mercoledì 28 maggio 2014

Jonathan degli orsi (1993)

di Enzo G. Castellari



Regia: Enzo G. Castellari. Soggetto: Franco Nero, Lorenzo De Luca. Sceneggiatura: Enzo G. Castellari, Lorenzo De Luca. Fotografia: Mikhail Agranovich. Montaggio: Alberto Moriani. Effetti Speciali: Celeste Battistelli, Pavel Terekhov. Scenografia: Marco Dentici, Marksen Gaukhman-Sverdlov. Costumi: Paola Nazzaro. Musica: Fabio Costantini, Alexander Biliaev, Clive Riche, Knifewing Segura. Produttore: Franco Nero, Vittorio Noia, Alexandr Shkodo. Produttore Esecutivo: Cesare Noia, Gabriel Safarian. Casa di Produzione: Project Campo J. V., Silvio Berlusconi Communications, Viva Cinematografica. Paesi Produzione: Italia, Russia. Titolo in lavorazione: Nikita Jones. Durata: 88’. Genere: western, azione, dramma. Prima uscita in Italia: 21 aprile 1995. Interpreti: Franco Nero, John Saxon, Floyd Red Crow Westerman, David Hess, Rodrigo Obregón, Clive Riche, Ennio Girolami, Bobby Rhodes, Marie Louise Sinclair, Boris Khmelmitsky, Victor Gainov, Knifewig Segura, Melody Robertson, Igor Alimov.



Enzo G. Castellari è forse il più americano dei registi italiani, votato da sempre al cinema d'azione, sia western che poliziesco, con sconfinamenti nel bellico (Quel maledetto treno blindato, 1977). Amato da Tarantino, che lo cita a più riprese, soprattutto in Bastardi senza gloria (2009), e lo considera un maestro. Jonathan degli orsi è un ottimo western crepuscolare, girato tra le montagne e le steppe russe di Alabino (Mosca), che ricorda i fasti di Keoma (1976), ma anche il nordamericano Balla coi lupi (1990) di Kevin Costner, giocando molto con il meccanismo del flashback che alterna ricordi del passato a tempo presente. Jonathan è un mezzo sangue indiano, cresciuto tra gli orsi e i Dakota, dopo che alcuni banditi gli hanno barbaramente ucciso i genitori. 



Il regista racconta l'infanzia del bambino ricorrendo a un meccanismo narrativo caro a Ingmar Bergman, realizzando una sorta de Il posto delle fragole (1957) in salsa western, con il protagonista invecchiato che torna sui luoghi del passato e li osserva da spettatore esterno, rimembrando eventi luttuosi e momenti felici. Jonathan vive per la vendetta, ma è un uomo giusto, consapevole che la pace tra bianchi e indiani sia un sogno impossibile, ma pensa che vada ricercata. Il film è un apologo antirazzista, dalla parte degli indiani e dei neri, mai sdolcinato e romantico, ma spesso crudo e senza speranza (si veda la sequenza della morte dei genitori, ma anche l'uccisione di un bambino indiano). 



Le sequenze iniziali composte da ricordi sono fotografate in un bianco e nero anticato, color seppia, per poi tornare al colore quando il bambino seppellisce i genitori al tramonto. Musica country e fotografia poetica sono due valori aggiunti di un film che presenta un montaggio un po' troppo compassato, ma che conferisce un maggior realismo di fondo. Paesaggi russi che si prestano bene, tra corsi d'acqua e steppa, a incarnare l'essenza del vecchio west polveroso e fangoso, lontano mille miglia dal cinema nordamericano e in perfetta sintonia con l'opera di Sergio Leone. Ottimi gli attori. 




Franco Nero è fantastico: sguardo glaciale, occhi azzurri, vestito come ai tempi di Keoma (pure lì avevamo un ritorno alle origini e una vendetta), sembra che per lui il tempo non sia passato. Il ruolo da protagonista gli calza a pennello, anche se non tutta la critica è concorde. I cattivi sono straordinari, soprattutto John Saxon, perfido petroliere che vorrebbe sterminare gli indiani ma viene sconfitto da Jonathan, e anche David Hess, pure se  sottoutilizzato. 



Scenografia curata, dal villaggio indiano ricostruito alla perfezione, a usanze e riti descritti con dovizia di particolari, per finire con il paesino western dotato di immancabile saloon e strade fangose (stile Django di Corbucci, 1966). Non per niente il film è dedicato a Sergio Corbucci. Il tono della narrazione è poetico e altisonante, da melodramma, spesso sembra citare la tragedia greca e persino la passione di Cristo, quando Jonathan viene legato a una croce. Western ecologico, a tratti, soffuso di amore per gli animali, ma anche cinema colto e opera d'autore, cosparsa di tanti rimandi psicologici di vago sapore proustiano. Jonathan degli orsi è anche western per ragazzi, ma intelligenti, perché il protagonista bambino facilita l'immedesimazione; al tempo stesso è cinema della vendetta, una sorta di rape & ravenge in salsa western. 



Non può mancare l'amore per la ragazza indiana, un rapporto fatto di sguardi e carezze, privo di parole, che rappresenta un momento di crescita per Jonathan. Un film ricco di scene d'azione, momenti acrobatici ben realizzati e un insolito duello tra buono e cattivo in un luogo chiuso, caratteristica western di Castellari. Buon uso del rallenti (altro tratto d'autore) e della soggettiva, mentre di tanto in tanto fa capolino uno zoom anni Settanta. Un western fuori tempo massimo ma non per questo meno interessante, ben girato, scritto e sceneggiato da Castellari, su un soggetto originale scritto da Lorenzo De Luca, un esperto di cinema che infonde nella storia tutto il suo amore per il genere, e dall’interprete principale Franco Nero.



lunedì 26 maggio 2014

Spaghetti a mezzanotte (1981)

di Sergio Martino


Regia: Sergio Martino. Soggetto: Franco Marotta, Laura Toscano. Sceneggiatura: Franco Marotta, Laura Toscano, Sergio Martino. Fotografia. Giulio Albonico. Montaggio: Eugenio Alabiso. Scenografia: Adriana Bellone. Musica: Detto Mariano. Durata. 91’. Genere: Commedia sexy. Produttore: Luigi Borghese per Cinematografica Alex. Distribuzione: Medusa. Interpreti: Lino Banfi, Alida Chelli, Barbara Bouchet, Teo Teocoli, Daniele Vargas, Pippo Santonastaso, Ugo Bologna, Jacques Stany, Giulio Massimini, Giuseppe Marrocco, Tom Felleghi.


Spaghetti  a mezzanotte (1981) è una commedia sexy scritta e sceneggiata da Laura Toscano e Franco Marotta (gli inventori del Commissario Rocca…), fotografata da Giulio Albonico, montata da Eugenio Alabiso e musicata da Detto Mariano. A questo proposito va citata una trashissima sigla di testa e di coda, al tempo elemento irrinunciabile della commedia sexy, che viene scandita dal ritornello Ma se tua moglie avesse un’amante. Il tema portante della pellicola è il tradimento, visto in tutte le salse e tra continui scambi di coppie. Produce Luigi Borghese per Cinematografica Alex e distribuisce Medusa. La pellicola si ricorda come ultimo film di Barbara Bouchet, ma anche Lino Banfi spara le residue cartucce in un genere che si sta lentamente esaurendo. Spaghetti a mezzanotte è una pochade costruita sui doppi sensi e sugli equivoci, girata quasi completamente in interni, perfetta per un comico esperto come Banfi, meno adatta per un giovane Teocoli che dimostra inesperienza cinematografica. Lino Banfi è l’avvocato pugliese Savino Lagrasta che vive ad Asti, sposato con una donna infedele (Barbara Bouchet) e tormentato da un’amante pericolosa (Alida Chelli), che deve affrontare un boss mafioso e tutti i problemi causati dalla presenza di un cadavere (Jacques Stany) da occultare nella villa. 


Barbara Bouchet sottopone Lino Banfi a continue diete dimagranti, lo costringe a fare interminabili sedute di jogging ma al tempo stesso lo tradisce con un giovane architetto interpretato da un impacciato Teo Teocoli. L’avvocato Lagrasta subisce le angherie della compagna ma se la spassa con la moglie di un giudice (Daniele Vargas), interpretata da un’ottima Alida Chelli. A un certo punto Lagrasta viene avvicinato da un mafioso (Ugo Bologna) che gli chiede di difenderlo in un processo per farlo mandare in galera. “Tanto lei è l’avvocato quasi più stupido che conosca, non le sarà difficile”, dice il mafioso. “Come si permette?” replica Banfi. “Ha ragione. Tolga pure il quasi”. “Ah, bene”, conclude Banfi. 


In cambio del favore, il mafioso offre all’avvocato di far eliminare da un sicario l’amante della moglie. Il killer arriva alla villa, scambia l’avvocato per l’amante, tenta di ucciderlo, mentre la vittima designata spara un colpo di pistola e crede di uccidere il sicario. Banfi nasconde la salma nella villa, arredata dall’architetto Teocoli, singolare regalo da parte della moglie. Il party di inaugurazione è l’occasione per festeggiare il compleanno dell’avvocato che cerca di nascondere il cadavere.


La casa è arredata in modo moderno e il maldestro Banfi aziona a casaccio i numerosi congegni elettronici. La parte centrale del film rappresenta il momento culminante della commedia degli equivoci, la pochade sfocia più volte in bagarre e origina situazioni di scambio di coppie. Lino Banfi è eccezionale come imbranato padrone di casa che conversa con gli ospiti, tenta di nascondere l’ingombrante cadavere e cerca di appartarsi con l’amante. Gli equivoci sono il sale della pochade: l’amante molla Banfi e amoreggia in ascensore con Teocoli, il giudice Vargas crede che Banfi sia gay e circuisce la Bouchet, il giornalista di cronaca nera Santonastaso (bravissimo) crede di essere impazzito perché vede apparire e sparire il cadavere… Le situazioni comiche sono abbastanza indovinate e si susseguono con rapidità, intervallate da pochi sprazzi di vera e propria commedia sexy. Ne citiamo alcune. Alida Chelli e Lino Banfi che amoreggiano sul letto mentre arriva il marito, l’amante scappa sul tetto e perde una scarpa. 


Bouchet e Teocoli spiati per caso da Banfi che comprende di essere tradito dalla moglie e li segue sul tetto dell’auto fino alla villa in campagna. Barbara Bouchet che si vede strappare i vestiti per ben tre volte durante la festa e alla fine mostra un seno nudo. Un incontro amoroso in ascensore tra Teocoli e la Chelli. Daniele Vargas che spia le grazie della Bouchet dal buco della serratura del bagno. Non c’è molto altro di erotico perché il film è una pochade più che una commedia sexy. Tanto per dire non c’è nemmeno una doccia e l’unico bagno del film lo fa Lino Banfi (vestito) per occultare il cadavere. A proposito di bagni ne troviamo un altro collettivo nella bagarre che coinvolge gli ospiti della festa dopo una lite tra la Bouchet e la Chelli. Alla fine l’avvocato viene scagionato dall’omicidio perché si scopre che il colpo di pistola è stato sparato da un sicario mafioso. Banfi viene abbandonato dalla moglie che se ne va con l’architetto, ma la fuga dura poco perché si rende conto che l’amante odia le donne che fanno le diete. 


Il finale vede Lino Banfi e Barbara Bouchet riappacificati davanti a una tavola imbandita non solo di spaghetti ma anche di carni e dolciumi, alla faccia delle vecchie diete. “Mi suicido” dice il marito tradito “e l’arma del suicidio la scelgo io!”. “Ma così ti ci vorrà moltissimo!” replica la moglie. “Che me ne importa a me? Tanto ho tempo…”, conclude Banfi. A Morandini il film non è piaciuto perché lo definisce “una miscela grossolana e ripetitiva di pochade erotica, farsa gastronomica, commedia degli equivoci e thriller mafioso, che tende a confondere la comicità con l’agitazione”. Mereghetti rincara la dose: “Una pochade non molto scollacciata in cui la sceneggiatura di Sergio Martino cerca di adattare alla verve regionale di Banfi il gioco degli equivoci alla Labiche”. Concordo con il critico milanese che i risultati raggiunti non sono eccelsi, ma alcune sequenze comiche sono memorabili e riscattano i momenti fiacchi di una pellicola discontinua. 


Tra tutti citerei la gag del sigaro acceso nel sedere, ma anche le numerose scene dove il comico pugliese prende in mano la situazione. Lino Banfi che sposta il cadavere, si finge omosessuale e seppellisce la salma in giardino, valgono la visione della pellicola. La prima parte del film è una comica d’altri tempi con Lino Banfi che corre dalla casa dell’amante al tribunale per consumare il rapporto, evitare il giudice e difendere una cliente. In tribunale cade per terra, inciampa sulla cintura, perde i pantaloni, indossa una scarpa diversa dall’altra, subito dopo distrugge il letto a casa dell’amante e scappa fuori dalla finestra per evitare il marito. Santa Giuditta di Pordenone attaccami al cornicione! Grida Banfi spaventato. 


Fast-motion e comicità lapstick di sprecano, come in un vecchio cartone animato. Spaghetti a mezzanotte è una pochade ricca di ritmo che cita analoghe commedie degli equivoci e vecchie situazioni della commedia all’italiana. Martino è un maestro del genere. Da non dimenticare che il film cita Invito a cena con delitto di Neil Simon, Gazebo di George Marshall e Hollywood Party di Blake Edwards. 

sabato 24 maggio 2014

La moglie dell'amico è sempre più… buona (1980)

di Juan Bosch


Regia: Juan Bosch. Soggetto: Vincenzo Salviani. Sceneggiatura e Dialoghi: Juan Bosch. Fotografia: Angelo Bevilacqua. Montaggio: José Antonio Rojo. Musica: Ubaldo Continiello. Scenografia: Francesco Cuppini. Operatore alla Macchina: Fernando Espiga. Direttore Artistico: Eduardo Hidalco. Trucco: Mercedes Guillot. Aiuto Regista: Julian Bosch Sanz. Direttore di Produzione: Luis Marin. Presenta: Vincenzo Salviani. Produttori Associati: Giovanni Priore, Carmelo Reale, Tonino Simeoli. Case di Produzione: Mediacinematografica srl (Roma) - Estela Films (Madrid). Distribuzione: Ipamena Cinematografica. Interpreti: Sydne Rome, Maria Rosaria Omaggio, Carlo Delle Piane, Simon Andreu, Carlos Larranaga, Augustin Gonzales, Fred Harry, Blaki, Gelsomina Capannolo, Ugo Fangareggi, Luis Barbero, Emiliano Redondo, Jorje Sanz, Carlos Lucena, Mabel Esbano, Ignacio Javier Maquisira, Lydia Lester, Julian Navarro, Antonio Orango, Katy De La Camara, Vanesa Hidalgo, Juan Guisan, Gloria Mosteiro, Rosa Valenti. Titolo Originale: Los locos vecinos del 2°.



Juan Bosch è un regista spagnolo che ci ha lasciato una filmografia di basso livello, a base di commedia sexy e horror grottesco con venature erotiche, interessante per lo studio del cinema bis e delle coproduzioni Italia - Spagna. Sono circa trenta le pellicole che portano la sua firma, ma risultano altrettanti i soggetti e le sceneggiature di cui si è occupato. 



Tra queste ricordiamo un Carmen Villani movie piuttosto spinto come La signora ha fatto il pieno (1977), l’erotico iberico - interpretato da Maria Rey - La puñeta - Quarant’anni di sesso (1979), il poliziesco Le calde labbra del carnefice (1975) - che vede nel cast Orchidea De Santis -, i western spagnoli Lo credevano uno stinco di santo (1974) e Il mio nome è Scopone e faccio sempre cappotto (1972), per finire con il modesto horror iberico Le notti di Satana (1974). 



Il Davinotti è il sito Internet che contiene la filmografia più esaustiva del regista, con tutti i titoli che hanno avuto circolazione italiana, soprattutto i western anni Settanta. Roberto Poppi - da me interpellato - precisa: “Il nome completo del regista è Juan Bosch Palau, nato nel 1926 - a Valls, Tarragona, Catalogna - e ancora vivente. Ha diretto molti western italo-spagnoli, firmandosi quasi sempre (almeno nelle versioni italiane) John Wood. Cominciò come aiuto di Antonio del Amo e collaborò spesso con il produttore-regista Ignacio F. Iquino (spesso a quest’ultimo venivano attribuite regie di Bosch...).



La moglie dell’amico è sempre più buona è uno dei suoi ultimi lavori, molto iberico, perché le situazioni umoristiche puntano sul grottesco e il surreale, ricordando - molto in piccolo - lo stile del Pedro Almodovar prima maniera. Al tempo stesso la pellicola è debitrice in buona misura nei confronti della pochade teatrale di Feydeau, a base di scambi di camere, coppie, tradimenti e bagarre finale. Molta comicità slapstick (stile cartone animato), altrettanta fast-motion (da cinema muto), battute spesso telefonate, insipide, per niente efficaci. L’italianità di questa commedia è costituita dalla presenza sexy di Maria Rosaria Omaggio, al massimo della sua bellezza, ma anche del caratterista Ugo Fangareggi e di Carlo Delle Piane, che si vedono in un paio di sequenze. Se vogliamo anche Sydne Rome può essere considerata una bellezza italiana, perché in quel periodo faceva furore sui teleschermi e nella nostra commedia erotica. Ubaldo Continiello realizza una colonna sonora vivace e ritmata, adatta all’argomento leggero e a tratti surreale della pellicola. Sono italiani anche il direttore della fotografia (Bevilacqua), il soggettista - ispiratore (Salviani) e lo scenografo (Cuppini).



In breve la trama. Maria Rosaria Omaggio e Sydne Rome sono due donne impegnate in politica, mentre i rispettivi mariti sono dei fancazzisti assoluti, capaci solo di mettersi nei guai e di perdere la testa dietro qualche sottana. Due malfattori fotografano i loro appuntamenti erotici in una casa di tolleranza per ricattare le mogli, che decidono di buttarli fuori di casa. I due mariti - che si erano conosciuti grazie all’amicizia dei figli, consolidata nell’attesa delle loro performance erotiche - vanno a vivere insieme e meditano vendetta. 


La pochade tocca il punto più estremo con lo scambio delle mogli, tra duetti di avanspettacolo e umorismo grottesco. Non manca la commedia degli equivoci con uno dei mariti che interpreta la parte dell’altro e contemporaneamente ci prova con la moglie dell’amico. Assistiamo persino a un doppio adulterio consenziente con i ragazzini che spiano i genitori mentre scopano. Nonostante lo scambio delle mogli, il problema di fondo persiste, perché sono sempre le donne le vere protagoniste, mentre i mariti restano dei comprimari. Finiranno soli, nell’appartamento affittato da Fangareggi e vivacizzato da un rumoroso e festoso Delle Piane.



Juan Bosch realizza una pochade on the road grottesca, arricchita da alcune sequenze tipiche della commedia sexy (streaptease, piedi che sollevano gonne sotto il tavolo, occhi che guardano dal buco della serratura...) e dalla bellezza delle protagoniste. I nudi non sono mai integrali, ma tra le due attrici è più generosa la Omaggio che si mostra in biancheria intima e si concede alla macchina da presa in atteggiamenti conturbanti. Il regista cerca di impostare un rozzo discorso antifemminista, affermando che “le femministe hanno ucciso gli uomini galanti” e si mostra critico nei confronti delle donne in carriera che renderebbero instabili i rapporti matrimoniali. Gli uomini fanno la figura dei bambocci, veri e propri ragazzini viziati nelle mani di due donne senza gonne... Divertente soltanto a tratti, sopportabile se storicizzato.



venerdì 23 maggio 2014

Steno e la commedia horror

La commedia all’italiana classica si è sempre tenuta a debita distanza da argomenti horror, con la sola eccezione del geniale Steno (Stefano Vanzina) che ha girato ben tre commedie horror: Tempi duri per i vampiri (1959), Un mostro… e mezzo (1964) e Dottor Jekyll e gentile signora (1979).


Tempi duri per i vampiri (1959) è interpretato da Renato Rascel, Sylva Koscina, Christopher Lee, Lia Zoppelli, Carl Very, Susanne Loret e Franco Scandurra. L’ambientazione è ricostruita all’interno dell’Hotel dei Castelli di Sestri Levante. Il conte Lamberteghi deve vendere il suo castello per superare grossi guai finanziari, ma c’è chi pensa di trasformarlo in un albergo di lusso. Lui dovrà impiegarsi come portiere di notte per tirare avanti. Christopher Lee - il Dracula dei film della Hammer - accetta di fare la parodia di se stesso e interpreta un vampiro che morde il conte Osvaldo Lamberteghi (Rascel). Il conte diventa un vampiro, ma non è portato per il ruolo e ne combina di tutti i colori. Il serioso Lee è la spalla ideale per il piccoletto Rascel, che concede al suo pubblico la solita interpretazione farsesca facendo una parodia del vampirismo. Una coppia così bizzarra e strampalata che fa ridere davvero. Alla fine - come nelle fiabe - sarà il bacio della fidanzata a salvare il vampirizzato. La pellicola è tratta da un’idea di Edoardo Anton e Mario Cecchi Gori ed è una scontata parodia di Dracula il vampiro (1958) di Terence Fisher. Resta nella memoria la canzone dei titoli di testa: “Dracula, vampiro dal nero mantello/ perché non ti mangi un bel pollo/ e lasci le donne campar!”.


Un mostro… e mezzo (1964) è il classico film con protagonisti Franco Franchi e Ciccio Ingrassia che si avvalgono della collaborazione di Margaret Lee, Alberto Bonucci, Anna Maria Bottini, Giuseppe Pertile, Lena von Lartens, Ugo Fangareggi e Susan Klemm. Ciccio è un medico pazzo che sottopone Franco a un esperimento di chirurgia, ma alla fine lo trasforma in un sosia del bandito Cesarone e partono i soliti equivoci della farsa. Il film è scritto e sceneggiato da Alessandro Continenza, inizialmente doveva essere interpretato da Totò e Boris Karloff, ma si ripiega sulla coppia comica siciliana che si scatena nel consueto repertorio di gag. Il tentativo di sezionamento in aula di Franco è notevole, Ciccio fa il verso a Vincent Price  (notevole la somiglianza fisica) ma in versione più che grottesca, il finale è ironico e trasgressivo. La pellicola è ben diretta, gode di una sceneggiatura lineare e cita molti vecchi film sul mito di Frankenstein


Dottor Jekyll e gentile signora (1979) è una commedia basata su un’idea di Castellano e Pipolo. La sceneggiatura è di Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e dello stesso Steno. Interpreti: Paolo Villaggio, Edwige Fenech, Gianrico Tedeschi, Gordon Mitchell, Paolo Paoloni e Paolo Arduini. L’azione si svolge a Londra come nel racconto di Stevenson, però Steno ambienta tutto ai tempi nostri e Paolo Villaggio interpreta un moderno dottor Jekyll consigliere di una multinazionale. L’azienda ha invaso il mondo con i prodotti inquinanti e il nostro uomo è un perfido mostro del potere economico. Jekyll è peloso e cattivissimo, ma da un po’ di tempo è vittima di sporadici attacchi di bontà e vuole correre ai ripari. Un giorno finisce nello scantinato di casa sua dove trova il vecchio nonno Hyde che gli fa bere una strana pozione. Il perfido nonno sa che quel liquido lo farà diventare una creatura angelica: si tratta dell’ultima cattiva azione prima di morire incenerito dalla corrente elettrica. Questo espediente di far entrare in scena il nonno è eccessivo, siamo in un film comico che arriva a far dire ad Hyde: “Mi sono mantenuto in vita con i diritti dei film”, ma si vorrebbe addirittura far credere che viveva nello scantinato e nessuno lo sapeva. 


Tutto questo ricorda l’antica tecnica teatrale del deus ex machina che vedeva calare dall’alto il personaggio risolutivo. Il dottor Jekyll si trasforma nel serafico e angelico Mister Hyde, un mostro di bontà che si esprime in un buffo dialetto veneto. Edwige Fenech è Barbara Wintley, prima studentessa di economia aziendale e poi segretaria di Jekyll, che ha ottenuto il posto accanto al maestro facendo fuori una concorrente. Pure la Wintley è perfida e insieme a Jekyll mettono su un piano ai danni della regina Elisabetta che l’angelico Mister Hyde riesce a sventare. Il dottor Jekyll è innamorato della bella segretaria ma Barbara prova attrazione per Mister Hyde ed è per questo che Villaggio decide di trasformarsi ancora. Il problema è che nei panni di Mister Hyde è talmente buono che non prova nessun desiderio sessuale. Alla fine pure la segretaria viene trasformata in un angelo di bontà e la coppia decide di spruzzare il mondo con il siero del nonno. Per i dirigenti della multinazionale è una vera manna: non sarà un mondo di buoni a spaventarli. Non c’è un lieto fine perché chi trionfa sono i cattivi che dominano facilmente un mondo angelico. 


Dottor Jekyll e gentile signora è una parodia piuttosto scontata del racconto di Stevenson che si salva per la recitazione di Villaggio e per qualche centimetro di pelle esibito dalla Fenech. La sceneggiatura è povera, si basa su luoghi comuni e battute scontate. Marco Giusti afferma che il film è talmente brutto da superare ogni limite del possibile, quindi è quasi un cult. Il ragionamento è singolare ma non fa una grinza se accettiamo la concezione filosofica di cult al negativo. 


Da ricordare come esempio di trash le musiche di Armando Trovayoli che firma la canzonetta “Mr. Jekill & Mr. Hyde” cantata da un ignoto Mr. Hyde. Ma il massimo del trash si raggiunge con un ignobile finale che rasenta il ridicolo. Gli operai della fabbrica spruzzata dal siero della bontà cantano: “Siamo tutti bon/ lavoriamo al progetton” e ancora “Il lavoro nobilita l’uomo”. Quando tutti gli uomini del mondo sono diventati angelici vediamo gli scioperi al contrario con gli operai che gridano: “Padroni… padroni… siete troppo buoni!” ed esigono settimana lunga, niente ferie e salari ridotti.  

mercoledì 21 maggio 2014

La bella di Lodi (1963)

di Mario Missiroli


Regia: Mario Missiroli. Produttore: Alfredo Bini. Soggetto: Alberto Arbasino. Sceneggiatura: Alberto Arbasino, Mario Missiroli. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli. Musiche: Piero Umiliani. Costumi e Scenografia: Danilo Donati. Organizzazione Generale: Manolo Bolognini. Operatore alla Macchina: Giuseppe Ruzzolini. Distribuzione: Cineriz. Durata: 85’. Interni: Incir - De Paolis. Esterni: Viareggio. Canzoni: I tuoi capricci, La terza luna, Il re dei pagliacci (Migliacci - Luis Enriquez Bacalov, canta Neil Sedaka), Legata a un granello di sabbia (Fidenco - Marchetti, canta Nico Fidenco), Amore Twist (Bovenzi, canta Rita Pavone). Interpreti: Stefania Sandrelli, Angel Aranda, Elena Borgo, Maria Monti, Giualiana Pogliani, Cesare Di Montignano, Gianni Clerici, Renato Montalbano, Mario Missiroli.


Mario Missiroli (Bergamo, 1934) è scomparso nel maggio del 2014. Assistente di Strehler in teatro e di Zurlini al cinema, gira un solo film - La bella di Lodi - per poi dedicarsi alla regia teatrale, sua vera vocazione. Molte le opere di successo: Eva Peron di Copi, L’ispettore generale (Il revisore) di Gogol, La locandiera di Goldoni, Il tartufo di Molière, Zio Vanja di Čechov, Verso Damasco di Strindberg, I giganti della montagna e Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, La mandragola di Machiavelli. Dirige attori come Adriana Asti, Anna Maria Guarnieri, Ugo Tognazzi, Arnoldo Foà, Gastone Moschin, Monica Guerritore, Glauco Mauri, Anna Proclemer, Giuseppe Cederna, Valeria Moriconi, Umberto Orsini, Laura Betti. Direttore del Teatro Stabile di Torino (1977 - 1985). Prima di debuttare in proprio nel cinema è aiuto regista per Valerio Zurlini in Estate violenta (1959) e Cronaca familiare (1962), dove è anche sceneggiatore.


La bella di Lodi vede interprete principale una giovanissima Stefania Sandrelli (doppiata in milanese da Adriana Asti) nei panni di una ricca borghese a caccia di avventure, annoiata della vita, ma di grande senso pratico, che durante un’estate in Versilia s’invaghisce d’un giovanotto povero ma bello (Angel Aranda). Il ragazzo la deruba di alcuni gioielli e quando va a trovarla a Lodi lei lo fa arrestare, ma dopo si pente, lo cerca, fugge con lui - dando vita a un appassionato road movie notturno - e dopo un rapporto tormentato e litigioso finisce per sposarlo.


Un film girato in un intenso bianco e nero, fotografato con sapienza da Tonino Delli Colli, sceneggiato dallo stesso Arbasino (autore del romanzo omonimo pubblicato in prima edizione su Il Mondo nel 1960) con la collaborazione di Missiroli, suono in presa diretta con rumori di fondo e musiche originali di Piero Umiliani che mixa motivetti alla moda a tempo di twist e yè-yè. Non mancano le canzoni romantiche con citazioni da Gino Paoli, Nico Fidenco, Johnny Dorelli e Rita Pavone. Arbasino e Missiroli raccontano in modo non convenzionale l’Italia del boom economico, descrivendo la diversità dei mondi alto borghese e proletario ricorrendo a due personaggi simbolo: la donna emancipata e il ragazzo strafottente. 


Lo spettatore di oggi apprezza l’opera molto di più di quanto non risultò gradita allo sconcertato pubblico del 1963, che decretò il totale insuccesso del film. Troppo sperimentale per i tempi e molto diverso dal neorealismo rosa e dalla commedia balneare che la storia poteva sottintendere. Un film anche abbastanza erotico, condito di sequenze piccanti con la Sandrelli seminuda in camera d’albergo e in bikini sulla spiaggia. Arbasino e Missiroli stigmatizzano l’amore per il denaro e il senso degli affari dei lombardi, al tempo stesso mettono l’accento sulla struttura agricola che sta lasciando il posto a un’Italia industriale. L’Agip sembra lo sponsor principale del film con numerose inquadrature dei grandi distributori costruiti fuori dai centri abitati, ma si vedono anche i marchi Pirelli e Michelin, come le auto di gran moda tipo la MG e l’Alfa Romeo Giulietta Spider. 


Stefania Sandrelli è una splendida ragazza emancipata, una ricca borghese che fuma, guida la spider, domina il suo uomo e lo tratta come un sottoposto. Bravo anche lo spagnolo Aranda, molto più ordinario nel ruolo da bello e maledetto, da macho che non accetta la donna padrona ma che finisce per diventare il mantenuto della ricca borghese. Fotografia notturna, musica suadente, montaggio dai tempi dilatati, sottofondo agrodolce e tono malinconico per un film che va oltre la commedia per comporre uno spaccato credibile figlio del neorealismo. Da recuperare, nonostante la critica negativa - soprattutto contemporanea - che parla di film irrisolto, di storia stiracchiata e di una commedia che non diverte. La bella di Lodi è soprattutto un film originale e sperimentale, ricco di insoliti movimenti di macchina e di improvvisi cambiamenti di scena.


lunedì 19 maggio 2014

Il Dio Serpente (1970)

di Piero Vivarelli


Il Dio Serpente è un film che è rimasto nell’immaginario erotico di molti ragazzi degli anni Settanta e bene ha fatto nel 2005 la Storm Video a rimetterlo in circolazione nella sua versione integrale. La pellicola è distribuita da Mondo Home Entertainment e contiene pure i trailer delle parti che furono censurate.


Il Dio Serpente (1970) è un film scritto e diretto da Piero Vivarelli, che per la sceneggiatura si avvale della preziosa collaborazione di Ottavio Alessi, il montaggio è di Carlo Reali, la stupenda fotografia di Benito Frattari, mentre dirige la produzione Lucio Orlandini per conto di Alfredo Bini. Il film si ricorda anche per l’ottima colonna sonora composta da Augusto Martelli che uscì nel quarantacinque giri Djamballà ed ebbe un clamoroso successo di vendite. Protagonista indiscussa del film è una sensuale Nadia Cassini (Paola), che aveva appena debuttato con una piccola parte ne Il divorzio di Romolo Guerrieri (1970), ma che questa volta ottiene il lancio definitivo. Accanto a lei ci sono Beryl Cunningham (Stella), Sergio Tramonti (il fidanzato Tommy) e Galeazzo Bentivoglio (Benti è il suo vero nome e interpreta il marito). Ricordiamo anche Evaristo Marquez nei panni del Dio Serpente quando assume sembianze umane. 


Per Mereghetti si tratta di un film modesto, un epigono da dimenticare di un genere inaugurato nel 1968 da Ugo Liberatore con Bora Bora. Non condividiamo la severa impostazione del critico milanese e riteniamo Il Dio Serpente un film importate come atmosfera esotico - erotica, ma soprattutto un buon lavoro che documenta i riti vudù e i culti sincretici dei popoli caraibici. Il film gode di una stupenda ambientazione esotica a Santo Domingo e comincia con una panoramica aerea della città tra baracche, fiumi, mare, miseria e ricordi di un passato sotto i conquistadores spagnoli. Un sottofondo di musica cubana, le note di una rumba sensuale, accompagnano lo spettatore in un’atmosfera tropicale fotografata con grande bravura. Vediamo spiagge bianchissime e un mare stupendo, atolli corallini, indigeni che corrono e fanno l’amore sulla sabbia. 


La trama si racconta in poche righe. Nadia Cassini (Paola) è in vacanza ai Caraibi con il marito Galeazzo Benti, conosce Beryl Cunningham (Stella) che la mette in contatto con il culto del Dio Serpente (Djamballà), ma la donna se ne invaghisce a tal punto che diventa un’ancella consacrata al suo amore. Beryl Cunningham è perfetta nel ruolo di indigena, soprattutto per i marcati tratti negroidi, ma anche Evaristo Marquez è credibile come forma umana del dio.


La pellicola si inquadra nel genere esotico - erotico, il più tipicamente italiano, legato alla scoperta di lontane culture e conseguenza dei primi viaggi aerei, che portavano a sognare di paradisi tropicali dove regnava una completa libertà sessuale. Sono film che alla base contengono sempre un atteggiamento razzista e paternalista, con il mito del buon selvaggio che vive bene perché non conosce la civiltà. Il contenuto erotico la fa da padrone e di solito c’è un europeo (maschio o femmina non ha importanza) a caccia di sensazioni nuove, che scopre il vero senso della vita tra le braccia di un’indigena. Il Dio Serpente contiene in più l’elemento magico e misterioso, a tratti persino horror, che si amalgama bene con le ottime parti erotiche che al tempo scandalizzarono i solerti censori. Il film entra subito nel vivo della sua parte misteriosa quando Paola e Stella diventano amiche e l’europea vuole conoscere la fortezza spagnola, il regno degli zombi, morti che continuano a vivere senz’anima, schiavi del Dio Serpente chiamato Djamballà. 


Paola vuole scoprire il mistero e si avventura da sola sulla spiaggia della roccia nera dove vede un enorme serpente che si avvicina minaccioso. Non ci sono serpenti a Santo Domingo, ma è Djamballà che si materializza e si avvicina alla ragazza, lui è il dio dell’amore e pretende obbedienza. Vivarelli ci fa entrare nel vivo delle credenze sincretiche quando presenta la figura del brujo (stregone), che divina il futuro e confeziona amuleti, disegnando cerchi magici sul terreno. La figura del prete cattolico è ancora più emblematica di come le popolazioni caraibiche vivono il cristianesimo. Il parroco porta la statua di Gesù Bambino nelle case del villaggio perché tutti lo possano vedere e poi dice: “Adorano Gesù e fanno i riti magici. Ma sono due cose così diverse?”. In una scena successiva vediamo che durante i festeggiamenti natalizi l’immagine di Gesù Bambino è circondata da simboli vudù. Il prete commenta: “Sono bravi, un po’ rumorosi ma bravi. Dio è con loro, lo amano così. Sono più religiosi di noi perché credono davvero al loro dio. Io devo far dimenticare che dei bianchi li hanno portati qui in catene molti anni fa”. 


Il regista ci spiega come sono nati i culti sincretici: una fusione di religiosità cattolica importata a forza dagli spagnoli e di culti animisti che venivano dagli schiavi africani. Nei primi tempi dello schiavismo, i santi cattolici rappresentavano un sotterfugio, un modo per nascondere le vere divinità e per scampare alla Santa Inquisizione, successivamente le due religioni si sono fuse sino a formare un culto nuovo. Il film presenta anche interessanti e realistiche cerimonie vudù dove si adora il Dio Serpente tra cerchi di farina bianca, candele votive, canti evocativi, tamburi insistenti e balli sensuali. Si vede anche il sacrificio di un capretto al quale viene mozzata la testa con un colpo di machete per essere sacrificato alla divinità. Il sangue è utilizzato dai credenti per segnarsi sulla fronte e un rituale pagano convive con le immagini dei santi cattolici come San Giorgio e Gesù Bambino. Una vecchia con il sigaro in bocca interpreta bene il ruolo della sacerdotessa del dio, mentre l’importanza di rum e tabacco nei riti viene sottolineata da numerose sequenze. 


Il Dio Serpente si impossessa delle donne che si denudano, si rotolano in terra come serpenti e si cospargono di polvere. Una bella sequenza erotica mostra Nadia Cassini e Beryl Cunningham  possedute dal dio mentre si toccano sotto gli occhi di un negro che è la divinità incarnata in un corpo umano. La parte che mostra il rito è molto lunga, forse eccessivamente lenta per un film moderno ed è vero che il montaggio poteva essere più serrato, ma ne guadagna il realismo documentaristico con cui il regista descrive una cerimonia vudù. Un altro rito interessante vede la presenza anche degli zombi con i volti bianchi che rappresentano assenza di anima e questa volta il Dio Serpente possiede Paola al termine di una danza frenetica e sensuale. Vivarelli descrive bene riti e culture di un popolo che nel 1970 era molto lontano dalla nostra mentalità, soprattutto non inventa quasi niente, a parte una storia fantastica. Quando muore il marito di Paola è ben ricostruito un funerale vudù con balli e canti in onore del morto, mentre vengono offerti cibo e bevande alla salma. La fotografia è stupenda, il colore locale è reso bene con frequenti immagini di spiagge tropicali e di mercati cittadini, ma anche di ruderi precolombiani e di fortezze spagnole. 


Il rumore del mare, il vento tra le fronde delle palme, i bambini che gridano, il caldo e la sensualità della gente, sono elementi importanti di una pellicola girata con cura e fotografata con bravura. Importante anche il discorso che Vivarelli fa pronunciare a Stella davanti al palazzo dell’Inquisizione, dove i bianchi torturarono in nome di una presunta civiltà che non ammetteva niente di diverso dalle loro credenze. La parte finale del film vede l’arrivo a Santo Domingo dell’ex fidanzato Tony, ma ormai Paola è preda del Dio Serpente che l’ha scelta come sua ancella e non vuole che nessuno le si avvicini. Paola allontana da sé Tony e lo fa innamorare di Stella, mentre lei si abbandona a un lungo amplesso amoroso con il negro che rappresenta la divinità. 


Piero Vivarelli utilizza un film per raccontare i misteri dei culti vudù, le possessioni, gli zombi privi di anima e i culti che sono nati dagli schiavi africani a  contatto con la repressione dell’Inquisizione spagnola. Un film impedibile per gli amanti del mistero. 


domenica 18 maggio 2014

Io zombo, tu zombi, lei zomba (1979)

Nello Rossati versione zombi comedy



Regia: Nello Rossati. Soggetto e Sceneggiatura: Roberto Gianviti, Paolo Vidali, Nello Rossati. Fotografia. Sandro Mnacori. Montaggio: Adalberto Ceccarelli. Effetti Speciali: Sergio Basili, Italo Cameracanna, Aldo Ciorba. Musiche: Gianfranco Plenizio (G. Ployer). Scenografia e Costumi: Toni Rossati. Produzione: Tv Cine 77. Distribuzione: Gold Film. Durata. 97'. Genere: Commedia Grottesca. Interpreti: Renzo Montagnani, Cochi Ponzoni, Daniele Vargas, Duilio Del Prete, Nadia Cassini, Ghigo Masino, Tullio Solenghi, Vittorio Marsiglia, Sandro Ghiani, Anna Mazzamauro, Gianfranco D'Angelo, Vera Drudi, Giancarlo Sisti, Gino Serra, Francesco Parisi, Fabrizio Vidale. 



Io zombo, tu zombi, lei zomba (1979) è uno dei pochi esempi di horror ironico e grottesco girati in Italia. La pellicola fa venire a mente precedenti lavori come Il mostro è in tavola… Barone Frankenstein (1973) e Dracula cerca sangue di vergine e morì di sete (1974) di Paul Morrissey. A nostro parere anticipa pure pellicole come Dellamorte Dellamore (1993) di Michele Soavi, per il personaggio del becchino, per l’ambientazione cimiteriale in un piccolo paese e per il tema ironico a base di zombi. 



Io zombo, tu zombi, lei zomba è una pellicola realizzata con poche lire a Palombara Sabina, tra il cimitero del paese e il Motel Silvan, ma piena di idee originali e divertenti. Tra l’altro molte sequenze sono girate nella medesima location de La nipote (1974): si veda la parte iniziale che si svolge in una strada sterrata tra due filari di cipressi. Il cast è eccellente. Renzo Montagnani, Cochi Ponzoni, Duilio Del Prete e Daniele Vargas (attore feticcio di Rossati) sono quattro surreali zombi. Nadia Cassini dà un tocco di sensualità nella parte di una svampita (non doppiata) che conquista la scena dimenando il sedere. 



Gianfranco D’Angelo è un malato cronico, mangia poco,  parla con un fil di voce e trascina a fatica le gambe per le scale dell’albergo. Ghigo Masino è uno psicopompo toscano dalla comicità spontanea e irresistibile. Tullio Solenghi è uno zombi burino riportato in vita da un bambino terribile, figlio di una dispotica Anna Mazzamauro impegnata in un ruolo simile a quello che la rese famosa nella serie Fantozzi. Il commento di Renzo Montagnani sul film è ingeneroso: “Una cazzata! Rossati, per me, non è un bravo regista e poi non c’era il becco di un quattrino…”. 



Io zombo, tu zombi, lei zomba è un film originale e divertente, una commedia horror insolita nel panorama italiano, girata con povertà di mezzi, ma da riscoprire per la brillantezza delle trovate comiche. Tutto parte da un libro horror che il becchino (Renzo Montagnani) legge a voce alta pronunciando un ridicolo rito vudù (Io zombo, tu zombi, lei zomba salta fuori dalla tomba!) che fa rinascere come morti viventi Cochi, Vargas e Del Prete. Per lo spavento muore anche Montagnani e allora gli zombi lo riportano in vita con il medesimo rito. “Siamo tutti zombi!” grida Montagnani con la sua inconfondibile verve ironica che gioca con i registri dell’eccesso. Il romanzetto horror serve da guida per ciò che devono fare, i quattro morti viventi comprendono che devono camminare lentamente e mangiare carne umana. Gli attori sono truccati da morti viventi con profonde occhiaie, viso pallido e colore cadaverico. 



Vargas continua per tutto il film a prendere sonore testate e sfoggia grandi bernoccoli sulla fronte. I quattro decidono di gestire il motel della zia di Cochi (che muore d’infarto appena vede il nipote morto) per mangiare i clienti. Sono troppo lenti nei movimenti e se non tendono un agguato per catturare le prede rischiano di morire di fame. La parte migliore del film è questa perché arrivano gli ospiti e danno vita a numerose situazioni comiche. La pellicola è girata in economia, quasi completamente in interni, molto teatrale e basata sulle gag e sulla bravura degli attori. Ghigo Masino porta un tocco di toscanità alla storia (Chi non piscia in compagnia o è un ladro o una spia!), tra ricordi di vita militare, sbornie in compagnia e sospetti di omosessualità sugli zombi che in realtà vorrebbero solo mangiarselo. I nostri zombi sono dal cuore tenero e alla fine non mangiano nessuno. Lo psicopompo diventa troppo amico, il bambino è piccolo (pure se tremendo e Vargas lo divorerebbe volentieri), un altro cliente è malaticcio… 



Arriva Nadia Cassini, perfetta svampita vestita di rosso che ancheggia e sorride a tutti, con l’amante e il marito morto nella bauliera dell’auto. “Che culo ragazzi! Un po’ di sale, un po’ d’olio ed è meglio dell’insalatina di campo!” dice Masino in perfetto toscano. Duilio Del Prete la vorrebbe mangiare ma alla fine decide che è meglio scoparla. “Com’è da zombi?” chiede Montagnani. “Le dirò, sarà il rigor mortis, ma non è mai andata così bene…” risponde Del Prete. “Finché c’è morte c’è speranza”, è la filosofica conclusione di Montagnani. 



Nadia Cassini porta una ventata di sensualità alla pellicola, si ricorda una bella mise in babydoll nero di pizzo sul letto e un abito rosso molto attillato. Il morto nella bauliera è Solenghi, marito cornuto della Cassini, riportato in vita dal bambino terribile che legge il solito romanzo horror con il rito magico. 
Da ricordare lo zombi ciociaro interpretato da Solenghi che si muove barcollando e dice: “So’ burino”! So’ burino!”, ma anche la scena in cui si getta dal tetto per far vedere che è uno zombi e si rimette in sesto avvitando la testa al tronco. È proprio Solenghi a convincere i colleghi zombi che il libro di Montagnani racconta un sacco di balle e tutti insieme si mettono a mangiare fettuccine e a bere vino. Non è vero che gli zombi devono magiare carne umana e nemmeno che sono obbligati a camminare lentamente. Completa il quadro una sensuale danza di Nadia Cassini (pure lei zombizzata), convinta dal padrone Montagnani a spogliarsi e a muovere il sedere sul tavolo del ristorante. 



La parte finale del film è una graffiante parodia di Zombi (1978) di Romero, perché i nostri morti viventi si barricano in un supermercato per scappare all’assedio della polizia e degli uomini che vorrebbero eliminarli. “Come in un film che ho visto, solo che gli zombi erano fuori e i cristiani dentro”, dice Cochi. “Era un film  d’autore?” domanda Vargas. “No, era un film di merda!” conclude Montagnani. Tutto molto divertente, soprattutto per la citazione al contrario della pellicola di Romero sceneggiata da Dario Argento. Gli uomini sono fuori dalla vetrata e sembrano mostri con i volti schiacciati ai vetri. A un certo punto cade l’olio per terra e gli uomini si muovono lentamente proprio come fossero zombi. 



Il finale è a sorpresa, perché era tutto un sogno di Montagnani, suggestionato dalle letture horror e dal lavoro di becchino. Vediamo che Nadia Cassini è la sua attrice preferita perché tiene il poster di Playmen nell’armadio dello spogliatoio, Vargas è il sindaco del paese, Del Prete, Cochi e Masino sono tre psicopompi, D’Angelo è il morto da sotterrare, Solenghi è il prete e il bambino terribile è il suo chierichetto…Quando Montagnani scava la fossa per seppellire il morto si verifica un incidente identico a quello del sogno. Tutto pare accadere anche nella realtà, Montagnai non lo sopporta e si dà alla fuga abbandonando il lavoro. Non condividiamo la durezza di Mereghetti che parla di farsa horror, anemica, casereccia, ripetitiva e deprivata degli ingredienti forti del genereIo zombo, tu zombi, lei zomba è un film intelligente, ironico e divertente che gioca sugli archetipi del cinema dell’orrore e li mette in ridicolo. Da riscoprire.