di Pupi
Avati
Regia: Pupi Avati. Soggetto e Sceneggiatura: Pupi
Avati. Fotografia: Pasquale Rachini. Montaggio: Amedeo Salfa. Scenografia:
Giuliano Pannuti. Costumi: Maria Fasari, Stefania Consaga. Musiche: Riz
Ortolani. Produttore: Antonio Avati. Casa di Produzione. Duea Film con la
collaborazione di Rai Cinema. Distribuzione: 01 Distribution. Durata. 98’. Genere: Drammatico.
Interpreti: Fabrizio Bentivoglio, Francesca Neri, Serena Grandi, Gianni Cavina,
Lino Capolicchio, Manuela Morabito, Erika Blanc, Isabelle Adriani, Vincenzo
Crocitti, Damiano Russo, Osvaldo Ruggieri, Brian Fenzi, Marcello Caroli,
Adriano Salerni, Riccardo Lucchese, Lucia Gruppioni.
Pupi Avati si conferma autore poliedrico con un film intenso
che affronta il tema delicato e cinematograficamente inedito del morbo di
Alzheimer, narrando una storia d’amore, mixata con ricordi adolescenziali.
Vediamo la trama.
Lino (Bentivoglio) è un giornalista sportivo sposato
con Francesca, docente universitaria di letteratura italiana e figlia d’una
famiglia borghese. Sono un coppia affiatata, anche se ad allietare la loro vita
manca un figlio e nonostante la famiglia della moglie non abbia un buon
rapporto con il marito. I problemi arrivano quando Lino comincia ad accusare
gli effetti del morbo di Alzheimer, in un primo tempo la moglie lo fa curare,
nasconde la verità, studia i suoi comportamenti, ma alla fine giunge il crollo
inevitabile. Francesca prima abbandona Lino nelle mani di due infermiere, poi,
vinta dal rimorso e dall’amore, decide di vivere con lui e di assecondare le
sue manie fanciullesche. Lino diventa per lei quel bambino che non ha mai
avuto, gli racconta le fiabe, giocano insieme a correre un fantomatico giro
d’Italia con i tappi della sua infanzia, quando incollava nella corono le
figure dei ciclisti.
Un giorno accade l’irreparabile: Francesca subisce un
incidente stradale e viene ricoverata d’urgenza in ospedale, in gravissime
condizioni. Lino sale in treno, poi in taxi e raggiunge il paese della sua infanzia
dove cerca un vecchio amico che da bambino aveva fatto credere di poter
resuscitare i morti. Lino troverà solo il fratello del suo amico, malato come
lui, mentre l’altro è morto da alcuni anni. Finirà per perdersi nei boschi,
alla ricerca del cane che aveva da bambino, morto da tempo, ma lui non può
accettarlo perché lo riteneva immortale.
Una bella storia, ben costruita,
dotata di una solita sceneggiatura, mixata a dovere tra tempo presente e
ricordi del passato, a base di intensi flashback
dotati d’una fotografia anticata, color seppia. La musica sinfonica di Riz
Ortolani, una suggestiva partitura al piano, accompagna un film narrato con
tono dolceamaro, dimesso, spesso angosciante, ma mai patetico.
Avati affronta
il tema della malattia senza pietismi inutili, descrive con competenza (aiutato
da Paolo Crepet e da diversi esperti medici) la degenerazione della mente
umana, devastata da un morbo che non permette di restare in sintonia con la realtà.
Lino ricorda tutto dell’infanzia, vive una
sconfinata giovinezza, ripensando alla morte dei genitori, al cane Perché,
alla vita con gli zii nel vecchio casolare, agli amici, alle prime esperienze
erotiche, al suo gioco preferito che consisteva nel correre un finto giro
d’Italia con i volti dei ciclisti incollati nei tappini.
La parte migliore del
film è quella intrisa di autobiografia, dove si riconosce lo stile Avati che
racconta gli anni Cinquanta e Sessanta della campagna bolognese con grande
maestria e ottima ricostruzione d’epoca. La storia d’amore è perfetta, la donna
resta al fianco del suo uomo, nonostante tutto, si comporta da madre, modifica
il suo sentimento ma non riesce ad abbandonarlo. L’uomo va incontro alla morte
per un impossibile desiderio di far resuscitare la moglie dopo un tragico
incidente. La scenografia è stupenda, soprattutto nella parte ambientata nelle
colline bolognesi ai tempi della giovinezza del protagonista, ma anche il resto
del film - girato a Roma - gode di ottimi costumi e ricercati arredamenti
d’interni.
Pupi Avati è regista straordinario e poetico, capace
di passare con estrema facilità dal registro fantastico a quello minimalista,
padrone assoluto della macchina da presa che utilizza con avvolgente lirismo ed
estrema sensualità. Il suo cinema proustiano, alla ricerca del tempo perduto,
riveste un fascino unico nel desolante panorama del cinema italiano
contemporaneo.
Gli attori sono straordinari e vengono guidati con
grande mestiere. Fabrizio Bentivoglio rappresenta in maniera più che credibile
la maschera di un uomo devastato da una tremenda malattia neurologica.
Francesca Neri è bravissima come moglie innamorata che cura il suo amore come
un bambino e accetta con coraggio un destino difficile. Vincenzo Crocitti è
alla sua ultima interpretazione, in un piccolo ruolo da prete, perché morirà
prima dell’uscita nelle sale del film. I segni della malattia sono evidenti
nella sua maschera dolente. Gianni Cavina è un laido tassista approfittatore.
Serena Grandi è ben calata nella parte della vecchia zia di Lino. Rivediamo
anche Lino Capolicchio, attore feticcio di Avati, sin dai tempi de La casa dalle finestre che ridono
(1976).
Una
sconfinata giovinezza è stato escluso
dalla 67° Mostra Cinematografica di Venezia, distribuito nelle sale alla fine
del 2011, ha
incassati circa un milione di euro. Due candidature ai Nastri d’argento per il
miglior soggetto e la miglior scenografia. Nastro d’argento speciale a Pupi
Avati con questa motivazione: “per la sua sconfinata giovinezza cinematografica
e soprattutto per un film che affronta con delicatezza e straordinaria
intensità un tema personale e sociale importante, cinematograficamente inedito”.
Premio Dante Ferretti al Bari International Film Festival allo scenografo
Giuliano pennati e Premio Piero Tosi per il miglior costumista a Stefania
Consagra e Maria Fassari. Una sola certezza: Pupi Avati non delude mai. Rai Tre
ha programmato il film venerdì 11 ottobre 2013, in una giornata
piena zeppa di calcio internazionale, ma chi ha scelto di rivederlo non ha
sbagliato.
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
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