sabato 5 novembre 2011

Omaggio a Monica Vitti - 2

L’avventura (1960)
di Michelangelo Antonioni
Regia: Michelangelo Antonioni. Soggetto e Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Elio Bartolini. Fotografia: Aldo Scavarda. Montaggio: Eraldo Da Roma. Musiche: Giovanni Fusco. Scenografia: Piero Poletto. Produzione: Italia/Francia. B/N - 140’. Interpreti: Monica Vitti, Gabriele Ferzetti, Lea Massari, Lelio Luttazzi, Dominique Blanchar, Renzo Ricci, James Addams, Esmeralda Ruspoli.  

Monica Vitti

Una donna (Massari) scompare durante una gita su una piccola isola delle Eolie, vicino Panarea. Il fidanzato (Ferzetti) e l’amica del cuore (Vitti) la cercano, ma le speranze di ritrovarla diventano sempre più flebili. In compenso tra l’uomo e la donna nasce un rapporto sentimentale che diventa sempre più complesso e tormentato. 

Monica Vitti

La trama è tutta qui. Il film divide critica e pubblico, tra chi grida al capolavoro e chi fischia senza ritegno. Se non ci fosse Antonioni dietro la macchina da presa sarebbe un problema interessare gli spettatori per due ore e venti di proiezione.

Monica Vitti

L’avventura (1960) inaugura la trilogia dell’incomunicabilità, che si completa con La notte (1961) e L’eclisse (1963), ma la forza del film è la fotografia realizzata da Aldo Scavarda con un bianco e nero deciso e intenso. Lo spettatore si abbandona alla visione di interminabili piani sequenza che fanno uscire ed entrare i protagonisti, ammira gli squarci ventosi, il mare in tempesta, le strade polverose e le linee ferroviarie di una Sicilia selvaggia. L’introspezione psicologica dei personaggi è notevole, sia maschili che femminili, ma se l’uomo è superficiale e traditore, la donna è più complessa e meno frivola. Il finale aperto ci regala uno sciocco tradimento da parte dell’uomo, mentre la donna - pur contrastata - è disposta a perdonare. Al regista non interessa minimamente il giallo della scomparsa della ragazza, che abbandona al suo destino, senza fornire una soluzione, ma vuole indagare l’animo umano e la complessità dei rapporti interpersonali.

Gabriele Ferzetti e Monica Vitti

Michelangelo Antonioni (1912 - 2007) non è inquadrabile in un genere ben definito e in una corrente. Rompe con il neorealismo e inaugura un cinema lento, riflessivo, ricco di scene dilatate, realizzate grazie a lunghi piani sequenza. Antonioni rappresenta il vuoto assoluto della borghesia, descrive personaggi annoiati che non riescono a comunicare, immobilizzati in una crisi senza via di scampo. Michelangelo Antonioni trasforma Monica Vitti nella diva conclamata di un cinema drammatico intenso e di rottura con il passato. L’attrice romana diventa la sua musa ispiratrice, un modello di donna tormentata, che interpreta opere fondamentali del cinema italiano, dove esprime il difficile rapporto uomo - donna. L’avventura (1960) è il film simbolo della prima parte della carriera di Monica Vitti, che disegna il suo carattere “nevrotico” seguendo alla lettera le indicazioni di Antonioni. Molto bravo anche l’alter ego maschile, Gabriele Ferzetti, che contribuisce a creare una serie di situazioni simboliche per stigmatizzare il male di vivere. Lea Massari, bella e intensa, è la ragazza insoddisfatta che vorrebbe un rapporto diverso, ma non sa comunicare al suo uomo la sua necessità.

Lea Massari

L’avventura è un trionfo al Festival di Cannes, dove vince il premio come miglior film e miglior colonna sonora originale. Michelangelo Antonioni dirige Monica Vitti anche ne La notte (1961) - Nastro d’Argento come attrice non protagonista -, L’eclisse (1963) e Deserto rosso (1964). La bella attrice romana diventerà il simbolo di un cinema  fatto di lunghi silenzi, ma anche Marcello Mastroianni, Alain Delon e Gabriele Ferzetti saranno degli ottimi borghesi annoiati. Va citato un poco riuscito ritorno di fiamma Vitti - Antonioni ne Il mistero di Oberwald (1980). Un film che serve per un esperimento: girare in video, intervenire elettronicamente sul colore e riversare su pellicola.


Il cinema di Antonioni racconta usando lunghi piani sequenza, dilatando i tempi della narrazione, abusando di tempi morti e lasciando i finali aperti. Le sue pellicole sono veri e propri lavori di scavo psicologico sul tema dei rapporti umani e rappresentano un’analisi tormentata sul disagio di esistere.


Gordiano Lupi

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