lunedì 30 marzo 2020

Dottor Jekill e gentile signora (1979)

di Steno





Regia: Steno. Soggetto: Robert Louis Stevenson (Lo strano caso del dottor Jekill e Mister Hyde), Castellano & Pipolo (idea parodistica). Sceneggiatura: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Gianni Manganelli, Steno. Fotografia: Ennio Guarnieri, Sergio Salvati. Montaggio: Raimondo Crociani. Musiche: Armando Trovajoli. Scenografia: Luciano Sapdoni. Costumi: Marisa Crimi, Elisabetta Poccioni. Genere: Commedia fantastica. Durata: 107’. Produzione: Medusa Distribuzione, Dania Film. Distribuzione: Medusa Distribuzione. Interpreti: Paolo Villaggio (Henry Jekill/Edward Hyde), Edwige Fenech (Barbara Wimply), Gianrico Tedeschi (Jeeves), Gordon Mitchell (Pretorius), Walter Wright Williams (capo della Pantac), Paolo Paoloni (direttore stabilimento), Guerrino Crivello (studente), Eolo Capritti (scagnozzo di Pretorius), Paola Arduini (Agatha Thompson), Francesco Anniballi (scagnozzo di Pretorius), Geoffrey Copleston (membro del consiglio).


Nel 1978 Steno scopre la bellezza prorompente di Edwige Fenech, che nel 1976 aveva interpretato il discusso Cattivi pensieri per la regia di Ugo Tognazzi. Alla fine degli anni Settanta la carriera della bella franco-algerina subisce una brusca sterzata: non più commedia sexy convenzionale ma vera commedia (erotica, fantastica, sofisticata, all’italiana …) firmata da autori interessanti. La Fenech si spoglia sempre meno e prende parte a produzioni che comprendono attori e registi come Steno, Pasquale Festa Campanile, Dino Risi, Alberto Sordi e Bruno Corbucci. Amori miei (1978) è il primo incontro tra Steno e la Fenech, chiamata a interpretare un ruolo sexy in una commedia d’autore che la vede recitare insieme a Monica Vitti, Johnny Dorelli ed Enrico Maria Salerno. 


Dottor Jekill e gentile signora (1979) è il secondo incontro tra Steno e la Fenech per una commedia fantastica ricca di comicità slap - stick e citazioni letterarie che vede protagonista Paolo Villaggio in una variante bipolare del personaggio fantozziano. Una vera e propria parodia del racconto di Stevenson, classica idea di Castellano e Pipolo, sceneggiata da Steno, Benvenuti, De Bernardi e Manganelli, con trasformazione al contrario - da cattivo a buono - grazie al filtro che dissocia la personalità, conservato in uno scantinato dal vero Mister  Hyde. Il film - se non fosse per poche parti erotiche - sarebbe quasi una commedia fantastica per ragazzi, salvata dalla recitazione di Villaggio e da una Fenech inedita (doppiata da Vittoria Febbi), in un duplice ruolo, non soltanto sexy. 


Marco Giusti sostiene che il film è talmente brutto da superare ogni limite del possibile, quindi è quasi un cult. Il ragionamento è singolare ma non fa una grinza se accettiamo la concezione di cult al negativo. Ricordiamo come esempio di trash le musiche di Armando Trovajoli, che firma la canzonetta Mr. Jekill & Mr. Hyde cantata da un ignoto Mr. Hyde. Il massimo del trash si raggiunge nel finale, quando il dottor Jekill diventato il buonissimo Hyde e, in collaborazione con l’angelica segretaria, diffonde il siero della bontà. Gli operai della fabbrica che produce il siero, ormai angelici, cantano: “Siamo tutti bon/ lavoriamo al progetton” e ancora “Il lavoro nobilita l’uomo”. 


Quando tutti gli uomini del mondo sono diventati angelici vediamo gli scioperi al contrario con gli operai che gridano: “Padroni … padroni … siete troppo buoni!” ed esigono settimana lunga, niente ferie e salari ridotti. Un finale pessimistico, perché i padroni - che si proteggono dagli effetti del siero - non si fanno certo spaventare da un mondo di troppo buoni. Villaggio e Fenech vengono impiegati come giornalisti televisivi dove leggono un telegiornale privo di notizie ma ricco di pubblicità alla sola multinazionale che governa il mondo. 


Non molte le parti sexy, in compenso la Fenech è in gran forma come attrice comica: cambia atteggiamento ed espressione passando da perfida segretaria ad angelica assistente. Paolo Villaggio tenta di andare a letto con lei nei panni del cattivissimo Jekill ma non ci pensa neppure quando si trasforma nel buonissimo Hyde. Gianrico Tedeschi è molto bravo nei panni di un convenzionale maggiordomo inglese, che si chiama Jeeves proprio come il protagonista di una popolare serie comica inglese scritta da P.G. Wodehouse. Gordon Mitchell  (alias Charles Allen Pendleton) è lo scagnozzo Pretorius, un ruolo che si addice alle fattezze da duro dell’attore nordamericano. Il film è girato a Londra, con grande dispendio economico e di energie, molte sequenze sono riprese sul Tamigi, vediamo Buckingham Palace e il Palazzo Reale, il Big Ben e il centro cittadino. Titolo originale: Il dottor Jekill Junior.

Una sequenza del film - la lezione agli studenti


Il mio cinema è su Futuro Europa: 

martedì 24 marzo 2020

Sottozero (1987)

di Gian Luigi Polidoro




Regia: Gian Luigi Polidoro. Soggetto e Sceneggiatura: Rodolfo Sonego. Fotografia. Roberto Forges Davanzati. Montaggio: Raimondo Crociani, Laura Caccianti. Scenografia. Luciano Spadoni, Renato Lori. Costumi: Luciana Marinucci, Roberta Guidi Di Bagno. Trucco: Luciano Giustini. Musiche: Umberto Smaila. Produttore: Claudio Bonivento. Casa di Produzione. Numero Uno Cinematografica, Reteitalia. Interpreti: Jerry Calà (Luigi), Angelo Infanti (Antonio), Antonella Interlenghi (Paola), Annie Papa (Athena). Durata. 93’. Genere: Drammatico.


Luigi (Calà) lavora in una fabbrica del trevigiano, vive con Paola (Interlenghi), moglie depressa, sempre sotto psicofarmaci, sogna di comprare un bar (vede l’insegna sotto casa) e cerca di trovare il modo per guadagnare i soldi che gli servono. Pensa a un finto infortunio sul lavoro, perdere un braccio gli procurerebbe una discreta somma, ma quando sente dire che cercano personale in Norvegia per lavorare su una piattaforma artica, decide di partire. Arrivato sul posto di lavoro, conosce il connazionale Antonio (Infanti) che gli rende sopportabile la permanenza, trova Athena (Papa), una donna con cui ingannare la solitudine, infine comprende diverse cose sul passato del collega che lo riguardano da vicino. 


Paola aveva stipulato una polizza (rivelatasi fasulla) con il presunto amico, pagando il contratto con l’orologio d’oro del marito (ricordo del padre), quindi era andata a letto con lui. Tutte cose che Calà, al ritorno, terrà per sé, pur facendo capire alla moglie di sapere ogni cosa, mostrando il vecchio orologio, decidendo di mettere una pietra sul passato e ricominciare insieme. Un film scritto da Rodolfo Sonego, destinato ad Alberto Sordi, girato in mezzo alle nevi perenni della Norvegia con tecnica a metà strada tra il documentaristico e il televisivo. Jerry Calà è impegnato in un’interpretazione non strettamente comica, non se la cava male, ma il soggetto sembra troppo diluito, al punto che attendiamo il finale sempre dietro l’angolo. 


La fine perfetta sarebbe dopo un grave incidente sulla piattaforma con Antonio che rischia la vita per salvare Luigi; in ospedale pare che l’amico sia morto, fino a quando (con un labiale vaffanculo) fa capire a tutti di averla scampata. Regista e sceneggiatore, purtroppo, vanno avanti imperterriti, allungano un brodo abbastanza insipido, mostrano litigi tra amici, partite a poker (con carte italiane), vincite milionarie e un ritorno a casa con la consapevolezza di un tradimento. 


Troppo lento il montaggio, anonima la fotografia - nonostante i paesaggi stupendi -, monocorde la colonna sonora, sceneggiatura in affanno, il film termina lentamente, tra sbadigli e noia. Un’ambientazione perfetta per un documentario ma i tempi sono più vicini alla necessità di comunicare informazioni che ai ritmi spettacolari. Nel grigiore di un’opera trascurabile, si salvano Calà e Infanti, coppia ben assortita, con qualche battuta d’altri tempi del primo (Per me vanno bene tutti: froci, lesbiche, intellettuali!) e un po’ di romanesco alla Milian/Amendola del secondo. Girato tra Pieve di Soligo (titoli di testa) e la Norvegia (Comune di Alta, contea di Finnmark). Leitmotiv del film: un orologio d’oro da tasca, che è la chiave di tutto.


Gian Luigi Polidoro (Bassano del Grappa, 1928 - Roma, 2000) - allievo di Francesco Pasinetti, diplomato al Centro Sperimentale, grande vecchio del nostro cinema e ottimo documentarista - è alla sua ultima prova d’autore. La costante della sua opera è l’analisi dei comportamenti degli italiani all’estero, cosa che affronta anche in Sottozero, come aveva già fatto ne Il diavolo (interpretato da Alberto Sordi) e ne Le svedesi, sulla differenza tra italiani e svedesi in tema di sesso. I suoi film non strettamente documentaristici (Terra di pastori, Gente della laguna, Festa delle gondole …) stigmatizzano il provincialismo della cultura italiana e approfondiscono argomenti di natura erotica. Tra i lavori di un certo interesse: Una moglie americana (1964), Sadik (episodio di Thrilling, 1965), Una moglie giapponese? (1968), Satyricon (1973), Fischia il sesso (1973), Permette signora che ami vostra figlia? (1973).


Gian Luigi Polidoro

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domenica 22 marzo 2020

Bandidos (1967)


di Massimo Dallamano

Regia: Massimo Dallamano (Max Dillman). Soggetto: Luis L. Moreno, Juan C. Sainz. Sceneggiatura: Romano Migliorini, Giambattista Musetto. Fotografia: Emilio Foriscot. Montaggio: Gianmaria Messeri. Scenografia. Jaime Perez Cubero. Costumi: Carlo Gentili. Trucco: Dante Trani. Produttore Solly V. Bianco. Case di Produzione: Epic Film, Hesperia Films.  Genere: Western. Durata: 91’. Interpreti: Enrico Maria Salerno (Richard Martin), Terry Jenkins (Ricky Shot), Venantino Venantini (Billy Kane), Maria Martin (Betty Starr), Marco Guglielmi (Kramer), Cris Huerta (Vigonza).

Massimo Dallamano (Milano, 1917 - Roma, 1976), frequenta il Centro Sperimentale, debutta come operatore di documentari e direttore della fotografia. Per oltre vent’anni direttore della fotografia, attività nella quale eccelle, dal bianco e nero al colore, senza soluzione di continuità. Passa alla regia a cinquant’anni, dopo aver collaborato ai western di Sergio Leone, nel 1967, con lo pseudonimo di Max Dillman, debuttando con Bandidos. Tra i suoi lavori migliori, tutti nel cinema di genere, ricordiamo l’erotico Le malizie di Venere (1969) con Laura Antonelli, il thriller Cosa avete fatto a Solange? (1972), il sexy Innocenza e turbamento (1974) e il poliziottesco La polizia chiede aiuto (1974). Molto interessanti due pellicole ricche di suggestioni horror come Il Dio chiamato Dorian (1970) e Il medaglione insanguinato - Perché? (1975).

Ci siamo occupati spesso di Massimo Dallamano, nei libri sul cinema horror italiano e nei volumi dedicati alla commedia sexy, ma non avevamo avuto modo di apprezzare Bandidos, il debutto assoluto. Grazie a Cine 34 abbiamo visto questo western violento e crudo (vietato ai minori!), interpretato dal grande Enrico Maria Salerno e da due buoni comprimari come Venantino Venantini e lo sconosciuto americano Terry Jenkins. Un revenge movie - come ben lo definisce Matteo Macini nel fondamentale Spaghetti Western (volume 2) - puro cinema della vendetta in salsa western, ricco di originali soluzioni di regia. Il film, girato in Spagna, prodotto dall’egiziano Solly V. Bianco, scritto da Luis L. Moreno e Juan C. Sainz, narra la voglia di rivalsa di un vecchio pistolero (Salerno) nei confronti di un ex allievo (Venantini) che gli ha distrutto le mani con due colpi di pistola. 

Il vecchio crede di aver trovato in un ragazzo evaso di galera (Jenkins) la persona adatta per compiere la vendetta, per questo motivo lo prende con sé e lo allena nel tiro al bersaglio. La vendetta sarà compiuta, alla fine del film, non come il vecchio avrebbe voluto, perché lui stesso non ne uscirà vivo. Soggetto iberico, sceneggiatura tutta italiana (Romano Migliorini e Giovanbattista Musetto), abbastanza prevedibile, anche se un ispirato Dallamano rende godibile il film grazie a carrelli, panoramiche, soggettive e piani sequenza d’autore. Il vecchio west è descritto come faceva Sergio Leone, tra polvere e vento, sporcizia e cani randagi, assalti al treno e risse da saloon in mezzo a procaci ballerine. 

Molto realistico, anche se i personaggi sono appena tratteggiati (soprattutto il ragazzo e il cattivo), il solo carattere approfondito è quello del vecchio, reso magistralmente da Salerno. Scene piuttosto crude con inquadrature in primo piano degli omicidi, molto sangue che per anni ne ha decretato l’impossibilità di trasmetterlo in televisione, adesso aggirata con qualche rapido taglio. 

Tra le cose migliori: l’assalto al treno con la truce carrellata dei morti, l’uccisione di un bandito nel saloon sotto il quadro di Sardanapalo, il buco nel cappello di un pistolero con la mdp che riprende da una singolare ottica visiva e le originali sequenze del duello finale. Un film ricco di suspense e di tensione narrativa, da vedere non solo per interessi storici ma anche perché invecchiato molto bene. Ottimo debutto alla regia di un nostro grande artigiano.

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mercoledì 11 marzo 2020

Nude sì ma sotto la doccia



Giulio Berruti
Nude sì ma sotto la doccia
La censura e il comune senso del pudore in nome del popolo italiano
Il Foglio Letterario - La Cineteca di Caino
Pag. 305 - Euro 15

Tra i tanti libri di cinema ne consiglio uno scritto da Giulio Berruti - autore de L’albero verde, collaboratore di Corrado Farina per Hanno cambiato faccia e valido documentarista - che scandaglia il mondo della censura nel cinema italiano, compiendo una vera e propria analisi sociologica. Berruti parla di cinema, cita titoli come Vedo nudo, Signore e signori buonanotte, Tre passi nel delirio, La dolce vita, La grande abbuffata, Rogopag, La classe operaia va in Paradiso, La moglie più bella, Zabriskie point … Nel suo racconto parla di dive che hanno avuto vita difficile grazie a solerti censori, attrici come Sylva Koscina, Stefania Sandrelli, persino Gigliola Cinquetti giovanissima cantante e Ornella Muti moglie troppo giovane. Registi contrastati dal potere e dalla censura serva dello stesso potere, gente come Visconti e Pasolini - emarginati pure per motivi di scelta sessuale - ma anche Antonioni e Fellini (La dolce vita fu definita da Scalfaro sul quotidiano cattolico L’Avvenire come La sconcia vita!). Berruti fa capire l’evoluzione del comune sentimento del pudore nel corso degli anni, spiegando come una norma inserita nel codice penale fascista abbia continuato a essere applicata per sequestrare e modificare pellicole pericolose. Se in un film si ironizzava troppo sulle forze dell’ordine tutto veniva ricondotto alla presunta normalità, quando c’erano esposizioni di epidermide eccessive si limitavano, venivano imposti tagli e sforbiciate di sequenze erotiche, spesso soprattutto per le implicazioni religiose e politiche che certe sequenze incriminate comportavano. Un saggio interessante e documentato, con molte foto d’epoca in bianco e nero, che racconta la crescita della società italiana del dopoguerra attraverso il cinema, dal primo neorealismo e i film con Totò (il principe ebbe problemi di censura politica con la sua Carolina) ai grandi autori degli anni Sessanta impegnati politicamente come Fellini, Pasolini e Visconti. Un lungo viaggio muniti di forbici per conoscere tutti i fotogrammi censurati dal cinema italiano, le immagini e le frasi che non potremo più apprezzare. Scritto come un romanzo.

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domenica 8 marzo 2020

Il cinema delle tigri


La commedia a episodi è un genere che ha avuto un periodo di buon successo in Italia ed è stato coltivato dai nostri registi migliori. Tra il 1977 e il 1978 escono due film che sembrano l'uno il sequel dell'altro,  caratterizzati dal nome tigri. Il collante che li unisce sono tre attori - Villaggio, Pozzetto, Montesano - tre vere tigri del grande schermo.


Tre tigri contro tre tigri (1977) è una commedia sexy a episodi di buon livello firmata da Sergio Corbucci e Steno. Il primo episodio è girato da Steno, gli interpreti sono Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni,  Kirsten Gille, Massimo Boldi, Gabriella Giorgelli e Ugo Bologna. Sceneggiano Pozzetto, Ponzoni ed Enrico Vanzina. Pozzetto è un prete cattolico che ospita un pastore anglicano (Ponzoni) e la bella moglie (Gille) con i prevedibili equivoci erotici del caso. In paese si sparge la voce che il parroco si sia portato a letto la bella stangona americana, ma non è vero. In ogni caso i parrocchiani comunisti ci credono, cominciano a stimare il prete e riempiono la chiesa quando celebra messa. Il secondo episodio è girato da Sergio Corbucci, vede tra gli interpreti un’affascinante Dalila Di Lazzaro, Enrico Montesano e Nanni Loy. Molte parti di nudo interpretate dalla Di Lazzaro, finta contessa che abborda un evaso in astinenza come Montesano. Il terzo episodio è ancora di Corbucci, che guida Paolo Villaggio e Anna Mazzamauro in una sceneggiatura firmata Castellano & Pipolo nel consueto personaggio fantozziano. L’episodio firmato da Steno è il migliore, ma tutto il film è una gustosa e divertente commedia.


Il film Tre tigri contro tre tigri di Steno e Sergio Corbucci


Io tigro, tu tigri, egli tigra (1978) è una commedia a episodi girata da  un esperto Giorgio Capitani e da un debuttante di lusso come Renato Pozzetto. Si tratta di un lavoro modesto tenuto insieme da un esile filo di comicità sostenuto dalle trovate degli attori. Una sorta di sequel di Tre tigri contro tre tigri (1977), che aveva avuto un buon successo ed era superiore a livello di comicità. Il primo episodio è il più originale; diretto da Renato Pozzetto, sceneggiato da Enzo Jannacci e Cochi Ponzoni, interpretato da Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni e Angela Luce. La storia racconta le vicissitudini di una coppia che si odia al punto di tentare a più riprese la reciproca eliminazione. Elia (Pozzetto) è il maggiordomo che si accorda con il padrone (Ponzoni) per eliminare la fastidiosa moglie (Luce); si tratta di uno dei pochi casi in cui al cinema si ricostruisce la copia comica televisiva. Il secondo episodio, diretto da Giorgio Capitani, sceneggiato da Castellano e Pipolo, è abbastanza interessante. I protagonisti sono Paolo Villaggio, Nadia Cassini e Ugo Bologna, per raccontare la storia di uno scrittore di fantascienza che viene catturato da una navicella spaziale. 


Nadia Cassini interpreta la moglie dello scrittore che si traveste da regina aliena per soddisfare il marito; da notare che il suo costume è identico a quello indossato nel film di Luigi Cozzi girato nello stesso anno (Starcrash). Quando lo scrittore Paolo Villaggio viene rapito dagli alieni si rende conto che la Regina Nera è un mostro orribile, tra l'altro quando fa ritorno sulla Terra non viene creduto ed è spedito in manicomio. A bordo dell'ambulanza incontra un nuovo extraterrestre mascherato che vuole rapirlo per conto di un altro popolo alieno. Nadia Cassini (al solito) mostra il sedere ben fasciato da collant e perizoma spaziale, ma sta sulla scena pochi minuti e fa appena in tempo a dire qualche battuta sull'impotenza del marito. Marco Giusti su Stracult definisce l'episodio di culto ritenendolo un fondamentale esempio di fantascienza parodistica. Contento lui ...


Il terzo episodio, sempre diretto da Capitani, ma sceneggiato da Italo Terzoli ed Enrico Vaime, vede interpreti Enrico Montesano, Sergio Di Pinto, Walter Valdi, Erika Blanc, Felice Andreasi e Massimo Boldi. Si tratta di una modesta farsa che racconta le disavventure di un bersagliere pasticcione che per comprare le sigarette invade la Svizzera. Erika Blank è la puttana Italia, vecchia compagna di scuola del bersagliere, innamorata persa del suo soldato. I tre episodi sono legati dal solo filo conduttore della presenza dei tre comici, le tre tigri che provengono dal primo film di successo: Pozzetto, Villaggio e Montesano. Il vero collante è commerciale: si tratta di tre interpreti in grado di portare al cinema diverse tipologie di pubblico e di garantire un buon successo al botteghino. Il primo episodio vede la comicità strampalata di Pozzetto, il secondo mette in scena la consueta imbranataggine fantozziana e il terzo (il più fiacco) è un esempio della comicità romanesca di Montesano. Passabile ma resiste al tempo.


Io tigro, tu tigri, egli tigra (trailer)

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venerdì 6 marzo 2020

Ricomincio da tre (1981)


di Massimo Troisi

Regia: Massimo Troisi. Soggetto: Massimo Troisi. Sceneggiatura: Massimo Troisi, Anna Pavignano, Ottavio Jemma, Vincenzo Cerami. Fotografia: Sergio D’Offizi. Montaggio: Antonio Siciliano. Musiche: Pino Daniele. Scenografia e Costumi: Maria Grazia Pera. Durata: 108’. Genere: Commedia. Produttori. Fulvio Lucisano, Mauro Berardi. Interpreti: Massimo Troisi (Gaetano), Fiorenza Marchegiani (Marta), Cloris Brosca (Rosaria, sorella di Gaetano), Lino Troisi (Ugo, padre di Gaetano), Giovanni Febraro (don Ciro), Renato Scarpa (Robertino), Luciano Crovato (Alfredo), Lello Arena (Lello), Marco Messeri (malato mentale), Carmine Faraco (Salvatore), Marchetta Farinelli (Silvia), Vincent Gentile (Frankie), Jeanne Mas (Jeanne), Michele Mirabella (Ferretti), Marina Pagano (zia), Pino Piccolo (Pasqualino), Patrizio Rispo (Patrizio), Giuliano Santi (Umberto), Laura Nucci (signora Ida), Deddi Savagnone (madre di Gaetano), Marta Bifano (Anna), Giuseppe Borrelli (Luciano), Ettore Carlone (Carlone), Giuseppe Piciccio (Maurizio).


Ricomincio da tre è il primo film da regista di Massimo Troisi, scritto insieme ad Anna Pavignano, uscito sull’onda del successo televisivo del gruppo comico La Smorfia. Prima nazionale a Messina con inatteso successo di pubblico che porta interesse in tutta Italia e un cartellone di repliche interminabili finire nelle sale più importanti della penisola. Vince due David di Donatello (miglior film e miglior attore), piace a tutti, sia al pubblico che alla critica, cosa per niente facile, soprattutto nei primi anni Ottanta. Il motivo del successo lo si comprende rivedendo il film quarant’anni dopo, scoprendosi a ridere di battute che si conoscono a memoria, di situazioni note, di monologhi costruiti benissimo sulle doti mimiche di un attore naturale. 


Ricomincio da tre è basato su un soggetto risicato, una storia ai minimi termini che racconta le vicissitudini di Gaetano, ragazzo napoletano che decide di andare a vivere a Firenze in casa della zia. Una volta arrivato nel capoluogo toscano Gaetano si innamora di Marta, una bella infermiera che scrive romanzi e ha una concezione piuttosto libera dell’amore. Il suo amico Lello, importuno e inopportuno, lo raggiunge e vorrebbe essere ospitato da lui che non ha una casa, per tornarsene a Napoli dopo aver dato vita ad alcuni divertenti siparietti comici. Finale sospeso con la famosa battuta del nome da dare al figlio che nascerà - non si sa chi è il padre - e che non dovrà chiamarsi Massimiliano, ma Ugo, tutt’al più Ciro, per motivi di rapidità di rimprovero. 


Film che vive di battute storiche come il dialogo tra Troisi e Arena sulla decisione di ricominciare da zero, con il primo che risponde: Ricomincio da tre, perché tre cose buone in vita mia le ho fatte, perché dovrei ricominciare da zero? San Giorgio a Cremano è il punto di partenza per spiccare il volo, per uscire dalla monotonia del quotidiano, senza essere un emigrante (un napoletano che viaggia dev’essere per forza un emigrante?) ma solo per scoprire il mondo e vedere cosa c’è oltre il solito orizzonte. 


Personaggi azzeccati come Lello (Arena), l’amico ossessivo (spalla perfetta), ma anche Messeri nei panni di un pazzo (Sì, certamente!), Mirabella depresso cronico, la bella Marchegiani fidanzata atipica (la sua carriera si orienterà su televisione e teatro, con poco cinema), Scarpa succube di una madre protettiva, Lino Troisi (nessuna parentela con Massimo, pure se interpreta il padre) che attende il miracolo di una mano da ricrescere, Marina Pagano zia innamorata … 


Un film dove funziona tutto, persino le pause e i momenti fiacchi, perché sembrano messi ad arte, come un piccolo miracolo di sceneggiatura. Fotografia luminosa di Napoli e di Firenze curata da Sergio D’Offizi, montaggio di un esperto Antonio Siciliano, colonna sonora del grande Pino Daniele (sound napoletano), utili consigli di sceneggiatura (non accreditati) di Cerami e Jemma. 


Ricomincio da tre è un film teatrale, fatto di monologhi e battute, che fa a meno della consequenzialità logica e della trama, grazie all’interpretazione di Troisi. Piccolo capolavoro irripetibile.

Una scena del film (Robertino):


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