sabato 15 marzo 2014

Il mistero di Maldoror (1976)

di Alberto Cavallone 


Regia: Alberto Cavallone. Titolo presunto: Maldoror/ I canti di Maldoror. Aiuto regista (e fotografo di scena): Rosario Montesanti. Soggetto: Alberto Cavallone, liberamente ispirato a I canti di Maldoror, di Isidore Lucien Ducasse, in arte Conte di Lautréamont. Sceneggiatura: Alberto Cavallone. Fotografia: Alessandro Cariello. Assistente Operatore: Gianni Xaiz. Montaggio: Alberto Cavallone. Musiche: Rosario Montesanti. Segretaria di Edizione: Anna Cenni. Produzione: Olimpia Film. Produttori: Giuseppe Tortorella, Scino Glam. Interpreti: Gianni Garko (il regista), Sherry Buchanan (la ragazza), Martial Boschero (l’operatore), Jane Avril (Maria Pia Luzi), Diego Michelotti, Alena Penz, Jack la Cayenne (Alberto Longoni), Inga Alexandrova, Giulio Cavallone, Libby Niedermayer, Tony Askin, Mary Kristal (Maria Rosaria Riuzzi), Pietro Mazzinghi. 


Scava in fondo all’amore - Maldoror sarebbe il titolo ufficiale secondo il fascicolo ministeriale di un film purtroppo inedito, pare irrimediabilmente perduto, conosciuto anche come Blue Ecstasy, perché sembra che Cavallone - pur di farlo uscire - cercò di mascherarlo come un porno. Infatti alcuni critici affermano che Maldoror sarebbe stato girato nel 1975 - tra Turchia e campagna romana - e quindi rieditato nel 1979, intitolandolo Blue Ecstasy. Altri ancora parlano di un terzo titolo: Il dio selvaggio, prodotto da una fantomatica 3g International, composta tra gli altri da George Hilton, che nega di aver mai avuto rapporti di lavoro con Cavallone. Di fatto Il giornale dello spettacolo (1979) considera finito Blue Ecstasy e ne presenta il flano, mentre Cavallone - intervistato da Repubblica nel dicembre del 1979 - lo dichiara pronto per uscire. Altre fonti dicono che il film è uscito come Scava in fondo all’amore, girato e montato in Turchia nel 1975, ma sembrano balle. La scomparsa di Maldoror pare dovuta a una mancata distribuzione del produttore, ma anche alla scomodità del film, che più di Spell e Blue movie denuncia lo sfacelo sociale e morale del nostro paese. Davide Pulici ne parla come “il capolavoro di Cavallone” e se lo dice lui che ha studiato a fondo il regista dobbiamo crederci. Di fatto il film è stato visto da pochi e quasi nessuno è in grado di raccontarlo. Proiettato solo in Turchia, e al tempo non c’erano i telefonini e gli mp3, non si poteva riprodurre subito su qualche supporto quel che compariva sullo schermo. Non fu mai distribuito in Italia e neppure in altre parti del mondo. Alcuni dicono che era un film scritto per raccontare lo sfacelo morale e politico dell’Italia, cosa credibile visti i precedenti di Cavallone. Davide Pulici è impegnato da anni per cercare di ritrovare la pellicola, ma per il momento ha recuperato solo la sceneggiatura originale, custodita da Gianni Garko, l’attore protagonista. Pulici afferma: “La copia-lavoro del film è stata distrutta all’inizio degli anni Novanta, mentre il negativo del girato sarebbe stato individuato da Cavallone, ma da lì a poco la morte lo colse. In un sito Internet c’era chi sosteneva di aver venduto una rara vhs del film (Gold Metal) al prezzo di ventimila euro, ma non è credibile”. 


Maldoror è quel che resta: alcune foto, la descrizione di poche scene da parte dei tecnici, l’incipit con un telone bianco da cui salta fuori una lunga processione carnevalesca, una ragazza partorita dal ventre di una vacca, un bambino che esplode dopo essersi ingozzato di merendine, un prete che evira le lingue dei fedeli durante la comunione, una processione blasfema con un prete che porta una croce a forma di fallo gigantesco, un matrimonio tra un nero e una sposa bianca in lingerie in una chiesa diroccata, una vacca squartata e dentro c’è una ragazza nuda, una disgraziata che era stata cucita dentro… 


Le premesse ci sono tutte per avere un’opera ancora più discussa e trasgressiva di Spell (Dolce mattatoio), infatti sarebbe stata girata subito dopo, tra il 1975 e il 1976, cosparsa di inquietanti richiami pasoliniani. Sappiamo che gli interpreti principali sono Sherry Buchanan (la ragazza), Gianni Garko (il regista) e Martial Boschero (l’operatore), ma c’è chi favoleggia della presenza del transessuale Ajita Wilson e del caratterista Nicola Miglio. Il famoso trans di colore non faceva parte del cast del Maldoror girato nel 1975 e proiettato in Turchia nel 1976, quindi dobbiamo pensare che sia una presenza inserita nel rimontaggio hard intitolato Blue Ecstasy. Tony Askin, attore-agente che si occupava dei casting per Cavallone ed era agente di Ajita Wilson, oltre ad aver recitato un piccolo ruolo in Maldoror, ricorda: “Alberto doveva realizzare una scena in un bosco fuori Roma. Era una situazione tipo tortura, con una ragazza legata a due alberi per le braccia, nuda. Ajita le si avvicinava per stuzzicarla in modo lesbo... mi pare di ricordare che la stesse punendo per qualcosa che la ragazza aveva fatto. A quel punto, interveniva un uomo, che sodomizzava la ragazza, dopo averla slegata...”. Askin conferma la presenza di Miglio, ma solo nella nuova versione porno: “Nicola Miglio era un mio amico, estraneo al mondo del cinema. Nicola era uno dei due uomini, perché sul set c’era anche un ragazzo arabo, che Alberto conosceva e che era sempre pronto per questo tipo di scene (porno)”. Ricordiamo sequenze che ritraggono Ajita Wilson amoreggiare con un televisore portatile e fare il cane con sulle spalle un’altra attrice. Pauline Teustcher è un’altra presenza certa del Maldoror porno, realizzato ma mai uscito, proprio come il precedente.


L’idea di fondo della pellicola era quella di seguire un regista e un operatore impegnati nella realizzazione di un film tratto da I canti di Maldoror di Leautréamont, una vecchia passione letteraria di Cavallone, ma anche di Pier Paolo Pasolini. Andiamoci a rileggere parte dell’intervista che Alberto Cavallone rilasciò a Nocturno Cinema: “Il regista parte con un operatore. E sul traghetto che unisce l’Europa all’Asia incontrano una ragazza americana, di cui l’operatore s’innamora e alla quale il regista, come l’operatore del resto, fa da padre: scopre così che la ragazza si droga (…). Ma in questo viaggio, in questa ricerca di posti, i tre personaggi hanno un’infinità di incontri, che vanno dalla scoperta dell’industrializzazione della droga, ad Afyon, alle cascate pietrificate di Pammukale, alle danze dei dervisci, quelli che si elevano e quegli altri che si bucano senza farsi uscire sangue … e arrivano alla Cappadocia, un posto semplicemente allucinante, dove il regista si rende conto che non riuscirà mai a dissuadere la ragazza a non drogarsi e non riuscirà mai ad avere un rapporto di vera amicizia con l’operatore. E si suicida”. 


I canti di Maldoror (1869) è un poema epico in prosa, opera di Isidore Ducasse (1846 - 1870), in arte Conte di Lautréamont, nato a Montevideo, Uruguay, ma poeta francese a tutti gli effetti. Scrive la sua opera fondamentale un anno prima di morire, ad appena 23 anni, raccontando la visione del mondo dagli occhi di un adolescente. Un poeta maledetto che si esprime con grande violenza verbale e insolita libertà lirica per i tempi. Normale che affascinasse Cavallone, regista surrealista per eccellenza, quella che può essere definita come l’opera di riferimento per il movimento surrealista. Maldoror è l’adolescente ribelle, la fantasia che vince sulla realtà, l’immaginazione al potere. Maldoror letteralmente non significa niente, ma la sua etimologia riconduce a mal d’aurora (letto alla francese) e alle semplici parole mal, horror e dolor. Tutte interpretazioni che conducono verso la presunta malvagità del personaggio e al suo amore per il male. Ducasse si prende gioco del lettore - come Cavallone dello spettatore - grazie a una poetica che fa del surreale la sua cifra stilistica. L’adolescente che irride il mondo, che si prende gioco degli adulti e dei loro falsi miti, il ragazzino che sbeffeggia sarcastico e che deride la vita borghese con tutti i suoi inutili orpelli. 


Alberto Cavallone teneva molto a Maldoror, un film autobiografico, polemico, surreale, che raccontava la fine di un amore e voleva descrivere l’inutilità della vita contemporanea. Ha sempre cercato di recuperarlo, perché era per lui il suo ultimo film importante prima di cominciare un periodo di regie televisive e di cinema alimentare, ma non ci è riuscito.


Davide Pulici ha intervistato per Nocturno Cinema il direttore della fotografia Alessandro Cariello. Il suo ricordo è vago, anche perché non ha mai letto la sceneggiatura. Cavallone era molto geloso di quel che scriveva e si limitava a far imparare certe battute agli attori, senza comunicare ai collaboratori lo sviluppo della storia. Ricorda che la coproduzione turca creava problemi e che Cavallone era di scuola pasoliniana, non aveva una sceneggiatura rigida, ma girava giorno dopo giorno, improvvisando cose nuove partendo da un canovaccio scritto. Le prime sequenze oniriche di Maldoror  sono state girate a Viareggio, un telo bianco lacerato da un crocefisso che riproduceva un pene issato da un prete alla guida della processione. “Alberto voleva dire che lo schermo era un imene da deflorare per far entrare il suo racconto filmato”, ricorda Cariello. La processione vedeva una teoria di strani personaggi con costumi carnevaleschi, che ricordavano le uniformi africane della guerra in Abissinia. Seguivano due carri di carnevale, con sopra giovani donne nude, una vestita solo di una cartucciera di mitragliatrice. La scena proseguiva con un ballo su una terrazza di un albergo con le note di un valzer di epoca fascista e le canzonette della guerra d’Africa. Alcune donne erano in topless anche se indossavano abiti leggermente diversi, stile anni Trenta. Un’altra scena venne realizzata a Livorno. Un prete diceva messa in una chiesa bombardata durante la guerra ed era rimasto solo parte dell’altare. Era uno sposalizio. 
 
 
La sposa indossava un velo bianco, mutandine, reggiseno bianco, un reggicalze che sosteneva calze bianche. Lo sposo era un nero. Una scena ritraeva il prete che serviva messa, il chierichetto era una spogliarellista americana che portava sull’altare al posto del vino una Coca Cola. Quattro ragazzini inginocchiati stavano per ricevere la comunione. La chierichetta  era vestita come le cameriere del club di Playboy, reggeva un piattino d´argento, i ragazzi sporgevano la lingua e il prete con un rasoio la tagliava, tra schizzi di sangue. Per il trucco erano state preparate delle lingue di capretto, colorate per apparire come lingue vive, riempite con quelle vescichette di sangue che si usano al cinema: i ragazzini le tenevano strette fra i denti. “Tutte scene che Alberto usava come dissacrazione della Religione della Guerra e della Politica”, ricorda Cariello. Altre scene furono girate alle famose Spiagge bianche di Rosignano Solvay, quelle che ricordano i Caraibi per via della soda inquinante che fuoriesce dallo stabilimento chimico e che colora l’acqua di un innaturale azzurro-verdastro. “Facemmo una scena sulla spiaggia dove una ragazza dava un morso a un uomo staccandogli il pene.  Io chiesi spiegazione della simbologia di quella scena e Alberto, ridendo, mi disse:  Quello sei tu!. Poi mi spiegò: Il regista è un evirato senza pene, che non può possedere le immagini e ha quindi usualmente bisogno di un operatore che lo sostituisca. La sua rabbia simbolica la esprimeva staccandogli il pene”, dice Cariello. Altre scene furono girate al mattatoio: una mattanza di vitelli e una donna nuda che nasceva dal ventre di una vacca. Infine furono girate molte scene a Roma, nei teatri di Cristaldi, a Prima Porta, sulla Flaminia. Una coreografia psichedelica, una sedia girevole, bianca, da barbiere, una bara con dentro il corpo di un cardinale. Una scena in cui al figlio di Alberto veniva rotto in testa un uovo crudo, sul pavimento le foto dei politici dell’epoca e in una danza satirica Jak La Cayenne ballava un tip-tap calpestando le facce di alcuni, si fermava quando il suo piede finiva sulla foto di Fanfani e su quella del Papa. Una donna vestita come la figura femminile che rappresenta l’Italia nelle carte bollate, con uno scettro in testa e una tunica lunga, girava e rigirava sulla sedia da barbiere. Un uomo fermava la sedia, quando l’Italia scendeva veniva sodomizzata. Non era porno, però. La donna rimaneva vestita e solo l’uomo faceva il gesto di calarsi i pantaloni. Si scopriva che l’uomo aveva una trivella di ferro al posto del pene. La simbologia era che l’Italia veniva sodomizzata. I ricordi del direttore della fotografia si fermano a questo punto, anche perché il resto venne girato in Turchia. Speriamo di vederlo, un giorno o l’altro, grazie all’impegno di Davide Pulici che ha già fatto molto.

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

Nessun commento:

Posta un commento