di Ingmar
Bergman
Titolo Originale: Nattvardsgästerna
(I comunicandi). Regia, Soggetto,
Sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist.
Montaggio. Ulla Ryghe. Scenografia. P.A. Lundgren. Costumi: Mago (Max
Goldstein). Trucco: Börje Lundh. Musica: Erik Nordgren. Suono: Stig
Flodin, Evald Andersson. Produzione: Allan Ekelund per Svensk
Filmindustri. Distribuzione Italiana: INDIEF. Riprese: 4 ottobre 1961 - 14
gennaio 1962. Durata: 80’.
Origine: Svezia, 1962.
Interpreti: Gunnar Björnstrand (pastore
Tomas Ericsson), Ingrid Thulin (Märta Lundberg,
insegnante), Gunner Lindblom (Karin Persson), Max von Sydow
(Jonas Persson, pescatore), Allan Edwall (Algot Frövik), Kolbjörn Knudsen
(Knut Aronsson), Olof Thunberg (Fredrik Blom, organista),
Elsa Ebessen-Thornblad (Magdalena Ledfors, vedova), Tor Borong
(Johan Ǻkerblom), Bertha Sånnell (Hanna Appelblad),
Helena Palmgren (Doris, sua figlia), Eddie Axberg (Johan Strand, il
ragazzo nella classe), Lars-Owe Carlberg, Ingmari Hjort (figlia
dei Persson), Stefan Larsson (uno dei figli dei Persson), Johan
Olafs, Lars-Olof Andersson, Christer Öhman, Karl-Arne Bergman, Sirkka Jehkinen
(controfigura di Gunnel Lindblom).
Luci
d’inverno non è il secondo atto della
trilogia sul “silenzio di Dio”, che Bergman avrebbe impostato partendo
da Come in uno specchio (1961)
per chiudere con Il silenzio
(1963). Negli anni Ottanta il regista ha sconfessato questa ricostruzione
critica, che in un primo tempo aveva avvalorato per motivi di promozione. “Ho
creato io stesso questo malinteso. Non c’è alcuna trilogia. Tutto è
stato detto a uso e consumo dei media”,
si legge nel testo Conversation avec
Bergman, edito in Italia da Lindau, scritto da Olivier Assayas
e Stig Bjorkman.
Luci d’inverno anticipa i film
da camera di fine anni Sessanta, è un lavoro di rottura rispetto
a Come in uno specchio, non è tanto
una critica serrata alla religione quanto un lavoro introspettivo sulla
crisi d’un pastore, un uomo di mezza età vedovo della moglie, che ha perso
ogni scopo nella vita. Nel cinema di Bergman torna la figura
del padre, non più visto come mostro (Fanny
e Alexander), ma come uomo tormentato dal dubbio e incerto sulla fede, una
figura filtrata dalla sua esperienza personale, quasi giustificata da
un figlio che cerca di capirne a fondo la psicologia. Luci d’inverno è un film fortemente
voluto da Bergman che sentiva il bisogno di raccontare la storia d’un
religioso senza più fede e vocazione, inerme nei confronti della vita, incapace
di aiutare il prossimo. Gunnar Björnstrand è bravissimo nel dare vita
a un personaggio complesso, tormentato dai dubbi, ma altrettanto fantastica è
Ingrid Thulin, nel ruolo di un’insegnante innamorata di un uomo che la rifiuta,
capace soltanto di farle del male. Max von Sydov è il pescatore suicida,
tormentato e distrutto dalla depressione, che il pastore non riesce a salvare,
perché ormai la sua fede è inesistente e non gli permette di aiutare nessuno.
Una
sequenza innovativa da un punto di vista cinematografico mostra Ingrid Thulin
in primo piano, rivolta alla macchina da presa, mentre recita una lunga e
disperata lettera d’amore per il suo uomo. Cinema teatrale allo stato
puro, basato sulla splendida recitazione dei protagonisti, ma inserito in un
lucido paesaggio invernale, fotografato con perizia da Sven Nykvist, al
quarto film con Bergman. Per la fotografia d’interni, nella chiesa,
Bergman chiese (e ottenne) “soltanto il graduale, quasi impercettibile
mutamento, quasi senza ombre”. Dissolvenze d’inverno, alternarsi di volti
in primo piano, espressioni sofferenti e intensi flashback sono la cifra stilistica d’una pellicola memorabile. Un
bianco e nero livido e spettrale è la cornice ideale per ambientare un’azione composta
di stati d’animo. Molto importante tutta la parte introduttiva con il regista
che riprende quasi in tempo reale la funzione religiosa del pastore per mettere
in evidenza la sua crisi di fede.
Il silenzio
di Dio è il vero protagonista di
un dramma interiore - molto shakespeariano
- che si ripercuote anche all’esterno, nel rapporto con una comunità di
fedeli allo sbando, lasciati in preda di pulsioni primordiali. Paesaggio
candido e crisi interiore sono due facce della stessa medaglia, perché il primo
è la cornice dove si inserisce la problematica psicologica, momento centrale della
vicenda. Luci d’inverno è pellicola
di sentimenti e al tempo stesso film introspettivo, come solo Bergman sa fare. “Dio
mio perché mi hai abbandonato!”, esclama il pastore, che vive in pieno il suo
dramma interiore, consapevole di non poter essere di conforto per gli
altri, perché dopo la morte della moglie ha perso tutte le certezze che davano
un senso alla sua vita. Il Dio del pastore non è più misericordioso, diventa un
ragno, un mostro che fagocita sentimenti e persone, che assorbe la vita e
uccide, senza speranza di redenzione. Bergman analizza a fondo il contrasto
uomo - donna, inserendo come contraltare del pastore Tomas una maestra
innamorata e remissiva come Märta, costruendo un teatro dei sentimenti che non
trova eguali nel cinema contemporaneo.
Tomas e Märta sono due caratteri opposti
e impenetrabili, il primo non si lascia conquistare dall’amore che la seconda
offre senza interesse, anzi, risponde con odio e disprezzo. Il finale della
storia cala improvviso, ma non certo a sorpresa, come in ogni pellicola bergmaniana, logica conseguenza d’una
vita che deve andare avanti. Il pastore resta solo con il suo inferno da
vivere, in una chiesa poco frequentata, in compagnia d’una donna che rifiuta.
Il sipario si chiude con una sconfitta totale, ma anche con la volontà di
vivere la fede nonostante il vuoto e i dubbi che lo circondano.
Ingmar Bergman scelse come ambientazione la
Chiesa di Skattunge (Orsa), situata nella regione di Uppland, a nord
di Stoccolma, e in tale frangente fu decisivo il consiglio del padre, sulla cui
psicologia è ricalcato il personaggio principale. Il regista cita se stesso
inserendo nella scenografia il crocefisso che aveva utilizzato ne Il settimo sigillo, così come gran
parte degli elementi iconografici servono a esprimere riferimenti religiosi. “Se
riuscissimo a credere. Se riuscissimo a essere sicuri e a possedere una
verità...”, sono le ultime parole di Märta. In fondo, la filosofia dell’opera è
data da questa frase senza speranza. La passione di Cristo è la passione del
pastore che ha perduto la fede, ormai abbandonato dal suo Dio.
Morando Morandini cade nella trappola critica tesa da
Bergman della trilogia, dicendo che è
il migliore dei tre, assegna quattro stelle, aggiunge che per il pubblico il
successo è minore (due stelle), conclude che sotto la semplicità apparente c’è una complessità che non è facile da
cogliere. Ingmar Bergman affermava: “Dà soddisfazione rivederlo dopo un
quarto di secolo. Constato che nulla si è corrotto o si è rotto”. Tre stelle
per Paolo Mereghetti, che cade anche lui nell’errore provocato da Bergman di
considerare il film come facente parte d’una trilogia sul silenzio di Dio.
Di vero c’è che è un film sulla difficoltà di comunicare tra gli uomini e il
titolo originale - I comunicandi -
starebbe a significarlo. “Un film fondato su un paradosso bergmaniano: cerca la fede chi dovrebbe averla già trovata e si
accorge, in fondo, di non averla mai avuta. Un altro paradosso è stilistico: un
film sull’incomunicabilità costruito su dialoghi continui”, scrive Mereghetti.
Un film che conquistò i cineforum degli anni Settanta, anche per il finale
aperto, che lasciava spazio a mille interpretazioni, persino a quella - a
nostro avviso paradossale - che il pastore avesse ritrovato la fede. Ispirato
alla visione del Diario di un curato di
campagna di Bresson, resta una delle opere più profonde e spoglie di
Bergman, grazie anche a una livida fotografia in bianco e nero ridotta
all’essenziale (nuvole, neve e nebbia).
Per vedere il backstage: http://www.youtube.com/watch?v=h3qWU_Lph8U
Per vedere il backstage: http://www.youtube.com/watch?v=h3qWU_Lph8U
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
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