The Lost City non è Tre tristi tigri adattato per il cinema come ha scritto qualche critico che non sa niente di letteratura cubana e magari parla del romanzo solo per sentito dire. Tre tristi tigri lo portò al cinema Raúl Ruiz, nel 1968, fece tutto da solo, non mi consultò neppure per la sceneggiatura. Non venne fuori niente di buono, ma pagarono i diritti. The Lost City è il film della mia vita, la mia storia più vera, il racconto emozionato del sogno rivoluzionario stemperato in una cocente delusione che mi ha portato all’esilio. Al Tropico di Fico Fellove - un ottimo Andy Garcia - si balla il mambo, il valzer e il cha-cha-cha, mentre una famiglia aristocratica di coltivatori di tabacco è divisa tra rivoluzionari e conservatori. Il patriarca è un grande Tomas Milian, perfetto nella parte del vecchio cubano, proprio come l’avevo immaginato scrivendo il soggetto.
“In questa casa i miei figli sono sempre benvenuti, ma devono sapere che si mangia alle sei di sera in punto. Non un minuto più tardi”. Il problema della famiglia aristocratica è che i figli si perdono per diversi destini in una Cuba prima vessata dagli sgherri di Batista e subito dopo sconvolta dalla Rivoluzione. Le sedie intorno alla tavola sono sempre meno, nonostante il patriarca ammonisca che la famiglia va messa al primo posto, accada quel che accada. Ricardo è il figlio rivoluzionario, torturato in carcere e sfiancato di botte, salvato da un soldato di Batista amico di Fico, che finisce sulla sierra per condividere il destino di Fidel e Che Guevara. Racconto la mia Cuba sconvolta dagli sbirri d’un dittatore mulatto vestito di bianco, da Mayer Lensky e i mafiosi che la infestano per aprire case da gioco e mantenere il racket dei locali. Una Cuba che ti impone di essere con loro o contro di loro, non è possibile fare come Fico Fellove, gestire un cabaret e suonare il piano, senza una posizione politica.
“L’Avana è diventata la capitale del peccato. Ci serve un Cristo con la frusta per cacciare i mercanti dal tempio. Nel mare anche uno squalo può annegare”, mormora il patriarca dai capelli bianchi. Luis è un altro fratello rivoluzionario che si fa chiamare Peligro ed entra a far parte del Direttorio dopo aver affidato la bella moglie Aurora (Ines Sastre) a Fico. Farà una brutta fine dopo il fallito attentato a Batista, ucciso dai poliziotti di regime che lo braccano nel suo rifugio. Gli sgherri del dittatore uccidono senza pietà, anche quando si trovano di fronte ragazzi, studenti, persone animate da un’idea di cambiamento. Il funerale di Luis lo immagino come uno dei tanti che ho visto, prima e dopo la rivoluzione. Il patriarca continua a cenare alle sei in punto, secondo una buona abitudine borghese, ma un figlio non tornerà più, mentre un altro rischia la vita sulla sierra per la libertà di Cuba. Aurora, la bella cubana dai capelli crespi sprizzante sensualità e dolore, resta sola. Fico si prende cura di lei e i due finiranno per innamorarsi.
“L’Avana assomiglia a una rosa, ha molte spine, dipende da come la prendi, ma alla fine è lei che prende te”, faccio pronunciare a Fico Fellove una frase che ho scritto in troppi libri che avevano una solo protagonista: la mia terra perduta.
Fico conduce Aurora alla scoperta dell’Avana, è un me stesso per interposta persona, un vagabondo della notte, pianista e ballerino come non sono mai stato, innamorato della sua città, delle improvvisazioni di Benny Moré e delle serate al cabaret.
Racconto la fuga di Batista e la fine d’anno al Tropico, l’ingresso dei barbudos e gli orrori alla Cavaña, dove uno spietato Che Guevara giustizia gli uomini di Batista al termine di processi sommari. Fico vede fucilare persino l’amico che aveva salvato il fratello dalla galera. Non importa che i poliziotti si siano macchiati di delitti, sono uomini di Batista e tanto basta per condannarli a morte. I borghesi vengono scacciati dalle terre, lo zio di Ricardo muore d’infarto cardiaco quando il nipote si presenta per requisire il campo di tabacco a nome della Rivoluzione. Il padre è sempre più sconsolato: “Nessuno dice più ciao di questi tempi. Soltanto addio”, sussurra. Ha capito che resta solo la fuga come via di scampo. Prepara la partenza del figlio, perché lui e la moglie sono vecchi per affrontare il cambiamento.
“Il Cristo di cui parlavi è qui, con la sua frusta”, dice Fico. A lui non piace per niente Fidel, non ama i suoi metodi, non capisce come si possano giustiziare persone senza processo, perché si debba impedire di suonare il sassofono in un cabaret perché è uno strumento imperialista.
“A Cuba abbiamo sempre avuto tanta luce. Non abbiamo mai avuto l’oscurità a mezzogiorno”, dice il padre distrutto dal dolore. Il patriarca dai capelli bianchi perderà un altro figlio, dopo averlo ripudiato, per aver tradito il suo paese e disonorato la famiglia. Ricardo piangerà la morte dello zio che lui stesso ha provocato e alla fine si sparerà un colpo di pistola in bocca.
The Lost City racconta la mia Cuba diventata fidelista. Elezioni perché? Il popolo ha già deciso, scrivevano i giornali.
Fico non ce la fa a restare, ma non riesce a convincere Aurora a scappare via con lui, perché la donna viene coinvolta nella Rivoluzione, sfruttata come la vedova d’un martire, facendo leva sul suo orgoglio e sul ricordo di un marito che aveva combattuto per una Cuba libera. “È una follia. Tutto questo non finirà. Se resti la tua vita apparterrà a loro…”, dice Fico. Subito dopo brinda davanti a Fidel e a Che Guevara al sogno di una Cuba libera, pluralista e democratica, l’unico sogno per cui è morto il fratello, un sogno non realizzato. La partenza di Fico è solitaria, dopo un lungo abbraccio in lacrime con il padre, che è l’immagine riflessa della mia partenza, di uomo in fuga verso l’esilio. Il vecchio patriarca resta a Cuba con la moglie, attende il ritorno del figlio quando tutto sarà finito, si raccomanda ancora una volta di essere puntuale, perché alla sua tavola si mangia alle sei in punto, non un minuto dopo. Fico parte e deve lasciare ogni cosa di valore alla Rivoluzione, umiliazione imposta a tutti i borghesi che decidono di non restare. “Non siete ancora fuggiti e già vi portate via dei souvenir. Non puoi portare Cuba con te”, gli dice con disprezzo un uomo in divisa verde olivo.
Fico raggiunge New York senza denaro e prospettive di lavoro. Finisce a lavare i piatti in un cabaret e subito dopo a suonare il piano per gli avventori. “Quando un uomo è davvero solo anche una lampadina fa compagnia”, dirà un vecchio amico ritrovato. “Il problema dell’esilio è l’esilio”, faccio rispondere a Fico con una frase che troppe volte ho pronunciato. Il mio personaggio ritrovare il vecchio bandito Mayer Lensky, insieme ricordano Cuba, ma lui non è cambiato, non scende a patti con un mafioso.
“Era una cosa splendida L’Avana. Avremmo dovuto saperlo che ci avrebbe spezzato il cuore”, sono parole di uomo tradito dal più grande amore, una donna bellissima come una città disperata.
Nel finale inserisco un tocco di melodramma romantico alla Casablanca, una cosa che ricorda Bogart in partenza mentre dice addio alla sua bella. Fico ritrova Aurora di passaggio a New York insieme alla delegazione cubana alle Nazioni Unite. Bevono caffè nero e ricordano il passato. Si vogliono ancora bene ma sono divisi per sempre da un triste destino.
“Non c’era più niente per me all’Avana. Non posso essere fedele a una causa persa, ma posso esserlo a una città perduta”, dice il mio personaggio che in fondo è me stesso, un uomo che per tutta la vita ha vissuto nel ricordo di una terra da rivedere.
Fico resta a New York e Aurora torna in una Cuba ormai troppo cambiata. Per amare la sua donna dovrebbe pagare un prezzo troppo alto e rinunciare alla libertà. Preferisce lasciarla partire e rivedere in solitudine i filmati di famiglia con lei protagonista mentre in sottofondo scorrono versi di José Martí.
Sono io Fico Fellove, ma lo sono pure Andy Garcia e Tomas Milian, cubani vittime di un comune destino. Per questo dico che The Lost City è la mia storia più vera, la mia eredità di uomo e di scrittore. Mi spiace soltanto che pochi l’abbiano capito.
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
Il racconto va letto come un apocrifo di Guillermo Cabrera Infante.
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