David
di Donatello a pioggia per Ammore e
malavita
Vince l’originalità dei
Manetti al David di Donatello. Ammore e
malavita si porta via diverse statuette: miglior attrice non protagonista
(Claudia Gerini), colonna sonora (Pio e Aldo De Scalzi), canzone originale
(Bang Bang di Pio e Aldo De Scalzi), costumi (Daniela Salernitano) e
soprattutto miglior film, il premio più ambito. Ripercorriamo brevemente la
carriera dei due registi romani, che nascono dall’underground e che ricordiamo
di aver conosciuto circa vent’anni fa, a Livorno, nel corso di Joe D’Amato
Horror Festival. Originali sin da Consegna
a domicilio, episodio del film collettivo DeGenerazione (1995), interessanti nel graffiante Zora la vampira (2000), nel thriller Piano 17 (2005), seguito dai più anonimi
Cavie (2009) e L’arrivo di Wang (2011), sono autori del primo film italiano in 3 D
con l’angosciante e claustrofobico Paura
(2012). Il successo arriva improvviso con Song’e
Napule (2013) e con la conferma di Ammore
e malavita (2017). Importante la televisione con le serie di successo Ispettore Coliandro, Crimini e Rex 7 e 8, media che li aveva visti debuttare con l’insolito Torino Boys (1997). I Manetti hanno
anche prodotto due horror a basso costo molto interessanti di Gabriele Albanesi
(Il bosco fuori e Ubaldo Terzani Horror Show) e molti
videoclip.
Trionfa Napoli al David
di Donatello, perché Napoli velata
vince come miglior scenografia (Denis Gogturk) e fotografia (Gian Filippo
Corticelli), mentre il regista Giuliano Montaldo è miglior attore non
protagonista per Tutto quello che vuoi
di Francesco Bruni. Donato Carrisi è il miglior regista esordiente (La ragazza nella nebbia), Stefania
Sandrelli vince un David Speciale, Steven Spielberg e Diane Keaton due David alla
Carriera. Grande successo per il musicale - biografico Nico di Susanna Nicchiarelli - che in provincia abbiamo visto
grazie ai Cineclub e alle sale di essai - che vince quattro David: sceneggiatura
originale, trucco (Marco Altieri), acconciature (Daniela Altieri) e suono.
Premi anche per Riccardo va all’inferno
(costumi), Jasmine Trinca (attrice protagonista in Fortunata), Renato Carpentieri (attore protagonista ne La tenerezza) e il giovane Jonas
Carpignano (miglior regia con l’intenso A’
Ciambra). Sicilian Ghost Story
vince per la miglior sceneggiatura non originale. Alfonso Goncalvez prende un
David per il montaggio accurato e rapido di A’
Ciambra, Gatta cenerentola vince
come miglior produzione ed effetti digitali, mentre La lucida follia di Marco Ferreri si prende il David per il miglior
documentario. David Giovani a Francesco Bruni per Tutto quello che vuoi.
Regia: Eriprando
Visconti. Soggetto: Michele Prisco (romanzo omonimo). Sceneggiatura: Fabio
Mauri, Roselyne Seboue, Lisa Morpurgo, Luciano Lucignani, Eriprando Visconti.
Fotografia. Blasco Giurato. Montaggio: Kim ARcalli. Costumi: Clelia Gonzales.
Musiche: Ivan Vandor. Formato: 1.85. Colore. 35 mm.. Durata: 88’. Produzione:
Serena. Interpreti: Marc Porel (Fabrizio Sangermano), Stefano Satta Flores
(Giudice Marinoni), Carole Chauvet (Valeria, moglie di Fabrizio), Flavio Bucci (Vittorio,
l’amico medico), Duilio Del Prete (Marcello, avvocato di famiglia), Claude Jade
(Maria Teresa, moglie di Marcello), Martine Brochard (Lavinia, infermiera e
amante di Vittorio), Eleonora Giorgi (Lidia, fidanzata del Giudice Marinoni),
Corrado Gaipa (il patriarca della famiglia Sangermano), Marina Berti (Costanza
Sangermano), Barbara Piulavin (Madre del Giudice Marinoni), Victoria Zinny
(governante casa Sangermano), Anna Buonaiuto (cameriera), Roberto Posse (Molteni).
(La scheda del film è stata presa da Prandino
– L’altro Visconti di Colombo e Gerosa, Edizioni Il Foglio, 2018).
Una
spirale di nebbia è un thriller psicologico sceneggiato
sulla base del romanzo di Michele Prisco (1966), vincitore del Premio Strega e
basato su una serrata critica alla borghesia partenopea. Eriprando Visconti
legge l’opera dello scrittore, nota affinità con le tematiche che gli sono più
care, ambienta l’azione nella amata Lombardia e il gioco è fatto. Il regista
serve allo spettatore un piatto prelibato a base di crisi coniugali, famiglie
borghesi in disfacimento e netto rifiuto dell’istituzione matrimoniale. Tutti
temi già presenti nello stupendo debutto de Una storia milanese, qui molto stemperati e resi meno chiari da una
sceneggiatura non troppo felice. Non è facile
sintetizzare una trama basata sul racconto di alcune crisi coniugali borghesi,
un vero e proprio romanzo corale impaginato su diversi rapporti che si stanno
consumando su loro stessi per svariati motivi.
Nel corso di una battuta di
caccia, fuori dalla loro residenza di campagna, Fabrizio (Porel) uccide con un
colpo di fucile la moglie Valeria (Chauvet). Non ci sono testimoni, se non
indiretti. Maria Teresa (Jade), cugina di Fabrizio, è convinta che l’uomo sia
innocente. Marcello (Del Prete), avvocato di famiglia, segue il
caso dall’esterno e cerca di modificare il corso giudiziario. Il giudice Marinoni
(Satta Flores) indaga ma trova solo indizi e non certezze. Maria Teresa è
sposata con Marcello, presto scopriamo che il marito è impotente e nonostante
tutto sostiene di aver messo incinta la cameriera e vuole riconoscere il figlio
che la donna ha concepito con l’autista. Il film è sceneggiato in maniera
abbastanza confusa e ruota attorno alle indagini del Giudice Marinoni sul caso
di omicidio (colposo o volontario?), fino al finale aperto, inquietante e
suggestivo, nel quale il mistero resta avvolto da una spirale di nebbia. Visconti non è interessato tanto alla trama e
al successo di pubblico che potrebbe riscuotere un thriller ricco di colpi di
scena.
Non è il suo genere di film. Lo spettatore se ne rende conto dalle sequenze
esplicite di sesso e dai molti (persino troppi) nudi integrali di cui è
costellata la pellicola. Visconti vuol trasgredire, come sua regola, persino
infastidire, descrivere lo squallore di alcuni rapporti matrimoniali per
puntare il dito accusatore su un istituto che ritiene inutile e superato. Un
film mai così moderno come di questi tempi in cui il matrimonio è diventato uno
stupido gioco al massacro senza alcuna importanza di sacramento o di impegno
civile per costituire una famiglia. Visconti racconta famiglie disgregate,
mariti impotenti, compagni masochisti, mogli sadiche, fidanzate moderne che non
vogliono sposarsi, amanti delusi, rapporti rubati fuori dalle mura domestiche,
uomini vigliacchi e bugiardi. La borghesia è sul banco degli imputati, i
rapporti matrimoniali vengono fustigati come la tomba di un amore che si stempera
sempre più e finisce nel niente, in una
spirale di nebbia, appunto. E non è importante che quel colpo di fucile che
uccide Valeria sia stato sparato volontariamente – come pare – da Fabrizio,
quel che conta è che ha posto la parola fine a un rapporto che sarebbe dovuto terminare
molto tempo prima.
Attori bravi, dai francesi Porel, protagonista indiscusso, e
Chauvet, fino agli italiani Satta Flores e Giorgi (in un ruolo breve ma inteso
da fidanzata moderna del giudice), passando per Jade e Brochard, fino a un
insolito Del Prete. Ottima l’ambientazione milanese, tra brughiere e nebbia, in
una campagna ben fotografata nei suoi acquitrini fangosi e alberi resi spogli dal
gelo autunnale. Buone le parti teatrali e i dialoghi, anche se il film tarda a
mettersi in moto e risente di una partenza troppo lenta, resa ostica da un incedere per flashback. La tecnica di Visconti è ai massimi livelli, l’uso
continuo – persino eccessivo – del piano sequenza è il marchio del grande
regista che porta la macchina presa a indagare nelle camere borghesi dove si consumano
torbidi amori.
Il clima del film è malsano, grazie a personaggi sgradevoli che
mettono in luce tare ereditarie e realistici difetti umani. Il sesso esibito
non è mai gioioso e liberatorio alla Tinto Brass, ma cupo e angoscioso alla
Cavallone, dispensato a piene mani con voglia di trasgredire e di stupire, per
far assegnare al film un divieto ai minori che limita la presenza del pubblico. Una spirale di nebbia non è un film
facile, non va bene per tutti i palati e non è l’ideale per passare una serata
spensierata. Necessita di essere storicizzato, per una buona comprensione va calato nella
realtà italiana di fine anni Settanta, ma risulta più che mai moderno e attuale.
Regia: Eriprando
Visconti. Soggetto e Sceneggiatura: Roberto Gandus, Eriprando Visconti.
Fotografia: Luigi Kuveiller. Musiche: Aldo Savi. Montaggio: Nino Baragli.
Costumi: Celia Gonzales. Scenografie: Gian Maurizio Fercioni. Formato: 1.85.
Colore. 35 mm. Genere: Drammatico, Storico. Durata: 90’. Produzione: Luciano De
Feo per Arcana e D.A.C.. Interpreti: Nathalie Nell (Maria, la prostituta),
Jimmy Briscoe (Marcello, il nano), Antonio Marsina (Cesare), Remo Girone (Il
Monco), Serena Grandi (prostituta), Leonardo Treviglio (Il cieco),
ElizabethKaza (Leni, la maitresse), Leopoldo Trieste (amministratore), Cesare
Barbetti (padre di Marcello), Monica Scattini (prostituta), David Brandon
(maggiore Banfield), Linda Spriggs (prostituta nana), Fiorella Molinari
(prostituta), Cinzia Cavalieri (prostituta), Renata Zamengo (cameriera).
Per
lui tutto era troppo grande, anche l’amore, recita la
frase di lancio che campeggia sui flani e nei ritagli di stampa. L’ultima
pellicola di Eriprando Visconti è troppo introspettiva e viscontiana per convincere una critica ingessata e un pubblico che
attende una nuova trasgressione come ai tempi de La orca. Il paragone inevitabile tra Malamore e Gruppo di
famiglia in un interno (1974) fa uscire sconfitto il meno famoso nipote,
portando in trionfo l’eroe proustiano di Luchino, quel Burt Lancaster che odia
la modernità e si rifugia in un mondo composto da antiche certezze.
L’interpretazione più lucida di Malamore
la dobbiamo a Corrado Colombo - profondo conoscitore dell’opera del Maestro -
che pone l’accento sulla metafora del nano vista come fallimento esistenziale e
il profondo disagio di accettare se stessi. La storia è molto piccola, ma
profonda e ben sceneggiata, anche se spesso rischia di arrotolarsi su se stessa
e di ripetere concetti già espressi. Tutto ruota attorno a un’idea forte e
originale, trasgressiva come gran parte del cinema di Visconti: il racconto
dell’amore impossibile tra un nano e una puttana. La meschinità è la nota
dominante di una pellicola dove tutti sfruttano gli altri e stanno insieme
soltanto per bisogno e interesse. In un quadro di malaffare la sola ad avere un
briciolo di cuore è la puttana che finisce per sacrificare la sua vita a un
malinteso amore nei confronti del nano, che salva da morte sicura. Il nano
resta solo con la sua bella ridotta a un essere che nessuno vuole, proprio come
lui, che ha perso la madre nel giorno del concepimento e il padre in un
incidente di guerra.
Malamore è
costellato di personaggi squallidi e senza scrupoli, da una laida maitresse
(Kaza) che approfitta di un cieco per fare l’amore, a un monco (Girone) che
progetta la morte del nano, all’amante diabolico (Marsina) che sfrutta la
prostituta per interesse, fino al nano che ottiene quel che vuole per mezzo del
denaro. Il senso profondo del film sta tutto in un dialogo tra il nano e la
puttana: Potresti innamorarti di un nano?,
E tu ti metteresti con una puttana?. Interpreti
ben calati nei ruoli, da Briscoe e Nell, fino a Marsina e Girone, passando per
Kaza e un poco utilizzato Trieste, persino per Scattini e Grandi, credibili
come prostitute d’epoca. Malamore è
una storia che dà risposte certe a interrogativi impossibili, un melodramma
debitore per atmosfere al cinema di Matarazzo e per profondità introspettiva a
Luchino Visconti. Puro cinema storico e di sentimenti, ambientato benissimo ai
tempi della Prima Guerra Mondiale, con gli austriaci invasori che bombardano,
fucilano traditori e disertori, in una villa dell’Oltrepo Pavese, residenza di Visconti
da sfollato.
Tecnica di regia ai massimi livelli, perfetta per illuminare le zone d’ombre della vita (Colombo), che mette in
risalto i tempi morti e un montaggio compassato, accompagnato da una fotografia
morbida e avvolgente. Il pessimismo è la nota dominante del film, costante
psicologica che accompagna la vita del regista, ma non per questo la messa in
scena è meno imponente, la ricostruzione di un bordello d’epoca è perfetta nei
minimi particolari e i costumi sono molto viscontiani.
Malamore è impaginato con passione e
senza risparmio, molto teatrale, ricco di dialoghi letterari costruiti da
Gandus e Visconti, arricchito da carrellate e panoramiche, primi piani
e soggettive, intensi piani sequenza. Cinema d’autore realizzato con un budget
modesto che apprezzano in pochi - le eccezioni critiche sono tutte datate anni
Novanta - oltre a non riscuotere l’interesse del pubblico. Testamento
spirituale di Eriprando Visconti, che dopo questo plateale insuccesso non farà
più cinema, lasciandoci la sua metafora terminale di un amore vissuto fuori sintonia
con la vita. Da riscoprire.
Regia: Eriprando
Visconti. Soggetto e Sceneggiatura: Eriprando Visconti, Gian Piero Bona (dalla
biografia di Mario Mazzucchelli). Fotografia: Luigi Kuveiller. Montaggio:
Sergio Montanari. Scenografie: Flavio Mogherini. Costumi: Danilo Donati.
Arredamento: Ennio Michettoni. Musiche: Ennio Morricone. Direzione Musiche:
Bruno Nicolai. Produttore: Silvio Clementelli. Casa di Produzione: Clesi
Cinematografica. Distribuzione: Euro International. Durata: 105’. Genere: Drammatico.
Interpreti: Anne Heywood (Virginia), Antonio Sabàto (Giampaolo), Tino Carraro
(monsignor Barca), Hardy Krüger (don Paolo), Luigi Pistilli (conte de Fuentes),
Carla Gravina (Caterina), Margarita Lozano (suor Benedetta), Caterina Boratto
(suor Francesca), Giovanna Galletti (suor Angela), Renzo Giovanpietro
(Vicario), Anna Maria Alegiani (suor Ottavia), Francesco Carnelutti
(cantastorie), Maria Michi (suor Bianca), Giulio Donnini (Molteno), Rita
Calderoni (suor Giovanna), Laura Belli (suor Candida), Pier Paolo Capponi
(conte Taverna).
La
monaca di Monza è una storia a tutti nota per merito di
Alessandro Manzoni che narra le sue infelici vicende amorose ne I Promessi Sposi, per mezzo di Lucia ospite
del convento lombardo dove la religiosa è reclusa. Eriprando Visconti si occupa
di una storia lombarda del XVII
secolo, romanzandola soltanto un poco e sceneggiandola dalla parte della donna,
mettendo al centro del cupo dramma erotico una figura femminile tratteggiata
con cura e approfondita nei minimi particolari. Virginia De Leyva (Heywood ) è la
madre superiora di un convento di suore a Monza, dove è stata inserita per
volontà del padre (finanziatore della struttura). Un giorno viene convinta da
don Paolo Arrigoni (Krüger) a ospitare Giampaolo Osio (Sabàto), un donnaiolo
impenitente ricercato dagli spagnoli per aver ucciso un cavaliere del re. Tra i
due nasce l’amore, dopo uno stupro iniziale avvenuto con la complicità di altre
suore e pure se il giovane non si limita a frequentare la madre superiora ma
concede a molte suore le sue attenzioni. Virginia denuncia Giampaolo e lo fa
arrestare, ma quando scopre di essere incita e partorisce una bambina riesce a
favorire la sua evasione e per un certo periodo di tempo diviene la sua amante.
Finale abbastanza noto e triste, con la Chiesa cattolica che si difende dallo
scandalo imbastendo un processo farsa a base di orrende torture per estorcere
confessioni di ogni tipo. Giampaolo viene ucciso, la monaca è reclusa in un
convento di clausura, murata con mattoni e calce mentre a tutto schermo compare
la parola Fine.
Eriprando Visconti non
si è mai allontanato dalla sua Lombardia nei temi affrontati, tanto che al
secondo film - sette anni dopo Una
storia milanese (1962) - scrive una
storia lombarda (sottotitolo), preoccupandosi di salvare la reputazione di
Virginia De Leyva, presentata non solo come vittima ma anche come donna
coraggiosa e innamorata, capace di affrontare la Santa Inquisizione, costretta
a cedere solo dopo aver subito efferate torture. Un film d’autore che non ha
niente a che vedere con film derivativi ascrivibili al filone tonaca movie, così come La vera storia della monaca di Monza
(1980) di Bruno Mattei, sceneggiato da Bruno Fragasso, è soltanto un remake spinto ed eccessivo a base di
erotismo e torture. Eriprando Visconti
sceneggia molto bene - insieme a Gian Piero Bona - la biografia di
Mazzucchelli, ne fa un dramma passionale e intenso, una storia d’amore atipica,
ma anche un atto d’accusa nei confronti della corruzione delle gerarchie
ecclesiastiche del tempo. Un film ingiustamente relegato tra le opere minori di
un regista, che è stato oggetto di recente rivalutazione critica da Corrado
Colombo e Mario Gerosa nel documentato e indispensabile Prandino - L’altro Visconti (Il Foglio, 2018).
Un cast tecnico
perfetto, a partire dal regista che non sbaglia un’inquadratura, tra campi e
controcampi teatrali in interni conventuali e ottime soggettive, ma anche
panoramiche e carrelli esterni nelle campagne lombarde. Fotografia cupa e dai
toni smorzati di Kuveiller, colonna sonora intensa e drammatica di Morricone -
Nicolai, montaggio rapido di Montanari, scenografie perfette di Mogherini. Cast
eccellente, a partire dall’interprete principale, l’inglese Anne Heywood, ex
Miss Gran Bretagna, attiva nel poliziesco all’italiana, nel peplum e nella
commedia erotica. Antonio Sabàto - noto per molto cinema di genere - è la sua
spalla maschile, meno profondo della protagonista, perfetto per la parte da
conquistatore avventuriero, uno spaccone amato dalle donne. Ricordiamo un’interessante
Carla Gravina, una giovanissima Rita Calderoni, ma non sono da meno Laura
Belli, Luigi Pistilli e Pier Paolo Capponi (attore caro a Fernando di Leo che ci
ha lasciato il 18 febbraio del 2018).
Eriprando Visconti
mostra nel film tutto il suo stile, a metà strada tra il cinema d’autore e la
ricerca di un eccesso che scandalizza e stupisce, ma che diventa un tratto
rilevante e significativo della sua opera. La figura della donna sarà sempre al
centro del cinema di Visconti, bravissimo nel tratteggiare personaggi femminili,
così come gli uomini sono spesso relegati ai margini della storia, meri strumenti,
dipinti con tratti più caricaturali.