Regia: Willy Regant (Gianni
Siragusa). Soggetto e Sceneggiatura: Sergio Garrone. Fotografia: Maurizio
Centini. Montaggio: Daniele Alabiso. Trucco: Giuseppe Ferranti. Musica: Francis
Taylor (alias Franco Micalizzi - Produzioni New Team Music). Fotografo di
Scena: Vittorio Portelli. Produzione: Mario Alabiso per Società Nazionale
Produzioni Cinematografiche srl (Roma). Interni: De Paolis.
Interpreti: Ajita Wilson, Rita Silva, Linda Jones, Leo Annibali, Leda Simonetti, Aperio
Bella Olivia, Alex Freyberger, Helen Johansson, Lucia Rotoloni, Clorinda
Pucci, Paola Tenaglia, Enrica Saltutti.
Perverse oltre le sbarre è cinema di sottogenere.
Permettetemi il neologismo. Sottogenere perché abusa e sfrutta fino
all’ennesima potenza i peggiori cliché - consunti e logori - del women
in prison (WIP), meglio utilizzati da Brunello Rondi (Prigione di donne, 1974), Bruno Mattei
(Blade violent, 1983 - Violenza in un carcere femminile, 1982)
e Giovanni Brusadori (Le evase, 1978).
Mattei gira anche il discreto Anime
perse nel 2006, un tardo prison-movie
scritto da Antonio Tentori, formalmente ben curato.
Non sorprende che intorno al nome del regista ci sia ancora oggi una sorta di confusione e che Sergio Garrone non voglia sentirsi attribuire la pellicola neppure come sceneggiatore. Gianni Siragusa si nasconde sotto lo pseudonimo di Willy Regant e non può andare fiero di un lavoro a base di zumate, movimenti di macchina scolastici e ripetitive sequenze erotiche. La storia è incentrata su Ajita Wilson (il transessuale di colore è il solo motivo di interesse per vedere ancora la pellicola), protagonista assoluta di una vicenda confusa, a metà strada tra il noir e il carcerario.
Ajita finisce in prigione dopo aver ucciso chi voleva rubarle dei diamanti sottratti a un malvivente, ma alla fine verrà fatta fuori anche lei da una prigioniera in combutta con un gangster che gestisce un maneggio. In mezzo a questa trama improbabile tanti rapporti lesbici, la solita direttrice sadica, torture ai limiti del bondage, rapporti etero che sembrano usciti da un porno, relazioni tra carcerate, lotte tra donne con vestiti lacerati ad arte, docce delle prigioniere e un accenno di rivolta tra le sbarre.
Insomma tutto quel che ci possiamo aspettare da un women in prison, che contamina anche il nazi-erotico, come sempre, visto che i due generi sono simili per tematiche e situazioni estreme. Le parti erotiche sono intense, protagonista quasi sempre la giunonica Wilson, ma anche le meno note comprimarie non lesinano esibizioni ai limiti del porno. Scene di tortura a rischio censura, alcune di una crudezza estrema e di una volgarità senza limiti. La storia collaterale di malavita che si svolge al maneggio sembra un altro film montato con poca accortezza e senza alcuna attenzione alla logica.
La sceneggiatura è fiacca, piena zeppa di buchi, punti morti, incongruenze e dotata di poca suspense. La fotografia di Centini è ottima, riproduce il degrado della prigione con i tipici colori sporchi, da cinema verità, ai limiti del documentario. Marco Giusti su Stracult mette in dubbio che la fotografia sia di Centini e parla di Vittorio Portelli (fotografo di scena), ma lo stile del collaboratore preferito di Alberto Cavallone sembra inconfondibile. Il montaggio di Alabiso è lento e dotato di poco ritmo. I dialoghi sono da fotoromanzo, la recitazione ai minimi storici, anche se gli attori (parola grossa) sono tutti doppiati. Il clima di fondo è cupo, perverso, la colonna sonora - per contrasto - dolce e suadente.
I personaggi sono fumetti monodimensionali, sembrano usciti da un giornalaccio pulp anni Settanta. Gli autori non hanno il minimo rispetto per l’intelligenza dello spettatore. Un film che si vede soltanto per la curiosità che sprigiona un personaggio controverso come Ajita Wilson. Per il resto - a parte la fotografia di Centini - meglio stendere un velo pietoso.
Non sorprende che intorno al nome del regista ci sia ancora oggi una sorta di confusione e che Sergio Garrone non voglia sentirsi attribuire la pellicola neppure come sceneggiatore. Gianni Siragusa si nasconde sotto lo pseudonimo di Willy Regant e non può andare fiero di un lavoro a base di zumate, movimenti di macchina scolastici e ripetitive sequenze erotiche. La storia è incentrata su Ajita Wilson (il transessuale di colore è il solo motivo di interesse per vedere ancora la pellicola), protagonista assoluta di una vicenda confusa, a metà strada tra il noir e il carcerario.
Ajita finisce in prigione dopo aver ucciso chi voleva rubarle dei diamanti sottratti a un malvivente, ma alla fine verrà fatta fuori anche lei da una prigioniera in combutta con un gangster che gestisce un maneggio. In mezzo a questa trama improbabile tanti rapporti lesbici, la solita direttrice sadica, torture ai limiti del bondage, rapporti etero che sembrano usciti da un porno, relazioni tra carcerate, lotte tra donne con vestiti lacerati ad arte, docce delle prigioniere e un accenno di rivolta tra le sbarre.
Insomma tutto quel che ci possiamo aspettare da un women in prison, che contamina anche il nazi-erotico, come sempre, visto che i due generi sono simili per tematiche e situazioni estreme. Le parti erotiche sono intense, protagonista quasi sempre la giunonica Wilson, ma anche le meno note comprimarie non lesinano esibizioni ai limiti del porno. Scene di tortura a rischio censura, alcune di una crudezza estrema e di una volgarità senza limiti. La storia collaterale di malavita che si svolge al maneggio sembra un altro film montato con poca accortezza e senza alcuna attenzione alla logica.
La sceneggiatura è fiacca, piena zeppa di buchi, punti morti, incongruenze e dotata di poca suspense. La fotografia di Centini è ottima, riproduce il degrado della prigione con i tipici colori sporchi, da cinema verità, ai limiti del documentario. Marco Giusti su Stracult mette in dubbio che la fotografia sia di Centini e parla di Vittorio Portelli (fotografo di scena), ma lo stile del collaboratore preferito di Alberto Cavallone sembra inconfondibile. Il montaggio di Alabiso è lento e dotato di poco ritmo. I dialoghi sono da fotoromanzo, la recitazione ai minimi storici, anche se gli attori (parola grossa) sono tutti doppiati. Il clima di fondo è cupo, perverso, la colonna sonora - per contrasto - dolce e suadente.
I personaggi sono fumetti monodimensionali, sembrano usciti da un giornalaccio pulp anni Settanta. Gli autori non hanno il minimo rispetto per l’intelligenza dello spettatore. Un film che si vede soltanto per la curiosità che sprigiona un personaggio controverso come Ajita Wilson. Per il resto - a parte la fotografia di Centini - meglio stendere un velo pietoso.
Il film viene girato contemporaneamente a Detenute violente (1983) dello stesso Siragusa
(nascosto dietro lo pseudonimo di Kenneth Freeman), scritto da Garrone, interpretato
da identico cast. Esce in Spagna come Infierno
entre rejas (Inferno tra le sbarre)
e in Inghilterra come Hell Behind the
Bars. Sergio Garrone: “Ho scritto soggetto e sceneggiatura, ma non ho fatto
altro. Non c’erano soldi e il progetto non manteneva le promesse iniziali, per
questo me ne sono andato. Hanno usato il mio nome perché il produttore aveva
firmato il contratto con me. Ajita Wilson era un marinaio americano, ma dotata
di un fascino eccezionale. Una donna fantastica, aveva una voce femminile. Le
mani erano da uomo, nodose e dure” (fonte: Stracult).
In ogni caso alcuni autori sostengono che Garrone sia stato aiuto regista in Detenute violente. Roberto Poppi - nel suo prezioso Dizionario dei Registi Italiani - afferma: “Gianni Siragusa è anche autore di Detenute violente e Perverse oltre le sbarre, da sempre accreditati a Sergio Garrone”. Gianni Siragusa (Messina, 1936) è un segretario di edizione - aiuto regista che si ricorda per una manciata di modesti film di genere. I prison-movie che abbiamo analizzato sono tra i migliori. Ed è tutto dire. Sergio Garrone (Roma, 1926) - fratello dell’attore Riccardo - è un regista più interessante, specializzato in western, che dirige anche horror e nazi-erotici. L’equivoco può essere sorto anche dallo pseudonimo da lui solitamente usato: Willy S. Regan.
In ogni caso alcuni autori sostengono che Garrone sia stato aiuto regista in Detenute violente. Roberto Poppi - nel suo prezioso Dizionario dei Registi Italiani - afferma: “Gianni Siragusa è anche autore di Detenute violente e Perverse oltre le sbarre, da sempre accreditati a Sergio Garrone”. Gianni Siragusa (Messina, 1936) è un segretario di edizione - aiuto regista che si ricorda per una manciata di modesti film di genere. I prison-movie che abbiamo analizzato sono tra i migliori. Ed è tutto dire. Sergio Garrone (Roma, 1926) - fratello dell’attore Riccardo - è un regista più interessante, specializzato in western, che dirige anche horror e nazi-erotici. L’equivoco può essere sorto anche dallo pseudonimo da lui solitamente usato: Willy S. Regan.
Gordiano
Lupi
Concordo con la tua recensione di questo pessimo film. Parlando di Sergio Garrone, pur non essendo un gran regista e avendo sfornato per lo più pellicole non memorabili, un piccolo gioiellino l'ha diretto: "Django il bastardo",.
RispondiEliminaVero! Ma Sergio Garrone è un discreto regista.
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