giovedì 23 maggio 2013

La grande bellezza (2013)

di Paolo Sorrentino 


I giudizi contrastanti sull’ultima opera cinematografica di Paolo Sorrentino mi hanno convinto a non lasciarmi scappare la prima nazionale, che - potenza di una produzione Medusa - ha raggiunto persino la desolata landa in cui vivo. Ne potevo fare a meno? Forse. Credo di essermi perduto pellicole di gran lunga superiori, recuperate successivamente in televisione o sul mercato Home Video, ma in ogni caso ormai è fatta, inutile piangere sul latte versato.
La grande bellezza non è un capolavoro. Tutt’altro. In ogni caso presenta molti aspetti interessanti per un cultore di cinema. Fotografia eccellente, colonna sonora fantastica, tecnica registica che rasenta la perfezione, a base di carrelli, panoramiche e interminabili piani sequenza. Sorrentino è bravo, un vero maestro della tecnica, inutile negarlo, ma ce lo fa pesare come un Narciso innamorato della sua immagine. Il regista fa scorrere in lenta successione (il montaggio non è certo serrato) una serie di sequenze patinate per dimostrare un teorema scontato (siamo diventati tutti peggiori, la nostra società è in declino, Roma è la capitale del vizio…) ma soprattutto per esibire tutta la sua bravura. Non bisogna tacere che Toni Servillo è un interprete straordinario, ben calato nella parte di uno scrittore nottambulo e perdigiorno, che ha scritto un grande romanzo giovanile per poi abbandonare le velleità letterarie, di fronte alla scoperta della vacuità dell’esistenza. Fine dei pregi.

Sabrina Ferilli e Toni Servillo

La grande bellezza è un film pretenzioso e arrogante, indisponente, irritante, mette di malumore anche lo spettatore meglio disposto ad accettare un’opera irrisolta, inconcludente, piena zeppa di buchi di sceneggiatura e basata su un soggetto inesistente. Il regista mette in scena la vita di uno scrittore maturo - unico personaggio al quale sia possibile affezionarsi - e ci presenta una Roma allo sbando, i salotti letterari inutili, la borghesia priva di valori, un campionario di varia umanità degradante. Sabrina Ferilli è una quarantenne spogliarellista - figlia di un padre debosciato - che non vuol abbandonare un’esistenza da eterna ragazzina, Isabella Ferrari (sempre affascinante) è una delle tante conquiste di Servillo, Pamela Villoresi (grande attrice) è una madre distrutta dal dolore, purtroppo sotto utilizzata, Serena Grandi rappresenta se stessa nei panni di un’attrice in totale disfacimento, Carlo Verdone conclude la carrellata come patetico scrittore deluso dalla capitale che sceglie di tornare in provincia. Tutto è eccessivo ne La grande bellezza, persino il dramma della perdita del figlio, anche il funerale senza amici pieno di convenzioni e frasi fatte, per non parlare di tutta la parte finale incentrata sul personaggio di una suora ultracentenaria che compie imprese sovrumane per dimostrare l’importanza di vivere per uno scopo. I paragoni con Fellini sono sprecati, ma se proprio si devono fare non è La dolce vita ma Otto e mezzo il parametro da usare, anche se nel film di Sorrentino manca tutta la poesia fiabesca del grande autore riminese. Realismo e surrealismo si confondono nel nulla più assoluto, in un delirio di piani sequenza che fa venire a mente le zumate di Jess Franco, perché quando è troppo, è troppo, pure l’esagerata ambizione di concepire un’opera d’arte. Molto spesso capita che la troppa convinzione di scrivere un capolavoro faccia abortire persino la possibilità di girare un film dignitoso. Fare cinema non è soltanto sfoggiare tecnica fine a se stessa, ma anche - e soprattutto - raccontare una storia, e attraverso la storia, far venir fuori il messaggio (ma non è fondamentale). Se tutto si riduce a messaggio e tecnica, a mio modesto avviso, il regista ha fallito lo scopo, ha sbagliato linguaggio, forse non doveva fare cinema ma saggistica, narrativa sperimentale…

Sabrina Ferilli e Toni Servillo
La grande bellezza che il protagonista non ha trovato, rassegnandosi a non scrivere più romanzi, è la stessa che lo spettatore cercherà invano tra immagini patinate e lunghe carrellate sul Tevere, spettacolari sequenze di una Roma al risveglio e piani sequenza che sfumano in dissolvenze artistiche, consapevoli della loro bellezza. Tutto il resto è flashback, direbbe Jess Franco, che è morto un mese fa e l’ha ricordato solo Nocturno. Non è con questi film che risorgerà il cinema italiano.
Gordiano Lupiwww.infol.it/lupi

sabato 18 maggio 2013

Simona (1974)

di Patrick Longchamps


Regia: Patrick Longchamps. Soggetto e Sceneggiatura: Patrick Longchamps, liberamente ispirato al romanzo Histoire de l’Oeil di Georges Bataille (Edizioni J.J. Pauvert). Montaggio: Franco Arcalli, Pina Rigitano. Aiuto Regista: Allan Elledge. Operatore alla Macchina: Angelo Lannutti. Fotografia: Aiace Parolin. Scenografia e Costumi: Pasquale Grossi. Effetti Speciali: Joseph Natanson. Musica: Fiorenzo Carpi. Direzione Musica: Bruno Nicolai (Edizioni Gemelli). Canzone cantata da Shawn Robinson. Produzione Italia/ Belgio: Rolfilm Produzione (Roma), Les Films de l’Oeil (Bruxelles). Organizzazione Generale: Roland Perault. Distribuzione: Nopa Italia. Interpreti: Laura Antonelli, Patrick Magee, Raf Vallone, Maurizio Degli Esposti, Margot Saint’Ange (per la prima volta sullo schermo), Quentin Milo (Gille), Maxane (madre di Simona), Marc Audier, Ramon Berry, Michel Lechat, Yvette Merlin, Germaine Pascal. Voce narrante: Antonio Colonnello. Durata: 84’. Colore. Visto censura 63349 del 30/12/1974. 
Simona  è un film che sorprende, pur essendo irrisolto, non completo, con evidenti forzature di sceneggiatura e legato al gusto intellettuale degli anni Settanta. Ma forse è proprio questa la sua forza, il suo fascino ambiguo e perverso, la ragione per cui ci sentiamo di consigliarne visione e recupero. E poi c’è una Laura Antonelli straordinaria, solare, disinibita, al culmine della sua bellezza e all’apice del successo, nel momento migliore della carriera. La chiamano per fare di tutto, la sua presenza in un cast basta da sola a garantire il successo della pellicola.


Simona è un melodramma erotico, tratto da Storia dell’occhio (1928) di Georges Bataille, scritto, diretto e sceneggiato dal belga Longchamps, in puro stile Joe D’Amato o Jess Franco, ma con maggior volontà di realizzare cinema d’autore. “Ho fatto uno stage con Fellini” dice il regista “e questo vale più di mille scuole di cinema”.  Non è così vero, ma comunque la buona volontà si vede e anche una certa fantasia creativa. La storia è ambientata nei freddi mari del Nord, a Knokke-Heist, località belga nella provincia fiamminga delle Fiandre Occidentali. Le scene iniziali e finali sono girate in Spagna, perché tutto è un lungo flashback della protagonista che assiste a una corrida.


Il tono romantico è sottolineato dalla voce narrante di Antonio Colonnello, dalla marcata dizione poetica, e da un testo molto letterario prelevato dal romanzo di Bataille. Simona (Antonelli, doppiata da Ludovica Modugno) è la perversa amante del giovane Georges (Degli Esposti), un giorno i due innamorati incontrano Marcelle (la debuttante Saint’Ange), che vive segregata in una villa insieme al folle padre (Magee) e a uno zio depravato (Vallone). Simona e Georges cercano di liberare la ragazza dall’influenza paterna e dallo zio con cui ha avuto rapporti incestuosi, dopo la morte della madre. Formano insieme a Marcelle un menage a trois, dedito al sesso di gruppo, follie erotiche e mille perversioni.


Il finale è un bagno di sangue a fosche tinte melodrammatiche, a tratti si sconfina nell’horror, quando il regista dipinge la figura del padre come un folle imbalsamatore assassino. Notevole la danza macabra con il cadavere della madre, indimenticabili pure le sequenze degli omicidi di fratello e figlia. Laura Antonelli recita con professionalità, la sua immagine è caratterizzata  da un misto di forte sensualità e candida innocenza, cifra artistica che la contraddistingue da altre interpreti del cinema erotico. Ben calati nelle interpretazioni drammatiche Raf Vallone e Patrick Magee, Margot Saint’Ange si mostra in tutta la sua giovanile bellezza, in tono minore Maurizio Degli Esposti come anonimo amante.


Simona è una pellicola che gode di molti pregi, primo tra tutti una fotografia - curata da Aiace Parolin - che ritrae paesaggi nordici tra spiagge renose, vento inclemente e mare in burrasca, ma anche volti e corpi femminili esaltati nei minimi particolari. Il montaggio di Franco Arcalli non è serrato, ma la pellicola e il gusto del tempo prevedono tempi dilatati. La musica di Fiorenzo Carpi è una vera e propria sinfonia melodrammatica diretta con maestria da Bruno Nicolai. Il regista ci sa fare, sembra persino citare lo stile di Tinto Brass, in numerose sequenze erotiche a rischio di taglio censura: il latte sotto la gonna, l’uovo sul corpo di Laura Antonelli, il rapporto lesbico, l’amore a tre, il rapporto zio - nipote, l’amore di gruppo, la provocazione erotica al giovane chierichetto.


La censura del tempo non sequestra e non sforbicia più di tanto, ma vieta il film ai minori di anni diciotto. Molte immagini oniriche, il mare che irrompe tra un sequenza erotica e l’altra, tanti flashback, pensieri che rimandano al passato e molti accenni a Freud, elementi psicanalitici per giustificare follia e segregazione. Il regista segue molte idee in voga negli anni Settanta, usa la psicanalisi per dare una spiegazione alle tare comportamentali e ai problemi in età adulta, riconducendo tutto agli eventi drammatici dell’infanzia. Certo, Longchamps vorrebbe fare cinema d’autore e a tratti scade nel B movie, ma il fascino della pellicola è pure questo, senza tacere di una contaminazione di generi persino eccessiva che va dal romantico all’erotico, passando per melodramma, horror e surrealismo. Frasi come “Il passato è diventato un eterno presente. Cambiare una sola parte significa distruggerlo” sanno di romanzo d’appendice d’altri tempi, ma sono la cifra stilistica del regista.


Amore e morte, sequenze romantiche in riva al mare, erotismo estremo, un’auto che corre sul bagnasciuga, la follia di un padre disperato, sequenze melodrammatiche e persino surreali con gli animali imbalsamati che volano liberi nel cielo della notte. Simbolico il finale: Simona assiste alla morte del torno, ricorda il passato, mentre gli animali imbalsamati si rianimano e volano liberi sotto forma di crisalidi. Un film da riscoprire, che in Italia non ha avuto grande circolazione, ma la collana Pulp Video colma la lacuna pubblicando uno scarno DVD privo di extra.


Rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “L’audace regista traduce la sulfurea Storia dell’occhio di Georges Bataille in chiave di calligrafico erotismo surrealista (e visto che è belga, Magritte è citato a manetta): ma quando ci mette del suo, il fascino della ribellione anarchica scade ad assurdità da B-movie intellettuale abortito, come se ne facevano all’epoca. Da recuperare, comunque, per l’interpretazione della Antonelli, di rado così solare e scostumata”. Pino Farinotti (due stelle) riassume sin troppo sinteticamente la trama, ma non esprime giudizi. Morando Morandini non cita neppure il film. Giulio Berruti scrive su Corto in corto - lezioni gratuite per fare cinema (http://cortoin.screenweek.it/archivio/cronologico/2009/06/simona-note-personali.php): “Un film che con una maggiore attenzione e maturità professionale da parte del regista come della produzione italiana, avrebbe avuto uno straordinario successo di pubblico e di critica. Patrick Longhcamps,  persona di grande intelligenza e sensibilità, affrontò questa avventura con soldi propri e una scarsissima preparazione professionale. Patrick aveva grande fantasia creativa, ma era a digiuno totale di tecnica e regole di montaggio. Per questo costruì un lavoro fatto di tante bellissime fotografie ma di poco film”.


A titolo di curiosità, il libro di Bataille - considerato un classico dell’erotismo – gode di alcune edizioni italiane: Simona, L’airone, Roma 1969; Storia dell'occhio, Gremese, Roma 1990 (prefazione di Alberto Moravia); Storia dell'occhio, ES, Milano 2005 e SE, Milano 2008 (con uno scritto di Roland Barthes).
La pellicola circola all’estero come Yo soy la passion (Spagna), Passion (Gran Bretagna), Histoir de l’oeil (Belgio, Francia).

Gordiano Lupi

mercoledì 8 maggio 2013

L'inviato dalla rete


Alessandro Ticozzi
L’inviato dalla rete
Senso Inverso Edizioni – Euro 17 – Pag. 320

Un appassionato di cinema non resta indifferente di fronte alla quantità di materiale che Alessandro Ticozzi riesce a raccogliere nel suo ultimo libro. Piatto ricco mi ci ficco! Verrebbe da esclamare. E infatti si comincia con un’intervista inedita a Leonardo Celi e ad Andrea Pergolari che ha per tema l’attività brasiliana di Adolfo Celi e Luciano Salce, di certo non troppo nota. Tra le chicche del libro apprezziamo una rivalutazione del Jerry Calà regista, cineasta non molto considerato dalla critica alta, ma che resta un autore in grado di stupire. E poi ci sono i mostri della commedia all’italiana (e non solo): Nino Manfredi, Enrico Maria Salerno, Vittorio Caprioli, Gabriele Ferzetti, Antonio Pietrangeli (nei ricordi del figlio), Luigi Zampa, Ugo Tognazzi, Ettore Scola, Vittorio Gassmann (intervista alla figlia Paola) Bud Spencer, Steno (visto dal figlio Enrico Vanzina), Renato Pozzetto… Un elenco quasi interminabile. Una miniera di notizie, raccolte con passione e amore cinefilo, sistemate con cura certosina nello spazio di interviste ai protagonisti e – in mancanza del diretto interessato - a chi li ha conosciuti da vicino. Il libro parla anche di musica, molte interviste riguardano Giorgio Gaber, Lucio Battisti, Mina e il Festivalbar. Ugo Gregoretti, Giuliano Montaldo, Milo Manara, Folco Quilici, Giovanni Spagnoletti (che riflette su Fassbinder), sono altre perle di un volume che farà la felicità degli appassionati. Se dobbiamo trovare un difetto a questo bel volume, sta nella mancanza di uniformità e nella estemporaneità della collazione dei singoli pezzi, disposti in sequenza senza un filo conduttore. Ma forse la raccolta vuol soltanto seguire il corso delle passioni di un autore che si dimostra grande esperto di cinema italiano, soprattutto commedia e pellicole d’autore, ma anche di musica popolare.
Il materiale raccolto da Ticozzi nel volume è stato tutto pubblicato in rete su riviste e media come Dedalus, News Candiani, Quarto Potere, Radiophonica, Spettacoli News e Associazione Unis@und. L’autore è laureato al Dams di Padova e va ricordato per un brillante saggio cinematografico intitolato L’Italia di Alberto Sordi (2009). Ha pubblicato anche il romanzo breve Diario di un cinemaniaco di provincia (2010). Il suo sito ufficiale è www.alessandroticozzi.it.

Gordiano Lupi

Il divo (2008)

di Paolo Sorrentino

Regia: Paolo Sorrentino. Soggetto e Sceneggiatura: Paolo Sorrentino. Fotografia. Luca Bigazzi. Montaggio: Cristiano Travaglioli. Musiche. Theo Teardo. Scenografia: Lino Fiorito. Costumi: Daniela Ciancio. Trucc: Vittorio Sodano. Durata: 110’. Colore. Produzione: Italia/ Francia. Produttori: Francesco Cima, Fabio Conversi, Maurizio Coppolecchia, Nicola Giuliano, Andrea Occhipinti. Case di Produzione: Indigo Film, Lucky Red, parco Film, Babe Film. Distribuzione: Lucky Red. Interpreti: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Giulio Bosetti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso, Giorgio Colangeli, Alberto Cracco, Piera Degli Esposti, Lorenzo Gioielli, Paolo Graziosi, Gianfelice Imparato, Massimo Popolizio, Aldo Ralli, Cristina Serafini, Giovanni Vettorazzo. Premi: Premio della Giuria, Cannes 2008. Miglior Attore a Toni Servillo, European Film Awards 2008, 7 David di Donatello 2009: attore protagonista (Servillo), attrice non protagonista (Degli Esposti), direttore della fotografia, musicista, truccatore, acconciatore e effetti speciali visivi. 5 Ciack d’Oro, 4 Nastri d’Argento 2009, 7 Premi Bif&st 2009, 2 Loma 2009.

Non amo il cinema di Paolo Sorrentino (Napoli, 1970), neppure i temi che affronta con la sua scrittura mi appassionano più di tanto. Ritengo che sia uno dei registi italiani più sopravvalutati degli ultimi anni, anche se possiede tecnica e gusto per le immagini, oltre a essere un buon direttore di attori. Ero un po’ prevenuto affrontando la visione de Il divo, pellicola che ho visto per intero solo nell’onda emotiva della scomparsa di Giulio Andreotti, dopo aver letto molti articoli sulla vita di un uomo politico che ha attraversato cinquant’anni di storia italiana.


In definitiva sono rimasto abbastanza soddisfatto dai contenuti di un film eccessivamente esaltato dalla critica e premiato sino all’inverosimile, non tanto per le qualità cinematografiche (inesistenti), quanto per i contenuti documentaristici. Sorrentino ricostruisce la vita di Andreotti trattandolo come se fosse un robot privo di sentimenti, ricorrendo a un’interpretazione grottesca di Toni Servilo, truccato in maniera perfetta. Andreotti si esprime per frasi storiche, prelevate dagli aneddoti che il politico ha pronunciato nel corso degli anni, si presenta come un uomo senza scrupoli, interessato al potere, incapace di amare e di provare sentimenti, tormentato dal ricordo della morte di Aldo Moro. Non ci stupiamo che a suo tempo Andreotti rifiutò di vedere il film a Cannes insieme al regista e che si stizzì non poco dopo averne appreso i contenuti. Nonostante tutto - come suo stile - non querelò nessuno, anche se avrebbe avuto motivi in abbondanza, lasciando piena libertà di espressione al regista. La costruzione del film sposa senza riserve le ipotesi di connivenza mafiosa di Andreotti, oltre a colpevolizzare il politico per una lunga serie di malefatte legate alla prima repubblica, delitto Moro compreso.


Punto di forza della pellicola è la somiglianza degli attori ai protagonisti della vicenda storica, a partire da uno straordinario Toni Servillo, giustamente premiato. Bravi anche Flavio Bucci nei panni del gaglioffo Evangelisti, Carlo Buccirosso come Cirino Pomicino e Anna Bonaiuto, moglie di Andreotti. Esagerati i premi, una vera pioggia di riconoscimenti, per un pellicola che ha poco a che vedere con il cinema, ma resta un’interessante docufiction. Il difetto più evidente del lavoro di Sorrentino è la poca obiettività, perché il regista sposa una tersi e la porta alle estreme conseguenze, senza concedere nessuna attenuante al protagonista.

Ne viene fuori un Andreotti - Belzebù, protagonista negativo di tutte le nefandezze della prima repubblica, ma soprattutto un personaggio grottesco, irreale, quasi un fumetto satirico di se stesso. Il personaggio di Giulio Andreotti visto da Sorrentino sembra una raffigurazione estrema delle vignette di Forattini, orecchie a punta, posa rigida, curialesca, grandi occhiali, mani che si muovono e corpo fermo sul tronco. Manca la poesia e un po’ di partecipazione empatica agli eventi, il risultato è sin troppo freddo per coinvolgere le spettatore. Questo Andreotti è troppo brutto per essere vero, si finisce per provare simpatia per il vero protagonista che viene fatto oggetto di critica feroce da parte del regista. Per quel che riguarda il cinema, non l’abbiamo visto. Forse i critici dal palato fine sono molto più bravi di noi a individuare lo specifico filmico. Viene da dire a viva voce: Ridateci Elio Petri. 

Gordiano Lupi

domenica 5 maggio 2013

I ratti di Bloodbuster

Che bella la collana I ratti di Bloodbuster! Tutto il cinema dalla B alla Zeta, è il motto della casa editrice, negozio e videoteca milanese noto a tutti gli appassionati di B-movies nazionali e internazionali. Bella perché è stampata su carta lucida di ottima qualità, ideale per le fotografie, ha un formato tascabile, un prezzo accessibile (13 euro per 200 pagine) e si occupa di argomenti interessanti affrontati da autori competenti.


Il primo volume che mi è capitato tra le mani è Nudi e crudeli - I mondo movies italiani, riedizione aggiornata del vecchio (ma sempre attuale) saggio Granata Press, scritto da Antonio Bruschini (un amico prematuramente scomparso) e Antonio Tentori. Certo, non è un libro che soddisferà i palati esigenti dei critici storici del b-movies italiano, perché sintetico e informativo, poco approfondito, alla portata di tutti, divulgativo. A mio parere certe caratteristiche rappresentano un pregio e fanno del volume una preziosa guida che nelle mani di un neofita può trasformarsi nella lanterna ideale per illuminare un percorso iniziatico. Non solo Jacopetti, Cavara e Morra, ma anche Civirani, Mattei, D’Amato e chi più ne ha più ne metta. Non manca un elenco dei film affrontati e un indice per individuare le singole pellicole collegandole alle pagine del testo.


Il secondo volume che ho letto è ancora più prezioso: Carceri… conventi… campi di concentramento… TUTTE DENTRO! - Il cinema della segregazione femminile. Autori Stefano Di Marino (scrittore noir della collana Segretissimo e grande esperto di cose orientali) e Corrado Artale (che prende in esame il genere più esecrato del cinema, il nazi-porno). Non avevamo mai letto un libro così preciso e puntuale nel narrare generi di assoluta serie zeta come women in prison, tonaca-movie e nazi-porno. Pure in questo caso non si scava nei particolari, ci si limita  a segnalare, riassumere, sintetizzare, ma si solletica la curiosità del cinefilo e del semplice curioso, invitandolo a cercare i film per farsi un’idea su generi strampalati che un tempo hanno molti estimatori. Certo, pare passato un secolo dagli anni in cui attendevamo mezzanotte per vedere Le evase su Telelibera Firenze, interpretato da Lilli Carati, oppure facevamo carte false per andarci a sorbire la terza visione de La novizia con una seducente Gloria Guida nei panni di una giovane suora. Sarà perché abbiamo nostalgia della nostra adolescenza inquieta che abbiamo divorato questi due libretti, ricordando Jacopetti e i censori democristiani, ma anche le domeniche al cinema, tra madeleines proustiane che profumano di rimpianto. E ci piacerebbe tanto passare il testimone della nostalgia ai ragazzi del Duemila. Sarà mai possibile?

Gordiano Lupi

sabato 4 maggio 2013

L’ultima trovata - Un libro su Elio Petri


Trent’anni di cinema senza Elio Petri
A cura di Diego Mondella
Pendragon – Euro 16 – pag. 280

Diego Mondella raduna un gruppo di autori (Della Casa, Giusti, Zagarrio, Spagnoletti, D’Agostini, Zanello, Chiesi, Cotroneo, Caldiron, Rossi, Monetti, Marelli, Savatteri, Dottorini, Cairola, bajani,Abbate) per realizzare un’antologia di scritti finalizzati a ricordare Elio Petri, cineasta impegnato ingiustamente sottovalutato dalla critica. Ne viene fuori un buon testo, con tutti i limiti dei lavori antologici, poco uniformi e frammentari, ma che ha il suo punto di forza in un interessante apparato di interviste agli amici e in una stupenda conversazione tra Elio Petri e Dacia Maraini. Degni di nota il capitolo Eliopensiero e una completa filmografia. Il libro ci fornisce lo spunto per parlare di un regista da noi sempre amato e sul quale abbiamo scritto qualcosa a proposito di Un tranquillo posto di campagna, Il maestro di Vigevano e Todo modo.
Elio Petri (Roma, 1929 - 1982), cinefilo sin da giovane, appassionato frequentatore di cineclub, comincia a occuparsi di politica seguendo le convinzioni della sinistra parlamentare. Unisce le due passioni quando assume l’incarico di critico cinematografico per L’Unità e subito dopo inizia una fruttuosa attività di sceneggiatore e aiuto regista a fianco di Giuseppe De Santis. Il soggetto di Roma ore 11 (1952) deriva da un’inchiesta giornalistica del futuro regista, convinto sostenitore del neorealismo nel periodo 1940 - 1960, poi transfuga verso un cinema meno sovietico e più attento alle esigenze del pubblico. Ricordiamo Elio Petri sceneggiatore di lavori popolari come L’impiegato (1959) di Gianni Puccini e  I mostri (1963) di Dino Risi. La prima prova dietro la macchina da presa è L’assassino (1961), un thriller anomalo che racconta l’omicidio dell’amante di un antiquario e la relativa indagine poliziesca, ma il vero scopo del regista è quello di analizzare la mediocrità umana e l’ambiente in cui viviamo.
Il debutto di Elio Petri mostra un cineasta padrone del mezzo espressivo dopo un apprendistato fatto di documentari, critica, sceneggiatura e aiuto regia. Regista impegnato ma votato ad accettare le regole produttive, consapevole che si possa far trapelare messaggio e ideologia anche attraverso la struttura di un giallo. Il suo tema portante sarà quello dell’alienazione dell’uomo contemporaneo all’interno di una società che uniforma e banalizza.
I giorni contati (1962) è ancora più esplicito nel narrare la voglia di fuga dall’omologazione, da un quotidiano sempre uguale che annichilisce e distrugge la creatività. Il protagonista scopre sin dalla prima sequenza di avere i giorni contati perché vede un morto in autobus. Elio Petri subisce l’influenza della nouvelle vague, ama raccontare i problemi che affliggono la società contemporanea, gira anche cinema di genere ma solo per trasmettere un messaggio politico. Da questo film Petri comincia a fare uso del piano sequenza secondo la lezione di Antonioni, modificando il montaggio e inserendo nuovi elementi visivi e sonori che rappresentano la sua cifra stilistica. I tempi cominciano a essere dilatati, i gesti quotidiani del protagonista sono ripresi con attenzione. Il maestro di Vigevano (1963), interpretato da Alberto Sordi, tratto da un romanzo di Mastronardi, è un buon lavoro commerciale, come Peccato nel pomeriggio, episodio di Alta infedeltà (1964), girato con Salce, Monicelli e Rossi. La decima vittima (1965) è cinema fantastico allo stato puro, sceneggiato da Flaiano, Guerra e Salvioni sulla base del racconto di Robert Sheckley, girato all’Eur e interpretato da un ottimo Marcello Mastroianni. L’alienazione è sempre in primo piano in una società del futuro dove il potere mediatico mette in scena squallidi giochi al massacro. Petri comincia a collaborare con Gian Maria Volontè, che diventa il suo attore di riferimento a partire da A ciascuno il suo (1967), una pellicola contro la mafia tratta dal romanzo di Leonardo Sciascia. Ugo Pirro diventa il suo sceneggiatore di fiducia e ne condizionerà la poetica futura. In questo periodo Elio Petri studia la condizione dell’uomo nella società contemporanea, anche se nella pellicola Un tranquillo posto di campagna (1968) la riflessione è limitata alla figura dell’artista che non trova tranquillità nel mondo circostante. Altri temi prediletti da Petri sono il rapporto tra uomo e autorità, configurata nel datore di lavoro che aliena l’operaio e lo conduce verso la follia, ma anche nella giustizia che assolve sempre se stessa. La vita politica italiana diventa il nodo centrale del suo cinema e una visione critica del sistema accompagna uno stile che diventa sempre più ermetico.
Petri gira pellicole importanti come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) - Oscar per il miglior film straniero - e La classe operaia va in Paradiso (1971) - Palma d’Oro a Cannes.  Le pellicole del registra romano sono raffinate, colte, ridondanti e fin troppo intellettuali, ma riescono a mantenere un equilibrio grazie alla valida denuncia sociale e alla recitazione di Gian Maria Volontè. La denuncia antigovernativa di Elio Petri perde forza con gli ultimi lavori, a partire da La proprietà non è più un furto (1973), film molto politico, confuso e di complessa interpretazione, sia per lo stile con cui è girato che per una recitazione teatrale molto sopra le righe. Todo modo (1976) è la trasposizione di un altro romanzo di Sciascia, ma è girato secondo un registro grottesco che ne stempera la forza polemica di denuncia nei confronti del potere. Ricordiamo Ciccio Ingrassia in un’intensa parte drammatica e Gian Maria Volontè nei panni di un uomo politico molto simile ad Aldo Moro. Gli ultimi lavori di Petri sono il televisivo Le mani sporche (1979), tratto da un lavoro di Sartre, e Buone notizie (1979), un atto di accusa intriso di pessimismo contro il potere dei media.
Il cinema di Elio Petri è stato spesso accusato di eccessivo intellettualismo, di ermetismo e di scarsa concessione allo spettacolo per inseguire un discorso politico. Resta comunque un cinema importante in un panorama di scarso impegno che caratterizza i nostri anni Settanta cinematografici, perché ha saputo mettere il dito nella piaga e denunciare i mali di un Paese ostaggio della mafia e di una classe politica corrotta. Non solo. Si tratta di un cinema ispirato da molti autori del teatro dell’assurdo, gente come Ionesco, Beckett, Borges e Sartre, caratterizzato dal suo essere antirealista, se non addirittura iperrealista e surreale. 

Gordiano Lupi