sabato 31 dicembre 2011

Amarcord (1974)

di Federico Fellini


Regia: Federico Fellini. Soggetto e Sceneggiatura: Federico Fellini, Tonino Guerra. Fotografia: Giuseppe Rotunno. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Effetti Speciali: Adriano Pischiutta. Musiche. Nino Rota. Scenografia e Costumi: Danilo Donati. Produttore: Franco Cristaldi. Interpreti: Bruno Zanin, Armando Brancia, Pupella Maggio, Giuseppe Ianigro, Nando Orfei, Ciccio Ingrassia, Stefano Proietti, Magali Noël, Donatella Gambini, Gianfranco Marrocco, Antonino Faà di Bruno, Fernando De Felice, Bruno Lenzi, Bruno Scagnetti, Alvaro Vitali, Francesco Vona, Aristide Caporale, Luigi Rossi, Gennaro Ombra, Domenico Pertica, Ferruccio Brembilla, Antonio Spaccatini, Marcella Di Folco, Maria Antonietta Beluzzi, Josiane Tanzilli, Gianfilippo Carcano, Mauro Misul, Armando Villella. 


Amarcord è un’autobiografia lirica, il film più poetico di Federico Fellini, un punto di arrivo difficile da eguagliare e impossibile da superare. La pellicola rappresenta il quarto Oscar ottenuto dal regista, racconta la Rimini dell’adolescenza, il periodo del liceo e soprattutto l’Italia degli anni Trenta. Protagonista di Amarcord  è una città intera, trasfigurata dal ricordo, il quartiere San Giuliano di Rimini ricostruito a Cinecittà, i suoi grotteschi abitanti, le feste patronali, le adunate fasciste, la scuola, le donne facili, i giovani del paese, gli ambulanti, le prostitute e i matti. Il personaggio di Titta Biondi e la sua famiglia servono a Fellini per ricordare il passato e ricostruire gli anni della sua adolescenza, per scrivere un romanzo di formazione su pellicola che è la storia dell’incontro con la vita. Il tono della narrazione è amichevole, colloquiale, ma poetico, come se il regista raccontasse il periodo dell’adolescenza seduto a cena con vecchi amici. Il film è ambientato in una dimensione fantastica, tra mani che annunciano la primavera e nevicate che simboleggiano il grande freddo, immerso in ricordi lontani, rumori di auto che sfrecciano per le Mille Miglia, il passaggio del Rex e l’improvvisa apparizione di un pavone. Fellini racconta - come Proust - il tempo perduto ed è la cosa che sa fare meglio, sospendendo i ricordi in un’atmosfera sognante. Fellini è autore che sente più congeniale l’analisi poetica dell’intimo, del piccolo mondo antico, rispetto alla critica sociale. I suoi lavori indimenticabili si realizzano quando trova la forza di guardare al passato con malinconica nostalgia, mettendo su pellicola i sogni a occhi aperti, le ansie e i dubbi. Tra le parti migliori di Amarcord segnaliamo le scene ambientate nelle aule del liceo, una raccolta di assurde tipologie di insegnanti e di alunni, esempio da imitare per i registi che frequenteranno il sottogenere scolastico - più o meno alto - negli anni Settanta - Ottanta.  Alcuni personaggi sono indimenticabili: l’Aldina (Donatella Gambini) che fa innamorare i ragazzi, la madre di Titta (Pupella Maggio, doppiata in romagnolo da Ave Ninchi) che muore in ospedale e lascia il figlio disperato, il padre anarchico (Armando Brancia), la bella Gradisca (Magali Noël), la tabaccaia (Maria Antonietta Beluzzi) che Sergio Martino citerà alcuni anni dopo in un film con Gigi e Andrea (Acapulco prima spiaggia a sinistra), Teo lo zio matto (Ciccio Ingrassia) che si mette su un albero, grida: “Voglio una donna!” e scende solo quando arrivano le infermiere.


Il cinema Fulgor e le pellicole in bianco e nero degli anni Trenta sono importanti nell’economia del film, rappresentano l’adolescenza del regista segnata dall’amore per il grande schermo. Le confessioni al prete, i ragazzini che si toccano pensando alla tabaccaia, alla Gradisca o alla compagna di scuola, le suggestioni del cinema e delle prime visioni femminili, i turbamenti davanti alla vita che cambia. Fellini descrive le adunate fasciste, i discorsi retorici, le bastonate ai dissidenti e le canzoni patriottiche. Il Grand Hotel di Rimini è un altro protagonista, nei racconti della voce narrante che ricorda una notte d’amore di Gradisca con un principe e un emiro con trenta concubine.


Non dimentichiamo il mare d’estate che cambia il volto di Rimini, i tramonti rosso fuoco, i ragazzi che si trasferiscono sulle spiagge e sognano incontri con ragazze. “Tu e il babbo come avete fatto a conoscervi? E il primo bacio?”, domanda Titta prima di concludere disperato che lui non combina niente. La malattia della madre di Titta è un momento di grande poesia girato ricorrendo a silenzi e a inquadrature di spalle, senza mostrare volti sofferenti. Il regista sottolinea il grande vuoto nel cuore del marito e del figlio, anche se in vita i litigi erano all’ordine del giorno. Il funerale a piedi, la tristezza del padre, la casa vuota, tutto è costruito ad arte per rappresentare il dolore. La pellicola alterna momenti leggeri a episodi drammatici, ma sa restare in equilibrio senza cadere nella farsa o nel patetico. Il matrimonio di Gradisca nel casolare di campagna è un altro momento intenso che si conclude con la corsa dei ragazzini dietro l’auto di un simbolo erotico che li abbandona. Senza Gradisca si sentiranno un poco più soli e rimpiangeranno le sfide con le palle di neve che avevano per bersaglio un invitante fondoschiena.


Fellini racconta la vita quotidiana, senza seguire un filo logico, ma lasciandosi condurre dalla magia del ricordo e dai sogni che popolano la sua fantasia. Amarcord è un film così noto che il titolo viene citato in lingua italiana in tutto il mondo e non è un risultato scontato per un lavoro nostrano. La pellicola segna l’inizio di una parabola decadente della carriera di un regista geniale che dopo un capolavoro così sentito pare non trovare un’ispirazione altrettanto forte.


Fellini scrive Amarcord con la collaborazione di Tonino Guerra, ripensa alle proprie origini e mette in scena i ricordi della Romagna al tempo del fascismo in una struggente saga da strapaese. Il film miscela bene amore, odio e nostalgia, rilegge il passato fascista in modo acuto, mostra la mediocrità del regime ma anche del popolo che l’ha accettato. Vediamo i fascisti con l’olio di ricino, ma anche i maschi che insidiano donne, inventano balle e fanno scherzi stupidi. Tutto è vissuto attraverso la storia dell’adolescenza di Titta  (Bruno Zanin) in una cittadina romagnola degli anni Trenta. Non c’è un vero filo conduttore, ma il racconto scorre secondo il dialettale A m’arcord (mi ricordo), con i maschi che spiano le ragazzine e raccontano finte avventure erotiche. Il film è girato completamente a Cinecittà, persino le sequenze del passaggio notturno del transatlantico Rex.


Amarcord è un lavoro riuscito, a metà strada tra nostalgia per il passato, complicità con i personaggi e racconto obiettivo della nostra storia. Fellini ricorda il fascismo e lo descrive smontando il mito, mostrando la mediocrità del regime, ma anche di un popolo che l’ha accettato, perché il fascismo è una stagione storica della nostra vita, il blocco dell’uomo alla fase adolescenziale (Fofi). Fellini riesce nello stratagemma simbolico mostrando Titta che non cresce, ma resta in calzoncini corti per tutto il film. Le musiche di Nino Rota e la fotografia di Giuseppe Rotunno perfezionano una pellicola che si guadagna l’Oscar come miglior film straniero. Fellini riceve la notizia del premio da Alberto Sordi che al telefono scherza: “Federico, non t’hanno premiato, questa volta è toccato a Tanio Boccia!”.


Amarcord non manca di suscitare polemiche da parte dei perbenisti che lo giudicano zeppo di parolacce e di situazioni spiacevoli. Le femministe criticano il personaggio interpretato da Magalì Noël (Gradisca) senza storicizzarlo, mentre i cattolici si scandalizzano per il seno florido di Maria Antonietta Beluzzi. Segnaliamo una grande interpretazione drammatica di Ciccio Ingrassia nei panni del matto e il volto stralunato di Alvaro Vitali tra i compagni di liceo. Amarcord sbanca il botteghino e fa record di incassi anche negli Stati Uniti.

Il mio piccolo libro dedicato al grande Federico Fellini

Quando si assiste a un’opera così ben riuscita come Amarcord risulta difficile credere alle parole di Fellini:Non ho una ricetta, un sistema, non m’impongo dei traguardi. I film si presentano come fossero già fatti. Mi pare di essere un trenino che sta percorrendo una strada ferrata ai lati della quale ci sono le stazioni, i film in questo caso. Io devo soltanto scendere, avere un po’ di curiosità e vedere cosa c’è aldilà di quella stazione, se c’è la piazza... Quindi ho l’impressione, facendo questo itinerario, realizzando film, che tutto quanto fosse già predisposto”. Forse è la genialità che fa sembrare tutto già fatto, forse è proprio la grandezza del regista che riesce a trasportare le storie dalla dimensione in cui si trovano sino ai nostri occhi. 

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