sabato 21 dicembre 2013

Il silenzio (1963)



di Ingmar Bergman
 

Titolo Originale: Tystnaden. Regia, Soggetto, Sceneggiatura. Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist. Montaggio: Ulla Ryghe. Scenografia: P.A. Lundgren. Costumi: Marik Vos. Trucco: Börje Lundh, Gullan Westfelt. Musica: Ivan Renliden, brani da Le variazioni Goldberg, Suite n. 2 per violoncello di Johan Sebastian Bach, Mayfair Waltz, Club Cool di R. Mersey, Coffee Bean Calypso, Jazz Club, Rock in the Rough, Sing Baby, Sing. Suono: Stig Flodin, Evald Andersson. Produzione: Allen Ekelund per Svensk Filmindustri. Distribuzione Italiana: INDIEF. Riprese: 9 luglio - 19 settembre 1962 (studi di Råsunda). Prima Proiezione: 23 settembre 1963. Durata: 96’. Bianco e Nero. Origine: Svezia, 1963.


Interpreti: Ingrid Thulin (Ester), Gunnel Lindblom (Anna), Birger Malmsten (amante sconosciuto di Anna), Håkan Jahnberg (il vecchio cameriere), Jörgen Lindström (Johan), Eduardo Gutiérrez (il manager dei nani), Lissi Alandh (donna nel cabaret), Leif Forstenberg (il suo amante), Eskil Kalling (il padrone del bar), Carl Andersson, Karl-Arne Bergman, Olof Huddén, Claes Esphagen, Kotti Chave, Kristina Olausson (controfigura di Gunnel Lindblom), Nils Waldt, Birger Lensander, Olof Widgren.




Il silenzio dovrebbe far parte della trilogia sull’assenza di Dio, insieme a Come in uno specchio (1961) e Luci d’inverno (1961), ma Ingmar Bergman ha spiazzato la critica affermando che non esiste alcuna trilogia, che è stato solo un modo per attirare l’attenzione dei media e che ogni film ha una propria ragion d’essere. Il silenzio nasce da un sogno, come molte altre opere di Bergman, infatti è un film onirico, avulso dalla realtà, sia come ambientazione che come struttura della sceneggiatura. Bergman è interessato ai simboli e allo studio dei caratteri, ai rapporti interpersonali tra due sorelle che vivono insieme il tempo di un ultimo viaggio. Tutto si svolge in una città straniera, Timoka, un luogo fantastico ricostruito in studio, ispirandosi al racconto di Sigfrid Siwertz, La tenebrosa dea della vittoria, ma anche ad altre suggestioni letterarie: Il circolo (1907), i racconti di Hans Fallada, Piccolo uomo dove corri (1932) e Un lupo tra i lupi (1937). Il sogno viene modificato dalla struttura del film, perché gli originari personaggi - un vecchio poeta e un giovane che viaggia con lui fino alla sosta nella città straniera - vengono sostituiti da due sorelle diverse tra loro, due donne che non si comprendono, forse si odiano, alla resa dei conti del loro sentimento, e il figlio della donna più giovane. Bergman realizza diverse stesure del soggetto: in una precedente prova narrativa i personaggi sono marito, moglie e un bambino, in viaggio verso una città straniera. In un’altra idea viene fuori il motivo del circo - tanto caro a Fellini - con la variante dei due acrobati in una città tedesca alla fine della Seconda Guerra Mondiale, che perdono il partner del loro spettacolo. L’idea non morirà ma darà vita a L’uovo del serpente (1977). Pure in questo film l’ispirazione in parte sopravvive: vediamo i carri armati e la compagnia dei nani acrobati, un vero e proprio motivo felliniano.

Il film definitivo vede protagoniste due straordinarie attrici come Ingrid Thulin (Ester) e Gunnel Lindblom (Anna), nei panni di due sorelle in viaggio insieme al figlio della seconda, che si fermano in un surreale paese straniero (Tomoka), dove il bambino di tanto in tanto vede passare carri armati (modellini giocattolo) e durante il giorno la vita scorre normale. Ester è malata di tubercolosi, fuma in maniera sconsiderata ed è alcolizzata, sembra malata terminale. Le due sorelle si fermano in un albergo dove un vecchio cameriere accudisce Ester, mentre il bambino vaga per le stanze in cerca di compagni di giochi, incontra un gruppo di nani e spia le avventure erotiche della madre. Il piccolo Johan è un personaggio edipico, innamorato della madre senza saperlo, cerca di evitare le sue frequentazioni maschili, orina per terra, pretende attenzione. Durante la sosta per i problemi di salute di Ester dopo una villeggiatura di cui non si sa niente, ma per il regista non è importante, esplodono i conflitti tra le sorelle. Anna rimprovera Ester di averla soggiogata come sorella maggiore, pretende la sua libertà, perlustra le strade d’una città surreale e i palchi di un cinema-cabaret in cerca di avventure erotiche. 

La trama non è importante, se non come detonatore delle tensioni caratteriali e delle psicologie dei personaggi. I lunghi silenzi e gli scarni dialoghi sono metafora dell’incomunicabilità umana, simboli del disagio di vivere. Ester è il personaggio più tormentato: odia gli uomini, sembra innamorata della sorella, di un sentimento impuro, poco fraterno, vorrebbe frenare i suoi eccessi erotici ma si sente rimproverare di aver interpretato un ruolo non richiesto da sorella maggiore. Anna è disinibita, sessualmente disponibile, cacciatrice di uomini, nonostante un figlio che trascura. Gunnel Lindblom sprizza sensualità da tutti i pori, la vediamo seminuda, tra le braccia di un amante sconosciuto rimorchiato in un cabaret. Anna riesce a vivere solo “cercando di essere diversa dalla sorella” che “non ha voluto fare come le altre” - amare gli uomini - e per questo si è ritrovata sola. Bergman compone una sinfonia barocca sulla solitudine dell’anima umana, tra suggestive musiche di Bach, trasgressioni, prefigurazioni della morte anticipata da lunghi suoni di sirena. Il finale vede Anna partire insieme al figlio, ma quando sono in treno la donna apre il finestrino e si lascia bagnare dall’acqua che cade dal cielo, forse un simbolo di purificazione, mentre il bambino legge una lettera che la zia gli ha lasciato. Nella versione originale la parola che il bambino pronuncia è Hadjek, termine inesistente, ma la censura italiana tradusse il termine con “anima”, tradendo la volontà registica di lasciare un finale aperto. Tutto il film è caratterizzato da una serie di misteriosi termini che appartengono alla lingua parlata nella città di Timoka, forse di derivazione ugrofinnica, ma un significato pare averlo solo il nome del luogo, che in estone vuol dire “appartenente al boia”. “Il silenzio era originariamente chiamato Timoka. Una pura coincidenza. Ho visto il titolo in un libro estone, senza conoscerne il significato, ovvero che appartiene al carnefice”, confidò Ingmar Bergman.
Il silenzio è il film di Bergman che ha sollevato maggiori scandali, persino in Svezia, dove Erik Skoglund, capo della Commissione di censura dichiarò: “Se fosse dipeso da me l’avrei proibito”. Fu proiettato senza tagli, invece, ma solo perché era un film di Bergman e il regista aveva così tanti ammiratori nella sua terra da potersi permettere certe trasgressioni. Seicentomila spettatori - anche convinti dallo scandalo - lo videro nella prima settimana di proiezioni svedesi (23 - 30 settembre 1963, Stoccolma) e la stampa si occupò a lungo del caso, subissata da moralistiche lettere di protesta. In Italia fu apposto il visto censura il 15 marzo 1964, ma venne imposto il divieto ai minori di anni 18 e il taglio di tre sequenze incriminate: Anna che spia un amplesso nel cinema-varietà (molto estrema per i tempi), la masturbazione solitaria di Ester (appena accennata) e il breve rapporto sessuale tra Anna e lo sconosciuto. Si  censurarono persino i dialoghi, modificando il senso del film, edulcorando situazioni e mettendo in bocca ai personaggi frasi che il regista non si sarebbe mai sognato di far pronunciare. Anna racconta di aver fatto l’amore con l’amante sconosciuto tra le colonne di una chiesa, ma per il censore italiano il luogo del rapporto divenne uno scantinato. Il monologo di Ester in cui confessa di provare disgusto degli uomini fu addolcito e spurgato di tutte le parole eccessive legate all’odore del seme maschile e alla puzza di pesce marcio dopo la fecondazione. Inoltre le parole di Ester nella versione italiana fanno pensare non tanto alla sua omosessualità, quanto al pentimento nei confronti di una sessualità impura. Ricordiamo il finale, letteralmente modificato con l’inserimento di una traduzione inopportuna (anima), in senso salvifico e di redenzione. In Francia si optò per la stessa soluzione moralistica, diametralmente opposta all’idea del regista che voleva lasciare un finale aperto, per niente spirituale. 
Il silenzio ebbe problemi di censura ovunque, solo in Germania Ovest uscì senza tagli, ma tra feroci polemiche, mentre in Francia fu massacrato come in Italia, per colpa del ministro Alain Peyrefitte (tra l’altro cugino dello scrittore erotico Roger Peyrefitte), e in Gran Bretagna si vide attribuire l’infamante marchio X, quasi fosse una pellicola pornografica, nonostante il taglio del rapporto sessuale nel teatro. Negli USA furono tagliati 55 secondi e in Argentina fu condannato il distributore a un anno di carcere, per fortuna con la condizionale. 

Il silenzio è un film coraggioso, molto teatrale, un dramma erotico dei sentimenti, di ambientazione fantastica, o meglio, sospesa in un mondo onirico. Barocco e simbolista, felliniano, ma anche kafkiano, carnale e mondano, per niente spirituale, dissacrante. Stupenda la fotografia in bianco e nero del grande Sven Nykvist, collaboratore storico di Bergman. Il film è quasi tutto girato in primo piano, qualche zoom ma sempre funzionale alla storia, poche panoramiche della città nei finti esterni, grande cura per i particolari scenografici. 



“Quando oggi rivedo Il silenzio, devo ammettere che in qualche parte risente di una certa letterarietà… Per il resto non ho alcuna recriminazione da fare”, diceva Bergman. Condividiamo. 


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