giovedì 28 giugno 2012

Mazzabubù... quante corna stanno quaggiù? (1971)

di Mariano Laurenti


Regia: Mariano Laurenti. Soggetto: Alessandro Continenza. Sceneggiatura: Alessandro Continenza, Amedeo Sollazzo. Montaggio: Giuliana Attenni. Fotografia: Clemente Santoni. Musiche: Roberto Pregadio. Produttore: Gino Mordini per Claudia Cinematografica srl (Roma). Direttore di Produzione: Govanni Antonio Giurgola. Interpreti: Carlo Giuffrè, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Isabella Biagini, Maurizio Bonuglia, Mariolina Cannuli, Nadia Cassini, Rosemary Dexter, Giancarlo Giannini, Claudia Lange, Sergio Leonardi, Ettore Manni, Renzo Montagnani, Silvana Pampanini, Luciano Salce, Gianna Serra, Fausto Tozzi,Ugo Adinolfi, Lino Banfi, Gino Pagnani, Marilia Branco, Maria Pia Conte, Umberto D’Orsi, Pippo Franco, Riccardo Garrone, Franco Giacobini, Gianni Musy, Alfredo Rizzo, Rosita Toros, Enzo Turco, Silva Koscina.


Mazzabubù... quante corna stanno quaggiù? è una commedia a episodi sul tema del tradimento che non può essere classificata tra i migliori lavori di Laurenti, ma è importante perché molti critici la citano come prima commedia sexy del cinema italiano. Il cast è molto buono ma non tutti gli attori recitano a livelli alti e alcuni sono alle prime esperienze da protagonisti. Carlo Giuffrè è il presentatore, una sorta di professore che porta avanti l’indagine sul tradimento con esempi ed episodi più o meno divertenti. Il difetto maggiore della commedia è la poca uniformità tra i vari segmenti che procedono con risultati altalenanti e a volte lasciano lo spettatore deluso e sconcertato. Si parte con Nadia Cassini (in una delle prime prove), moglie fedifraga di un tifoso che chiama cornuto l’arbitro mentre la consorte si fa baciare da un amico. Giuffrè cerca di dare una parvenza scientifica al discorso comico, sottolinea che le balie sono il primo esempio di adulterio quando passano il seno da un neonato all’altro. “Tutti sanno delle corna altrui, meno il cornuto”, è un’altra morale filosofica del presentatore. L’episodio più articolato del film vede protagonisti Franchi e Ciccio Ingrassia, affronta il tema del divorzio (era recente il ricordo del referendum sulla legge Fortuna) e l’ancor più spinoso argomento dello scambio di coppie. Molte parti comiche sono surreali. Vediamo Franco con il cartello “Viva la catena!” che serve sia a pubblicizzare la sua attività di commerciante di articoli da bagno che la sua opposizione alla legge sul divorzio. “Non siamo in Svezia! Siamo in Italia! Il matrimonio è sacro”, aggiunge. Laurenti illustra in maniera comica il menage familiare, le liti tra moglie e marito, le relazioni extraconiugali che avrebbero l’effetto di salvare i matrimoni. Franco non è d’accordo, non condivide l’amore di gruppo, da buon siciliano teme le corna più della peste. La soluzione sarebbe quella di cornificarsi a vicenda scambiandosi le mogli dopo averle drogate con whiskey e aspirina, ma il progetto non va in porto per la gelosia reciproca. Un episodio divertente, il migliore della pellicola, una pochade farsesca che finisce – come sempre – in bagarre.


Lo studio di Carlo Giuffrè sulle italiche corna prosegue con il divertente episodio che vede protagonista Luciano Salce nei panni di un saccente critico d’arte che pur di avere ragione fa andare a letto la moglie con un giovane pittore. Pippo Franco non è al massimo della forma in un breve segmento che ci porta al Polo Nord dove - secondo gli sceneggiatori - la buona moglie dovrebbe far l’amore con l’ospite.  Un episodio ci riporta al decamerotico e alla cintura di castità con un solerte servitore che prova subito ad aprirla, non appena il padrone è partito per le crociate. Lino Banfi (ancora agli esordi) è un marito pugliese alle prese con un venditore di enciclopedie che ha il vizio di andare a letto con le mogli dei clienti. Buono anche il segmento che vede protagonista Giancarlo Giannini, marito di una donna non più vergine che si sente truffato dalla menzogna. L’episodio è interessante perché mette alla berlina il finto valore della verginità e il rapporto moglie - marito negli anni Sessanta. Silva Koscina ci regala una breve apparizione come moglie di Carlo Giuffrè, sposata dopo aver consultato un computer, quindi il matrimonio sarebbe a prova di corna, salvo il caso improbabile di “cornuto elettronico”. L’ultimo episodio prende in esame “il cornuto biologico o genetico”, l’uomo sterile che non può avere figli, interpretato da Umberto D’Orsi. Renzo Montagnani (non ancora famoso) è la cavia prescelta per donare lo sperma, ma resta fregato, pensava di dover andare a letto con la moglie, invece è costretto a fare tutto da solo.


Mazzabubù... quante corna stanno quaggiù? contiene in nuce  molti elementi tipici del decamerotico presentati in chiave moderna, che saranno sviluppati nella commedia sexy: scambi di coppie, impotenza, tradimenti, mariti cornuti, mogli fedifraghe… Non è un film del tutto riuscito, ma è importante perché svolge un ruolo innovativo e porta avanti un discorso moderno sul rapporto coniugale, mettendo in primo piano problemi come divorzio e verginità.

Silva Koscina

Paolo Mereghetti demolisce il film assegnando una misera stella: “Un narratore (Giuffrè) racconta una serie di carnificazioni famose. Prontamente le situazioni sono visualizzate sullo schermo. Alla fine il narratore scopre d’essere anch’egli cornuto. Episodi di taglio breve come barzellette, alcuni ispirati al Decamerone. Sulla qualità il titolo dice tutto”. Morando Morandini conferma una stella come giudizio critico ma riferisce il gradimento del pubblico (tre stelle): “Episodi brevi come barzellette. Fantasia zero, banalità e volgarità”. Pino Farinotti si aggiunge al coro degli stroncatori e concede una stella: “Un uomo parla delle corna altrui e scopre di essere cornuto”. Marco Giusti è il più condivisibile, anche se è fin troppo entusiasta: “Un cast di stelle pauroso per un barzelletta-movie di una certa grazia ideato da Continenza e diretto dal maestro Mariano Laurenti. La presenza di Giancarlo Giannini fece allora un po’ di colpo. Oggi stupisce più quella di Mariolina Cannuli come moglie di Ciccio. Ma ci sono anche Silvana Pampanini e Nadia Cassini alla sua prima commedia. Renzo Montagnani è un contadino lombardo un po’ ignorante che non ha capito che dare il seme è una cosa del tutto artificiale”. Luci e ombre, come abbiamo detto. Due stelle.

Per vedere il film integrale: http://www.youtube.com/watch?v=lW1ZN2Z-lRQ&feature=g-all-u

Gordiano Lupi

martedì 26 giugno 2012

Salto nel buio (1987) - Il cinema di Claudia 15

Recensione di Claudia Marinelli



Regia: Joe Dante
Soggetto: ispirato al film “Viaggio allucinante” del 1966 e all’omonimo  romanzo di Isaac Asimov
Sceneggiatura: Jeffrey Boam
Montaggio: Kent Beyda
Scenografia: James H. Spencer
Fotografia: Andrew Laszlo
Musica: Jerry Goldsmith,  John Crawford
Effetti spciali: Al Broussard
Genere: Commedia – fantascienza
Cast: Martin Short, Meg Ryan, Dennis Quaid, Fiona Lewis, Kevin McCarthy, Robert Picardo
Produzione:  Michael Finnel e Steven Spielberg - U.S.A. 1987
Durata: 112 minuti
Premi: Oscar per gli effetti speciali


Nel 1965 la 20th Century Fox commissionò ad Isaac Asimov un romanzo dal titolo “Fantastic Voyage” (in italiano “Viaggio allucinante”), che doveva essere la trasposizione letteraria dell’omonimo film di Richard Fleischer. Il libro uscì sei mesi prima del film ecco perché alle volte si è erroneamente ritenuto che il film fosse tratto dal libro del famoso scrittore di fantascienza. Nel 1987 Jeffrey Boam, che scriverà la sceneggiatura di “Indiana Jones e l’ultima crociata” qualche anno dopo, si ispirò al film del 1966 per scrivere la sceneggiatura di questa esilarante commedia di fantascienza, che diventò un lungometraggio prodotto da Michael Finnel e Steven Spielberg e diretto da Joe Dante. Tuck Pendelton (Dennis Quaid), scanzonato e scapicollato collaudatore d’aerei, si dimette dal suo incarico per partecipare a un  rivoluzionario esperimento: si farà miniaturizzare insieme a uno speciale sommergibile, sarà trasferito in una siringa e poi iniettato in un coniglio, per studiare il corpo della cavia dall’interno. Il laboratorio però è attaccato dalla cricca di criminali con a capo la scienziata senza scrupoli Margaret Canker (Fiona Lewis) che vuole i microchip capaci di miniaturizzare e reingrandire gli oggetti e le persone,  per rivenderne la tecnologia, proprio mentre Tuck e il sommergibile vengono aspirati nella siringa. Il direttore dell’esperimento Ozzie Wexler (John Hora) scappa con la siringa, ma è inseguito e  fatalmente colpito da un sicario di Margaret in un centro commerciale. Proprio prima di morire Ozzie riesce a iniettare  Tuck  nel corpo di Jack Putter (Martin Short), un ipocondriaco e imbranato commesso di un supermercato,  in quel momento al centro commerciale. L’attrezzatura del sommergibile permette a Tuck di connettersi al nervo ottico  e all’orecchio interno del commesso così da vedere attraverso i suoi occhi e a comunicare con lui. Tuck capisce che, per ragioni ancora a lui ignote, è all’interno del corpo di un uomo.


Quando Tuck parla a Jack quest’ultimo prima pensa di essere diventato matto, poi di essere posseduto, infine si convince a collaborare con Tuck, anche perché l’aria nel sommergibile è limitata e se Tuck non uscirà in tempo morirà asfissiato.  Jack deve dominare le sue paure per raggiungere il laboratorio dove è stato fatto l’esperimento e dove i due apprendono che i criminali hanno rubato il microchip necessario al re ingrandimento del sommergibile. Tuck  chiede a Jack di trovare la sua ex fidanzata Lydia (Meg Ryan), giornalista di successo, con la quale ha avuto una storia alquanto burrascosa, finita un paio di mesi prima. Jack riesce a convincere Lydia ad aiutare lui e Tuck. I due si lanciano all’inseguimento dei criminali col microchip,  mentre i criminali già stanno cercando Jack per recuperare il sommergibile e Tuck  in quanto hanno scoperto che Tuck è stato iniettato nel suo corpo. Lydia si mette sulle tracce del Cowboy (Robert Picardo), sospettato di comprare e rivendere tecnologia segreta, che deve incontrarsi con Margaret Canker e la sua banda. Jack si farà coraggio e  metterà k.o il cowboy anche perché pensa che possa molestare Lydia, del quale si sta prendendo una cotta. Con la tecnologia a disposizione nel sommergibile Tuck riesce a controllare i muscoli  facciali di Jack e a farlo somigliare al Cowboy, per poter incontrare i criminali e rubar loro il microchip. Jack però durante l’incontro è troppo nervoso e ritrova le sue vere sembianze, così viene preso insieme a Lydia dalla Canker.


Il commesso infine, ormai invaghito di Lydia, che però è ancora innamorata di Tuck, vince le sue paure e la sua timidezza, riesce a liberarsi e a scappare insieme alla giornalista. I due insieme rubano il microchip, ma prima di andarsene dal laboratorio della Cranker riducono tutta la banda di Margaret del 50%. Infine a tutto gas raggiungono il laboratorio e riescono ad  estrarre Tuck dal corpo di Jack e a riallargarlo qualche secondo prima dell’esaurimento dell’ossigeno.  Ritroviamo Tuck e Lydia appena sposati che stanno partendo per il loro viaggio di nozze. Tuck porta i microchip al posto dei gemelli della camicia. Jack, ormai sicuro di sé, riconosce il cowboy alla guida della limousine degli sposi e si lancia all’inseguimento della banda criminale anche se ridotta del 50%.


Se “Viaggio allucinante” era una drammatica avventura di fantascienza dove l’equipaggio della navicella miniaturizzata doveva salvare uno scienziato in coma, “Salto nel buio” è un’esilarante commedia di fantascienza che affonda le radici della comicità sull’idea della simbiosi. La brillante sceneggiatura è una “macchina” ben oleata che “risucchia” lo spettatore in un mondo fantastico, come ogni buon film deve fare.   Tuck e Jack non potrebbero essere più diversi, sia fisicamente sia di carattere. Entrambi però per salvarsi da morte certa devono accettarsi, imparare a conoscersi, dialogare, scambiarsi importanti informazioni. L’esperienza li cambia entrambi in uomini migliori. Jack, interpretato brillantemente da Martin Short,  di media statura, non è particolarmente bello, manca di fascino anche se il fisico esile e scattante in qualche modo comunica simpatia.   Lo vediamo per la prima volta dal suo medico e capiamo al volo che è un timido ipocondriaco, abbastanza imbranato, nevrotico, con mille paure e un lavoro mediocre. Tuck invece è un gran bell’uomo, affascinante, alto, muscoloso, con un sorriso accattivante. Ha un lavoro rischioso che ama fare.  Lo vediamo per la prima volta sbronzo e in uniforme, con quattro medaglie attaccate alla giacca, dunque un eroe, ma un eroe egocentrico. Sta offendendo con il suo inadeguato comportamento gli altri ufficiali presenti a una festa per piloti. È coraggioso e scapestrato sicuramente molto intelligente, ma superficiale nei suoi sentimenti. Sa di piacere alle donne e di avere un forte ascendente su di loro, e questa sua sfrontatezza gli allontana l’unica ragazza che ha amato.


Dal forte contrasto di queste due personalità in simbiosi nasce la comicità del film. Come farà l’imbranato Jack a salvarsi con dentro al suo corpo l’esuberante Tuck, e a salvare quest’ultimo? Jack  è restio  a fare ciò che Tuck gli ordina, ma non ha altra scelta se si vuole salvare: deve cambiare e superare le sue paure. Lydia lo ammalia, ma Tuck gli insegna a non farle prendere il controllo della situazione e lui impara a gestire il rapporto con l’atro sesso ascoltando i consigli di Tuck, ma filtrandoli con la sua natura fondamentalmente gentile. Tuck non ha altro modo per convincere Jack che è dentro il suo corpo che  le maniere forti, ma non riuscirà a fargli ripetere gli improperi che lancia quando entrambi saranno al laboratorio e dovrà promettere di non causare dolore fisico al corpo che lo ospita.  Jack lo obbliga a riflettere sull’esperienza unica che sta facendo: vedere parti di sé che nessuno potrà mai vedere. Il commesso gli ricorderà quei piccoli difetti di Lydia che la rendono unica e bellissima ed infine sarà lui a “smontare” l’arroganza di Tuck dicendogli che Lydia si merita un ragazzo migliore. Tuck si arrabbia ma per la prima volta si vede attraverso gli occhi di un altro e si mette in discussione. Alla fine del film, dopo rocamboleschi inseguimenti nel mondo all’esterno e viaggi perigliosi all’interno del corpo umano, i due personaggi saranno cresciuti e cambiati per sempre in meglio.


Questa commedia aveva bisogno di interpretazioni capaci di valorizzare gli incalzanti dialoghi e la scelta degli attori non poteva essere più riuscita. Bravissimo Martin Short che, nonostante le situazioni assurde dove il suo personaggio viene catapultato,  non è mai sopra le righe rimanendo credibile dall’inizio alla fine. Indovinata la scelta di Dennis Quaid per interpretare Tuck, sia per il suo aspetto fisico sia per il suo sorriso particolare che lo rende simpatico a prima vista. L’incantevole Meg Ryan, all’inizio della sua carriera,  mantiene la sua eleganza e distinzione pure interpretando  alla perfezione un ruolo comico. Una menzione speciale si deve alle splendide se non sbalorditive ricostruzioni degli organi del corpo umano, visti da occhi piccoli quanto una cellula, e al sorprendente quanto accurato e plausibile viaggio della navetta all’interno di essi e dei loro misteri: i ritmi delle pulsazioni del cuore che seguono i sentimenti del suo proprietario, la tempesta del mare di succhi gastrici, il tetto di cellule di grasso, le corse dei globuli rossi, quasi dei cavalli al galoppo. L’oscar per gli effetti speciali è stato meritato. Una commedia fantastica, dunque, divertente che ci permette di saltare a piedi pari nel mondo della fantasia e forse  di fermarci poi a riflettere, dopo aver palpitato e riso insieme ai personaggi, sul nostro bellissimo, affascinante e ancora incredibilmente misterioso corpo umano. 

Per vedere il trailer: http://www.mymovies.it/trailer/?id=21404

domenica 24 giugno 2012

Avere vent’anni (1978)

di Fernando di Leo (1932 - 2003)

Fernando di Leo (San Ferdinando di Puglia, 1923 - Roma, 2003)

Questo film mi è tornato alla memoria leggendo le tracce di italiano per la maturità 2012, dove si citava la frase di Paul Nizan che apre la pellicola girata dal grande Fernando di Leo, un autore dimenticato. Forse è il caso di parlarne. Molti nostri giovani non lo conoscono proprio e anche tanti nostri vecchi soloni, purtroppo... Il pezzo che segue è in gran parte tratto dal mio: Il cinema nero e perveso di Fernando di Leo (Profondo Rosso, 2011).


Avere vent’anni (1978) occupa un posto particolare nella cinematografia di genere degli anni Settanta. Fa bene Antonio Tentori a classificarlo come un dramma erotico, perché ci troviamo di fronte a un lavoro cupo e sensuale a base di erotismo torbido e non rassicurante.   

Gloria Guida, una delle splendide protagoniste

Vediamo la scheda tecnica. Regia di Fernando di Leo, che si occupa pure di soggetto e sceneggiatura, fotografia di Roberto Gerardi, scenografie di Francesco Cuppini, montaggio di Amedeo Giomini, musiche di Francesco Campanino. Prodotto da Vittorio Squillante per International Daunia Film. Distribuito da Alpherat. Interpreti: Gloria Guida, Lilli Carati, Ray Lovelock, Vincenzo Crocitti, Vittorio Caprioli, Licinia Lentini, Giorgio Bracardi, Daniele Vargas, Roberto Reale, Leopoldo Mastelloni, Serena Bennato, Daniela Doria, Raul Lo Vecchio, Fernando Cerulli, Camillo Chiara, Flora Carosello, Franca Scagnetti e Cindy Leadbetter.

La famosa sequenza Guida - Carati

La trama. Si comincia con un’inquadratura di una spiaggia dove un gruppo di giovani si sta svegliando per affrontare un nuovo giorno. Il regista non chiarisce il ruolo di quel gruppo di persone e le immagini servono soltanto a  presentarci Tina (Lilli Carati) e Lia (Gloria Guida),  due belle ragazze di vent’anni che si conoscono mentre fanno il bagno in mare. Il seguito della pellicola fa capire che il gruppo era una sorta di comune itinerante alla quale Lia era legata. Tra le due donne si instaura un buon rapporto e decidono di continuare insieme il loro viaggio senza meta. “Siamo giovani, belle e incazzate!” è il motto che ripetono spesso, come per dire che vogliono prendere dalla vita tutto quello che è lecito avere. 

Lilli Carati e Gloria Guida

Notevole e indicativa di tutta l’atmosfera del film è la frase del romanziere e filosofo marxista Paul Nizan messa come preambolo: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che quella è la più bella età della vita”. Così come la colonna sonora (interpretata da Gloria Guida) che ripete ossessivamente il triste motivo come vivere vent’anni, non fa presagire niente di buono. 


Tina e Lia fanno l’autostop e si confidano le loro esperienze (“In quel gruppo si faceva di tutto: balli di gruppo, noia di gruppo, ma non si scopava mai!”). A un certo punto si ferma una borghese a bordo di un’auto da trenta milioni che tra l’altro confessa di essere lesbica, fa la morale alle due ragazze e finisce per dare una piccola elemosina. Riceve una risposta sprezzante da entrambe e i soldi le vengono subito restituiti. Le ragazze hanno appetito, si mettono a rubare generi alimentari in un supermercato (una sorta di esproprio proletario) e con l’inganno si fanno offrire il caffè da un barista. Nel magazzino c’è anche l’occasione per fare un po’ di pubblicità che di sicuro serviva alla produzione del film (certo non ricchissima): Pejo, Petrus, Fernet Branca. Tutto in perfetta sintonia con il modo di fare cinema negli anni Settanta, stona solo per la valenza sociale e di protesta che contiene la pellicola. Surreale anche l’acquisto delle sigarette con Lilli Carati che offre un pompino in cambio di un pacchetto di Marlboro. Un imbarazzato commerciante prima non sa che dire e infine rifiuta. Tina e Lia decidono di aggregarsi a una comune retta da uno strano individuo detto il Nazariota (Vittorio Caprioli). Qui incontrano Rico (Ray Lovelock), un bel ragazzo di cui Tina si innamora ma che è completamente fatto perché usa droghe pesanti. Interessante il personaggio interpretato da Vittorio Caprioli, una specie di santone truffatore che dice “Pace e male” quando introduce un discorso ed  sempre in cerca di denaro. “Qui si deve pagare una retta… le comuni sono una cosa superata… se non avete soldi pagherete, ci sono tanti modi per pagare…” dice. Accoglie le ragazze nella comune e le invita a trovarsi una sistemazione. Tina e Lia conoscono una ragazza madre che ha avuto un parto trigemellare, un individuo antipatico e fastidioso che si fa chiamare il Riccioletto (Vincenzo Crocitti) e un immobile Leopoldo Mastelloni che cerca di elevarsi verso la totale assenza di desideri terreni.

Ray Lovelock

Alla fine decidono di occupare proprio la sua stanza, visto che lui dà poco fastidio. Le ragazze per pagare la retta vengono convinte dal Nazariota a mettere in comune i corpi e a fare l’amore con chi lo chiede, pure se Tina non sembra d’accordo (“Ho voglia di scopare ma con chi voglio io!”). Infatti Tina comincia a vagare per la comune in cerca di qualcuno che faccia al caso suo, ma trova soltanto gente strafatta che a tutto pensa fuorché a fare l’amore. C’è soltanto il bel Rico (Ray Lovelock), anche lui drogato perso, ma ci pensa Tina a rimetterlo in sesto accarezzandolo e baciandolo a ritmo della sensuale canzone “Mi piaci” di Ornella Vanoni (“Mi piaci, mi piaci, mi piaci/ Dillo ancora/ Ti voglio, ti voglio, ti voglio/ Dillo ancora/ Tu mi fai volare…”). Questa è una bella scena erotica che precede un’altra parte sexy con protagonisti due giovanotti mandati dal Nazariota per fare l’amore. Le ragazze dopo qualche resistenza accettano e poi restano insoddisfatte perché i due pensano soltanto al loro piacere. “Andate spesso a puttane voi due?” domanda Tina piuttosto irritata. Tina e Lia si consolano da sole in una scena lesbica rimasta memorabile che purtroppo in alcune copie della pellicola risulta pesantemente tagliata. Il dvd rimasterizzato e messo in circolazione nell’estate 2004 presenta la versione integrale del film e se ne può consigliare l’acquisto. Il rapporto sessuale tra la Guida e la Carati viene sottolineato da un’altra canzone di Ornella Vanoni (“Il desiderio di avere/ il bisogno di dare…”) che accompagna baci e carezze saffiche. Si tratta della scena che Gloria Guida nell’intervista rilasciata a Pulici e Gomarasca per 99 Donne confessa di non ricordare. 

Lilli Carati e Gloria Guida, bellissime e brave interpreti

Si riparte subito dopo con il motivetto come vivere vent’anni e le nostre disinibite protagoniste ballano scatenate in Piazza Navona e poi per tutta la città. L’intermezzo serve a introdurre una parte del film molto politicizzata con un regista che vuole girare un’inchiesta sui rapporti umani e sulla libertà nella comune. Tina viene intervistata e confessa che non voleva diventare una brava donna di casa e sentiva la verginità come un peso. Lei non sopporta i valori borghesi e non voleva vivere in una casa dove padre e madre erano due estranei. Lia confessa che non ha mai avuto una famiglia, ha vissuto sino a tredici anni in un orfanotrofio e non ha ricordi della sua infanzia. A sedici anni è stata assunta a servizio da una vecchia zitella che si faceva addirittura masturbare da lei. Dice che ha avuto qualche uomo ma che per lei uomo o donna fa lo stesso e il sesso non è importante. Su questo punto Tina e Lia hanno vedute opposte. Per Tina il sesso è fondamentale, dice che è una cosa che le spetta e quindi se lo prende dove lo trova. Il regista del documentario si lascia andare a una serie di considerazioni incomprensibili a base di marxismo e psicanalisi. C’è pure una specie di recita femminista contro l’uomo (un aborto da eliminare) che viene eseguita alternando raffinate scene erotiche con protagonisti Lilli Carati e Ray Lovelock. Si vede chiaro come la pensa di Leo ed è evidente la critica al femminismo e agli intellettuali che mistificano la realtà. A questo punto il Nazariota affida alle ragazze un lavoro abbastanza strano per una comune: vendere enciclopedie a clienti selezionati. Tina ha vita facile con il proprietario di una macelleria e pure con un professore moralista che parla bene ma razzola male, visto come si eccita quando la ragazza finge di essere attratta da lui e dal modo in cui pronuncia la parola cultura. Questa è una delle parti meglio riuscite del film. Lia si imbatte in una lesbica (pare un destino) che le offre denaro per fare l’amore. Per questo vorrebbe smettere di vendere libri, l’episodio le ricorda brutte esperienze del passato. La carriera di venditrici termina facendo l’amore con un pensionato che è rimasto solo in mezzo ai suoi libri.

Dal dvd statunitense, la sequenza delle Marlboro

Dopo questo episodio c’è una retata della polizia nell’edificio che ospita la comune e un maresciallo da burletta come Franco Bracardi indaga su di un traffico di droga e sull’asilo concesso a certi sovversivi. Si scopre pure che nella comune c’è un infiltrato della polizia pagato per spifferare quel che accade là dentro. Poi è lo stesso ispettore che fa mettere finta droga nella comune per poter godere dei fondi speciali assegnati dal ministero. Il maresciallo è un borghese violento e moralista che si lascia andare a considerazioni degne di estremisti di destra della peggiore specie (“I pacifisti sono i peggiori!”, “Tutta la gente che frequenta le comuni è sospetta”, “La droga è disordine”). La critica alla polizia è netta e decisa, soprattutto per il modo “fascista” con cui vengono condotti gli interrogatori, senza alcun rispetto per le persone. Alla fine fanno le spese di tutto le due ragazze che vengono obbligate con foglio di via a rientrare ai loro paesi che si trovano nel sud dell’Italia. Tina e Lia cominciano il viaggio con l’autostop e si fermano a mangiare in una trattoria di campagna. Qui si apre la parte più dura e importante della pellicola, quella per cui è diventata oggetto di culto ricercato da appassionati e collezionisti. Tina e Lia cominciano a ballare in modo provocante davanti a un juke-box ed eccitano un gruppo di malintenzionati. In un primo tempo è soltanto Tina che si mette a ballare mentre Lia addenta un panino, poi la segue anche la compagna.

Le due protagoniste nella comune

Vengono subito abbordate da due uomini che si avvicinano danzando, ma Lia per scoraggiarli ne colpisce uno con una botta al pene. La scena è lunga e provocante, le due amiche si baciano addirittura tra loro. Uno dei malintenzionati le afferra per un braccio e domanda quanto le devono pagare per scopare. Tina per tutta risposta tira fuori cinquantamila lire e le getta nel mucchio gridando: “Siete in dieci, fatevi una sega a testa!”. Secondo me con questa scena il regista vuol far capire che nella società contemporanea la donna non è libera di manifestare spontaneamente la propria sessualità perché l’uomo è sempre preda di bassi istinti. Le due ragazze lasciano la trattoria e dopo poco vengono aggredite nella fitta boscaglia dal gruppo di delinquenti. Le sequenze finali sono di un’inaudita e realistica violenza con gli uomini che picchiano con pugni e calci, toccano, colpiscono con schiaffi al volto e tirano i capelli con violenza. Infine spogliano le ragazze e le violentano a turno. Arriva pure il capo, un impotente che odia le donne e gode nel vederle soffrire. Tina si libera dalla stretta dei violentatori e si avventa su di lui brandendo un nodoso bastone. Il capo la disarma e la colpisce con violenza, quindi, dopo averle fatto ben divaricare le gambe, la impala con lo stesso bastone.  Pure Lia viene uccisa con un colpo di bastone alla nuca. Tutto molto realistico e mentre campeggia la parola fine resta solo lo spettacolo terribile di due corpi privi di vita e i poveri resti abbandonati delle loro cose. Pare che del film esistano due versioni, una delle quali meno dura che non si conclude con il massacro delle protagoniste. Il finale lieto e spensierato è quello che tutti avrete visto nei frequenti passaggi notturni sulle reti televisive private. La censura lo imponeva e pure i risultati al botteghino della prima versione consigliarono una diversa chiusura. Resta il fatto che l’insuccesso commerciale va attribuito soprattutto alla carente distribuzione, visto che oggi gli appassionati ricercano la pellicola come oggetto di culto. Dopo aver visto il finale originale dobbiamo dire che il massacro delle due ragazze è angosciante, ma è girato con talento e crudezza di particolari. 

Gloria Guida e Lilli Carati in una delle prime sequenze (autostop)

Avere vent’anni è un buon lavoro, duro quanto basta, realistico e sconvolgente, girato con maestria da Fernando di Leo e ben recitato da Gloria Guida e Lilli Carati. Per quei tempi così bacchettoni rappresentò un vero pugno allo stomaco, indigeribile per palati abituati a un erotismo innocuo e patinato e a film senza spessore. Le due attrici sono entrambe alla prima esperienza con una pellicola importante che supera i canoni della commedia sexy e tutto sommato se la cavano bene. Di Leo riproduce l’atmosfera di un’Italia bigotta e intollerante, corrotta, piena di pregiudizi, antifemminista e retrograda. Sa fare un discorso politico senza essere né pesante né didascalico e giustifica bene un finale violento che tanto ha fatto discutere, ma che a ben vedere è dalla parte delle donne. 

La bellezza delle due protagoniste

Memorabili le scene di amore lesbico tra Gloria Guida e Lilli Carati che la Guida (intervistata da Pulici e Gomarasca) sostiene di non ricordare. Addirittura dice di non ricordare niente di Avere vent’anni, di averlo rimosso e questo è un vero peccato perché si tratta di uno dei film più belli della sua carriera. Vero è che se fino ad allora le nudità di Gloria Guida erano sempre state molto innocenti e maliziosa in questa pellicola sono esposte per dar vita a un dramma torbido e inquietante. Da ricordare anche la presenza importante di attori come Vittorio Caprioli, ben calato nella parte di un santone strano e truffaldino, Giorgio Bracardi (improbabile maresciallo di polizia), Leopoldo Mastelloni (immobile e meditativo nel suo abito da Pierrot triste). 

Versione anglofona Rarovideo
Fernando di Leo in un’intervista a “Nocturno Cinema” dice di non ricordare con piacere il film. Secondo lui la Carati e la Guida come attrici non erano attrezzate, ce la misero tutta per accontentarlo, dissero parolacce, recitarono scene erotiche tra loro e con gli uomini, ma qualcosa non carburava lo stesso, mancava l’erotismo, l’ambientazione era a livello di citazione e non si notava la trasgressione. Per di Leo Avere vent’anni, pur rimontato, resta un filmetto porno-sadico che fa acqua da tutti i lati e che dice solo cose vecchie e risapute. Colpa di una sceneggiatura e di una regia sbagliate almeno per il cinquanta per cento, a suo dire. Secondo me il maggior difetto del film consiste nella frammentarietà dei vari episodi che risultano staccati tra loro e privi di un filo logico portante. Si pensi ai passaggi bruschi che lo spettatore subisce dalla prima scena sulla spiaggia, alla comune, alla vendita di enciclopedie, per finire con la parte estremamente violenta che conclude la pellicola. 

Lilli Carati e Gloria Guida a letto nella comune
Di Leo è un autore di buon livello che pretende molto da quel che fa. Di conseguenza è critico all’eccesso nei confronti di un’opera che, pur avendo i suoi limiti, resta una pietra miliare del cinema di genere anni Settanta. Interessante il giudizio di Paolo Mereghetti che concede al film una stella e mezzo: una specie di pamphlet sulla fine dell’epoca della contestazione, tutt’altro che moralista (gli uomini ci fanno una pessima figura) ma molto al di sotto delle ambizioni

Per vedere il film completo: http://www.youtube.com/watch?v=2roMGA3khzY

Il libro da cui è tratto questo articolo

Gordiano Lupi

sabato 23 giugno 2012

Letti sbagliati (1965)

di Steno


Regia: Steno. Soggetto e Sceneggiatura: Sandro Continenza. Montaggio: Giuliana Attenni. Fotografia: Clemente Santoni. Musiche: Carlo Rustichelli. Aiuto Regista: Mariano Laurenti. Produzione: Adelphia Compagnia Cinematografica. Distribuzione: Panta Cinematografica. Teatri di Posa: Titanus - Appia (Roma). Interpreti: Ingeborg Schoener, Lando Bizzanca, Aldo Giuffrè (Il complicato); Raimondo Vianello, Margaret Lee, Fulvia Franco (00 - Sexy missione Bionda Platino); Carlo Giuffrè, Beba Loncar, Carlo Puglisi (Quel porco di Maurizio); Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Olimpia Cavalli (La seconda moglie). Altri interpreti: Tecla Scarano, Aldo Bonucci, Enzo Turco, Pietro Tordi, Piero Gerlini, Piero Morgia, Enzo Filippi, Renato Terra Caizzi, Antonio La Raina. 


Letti sbagliati rappresenta il secondo incontro tra Steno e la coppia comica siciliana, dopo Un mostro e mezzo (1964). Franco Franchi e Ciccio Ingrassia sono protagonisti dell’ultimo segmento di una commedia all’italiana in quattro episodi che anticipa tematiche care alla commedia sexy. Si tratta di quattro storie erotiche, vietate ai minori di anni diciotto da una censura feroce, ambientate in treno, ascensore e nelle case popolari, interpretate da attori ben calati nella parte e donne stupende. Il complicato vede protagonista Lando Buzzanca - per la prima volta alle prese con un personaggio complesso e davanti alla macchina da presa come interprete principale - beffato da Aldo Giuffrè e Ingeborg Schoener, due truffatori che lo incastrano con un piano ben congegnato. Il tema ruota attorno a una fantomatica avventura di viaggio, che Buzzanca vive con la bella Schoener soltanto perché lei aveva orchestrato tutto per vincere cinquecentomila lire scommesse dal compare. Buzzanca è così complicato che passa la notte in bianco (in tutti i sensi), annoia la ragazza con sospetti e dubbi, resta sveglio a parlare mentre lei si addormenta. L’avventura resta un sogno. 00 - Sexy missione Bionda Platino vede protagonisti Raimondo Vianello, Margaret Lee e una sempre avvenente Fulvia Franco (moglie di Vianello). Il personaggio del marito litigioso che bisticcia con la consorte e cerca avventure fuori dal menage familiare comincia a maturare nella mente di Vianello e Continenza, anche se raggiungerà livelli alti solo con Sandra Mondaini. In questo episodio Vianello è un ingegnere elettronico ossessionato dalla formosa Margaret Lee al punto di mettere in pratica un sogno erotico - spionistico. Il film ricorda i fumetti neri di Diabolik (in senso ironico, alla Dorellik) con il protagonista che cerca di manomettere l’ascensore e di restare solo con la donna cloroformizzata.

Margaret Lee

Le cose vanno male per colpa di un bambino dispettoso e di un incidente stradale, così finisce nell’ascensore la moglie  insieme al garzone del fornaio.Geniale la parola FINE, scritta come se fossero le corna di un alce sulla testa del protagonista. Quel porco di Maurizio è interpretato da Aldo Puglisi, Carlo Giuffrè e Beba Loncar ed è pura commedia all’italiana di taglio erotico. Puglisi resta affascinato dalla Loncar in treno, osserva i suoi movimenti sensuali, le gambe che si incrociano, le nudità appena intraviste e si becca una querela per aver tentato di baciarla. Carlo Giuffrè è il suo avvocato che parte per aggiustare le cose ma alla fine si lascia irretire dalla ragazza, finisce per andare a letto con lei e se ne innamora. La seconda moglie è il segmento dominato da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ma anche dalle grazie procaci di Olimpia Cavalli. Commedia degli equivoci allo stato puro, ma anche farsa e avanspettacolo convivono in una storia surreale al termine della quale Ciccio si rende conto che la prima moglie si teneva in casa l’amante e lo spacciava per fratello. Non solo, visto che la lettera anonima è arrivata dodici anni dopo, Ciccio comprende di aver mantenuto per undici anni l’amante della moglie che tra l’altro si fingeva paralitico. Il finale lo vede ancora una volta sconfitto, perché un ictus lo blocca in carrozzella e Franco lo accudisce, ma al tempo steso si prende cura anche della nuova moglie. L’episodio che vede protagonisti Franco & Ciccio è segnato dalla loro presenza ma non si basa solo su smorfie e lazzi. Una vera sceneggiatura sorregge una serie di malintesi, equivoci, momenti farseschi e parti teatrali a metà strada tra la pochade e l’avanspettacolo. Il momento topico è quando il commissario esclama: “Adesso tocca ai ragazzi. Se la debbono fare tutti!”, alludendo alla puntura che sta per fare la moglie di Ciccio, mentre l’ignaro marito pensa a ben altro. Il finale de La seconda moglie verrà citato da Alberto Lattuada nelle ultime sequenze di Venga a prendere il caffè da noi (1970), con un tono meno farsesco. 


Steno è bravissimo a far sorridere con garbo e ironia, girando quattro trame erotiche sceneggiate dalla penna leggera di Sandro Continenza sulla falsariga di Rebecca (1940) di Alfred Hitchcock, ma anche di tutto il filone legato allo spionaggio stile 007. Commedia all’italiana pura, che anticipa la svolta sexy, con Mariano Laurenti chiamato a prendere appunti nelle vesti di aiuto regista.  Letti sbagliati è un film importante perché spinge l’acceleratore sui momenti sexy, inserendo alcune sequenze che diventeranno cliché del decamerotico e della commedia sexy. Abbiamo mariti cornuti, occhi che spiano dalle serrature, uomini che si intrufolano in camera mentre le ragazze dormono seminude, bellezze procaci in babydoll che indossano calze velate sorrette da giarrettiere, spogliarelli appena accennati, macchina da presa che mette in primo piano gambe e procaci scollature. Per non parlare di battute a doppio senso come: “Le curve basta saperle prendere, soprattutto di notte…”, dice Beba Loncar con un sorriso malizioso. Steno anticipa ma poi non partecipa al momento erotico del nostro cinema, se non in maniera marginale e sempre con prodotti di livello medio - alto, così come Franco & Ciccio decidono di non prestarsi al gioco della commedia sexy. “Steno è un regista a metà strada tra il filmaker e l’autore. Colto, serio, sottile, un fine umorista, abile fustigatore dei costumi italiani che proveniva dal Marc’Aurelio. Ha sempre fatto cose di buon gusto”, dice il produttore Turi Vasile. “Quando ho incontrato Steno per la prima volta era già un regista storico, aveva fatto molta commedia all’italiana insieme a Mario Monicelli. Per me è stata la prima esperienza da protagonista in un film a episodi. Adesso rimpiango di non aver fatto con lui La polizia ringrazia, perché temevo che il pubblico non comprendesse il mio passaggio a un ruolo drammatico. Ricordo di aver interpretato sotto la sua guida Il vichingo venuto dal sud e di essermi trovato bene. Era un uomo pacifico, ironico, divertente”, afferma Lando Buzzanca. Le dichiarazioni di Turi Vasile e Lando Buzzanca sono state rilasciate a Mario Sesti e Nicola Calocero per gli extra pubblicati in alcuni dvd prodotti da Medusa.


Tra le attrici ricordiamo la tedesca Ingeborg Schoener (1935), donna stupenda, bionda, lineamenti regolari, fotomodella e interprete di teatro e cinema in Germania, Francia e Italia, ma anche di televisione negli Stati Uniti. Letti sbagliati viene esportato in Germania grazie anche alla sua presenza con il titolo di Die richttige Frau im falschen Bett, un film diverso dal solito, il primo che la vede in un ruolo sexy. In questa pellicola è la truffatrice che fa vivere una finta avventura di viaggio al complicato Lando Buzzanca, ma la ricordiamo interprete de Il cocco di mamma (1957) di Mauro Morassi, Venezia, la luna e tu (1958) di Dino Risi, Il corsaro della mezzaluna (1959) di Giuseppe Maria Scotese, L’idea fissa (1964) di Mino Guerrini e Gianni Puccini, I misteri della giungla nera (1964) di Luigi Capuano e Non sta bene rubare il tesoro (1967) di Mario Di Nardo. Negli anni Settanta la ricordiamo interprete di telefilm polizieschi prodotti in Germania come L’ispettore Derrick e Un caso per due. Altra bellezza della pellicola è l’inglese Margaret Lee, sogno erotico degli anni Sessanta che lavora spesso a fianco di Franco & Ciccio, ma qui rappresenta l’ossessione di Vianello. Non dimentichiamo una giovanissima Beba Loncar, provocante e sensuale come poche, e la ruspante bellezza di Olimpia Cavalli nell’episodio finale. Beba Loncar (Belgrado, 1943) diventerà un’icona del cinema erotico italiano e resta indimenticabile la sua performance nel sexy - trash Incontri molto… ravvicinati del quarto tipo (1978) di Mario Gariazzo e Gianfranco Baldanello.

Beba Locar

La critica non ama i film comici. Paolo Mereghetti concede una misera stella: “Quattro barzellette sceneggiate da Alessandro continenza e costruite sugli argomenti per eccellenza dell’avanspettacolo nazionale: sesso e corna. Ma senza mai un pizzico d’ironia o d’invenzione”. Pino Farinotti conferma una stella: “Quattro episodi piuttosto mediocri”. Siamo più vicini alle due stelle elargite da Morando Morandini, che almeno fa notare come il pubblico ne abbia assegnate addirittura tre: “Film umoristico, barzellette dilatate, ma gli interpreti sono bravi”. A nostro avviso un film da riscoprire e da vedere senza pregiudizi snobistici. Commedia all’italiana corretta inversione erotica con momenti farseschi di puro avanspettacolo.

Ingeborg Schoener

Per vedere il film completo: http://www.youtube.com/watch?v=kpZJZ2Q3uwA
Disponibile anche dvd edito da Hobby & Work in edicola con extra curati da Sesti e Calocero

Gordiano Lupi

giovedì 21 giugno 2012

Le sette vipere (1964)

di Renato Polselli


Regia: Renato Polselli. Soggetto: Vincenzo Cascino. Sceneggiatura: Vincenzo Cascino, Renato Polselli, Nilo Panaro. Direttore di Produzione: Vincenzo Cascino. Aiuto Regista: Giuseppe Pellegrini ed Ernesto Gastaldi. Architetto: Demofilo Fidani. Montaggio: Enzo Alabiso. Fotografia: Aiace Parolin. Commento Musicale: Felice Di Stefano. Produzione e Distribuzione: Accadia Film. Girato: Teatri di Posa: Titanus - Appia. Esterni: Buenos Aires - Roma. Canzoni: “Se vuoi lasciarmi” e “Il commendatore” cantate da Luciano Fineschi. Interpreti: Vincenzo Cascino, Gloria Paul, Lisa Gastoni, Solvi Stübing, Annie Gorassini, Susana Campos, Alicia Marquez, Valeria Fabrizi, Umberto D’Orsi, Alberto Bonucci, Alfredo Rizzo, Aroldo Tieri, Nicole Tessiér, Carla Calò, Marilù Asaro, Antonio Devi, Gianfranco Federici, Vincenzo Sartini, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.

Le sette vipere è noto anche con il sottotitolo Il marito latino ed è la seconda e ultima esperienza di un regista trasgressivo come Renato Polselli alla guida di due comici naturali come Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Il primo film di Polselli con i due siciliani inseriti tra i molti protagonisti è Avventura al motel (1963), una commedia sulla crisi della coppia, ma anche ne Le sette vipere il regista affronta il suo argomento preferito. Temi portanti della pellicola sono l’antagonismo uomo - donna, la crisi della coppia, il difficile rapporto tra moglie e marito, il divorzio e la legge che crea problemi invece di risolverli. Il tutto visto dalla lente deformante di un misogino come Polselli che non esita un istante a far dire a un interprete che ogni donna porta in cuore sette vipere e a sottolineare - per bocca di Gloria Paul - che “quando una donna vuole ogni uomo diventa uno stupido”.

Gloria Paul e Umberto D'Orsi

La storia è abbastanza complessa ma si riassume nella crisi coniugale tra un italiano (Cascino) e un’argentina (Gastoni), vissuta per colpa di entrambi, un marito all’antica che non vuole la moglie al lavoro e una donna perfida che decide di liberarsene con ogni mezzo. In questa situazione giocano un ruolo determinante le amiche frivole, separate e sposate più volte in Messico, alcune persino bigame, ma anche un avvocato (D’Orsi) maneggione e traditore. Tra le amiche ricordiamo la bravissima Valeria Fabrizi - ideatrice del piano per liberarsi del maschio - e il fascino sensuale della londinese Gloria Paul. La famiglia italo argentina non è perfetta, i genitori sono poco presenti, interessati solo al lavoro, mentre i figli vengono affidati alla governante tedesca Solvi Stübing, al debutto cinematografico, ma già famosa come testimonial della Birra Peroni (“Chiamami Peroni, sarò la tua birra!”). Lisa Gastoni è una donna moderna, pure troppo per l’Italia degli anni Sessanta, ma il film è ambientato in Argentina: beve, fuma e lavora. Molto bella e sensuale, spesso fotografata a gambe nude e in pose provocanti. Interessante la lite sul ruolo della donna in seno alla famiglia, che sentita oggi pare antiquata ma va storicizzata.


Il marito è un teatrale Vincenzo Cascino, tuttofare del film, visto che è soggettista, sceneggiatore e produttore, oltre che interprete principale. La segretaria del marito è Annie Gorassini, che alla fine diventa la compagna di vita dopo la fuga in Italia e accetta i figli della moglie argentina. Renato Polselli trasgredisce come può e inserisce nella pellicola sfilate in costume da bagno, riprese audaci delle parti intime durante balli sensuali (cha-cha-cha e mambo), sequenze erotiche molto audaci. Il pubblico voleva certe cose dal cinema e i registi all’avanguardia cercavano di accontentare lo spettatore sfidando la solerte censura. Una buona parte sexy vede la Gastoni concupire il marito prima per mandarlo in bianco e subito dopo per tentare una finta riconciliazione. La pellicola comincia come commedia sopra le righe per criticare l’istituzione del matrimonio ma anche la stupidità della legge e la perfidia interessata degli avvocati. Va avanti come un dramma psicologico quando il marito si sente sedotto e abbandonato (per citare Germi), perde i figli ed è costretto a rapirli per poter vivere con loro. La parte girata a Roma vede una bella fotografia della capitale di notte, così come a Buenos Aires viene sottolineato il contrasto tra baracche e quartieri ricchi. Da segnalare in negativo la pesantezza di certi dialoghi tra Cascino e la Gorassini, prima dell’arrivo della moglie a Roma e della lite davanti al presidente del tribunale. Il finale della pellicola è farsa allo stato puro, avanspettacolo di grande livello, che comincia con l’ingresso degli avvocati Franchi e Ingrassia che si scatenano da par loro con la complicità di Alfredo Rizzo. I due siciliani recitano la macchietta dei legali contrapposti che portano avanti con un registro comico surreale le ragioni dei rispettivi clienti. Quando la Gastoni confessa che i figli non sono del marito, Franco conclude con un latinetto storpiato: “Mater sempre certa, pater nun se sa!”. In questa parte da avanspettacolo va segnalato un ottimo Alfredo Rizzo, che asseconda da grande caratterista alle doti comiche dei due attori. Alberto Bonucci e Umberto D’Orsi forniscono nella prima parte del film altri due ritratti di legali che non fanno l’interesse dei clienti ma seguono soltanto il loro tornaconto. Aroldo Tieri interpreta un imprenditore libertino felice in mezzo alle donne in una casa di appuntamenti.


Il film pare ispirato alle vicissitudini personali del protagonista - soggettista - produttore Vincenzo Cascino ed è una commedia grottesca alla Polselli sulle vicissitudini giudiziarie da affrontare in caso di divorzio. L’interprete principale dovrebbe essere Walter Chiari, ma Cascino non sente ragioni, visto che finanzia il progetto, vuole la parte tutta per sé. Didascalico l’incipit con una voce fuori campo che legge una scritta in sovrimpressione: “L’antagonismo fra l’uomo e la donna per il predominio nella famiglia è antico quanto il matrimonio e si esaspera quando tra i coniugi interviene la legge e la sua cattiva interpretazione”. 

Lisa Gastoni
La critica è sempre severa con Renato Polselli. Paolo Mereghetti concede una misera stella: “Il film diventa subito una farsa di dubbio gusto non si capisce se pro o contro il divorzio, anche se è ambientata all’estero per evitare grane. Polselli non perde un’occasione per mostrare bellezze in bikini e inserire siparietti da avanspettacolo (con Ciccio e Franco che fanno gli avvocati). Personaggi idioti, gag penose: il disagio che ispira il suo cinema è sempre inarrivabile”. Pino Farinotti raddoppia il numero di stelle, ma non azzarda giudizi critici, mentre per Morando Morandini la pellicola non esiste. A nostro parere Le sette vipere non è invecchiato male, tra i migliori lavori di Polselli, ancora godibile, se si ha la pazienza di storicizzare dialoghi e situazioni. Ottima la fotografia in bianco e nero, discreto il commento musicale con le canzoni di Fineschi, poco serrato il montaggio.

Per vedere il film integrale: http://www.youtube.com/watch?v=g1_wxMcMW9I
In edicola è disponibile una buona versione edita Wobby & Worck, curata da Simone Buttazzi.

Gordiano Lupi

lunedì 18 giugno 2012

Giuseppe Bertolucci

Il regista che ha inventato Benigni

Giuseppe Bertolucci (Parma, 1947 - Diso, 2012) è figlio del poeta Attilio Bertolucci e fratello del più famoso Bernardo (1941). Esordisce nel mondo del cinema come assistente alla regia e sceneggiatore per conto del fratello, con cui lavora alla realizzazione di Strategia del ragno (1970), Novecento (1976) e La luna (1979). Il suo primo film da regista è il mediometraggio in collaborazione I poveri muoiono prima (1971), seguito dal televisivo Andare e venire (1972), dal didattico AB Cinema (1975) e dallo sceneggiato Se non è ancora la felicità (1976). 


Berlinguer ti voglio bene (1977) è il suo primo film a soggetto realizzato per il cinema, interpretato da un Roberto Benigni venticinquenne, reduce dal discusso Televacca e affiancato da Carlo Monni. Un film assurdo, surreale, logorroico, ma che definirei epocale, caratterizzato da eccessi comici e puro turpiloquio toscano. Mario Cioni (Benigni) è un sottoproletario che vive alla periferia di Prato, complessato, inibito sessualmente, succube di una madre oppressiva (Valli) che vorrebbe farlo sposare con una ragazza zoppa, bersaglio di scherzi feroci da parte di un gruppo di amici assurdi tra i quali spicca il bifolco Bozzone (Monni). Il film è davvero a basso costo, proiezione per il grande schermo del monologo teatrale Cioni Mario di Gaspare fu Giulia (1975), scritto da Bertolucci, pensato per esaltare la mimica toscana di un Benigni prima maniera. Mario Cioni è un operaio imbranato che spera nella rivoluzione comunista, per questo confida le sue pene a un’immagine di Berlinguer che troneggia come testa di uno spaventapasseri in mezzo alla campagna. Un film troppo moderno per il 1977, quando esce nessuno lo comprende, ma che oggi merita una rivalutazione, perché unico nel suo genere. Volgare nei dialoghi ma casto nelle immagini, girato a base di interminabili piano sequenza per riprendere la desolazione della periferia fiorentina, alterna drammatico e comico senza soluzione di continuità, fa sorridere e pensare, dispensa amarezza e buonumore. Un film segnato da una “torrentizia scurrilità genitale”, come scrive la critica più attenta, che si ricorda soprattutto per quei cinque minuti di improperi peripatetici recitati da Benigni dopo aver ricevuto la falsa notizia della morte della madre. Il personaggio interpretato da Benigni rimanda ai matti di paese, intorno al protagonista tutto ricorda il tempo passato, i ragazzi d’una provincia depressa immersi nel pensiero ossessivo di come portare a letto una donna. Divertente l’ironia sul femminismo e il dibattito tra compagni intitolato “Pole la donna permettesi di pareggià coll’omo?”. Le risposte fioccano surreali. “La donna, la donna, la donna…o l’omo?”, è quella che ricordiamo come esempio trash. Altre scene originali, divertenti e tragiche: il ballo alla Casa del Popolo con Benigni vestito da contadino elegante, la ragazza zoppa che diventa isterica quando lui si mostra agile con le gambe, Bozzone che vuole andare a letto con la mamma di Mario, i discorsi politici davanti alla foto di Berlinguer, l’omosessuale vilipeso da tutti che si confida con Mario, il malato di tumore che litiga con il barista… Berlinguer ti voglio bene è un film che contribuisce a far conoscere uno spaccato della provincia toscana paleoindustriale di fine anni Settanta. Nella sua follia surreale è un film realistico.

La scena del campo con Berlinguer spaventapasseri

Tutto Benigni (1983) è la seconda opera di Bertolucci, nella quale ripropone le parti più interessanti degli spettacoli di un comico diventato amico fraterno. Bertolucci lega il suo nome a Benigni in maniera indissolubile, scrive i dialoghi di Televacca, inventa il personaggio di Cioni Mario, scrive la sceneggiatura de Il piccolo diavolo (1988), ideando la famosa scena della sfilata di moda per monsignori. Altre sceneggiature importanti di Bertolucci portate al cinema da Benigni sono il fondamentale Non ci resta che piangere, unica collaborazione comica con Troisi, e il più modesto Tu mi turbi. Possiamo dire - insieme a Giorgio Carbone di Libero - che “Benigni deve a Bertolucci metà della sua fortuna”, perché negli anni Ottanta i migliori lavori del comico toscano sono firmati Giuseppe Bertolucci.


Il resto della sua opera rappresenta un’attenta analisi della psicologia femminile, caratterizzate da alcune pellicole interpretate da attrici di diverse generazioni come Lea Massari, Mariangela Melato e Lina Sastri. Lavori molto lodati dalla critica ma poco premiati dal pubblico come Oggetti smarriti (1979), Segreti segreti (1984), Strana la vita (1987) e Amori in corso (1989). Segreti segreti è un interessante apologo sul terrorismo vissuto dalla parte della donna che cerca di analizzare le reazioni femminili alla situazione storica. Bertolucci dimostra di essere un grande direttore di attrici, sia quando guida Lea Massari come casalinga alle prese con l’ultima avventura sentimentale, che quando inventa un ruolo ai limiti del trash per Alida Valli, madre contadina di Cioni Mario concupita da Bozzone.

Monni e Benigni: la scena della poesia...
Tra i lavori minori di Bertolucci citiamo Panni sporchi (1980), un film inchiesta commissionato dal Partito Comunista Italiano, i televisivi Effetti personali (1983) e Il perché e il percome (1987), ma anche I cammelli (1989), La domenica specialmente (1991) e Una vita in gioco 2 (1992). La poetica di Bertolucci subisce un arresto di fronte alla debordante personalità di Sabina Guzzanti, protagonista di Troppo sole (1994). Il dolce rumore della vita (1999) è un film troppo intellettuale, pieno di metafore e di concetti importanti, ma poco cinematografico. Il suo ultimo lavoro degno di nota è L’amore probabilmente (2001), tre episodi girati in digitale sul rapporto verità - finzione, sul mestiere di attore, sul cinema e sul teatro. Giuseppe Bertolucci muore a soli 65 anni, dopo una lunga malattia a Diso (Lecce). Per molto tempo è stato presidente della cineteca di Bologna. Si ricorda come uomo colto, raffinato, parmigiano purosangue, innamorato sia di Pasolini che di Guareschi, al punto da farsi convincere a restaurare La rabbia (1962), diretto da entrambi. Un restauro che provoca polemiche perché resta intatta la parte pasoliniana mentre scompare quella gaureschiana. “L’inserto di Guareschi non rende buon servizio alla sua memoria” confessa Bertolucci. Forse deve sottostare a un diktat da parte di qualcuno, anche se Pasolini non è mai stato un personaggio amato dal potere. In ogni caso Bertolucci resta grande, uno dei migliori registi degli anni Ottanta - Novanta, prima della crisi senza ritorno del cinema italiano.  

Il ballo alla Casa del Popolo

Roberto Benigni, in occasione della morte del regista ha detto: "Devo tutto a Giuseppe Bertolucci. Ho passato con lui gli anni più belli della mia giovinezza. Era il mio amico. Il mio primo amico, il mio primo regista, il mio primo autore. Mi ha insegnato lui a leggere la poesia, a muovermi, a camminare nel mondo, a guardare il cielo, a capire da che parte arriva la bellezza e a riconoscerla. E l’audacia, e il coraggio. Devo tutto a Giuseppe Bertolucci".

Gordiano Lupi