Recensione di Claudia Marinelli
Regia : Stefano Simone
Produttore: Stefano Simone
Fotografia: Stefano Simone
Montaggio: Stefano Simone
Costumi: Dora De Salvia
Cast: Tonino Pesante, Dina Valente, Francesco Granatiero, Don Antonio D’Amico, Cosimo S. Nobile, Lello Castriotta, Amilcare Renato
Produzione: Italia
Durata 84 minuti
Questa volta il giovane regista Stefano Simone si è cimentato nella produzione di un lungometraggio di natura “ibrida” perché si tratta di un documentario che racconta un storia ispirata a fatti reali in cui non c’è voce narrante, ma personaggi che si muovono, parlano e agiscono come in un film. Il film inizia con le immagini di un signore anziano, Angelo Sormani, che rende visita alla tomba della moglie. Lo vediamo in seguito molto più giovane, pregare in una cappella a San Giovanni Rotondo e capiamo la profonda fede del protagonista che, tornando a casa quello stesso giorno, osserva il cielo nuvoloso oltre i vetri della sua auto. D’un tratto si ferma come folgorato da una visione. Prende in mano la macchina fotografica e scatta delle foto. Siamo incuriositi. Che cosa avrà mai visto nel cielo? A casa l’aspetta la moglie malata, che cerca di lottare contro un male cattivo e doloroso che piano, piano la sta consumando. La coppia affiatata sembra aver accettato il dolore, ma non sembra rassegnata in modo passivo. Angelo fa sviluppare le foto che ha fatto al cielo e si rende conto che le nuvole avevano quel giorno le sembianze del viso di Padre Pio. Angelo va dall’oncologo senza la moglie, e il medico non dà speranze di guarigione: il tumore è troppo avanzato. Al ritorno a casa la donna chiede al marito notizie sulla sua salute e, alle risposte evasive di quest’ultimo, lei capisce che sta per morire. I coniugi però non si perdono d’animo, non si disperano, e cominciano a pregare. Angelo ha altre esperienze che interpreta come segni di amore Divino e incitazione alla preghiera: una sera benché le finestre siano chiuse, del vento smuove le pagine di una rivista per fermarle sull’immagine di Padre Pio, quando rovescia un po’ di caffè sul fornello, la macchia prende la forma di un cuore. Quando Angelo ritornerà dal medico, dopo gli accertamenti di routine la sorpresa sarà grande: la moglie è completamente guarita. Felici i coniugi godono della compagnia reciproca, vanno a cena fuori, passeggiano sul lungomare, sono grati per la vita serena che è stata loro ridata.
Angelo gira per le strade di campagna e continua a fotografare le bellezze della natura, soprattutto i fiori, e altre forme che in qualche modo ricordano l’amore di un Dio: un tovagliolo che cadendo ha preso la forma di un angelo, un pezzo di pane spezzato che ricorda il profilo di Padre Pio. Capiamo che la moglie di Angelo però dopo un certo tempo è morta, e che l’uomo è rimasto da solo. Ma lungi dall’essere arrabbiato, ci mostra la sua profonda accettazione della realtà della sua vita e la sua capacità di meravigliarsi delle cose più semplici, che continua a fotografare. Le sue fotografie vengono notate da un gallerista che lo invita a fare un mostra. Angelo accetterà ed esponendo le sue numerose foto dei fiori, degli oggetti che gli hanno ricordato angeli e santi, e delle bellezze naturali, riuscirà a comunicare agli spettatori l’amore che lo anima, e che lui vede in tutte le piccole e grandi cose della sua vita quotidiana, l’amore che lui crede sia amore divino.
Chi nella propria vita non ha avuto esperienze inspiegabili? Interessante però è il modo in cui il regista ha trattato l’argomento raccontando la storia personale del protagonista, profondamente credente. É Angelo che attribuisce alle sue esperienze un valore “divino”, e trova una spiegazione sovrumana al mistero di alcuni avvenimenti della sua vita. Il film è di fatto una testimonianza, non una dimostrazione e il regista ha saputo raccontare attraverso gli occhi del protagonista, senza voler affermare verità che per altro sarebbero state difficili da provare. Colpisce il rispetto con il quale Stefano Simone ci ha illustrato la storia, la gentilezza con la quale fa muovere i personaggi sullo schermo e, benché i dialoghi avrebbero potuto essere più approfonditi, lo sguardo amorevole del regista verso Angelo e sua moglie è evidente. Il film giustamente non vuole dare delle risposte, vuole solo porci delle domande attraverso il racconto della storia. Ed in effetti le domande che affiorano alla mente sono tante. Perché esistono dei casi di remissione spontanea da malattie gravissime? Perché in certi pazienti le difese immunitarie riescono a combattere la malattia e alle volte a debellarla del tutto, mentre in altri no? Perché certe volte ci sembra di essere “guidati” da qualche forza che non sappiamo definire? Come possiamo spiegare ad esempio i casi di miracoli a Lourdes? E a San Giovanni Rotondo? Ci sono stati dei medici che hanno dedicato anni allo studio di casi di pazienti con remissioni totali da tumori ormai in stadi avanzati, ma ancora non si è riusciti ad arrivare a una spiegazione scientifica. Questo non significa che la spiegazione scientifica non esista, ma solo che se esiste non l’abbiamo ancora scoperta. Certe persone hanno difese immunitarie che funzionano talmente bene da sconfiggere la malattia, ma le ragioni sono ancora ignote.
Il film propone anche dei validi spunti di riflessione di come una cultura si rapporti con il dolore della malattia e della morte. Angelo è addolorato per la malattia della moglie e va a trovare l’oncologo che la cura, per avere delle risposte sul futuro della sua amata. E va da solo, lasciando la moglie a casa. Quando il medico non gli dà speranza, lui è affranto, torna a casa ma non ha il coraggio di dire alla moglie la verità. La moglie capisce che sta per morire, e non chiede ulteriori spiegazioni. Entrambi pregano. Come è diverso questo atteggiamento a da quello di un anglosassone ad esempio, o uno svedese. Non sarebbe pensabile negli Stati Uniti, o in Inghilterra, che il medico non informasse il paziente del suo stato di salute. E il paziente stesso non avrebbe mai delegato un familiare ad andare dal medico senza di lui. Questione di religione? Forse.
Io direi più questione di cultura. La nostra cultura “latina” ma forse proprio italiana, ci porta a negare la morte. Spesso i familiari nascondono al malato il suo vero stato di salute, perché con la morte non c’è dialogo, non ci sono sconti, va allontanata il più possibile, va negata soprattutto al condannato, perché questo deve vivere nell’illusione di poterla sconfiggere. Penso al film “Il settimo sigillo” in cui il personaggio principale gioca a scacchi con la morte, la guarda in faccia, la sfida e la combatte, anche se sa che perderà. Il regista, Bergman, è nordico, svedese. E forse Bergman non era un credente, ma era cresciuto in un Paese cristiano. Non so se sia meglio l’atteggiamento di Angelo, il protagonista de “Una Vita nel Mistero” e di sua moglie, oppure l’atteggiamento più nordico di guardare la realtà in faccia, e la morte in faccia. Qualsiasi atteggiamento di fronte ai dolori più grandi della vita è valido, mi ha solo molto colpito come il regista del film abbia presentato il nascondere la condanna al condannato, come qualcosa del tutto “normale”. Il messaggio di fondo che vuole passare Angelo, che ancora vive e continua a scattare le sue bellissime foto, è di più ampia portata e risiede dello stupore di un uomo verso il mondo, la natura, la bellezza del cielo, dei fiori, delle piante e il mistero di certi messaggi che alle volte la natura ci invia. Bella l’immagine finale del film che riprende l’anziano Angelo seduto sulla panchina a stupirsi ancora di ciò che lo circonda.
Stefano Simone è un giovanissimo regista che sa riprendere con rispetto e amore il mondo che lo circonda, in questo film, che ha prodotto lui stesso, con il patrocinio del Comune di Manfredonia, è stato anche il fotografo, e il montatore! Una promessa per il cinema italiano.
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