Alberto Cavallone è una scoperta di Nocturno Cinema. Nessuno se ne vuole
appropriare. Tutt’altro. Davide Pulici e Manlio Gomarasca sono i critici che
hanno convinto molti appassionati a rivalutare l’opera di un autore sfortunato.
Sono state benemerite le convention,
la Cavalloniana 2013, insomma tutte le occasioni per parlare di un regista poco
noto al grande pubblico. Abbiamo dato a Cesare quel che è di Cesare. Adesso
partiamo.
Alberto Cavallone (Milano, 1939 - 1998) esordisce con
un documentario (La sporca guerra,
1959/60) e con un film normale
rimasto inedito (Lontano dagli occhi,
1962); subito dopo si dedica a pellicole poco convenzionali e trasgressive,
affrontando il tema del sesso e della violenza, spesso calate in un’atmosfera
malsana. Un regista interessante, ma disprezzato dalla critica, che finisce per
girare cinema porno con la firma di Dirk Morrow e Baron Corvo. La sua attrice
feticcio - presente in quasi ogni opera - era Jane Avril, nome d’arte di Maria
Pia Luzi, che nella vita quotidiana era sua moglie. Roberto Poppi ci soccorre
con l’esaustiva filmografia (I Registi
italiani - Gremese): La sporca
guerra (1959-60), Lontano dagli
occhi (inedito) (1962), Le
salamandre (1968), Dal nostro inviato a Copenaghen (1970), Quickly (Spari e baci a colazione) (1971), Afrika (1973), Zelda
(1974), Spell (Dolce mattatoio)
(1976), Maldoror (inedito) (1976), Blue movie (1978), Blow Job (Dolce gola)
(1980), La gemella erotica (Due gocce
d’acqua) (1980), Il padrone del
mondo (firmato Dirk Morrow) (1982), Il
nano erotico (firmato Baron Corvo) (1982), Pat, una donna particolare (firmato Baron Corvo) (1982). Cavallone
gira film dal 1962 al 1982, poi si ferma, ma nel solito periodo lavora anche come
soggettista e sceneggiatore: La lunga
sfida (1964) di Nino Zanchin, Per
amore… per magia (1966) di Duccio Tessari e La guerra del ferro (1982) di Umberto Lenzi. In questi brevi appunti, scritti per incentivare la
conoscenza delle opere di un regista dimenticato, ci occuperemo di due lavori
realizzati tra il 1974 e il 1976: Zelda
e Spell (Dolce mattatoio).
Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Montaggio: Alberto
Cavallone. Fotografia. Maurizio Centini (Technicolor - Technoscope).
Produzione: GIT International Film, realizzata da Giuseppe Tortorelle e Aldo
Colombo. Assistente al Montaggio: Claudio Orecchia. Musiche: Marcello Giombini
(Edizioni Nazionalmusic). Scenografie: Luciana Schiratti. Distribuzione. PAB. Durata:
85’. Interpreti:
Jane Avril (Maria Pia Luzi) (Zelda), Franca Gonella (la figlia), James Harris
(Giuseppe Mattei) (il marito), Debebe Eshetu (motociclista di colore), Margaret
Keil (Ursula), Halima Kim (Clarissa, moglie del corridore), Giovanna Mainardi
(governante), Mario Garriba, Mario De Angelis, Luigi Antoni Guerra, Lia
Colizzi.
Zelda è un film sulle trasgressioni erotiche che Cavallone
immortala senza inibizioni mettendo in scena rapporti a tre, pratiche saffiche,
tradimenti e sesso cimiteriale. La trama si riassume in poche righe. Zelda
(Avril) è sposata con Henry, famoso corridore automobilistico, ma è attratta
dalle donne e convince a entrare nel letto del marito prima Ursula (Keil), poi
Clarissa (Kim), moglie del motociclista (Eshetu) che nel tempo libero frequenta
la figlia Ingrid (Gonella). Il triangolo si spinge alle estreme conseguenze, la
figlia spia i rapporti dei genitori, ne prova dolore, ma non è migliore di loro;
il padre tenta il suicidio, ma resta paralitico. Alla fine Zelda, Ursula e il
motociclista uccidono Clarissa soffocandola, mentre la moglie taglia le vene al
marito.
Alberto Cavallone non amava Zelda: “Un lavoro che non m’interessa molto. Il discorso che volevo
fare, - il crinale tra la vita e la morte, il rischio come sale dell’esistenza…
-, non è venuto fuori. Ne è uscita un storia che, per conto mio, di buono ha
alcune riprese, poche sequenze e, abbastanza, la musica” (intervista rilasciata
a Nocturno). La pellicola, in realtà,
è molto trasgressiva e i soli motivi d’interesse sono da ricercare nel gusto per
l’estremo, tipico del regista. La scene di culto vede Franca Gonella impegnata
a far l’amore in un cimitero con Debebe Eshetu, vicino alla tomba del padre.
Questa sequenza sopra le righe costò il sequestro del film per venti giorni, ma
anche il resto non meno piccante: vero e proprio collage di rapporti lesbici e
di sequenze calde, eccesive per il periodo storico. Il regista infarcisce la
pellicola di documentari sul mondo del motorismo e dell’automobilismo, con vere
gare riprese per troppi minuti, ma anche di un volo suicida a bordo di un aereo.
Jane Avril è conturbante nel suo ruolo da
protagonista lesbica, Franca Gonella è sexy e trasgressiva come non l’avevamo
mai vista, Margaret Keil e Halima Kim eccedono ai limiti del porno. Il film è
un giallo erotico molto spinto ambientato nel mondo del motorismo con alcune
sequenze girate nella ormai storica cascata di Manziana. Un precursore del
cinema porno, se si vuole, vista la tematica trasgressiva e le numerose
sequenze erotiche. I flani recitavano: “Una ventata di eccitante erotismo una
donna insaziabile sempre tesa alla provocazione… le piaceva soffrire e far
soffrire…”. Niente di eccezionale. Paolo Mereghetti concede una stella e mezzo,
ma ha il merito di citare un film che Farinotti e Morandini (volutamente?)
dimenticano: “Cavallone rende esplicitamente omaggio a George Bataille,
rappresentando un’eroina che compensa la morte di Dio con esperienze sempre più
estreme. Ma situazioni, attori e dialoghi sono inadeguati. Suggestivo solo il
finale con un’orgia-girone infernale. Guai con la censura dell’epoca per la
scena in cui Ingrid fa l’amore sulla tomba del padre, e discreti incassi”.
Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Montaggio: Alberto
Cavallone. Fotografia: Giovanni Bonicelli (Eastmancolor). Scenografie: Joseph
Teichner. Direttore di Produzione: Giuseppe Scavuzzo. Produzione: Nicolò Pomilia
per Stefano Film. Distribuzione: Stefano Film. Musica: Claudio Tallino
(Edizioni Musicali Aris). Aiuto Regista: Fabio Spaltro. Interni: Studi De
Paolis. Durata: 103’.
Interpreti: Jane Avril (Maria Pia Luzi), Martial Boschero, Angela Doria,
Emanuele Guarino, Macha Magall, Aldo Massasso, Antonio Rea, Corrado Merani,
Agostino Pilastri, Fabio Spaltro, Stefania Spugnini, Josiane Tanzilli, Monika
Zanchi, Paola Montenero, Luigia Giuri, Nino Col, Mario Pasquarelli, Giulio
Sepioni, Domenico Rizzo.
Spell (Dolce
mattatoio) è stato rieditato con il pirandelliano titolo de
L’uomo, la donna e la bestia, ma resta un buon film con protagonista la
provincia italiana, vizi e virtù di un
mondo piccolo. Alberto Cavallone lo gira a casa propria - Castelnuovo di
Porto - tra processioni, sagre di paese, bambini che giocano, inserti
documentaristici e parti di pura fiction
per raccontare il degrado della provincia. Un vagabondo arriva in paese e
semina scompiglio - come il ragazzo del pasoliniano
Teorema (1968) - tra situazioni marginali
che vedono protagonisti molti abitanti e che sono lo specchio della realtà.
Vediamo Monica Zanchi (ragazza del mese su Playboy
1976) nel ruolo di una giovane prostituta che se la fa con un integerrimo
carabiniere ed è al centro dei sogni erotici del paese. Un perverso macellaio
spia le ragazzine, si masturba con i quarti di bue, sogna di giocare a biliardo
con la vulva della Zanchi, si chiude nella cella frigorifera con Jasmine
Tanzilli che fugge via e pone un occhio animalesco nella vagina.
La sequenza
che vede la Zanchi a vulva aperta sul tavolo da biliardo è stata realizzata in
un vero bar, molto controvoglia; l’attrice pretese la presenza del solo attore maschio
e di un operatore. Un intellettuale marxista (Pilastri) vive con la moglie
pazza (Paola Montenero) che mangia nel bagno, beve l’acqua del water, scopa con
il vagabondo e finisce per defecargli in bocca prima di massacrarlo a
forbiciate. Questa è la sequenza più estrema del film, ripresa in primo piano, ma
il regista giura di averla realizzata con cioccolata e polenta. Ancora una
volta si notano echi di Pasolini, del recente Salò (1975), opera postuma più che trasgressiva. Critica politica
con un giornale dove c’è scritto “Mao è morto” e lui si rende conto che non è
più tempo di credere al partito. Molte scene riprendono la vita di provincia,
vera protagonista in negativo, tra osterie, parrocchie, Luna Park, bambini che
giocano con la fionda e con il pallone nei campetti dell’oratorio.
Rapporto
moglie - marito anni Settanta, quasi da padre padrone, tradimenti immaginati,
masturbazioni nascoste, preti che nutrono sogni carnali, carabinieri corrotti
che recitano da perfetti padri di famiglia. Il film è girato molto bene, ricco
di particolari e di movimenti di macchina convulsi, anche se i dialoghi sono
modesti e artefatti. L’atmosfera è torbida, sottolineata da un buon commento
musicale e da affermazioni come “La realtà è l’unica medicina per andare
avanti. Sognare non serve a niente”. Abbiamo una figlia messa incinta dal padre
che vorrebbe scappare via con lui ma alla fine resta in paese e i genitori sono
concordi nell’organizzare un matrimonio riparatore con il primo che capita.
Vizio, depravazione, immoralità, tra musica da balera e sensazioni forti,
ubriachi che parlano di politica e follia individuale. Il dolce mattatoio è la provincia, l’inferno quotidiano dove
sopravvivere, tra parti oniriche che ritraggono sogni erotici inconfessabili
come far l’amore con il prete che si toglie la tonaca o con un ragazzino di
passaggio.
Il regista a un certo punto butta là un suo pensiero e lo mette in
bocca a un personaggio: “Non ho ancora capito se il mio è un lavoro serio.
Forse bisognerebbe pensare solo alla realtà. Sono stanco di ricevere bidoni al
posto della realtà. Ne ho abbastanza dei preservativi sulle idee”. Un erotismo
malsano la fa da padrone con echi surrealisti, dipinti con la testa di Lenin
sulla vulva femminile, corpi nudi che si riflettono sugli specchi, un gallo che
canta e segna il passare del tempo.
Un film che non consente mezze misure: si ama o si
odia. Manlio Gomarasca scrive su Nocturno:
“Cavallone cuoce un sublime piatto di lucida follia in cui si fondono insieme
Bataille e merda, falsa ideologia comunista e la lingua serpeggiante di Monika
Zanchi, la vagina occhiuta di Jasmine Tanzilli, con i quarti di manzo scopati
dal macellaio”. Per Delirium è a
livelli sublimi, un’opera maestra come Viva
la muerte di Fernando Arrabal o La
morte ha fatto l’uovo di Giulio Questi. A nostro avviso un lavoro pirandelliano, una commedia di maschere,
ma anche guareschiano, con la figure
del prete che convince i ragazzini a vendere i biglietti della lotteria e i
comunisti con L’Unità sotto braccio.
Impossibile non citare Pasolini per i molti riferimenti, dal vagabondo che
sconvolge la quiete del paese alla merda ingurgitata dal ragazzo prima
dell’eccidio. Fellini fa capolino nel finale, quando il ragazzino abbandona il
paese di notte e si ferma con lo sguardo fisso nella macchina da presa. Come
non ricordare il finale de I vitelloni (1953)
quando Franco Interleghi - Moraldo, alter ego del regista - lascia in treno la
sua provincia? Autobiografia del regista che lascia il paese per tentare
l’avventura intellettuale. Bataille con la Storia
dell’occhio e De Sade con le mille perversioni tratte dai suoi libri, ma
soprattutto da Le 120 giornate di Sodoma,
sono fonti sicure d’ispirazione, così come la rilettura del poeta maledetto
francese Lautréamont.
Paolo Mereghetti concede ben tre stelle: “Probabilmente
il film più riuscito e originale del regista - sceneggiatore milanese che mette
in scena una violenza visiva inusitata, in cui la placida provincia viene fatta
interagire con un surrealismo e un erotismo che all’epoca non facevano parte
dell’immaginario dei mass media. Il discorso è alogico, ma inquietante e
disturbante: un viaggio nel’inconscio e nei lati più oscuri che non ha uguali
nel cinema italiano. Malsano, sincero e senza catarsi”.