentiva il bisogno.
 
 
La cameriera seduce i villeggianti (1979) è il suo penultimo film, tarda commedia sexy che porta i segni di tutta la stanchezza di un genere ormai sin troppo sfruttato. Grimaldi non è un esperto di commedie scollacciate e certi attori sono del tutto impresentabili. Giorgio Bracardi e Pippo Santonastaso divertono in radio e in televisione ma sul grande schermo naufragano miseramente. Isabella Biagini, Maurice Poli e Carlo Giuffrè alzano il livello di recitazione, ma si cade di nuovo quando entra in scena un pessimo Raf Luca. Anna Maria Rizzoli è la protagonista, la storia è costruita per sfoggiare tutta la sua bellezza prorompente, ma è l’attrice la prima a definire la pellicola “un filmetto mediocre”.
 
 
Ada Pometti è la cameriera del fuorviante titolo, perché in realtà non seduce nessuno, legge fotoromanzi e finisce per sbaglio nel letto di Giuffrè, ma niente più. Mancano le idee, una tarda commedia erotica priva di nerbo e inventiva, scritta per esibire le grazie della bella attrice milanese ma senza osare troppo. Forse sono più sexy i personaggi interpretati da Isabella Biagini (stralunata ninfomane) e Ada Pometti (disinibita cameriera).
 
 
In breve la trama. Orazio (Giuffrè) e Marina (Rizzoli), gestori di una pensioncina, hanno alcune cambiali in sospeso con i coniugi Amedeo (Bracardi) e Pucci Ferretti (Biagini). Fra i quattro si innesca un giro di seduzioni e scappatelle, nel quale vengono coinvolti un trafficante di droga (Luca), un gangster (Santonastaso), un brigadiere (Poli) e la maldestra cameriera Guendalina (Pometti). Dardano Sacchetti viene accreditato dai titoli di testa come autore di soggetto e sceneggiatura, ma ci ha confidato di aver firmato una pellicola che non conosce neppure, in cambio di altri contratti. Infatti non è proprio il suo genere. Non resta che attribuire la responsabilità di una scrittura sciatta e approssimativa al regista, che segue (male) la lezione di Feydeau e imbastisce una pochade a base di scambi di camere, copie e tanti equivoci. Il film è una noiosa farsa scollacciata, costruita a imitazione di prodotti meglio riusciti, ambientata (per gli esterni) nell’Hotel Miraggio a Fregene, comune di Fiumicino.
 
 
Neppure un attore come Carlo Giuffrè riesce a regalare un momento di ilarità al povero spettatore, pare svogliato e assente, sia nelle parti sexy che nei siparietti comici prevedibili e ripetitivi. Giorgio Bracardi è addirittura irritante, nonostante l’originalità del repertorio di smorfie e pernacchie. Va ricordato quando tasta ripetutamente il seno della Rizzoli e strabuzza gli occhi estraendo più volte la lingua con la sua tipica mimica.
 
 
Pippo Santonastaso cerca di recitare scenette da cinema muto ma ci riesce poco, Raf Luca è addirittura indecoroso. Biagini, Rizzoli e Pometti mostrano poco o niente e quanto a recitazione meglio non parlarne. Bene la musica di Piero Umiliani, tra motivetti sexy e pezzi di jazz come Discomania, sigla finale del 90° minuto di Paolo Valenti. Un film che si dipana tra equivoci e malintesi, dopo una buona mezz’ora introduttiva che sembra non condurre da nessuna parte. Commedia sexy al tramonto, senza possibilità di rivalutazione.
La versione spagnola (Camarera de Hotel) sfoggia una locandina ultra sexy con la Rizzoli versione colf, seminuda e a novanta gradi, ma è soltanto un disegno a colori che serve a illudere il pubblico su contenuti inesistenti.
 
 
Annamaria Rizzoli merita due parole di commento, perché è una delle attrici italiane più belle e desiderabili degli anni Ottanta, anche se il cinema non ha saputo utilizzare al meglio le sue doti. Nasce nel 1953 e si fa un nome come “il seno più bello d’Italia”, ma anche come testimonial del liquore Stock, vestita da sexy Babbo Natale. La Rizzoli è una bella ragazza bionda, alta e formosa, dallo sguardo finto ingenuo e ammaliante, che fa parlare di sé grazie agli spogliarelli televisivi durante la trasmissione Playboy di mezzanotte condotta da Enzo Tortora e Lucio Flauto. Sa gestire bene la sua immagine, si spoglia sulle pagine della rivista patinata per adulti Playboy, fino a quando nel 1979 riesce a condurre il Festival di Sanremo accanto a Mike Bongiorno. In televisione la ricordiamo insieme a Walter Chiari (con cui ha avuto una lunga relazione) e Vittorio Caprioli nel programma comico - musicale Io te tu io (1979). Per la televisione recita nello sceneggiato a puntate I ragazzi di celluloide di Sergio Sollima con Massimo Ranieri. Annamaria Rizzoli è stata oggetto di una “proposta indecente” - prima del famoso film - da parte di un industriale milanese che offrì ottanta milioni per passare una notte d’amore con lei.
 
 
La sua carriera cinematografica si concentra in pochi anni (1979 - 1982) e rappresenta il canto del cigno della commedia sexy, che mette in campo una delle sue rappresentanti più belle proprio quando le idee sono finite. Edwige Fenech sta passando al cinema alto e si spoglia sempre meno, Annamaria Rizzoli è l’alter ego biondo della Fenech, disponibile a spogliarsi con generosità per una manciata di commedie sexy che le fanno toccare l’apice della popolarità nel 1980. Il suo debutto cinematografico avviene nel 1976 con Milano… difendersi o morire di Gianni Martucci, dove recita accanto a Marc Porel in un poliziottesco cult che vede far parte del cast anche Gorge Hilton e Al Cliver.
 
Per leggere altre mie recensioni (anche su cinema contemporaneo), seguite Futuro Europa: http://www.futuro-europa.it/

venerdì 15 maggio 2015

Il bocconcino (1976)

di Romando Scandariato



Regia: Romano Scandariato. Soggetto e Sceneggiatura: Romano Scandariato. Fotografia: Vittorio Bernini. Montaggio: Francesco Bertuccioli, Adalberto Ceccarelli. Direttore di Produzione: Gino Soldi. Musiche: Carlo Maria Angera. Edizioni Musicali: Nazionalmusic (Milano). Teatri di Posa: Icet - De Paolis (Milano). Costumi: Itala Scandariato. Scenografia: Lucia Terzuolo. Colore: Telecolor spa. Sonorizzazione: N.C. con la collaborazione della Cooperativa Doppiatori. Mixage: Bruno Moreal. Produzione: Armando Bertuccioli per la Lido Cinematografica. Aiuti Regista: Giacomo Gramegna, Paolo Petrucci. Trucco: Carlo Sindici. Operatore alla Macchina: Dario Mulazzani. Assistente Operatore: Lanfranco Lucarelli. Fonico: Sergio Basili. Sarta. Valeria Mariani. Interpreti: Antiniska Nemour (Gemma), Flora Saggese (Betty), Lucio Flauto (Amedeo), Hélène Chanel (Michela), Claudio Gallone (Gigi), Italia Vaniglio (Gelsomina), Fabio Conti, Lucio Como.



Romano Scandariato (Fiume, 1938 - Roma, 2010) entra nel cinema come aiuto di Domenico Paolella, lavora con Aristide Massaccesi, Sergio Sollima, Maurizio Lucidi, Ugo Liberatore e soprattutto Marino Girolami. Si ricorda soprattutto come ottimo sceneggiatore (La morte ha sorriso all’assassino, Un bounty killer a Trinità, La via della prostituzione, Grazie nonna, Sesso profondo e Il marito in vacanza), gira alcuni documentari e una manciata di film non certo memorabili. Il debutto dietro la macchina da presa è con Fra Tazio da Velletri (1973), firmato Romano Gastaldi, seguito da Il bocconcino (1976) - dove fa quasi tutto, a parte montaggio e fotografia - e tre Nino D’Angelo movie (L’ammiratrice, 1983; Quel ragazzo della curva B, 1986; La ragazza del metrò, 1988). Scandariato gira anche Attraverso l’Italia (1986), ventiquattro documentari alla scoperta dei luoghi più suggestivi della penisola.



Il bocconcino è il solo lavoro del regista di Fiume classificabile come commedia sexy, basata sulle grazie da ninfetta Antinesca Nemour (qui Antiniska), telefonista della popolare trasmissione televisiva Portobello condotta da Enzo Tortora e meteora cinematografica. Il bocconcino la vede ricoprire il malizioso ruolo della lolita perversa che insidia il cugino Gigi (Gallone), liceale in vacanza alle prese con i primi turbamenti. Pare che la sexy telefonista abbia sostituito nel ruolo principale Taryn Power, sorella di Romina, che avrebbe chiesto troppi soldi. L’informazione proviene da Stracult di Marco Giusti, vero florilegio di inesattezze, quindi va presa con il beneficio dell’inventario. A proposito de Il bocconcino, il critico romano parla di Febo Conti come interprete e aggiunge che il film è girato sul Lago Maggiore, notizie errate che purtroppo riporto nel mio testo Sexy made in Italy. Ricordiamo Antinesca Nemour nei panni di una vittima sacrificale nel Salò (1975) di Pasolini e come presenza sexy ne La sposina (1977) di Bergonzelli, che ha avuto una versione hard: Taxi Love servizio per signora (1977).



Protagonista maschile de Il bocconcino un modesto Lucio Flauto (per Mereghetti il solo che si salva), mentre lo studente irretito dalla bella cugina e da una sexy insegnante d’inglese (Flora Saggese) è Claudio Gallone (adesso giornalista). Da un punto di vista erotico, la palma della miglior presenza spetta alla più anziana: Hélène Chanel, nome d’arte della franco - russa Hélène Stoliaroff (1941), attiva nel cinema italiano e nel mondo dei fotoromanzi, bionda sexy dagli occhi chiari, doppiata da Luisella Visconti. Il bocconcino la vede procace moglie di Flauto, protagonista di rumorosi rapporti sessuali che il nipote scambia per scosse di terremoto. Penultima apparizione sul set, prima del canto del cigno con Mogliamante di Marco Vicario (1977).



Il bocconcino è un classico prodotto d’imitazione, un Malizia in salsa lombarda, girato tra Desenzano e Salò, sul Lago di Garda (e non sul Lago Maggiore come dice Giusti), invece che in Sicilia. Roberto Poppi riferisce un gustoso aneddoto: “Scandariato mi raccontava che aveva scritto una storia quasi drammatica (anche se con elementi erotici) ma il produttore Bertuccioli non ne voleva sapere. O la trasformava in commedia o ciccia. Romano cercò di proporre ad altri il suo lavoro ma senza risultati. Quando gli ritelefonò Bertuccioli per sapere cosa avesse deciso, gli rispose ok... ho riscritto tutto. In realtà s’inventò una nuova sceneggiatura finendola in tre giorni. E così nacque questo capolavoro”. Pare difficile immaginare un film drammatico dalla revisione di sceneggiatura de Il bocconcino, una sorta di Malizia rivisto e corretto secondo la lezione di Cugini carnali di Sergio Martino, L’insegnante di Nando Cicero e La nipote di Nello Rossati. Il film parte lento, racconta il ritorno a casa del ragazzino per le vacanze estive e la sua passione per i libri mentre tutti gli altri non pensano che a scopare. Migliora con la sequenza di Lucio Flauto in un sexy spogliarello dove rifà in salsa farsesca il mitico strip di Sophia Loren in Ieri, oggi e domani. Raggiunge l’apice con il gioco di sguardi complici tra componenti della famiglia dopo l’equivoco terremoto - scopata sofferto dal ragazzino. Scandariato mette sul piatto della bilancia tutto l’apparato tipico della commedia sexy: voyeurismo a piene mani, buchi della chiave dai quali spiare ragazze nude, specchi che mostrano seni e sederi, rapporti sbirciati e interrotti, mani che toccano cosce sotto tavoli malandrini, scambi di stanze e di coppie, esibizione di nudi. Tra le parti erotiche, originale la gara tra ragazze sul seno più bello con la mela da consegnare alla vincitrice come se Gigi fosse un novello Paride. Non ci sono docce né bagni e insaponature, forse caso unico nella commedia sexy italica che si distingue per le attrici più pulite della storia. Molti luoghi comuni (il rapporto tra moglie e marito va rivitalizzato, una donna va corteggiata…), un velato discorso sociale con i figli che contestano i genitori e un tentativo di critica al perbenismo piccolo - borghese. 



Comicità ai minimi termini, tutto è nelle mani del povero Lucio Flauto, che con la sua erre moscia, lo slang milanese e un’autocritica del genere di film che sta interpretando non raggiunge livelli memorabili. Provocazioni sexy insistenti da parte di Nemour e Saggese che aprono alla fast-motion quando il cuginetto è costretto a prestazioni sessuali dai ritmi forsennati. Lucio Flauto si dà al sadomaso comico con una prostituta che gli ricorda il bel tempo andato. Battuta epica: “Se ti piace mollo, ti faccio impazzire!”. Nonostante tutto, alla fine, il marito mette incinta la moglie, così come Gigi regala un figlio a cugina e professoressa, ma le due ragazze non abbandonano i rispettivi fidanzato che si accollano i frutti del peccato. Il bocconcino del titolo, nonostante quel che si possa pensare, è il maschietto. Pochade ai minimi termini. Ha ragione Mereghetti. Da ricercare per soddisfare reminiscenze giovanili, quando certi film li vedevamo sulle prime televisioni private e ci sembrava di compiere chissà quale trasgressione. 

Leggete la mia rubrica di cinema su Futuro Europa: http://www.futuro-europa.it/

martedì 12 maggio 2015

Il caso Moro (1986)

di Giuseppe Ferrara


Regia: Giuseppe Ferrara. Soggetto: Robert Katz. Sceneggiatura: Giuseppe Ferrara, Robert Katz, Armenia Balducci. Fotografia: Camillo Bazzoni. Montaggio: Roberto Perpignani. Musiche: Pino Donaggio. Scenografia: Francesco Frigeri. Produttore: Mauro Berardi. Durata: 110’.Genere: Docu-fiction (biografico, drammatico, storico). Interpreti: Gian Maria Volonté (Aldo Moro), Margarita Lozano (Eleonora Moro), Daniela De Silva (Maria Fida Moro), Sergio Rubini (Giovanni Moro), Emanuela Taschini (Anna Moro), Mattia Sbragia, Bruno Zanin, Consuelo Ferrara, Enrica Maria Modugno, Enrica Rosso, Maurizio Donadoni, Stefano Abbati, Danilo Mattei, Massimo Tedde, Francesco Capitano, Augusto Zucchi, Franco Trevisi, Nicola Di Pinto, Pino Ferrara, Umberto Raho, Silverio Blasi, Paolo Maria Scalondro, Bruno Corazzari.

Il caso Moro di Giuseppe Ferrara è il miglior modo per far conoscere ai nostri giovani temi importanti come terrorismo, Brigate Rosse, rapimento Moro, stragi di Stato, in una parola l’intera stagione degli anni di piombo. Molti registi contemporanei credono di aver inventato la docu-fiction, ma hanno scoperto l’acqua calda, perché Giuseppe Ferrara (Castelfiorentino, 1932) - partendo dal giornalismo su carta e radiotelevisivo - è benemerito realizzatore di cortometraggi e lungometraggi capaci di unire spettacolo e realtà storica. A parte i molti documentari (tutti collegati ai problemi del paese), come autore di pellicole è un polemista di alto livello, capace di denunciare mali endemici che hanno sempre afflitto la società italiana: mafia, terrorismo e droga. I suoi lavori migliori e di maggior successo sono Cento giorni a Palermo (1984), Il caso Moro (1986), Giovanni Falcone (1993) e I banchieri di Dio (2002), opere di grande impegno civile che non dimenticano il rispetto per lo spettatore. Non è scontato. Il soggetto è tratto da I giorni dell’ira. Il caso Moro senza censure, di Robert Katz e racconta la storia seguendo brani di lettere scritte dallo statista. Non condividiamo lo sbrigativo giudizio di Mereghetti che lo definisce un film di maniera che resta a livello di generica indignazione.
Il caso Moro è un film che indaga senza remore e timori reverenziali i lati oscuri del rapimento dello statista democristiano e della successiva esecuzione. Ferrara segue l’esempio di Elio Petri (Todo modo, 1976) e decide che il miglior attore per interpretare Moro non può essere che Gian Maria Volonté. Il risultato gli dà ragione, perché l’interpretazione è misurata, non scade mai nella caricatura (come in Todo modo, dove il tono era grottesco), ed è capace di riflettere l’angoscia di un uomo tradito e abbandonato, condannato a morte dalle decisioni del suo partito. Volonté viene premiato come miglior attore protagonista al Festival di Berlino del 1987. Margherita Lozano riesce nel non facile compito di rappresentare la rabbia di Eleonora Moro nei confronti di un partito che decide sulla pelle del marito la linea della fermezza. Mattia Sbragia merita una menzione perché è molto bravo nei panni del carceriere di Moro, un brigatista integerrimo e ideologico con rari sprazzi di umanità.


La pellicola racconta i 55 giorni del rapimento fino al ritrovamento del corpo in via Caetani, a poca distanza dalla sede del Partito Comunista Italiano. Il regista mette in scena solo quel che poteva sapere nel 1986, quando non erano ancora venute fuori le tesi sul coinvolgimento di un ufficiale dei servizi segreti. Ferrara non poteva sapere neppure dei contatti tra Stato, camorra e banda della Magliana per cercare di individuare la prigione di Moro. Tra i fatti mai accaduti che il regista romanza: il non uso del passamontagna da parte dei brigatisti (per esigenze cinematografiche) e la visita nel covo di Don Stefani (Zucchi) per confessare Moro. Inutile raccontare diffusamente la trama - parte integrante di uno dei periodi più bui della nostra storia -, diciamo solo che il film non concede molto al romanzesco, ma racconta i fatti senza indulgere nelle opinioni e senza perdere di vista il lato spettacolare.


Ne viene fuori un docu-film che si gusta come un poliziottesco, pieno di tensione narrativa e di momenti altamente cinematografici. Tra le cose migliori la fusione tra telegiornali e documenti d’epoca che si alternano alla parte drammatica, recitata da attori ben calati nella parte. Un film cronaca costruito con lucidità e sdegno civile, senza timore di lanciare accuse precise nei confronti di servizi segreti e Democrazia Cristiana.

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