di Guillermo Cabrera Infante
da Cine o sardina (Santillana - Spagna, 1997)
Nessuno piange più Marilyn Monroe, eccetto forse Joe Di Maggio, ma tutti la evochiamo, come la luna di ieri. Oggi la guardiamo e la ammiriamo, la ammireremo sempre nel vederla al cinema, unica e diversa, come la prima volta. La osserviamo ostentare una splendida volgarità mentre cammina per strada nel Niagara, tutta curve: carne così mobile sopra cui si poteva sentir fremere la pelle sotto la tela aderente. Una volta l’applaudimmo, molte altre volte la applaudiremo, vedendola uscire, mentre scende e fa vibrare l’altissima scalinata al neon, una bionda tutta gambe, ne Gli uomini preferiscono le bionde: cento amanti, cento diamanti e una ragazza che è un gioiello. Dovremo proteggerla e la proteggeremo nella sua perversa innocenza carnale di Fermata d’autobus. Cercheremo di accoglierla con la paternità incestuosa di Clark Gable ne Gli spostati. Ma in realtà siamo in grado di sfruttare solo la sua visione di giovane animale, implorante e devastatrice (“Do I have to go, Uncle Leon?”) della bella ragazza che resta sola, Cappuccetto tra i lupi, con lo stanco occhio senile del sesso: siamo come il veterano Louis Calhern in Giungla d’asfalto. Sono suoi gli oscuri occhi del voyeur condannato a scrutare in eterno quel radioso oggetto del desiderio. Quello è lo sguardo di impotente sociale di Alonzo Emmerich, che ancora desidera la ragazza bionda che scomparirà per sempre davanti ai suoi occhi, come il resto che si spegne: il mondo concepito come una lanterna sordida che fu una lanterna magica, quella è la visione dello spettatore cinematografico. Vostra e mia, di noi voyeurs di un tempo che ancora siamo gli stessi guardoni: quella donna è nata solo per i nostri occhi.
Marilyn Monroe fu e sarà sempre per tutti soltanto un’ombra. Adesso si tratta di spiegare il fascino, ossessivo e ricorrente come la luna, di quell’ombra, di quelle ombre o di una sola ombra pallida che dura più di un quarto di secolo nelle reticenti retine e la sua perenne manifestazione tra noi che siamo i suoi medium. Quella presenza sovrumana, che va oltre la morte e l’oblio, è il mito manifesto che adesso chiamiamo Marilyn Monroe.
La donna - la tenue apparenza dietro la presenza potente dell’ombra - nacque e morì come poche stelle nel cinema americano: in pieno Hollywood. Il mito sorse, come tutti i miti, ovunque, ma contemporaneamente: tutti preferivano quella bionda. La sua esatta geometria ha la forma del circolo magico: la sua circonferenza è ovunque e il suo centro in nessun luogo. Nell’antichità, quando accadeva questo fenomeno unico l’apparizione era una dea, o un dio. (Ma, realmente Marilyn Monroe, per mortificare Unamuno, era tutto meno che un uomo). Nel Medio Evo questa manifestazione sarebbe quella della Vergine, anche se è ridicolo pensare a una Marilyn Monroe vergine. Non potrebbe essere neppure, come Greta Garbo, una sorta di vestale vegetariana. Marilyn Monroe, come Afrodite, è l’apogeo dell’amore: nata dall’amore, per l’amore. Come era possibile pagare per quell’amore vicario (lo è ancora, sebbene adesso sia più caro: i biglietti costano ovunque uno sproposito) lei era soltanto una hetaira prodigiosa, come una Cleopatra bionda, per esempio. Vale a dire, una semplice prostituta. Marilyn Monroe, bisogna dirlo chiaro, era una puttana, puttana platonica, femmina cosmica. Lei era la rappresentazione virtuale della donna nata per il vizio e per la virtù dell’amore. Venere non era da meno. Marilyn non fu la donna che inventò l’amore, ma sembrava aver preso molto presto la patente. Chi non è stato innamorato di Marilyn Monroe o di una delle sue riproduzioni umide di acqua ossigenata?
Non voglio stare a parlare delle ultime rivelazioni sulla vita luminosa e sordida di Marilyn Monroe, la donna, come ha fatto Norman Mailer nel suo disonesto e ben noto omaggio pubblico. Cosa importa adesso se lei si suicidò o se la fece uccidere Robert Kennedy per conto del fratello Jack perché non rovinasse la futura carriera politica di Ted, il terzo Kennedy? Non m’interessa neppure parlare dei documenti genuini che riguardano la fanciullezza infelice, la pubertà precoce e la gioventù rovinata di Norma Jean Baker o Mortesen o come altro si chiamava. Che c’importa di sapere se sua madre morì pazza? O se da bambina Normita fu violentata da un ospite brutale o esperto? O se da donna immatura dovette affrontare umilianti compromessi sessuali per sopravvivere, fare carriera e diventare famosa? Sono gli inconvenienti del mestiere di attricetta con più tette che talento. Non m’interessa sapere se Norma Jean, Marilyn per sempre e per tutta l’eternità (nessuno ricorda di certo le altre Marilyns del cinema: Marilyn Maxwell o la stessa Marilyn Miller, alla quale deve il suo nome, e neppure la gloriosa Kim Novak che si chiamava proprio Marilyn Novak), la Marilyn per antonomasia, ingegnosa e cinica, appena vide la stella affissa alla porta del camerino a indicare che era una movie star, pronunciò davvero la sua promessa d’amore: “Adesso lo farò solo con chi mi piace”. Lei, meretrice, aveva praticato la fellatio per la causa del trionfo, ma quella era un’altra donna e l’oltraggio si verificò in un altro mondo, tra le nebbie, dietro lo schermo. Inoltre quella femmina è morta, come ben disse Kit Marlowe quasi quattrocento anni fa, parlando di una donna ben diversa. Sì, è vero che Marilyn, la creatura carnale, è morta. Ma pare una finzione, perché sembra così viva: nessuno può dire che di lei non resta niente, tranne un certo numero di pellicole e molte foto: poche donne della storia sono state così tanto fotografate. Inoltre, chiaro, resta il ricordo. Tutti hanno un ricordo ricorrente di Marilyn Monroe. Solo le sue iniziali sono la doppia entrata al cinema della sua memoria.
In ogni caso, Sam Shaw - fotografo, produttore di pellicole e presentatore di attori - conserva ricordi precisi di Marilyn Monroe che risultano vaghi di fronte alle sue foto precise. Camminando per Manhattan, vicino al Central Park, a inizio estate, Sam mi disse: “In una di queste panchine feci alcune foto a Marilyn. Era estate. Marilyn era sin troppo vestita se la paragoniamo a come vestono le donne adesso, ma per quel periodo storico era nuda. Una volta Marilyn si presentò con una pelliccia di visone. Era imprevedibile. Era estate e il calore era soffocante. Quando le chiesi come potesse portare quel cappotto così pesante, lei lo aprì. Sotto non aveva niente. Ma proprio niente! Era il suo scherzo preferito. Quello stesso giorno delle foto nel parco portava un semplice vestito senza niente sotto. Non usò mai le mutandine. Quella sera camminò per il parco, sedette in una panchina, lesse o fece finta di leggere il quotidiano. Sedette un poco insieme a due fidanzati e io le feci alcune foto, proprio lì, accanto alla coppia. Nessuno dei due la riconobbe! Credo che non la guardarono neppure, ed era ai massimi livelli sia come stella che come donna. La Marilyn della vita quotidiana era timida, inibita, sembrava un’altra persona. Era la sua immagine cinematografica, fotografica, che la faceva diventare grande, potente, enorme. Come dice Howard Hawks, la macchina da presa si innamorava di lei e - grazie alla macchina da presa - ci innamoravamo anche tutti noi. Quella era la sua magia”.
Marilyn, da viva, non emanava un buon profumo. Era lo schermo a trasformarla nel profumo di un’immagine, nell’aria del cinema, in una zona aurea. Tutti scattammo foto di lei con la nostra Zeitgeist, di Seiss-Ikon. Il ricordo di Tony Curtis, antico corteggiatore, è ben diverso e per niente deferente, anzi è irriverente. I due recitarono insieme alcune torride scene d’amore in una Miami fasulla in A qualcuno piace caldo: lei era quasi nuda, lui portava occhiali che nascondevano la simulata passione. “Come fu il bacio di Marilyn?”, chiesero a Tony Curtis. “Come un bacio di Hitler, ma senza baffi”, confessò Curtis che è ebreo. “Inoltre non usava deodorante”. Proprio come Hitler.
Verso la fine della sua carriera - come dire, della sua vita - Marilyn diventò un’attrice grossolana e approssimativa. Forse era soltanto indifferente. Nella scena con Curtis, durante la quale lui la fa innamorare mentre mordicchia una magra coscia di pollo, lei non doveva pronunciare più di una o due battute. Ma sbagliava sempre, come se lo facesse di proposito. Il regista dovette far ripetere la scena ben 27 volte per colpa di Marilyn e Tony Curtis si vide obbligato a mangiare altrettante cosce di pollo fritto. Alla fine lui non avrebbe voluto darle morsi d’amore ma di rabbia. Curtis non fu cortese, ma Billy Wilder, il regista, fu tagliente: “Lei costa molto ed è poco professionale, questa è la realtà. Tutti pagano per vedere Marilyn vestita, ma chi pagherebbe per vedere mia nonna in biancheria intima?”.
Wilder creò l’immagine più memorabile di Marilyn Monroe in movimento. Si tratta di quella sequenza in cui lei cammina per una finta strada di Manhattan e da una graticola del marciapiede un Eolo malizioso e sollecito soffia verso l’alto una raffica di aria calda, che solleva la sua gonna e mostra i suoi polpacci pallidi per rivelare le sue cosce aperte fino alle pudiche mutandine intonse, bianche come le sue gambe perfette. Quella visione è immortale: è identica alla ricostruzione ideale che fece Botticelli della nascita di Venere nel mar Egeo: Marilyn è un’Afrodite urbana che adesso sorge dalla confusione del subway.
Poco tempo fa una giovane pellicola francese (Wilder potrebbe essere il nonno del regista e di quasi tutti gli attori) intitolata Diva, faceva camminare gratuitamente per una Parigi irreale una bionda irreale, quando l’aria della metropolitana le sollevava la gonna fino ai fianchi, in un colpo di nostalgia che non fa venir meno la citazione. All’altro lato dell’Atlantico il pubblico di un cinema di Manhattan, neofiti più che cinefili, rise di gusto. Il fatto era che avevano riconosciuto l’omaggio francese alla Venere americana. Lo stesso Wilder, in quella sua ultima commedia realizzata insieme, A qualcuno piace caldo, dava una sculacciata metaforica a Marilyn e al tempo stesso strizzava l’occhio allo spettatore complice. Si tratta di quella scena in cui una Monroe molto graziosa, interpreta una musicista che suona male il suo ukulele mentre a lei si potrebbe suonare bene tutto, cammina bella e ingenua lungo la banchina simulata verso la macchina da presa. La sua distrazione è totale: come se fosse la stessa ragazza miope di Come sposare un milionario, quella biondina che senza lenti inciampava nella sua ombra. Adesso la splendida creatura bionda avanza verso di noi, il pubblico, ancora innocente. Passa vicino al treno e dai vagoni escono due sbuffi di vapore, uno per ogni natica morbida, con un fischiare intenso di freni. Lei sussulta spaventata e dopo continua il suo cammino, ma il suo culo non sfuggì a migliaia di occhi sorpresi.
In ogni caso nessun omaggio è migliore del ricordo: ricordare MM quando M morta era M viva. Quel ricordo, quel tesoro, questo privilegio, appartengono a G. Caín (pseudonimo di Cabrera Infante critico di cinema e sceneggiatore, ndt), quel fanatico furibondo che aveva nel suo studio tre foto, dico tre: Marilyn nuda nel ben noto calendario, tutta tette e cosce morbide. Marilyn vestita in A qualcuno piace caldo (come dire, peggio che nuda: quasi vestita e con tette grandi), Marilyn foderata di pelle, come piaceva a Caín, discepolo di Sacher-Masoch, masochista memorabile: Venere di cuoio. Quel Caín, che al contrario di Sam Shaw non conobbe mai Marilyn, che mai soffrì per averla baciata come Tony Curtis, che, proprio come Mailer, non riuscì a rendersi conto che la stella era morta, ma che fu sempre consapevole di cosa rappresentasse da viva - un mito del secolo -, quel Caín, atroce alter ego, scrisse nel 1961 un elogio per niente funebre (non c’era motivo di essere a lutto: Marilyn non era ancora morta). Ma la lode si trasformò in un problema e il cronista fu rapito dal labirinto delle sue ossessioni: Marilyn divenne un’incarnazione della fatale dea bionda pagana che nacque con Elena per perdere Paride, farsi beffe del marito Menelao e distruggere Troia. Secondo Caín, il mito, già cristiano, diventa la Isotta del Medio Evo, tutta filtri e musica di Wagner. Nella leggenda rinascimentale del dottor Faust, è il fantasma della Elena bionda, che fa supplicare all’alchimista moribondo di essere reso immortale con un bacio, come nel finale felice di una pellicola qualsiasi. E con il cinema ritorna la dea bionda (per certo, da Jean Harlow a Kim Novak, tutte furono false bionde: solo Ginger Roger era bionda reale, biondi i suoi capelli, bionda la sua peluria) o la donna bionda come ideale erotico e segno fatidico che si trasforma in un simbolo, Marlene Dietrich, per esempio. Quella incarnazione ebbe il suo culmine proprio in Marilyn Monroe. Dopo di lei il diluvio di bionde bagnate dalla pioggia del tempo e dalla moda (una sfilata di facsimili: Beverly Michaels, Cleo Moore, Joy Lansing, Barbara Nichols, Jane Mansfield, Mamie Van Doren, e con un salto atlantico, Diana Dors e Anita Ekberg, e ancora molte altre che la memoria umana non può ricordare), tutte bambole di paglia, come Bernandette Peters, bambolina di New York: capelli tinti, occhi rotondi, bocca rotonda, mascella volitiva, e quella Mae West di campagna che è Dolly Parton, nana pneumatica che minaccia di sgonfiarsi con il suo canto, non con il suo incanto, i suoi seni come un busto di gomma che perde aria.
Adesso, a quasi mezzo secolo dalla sua morte, si sa che l’elogio di Caín fu come un hybris: dopo quella vetta tutto sarebbe stato decadenza. Marilyn Monroe, bisogna ammetterlo senza problemi, è il vertice, la punta dell’iceberg nordico, l’Everest mitico che bisogna scalare (osservando le sue foto in bianco e nero, a colori, in tutte le sue pellicole e in televisione). MM non è il suo breve epitaffio ma una chiave: Marilyn è l’ultima bionda radiosa, ma anche la bionda eterna, l’immortale, il mito della donna bionda, la dea bianca, la luna che nasce, che rinasce e che in lei stessa modifica ogni visione.
Traduzione di Gordiano Lupi
L'autore del pezzo:
Guillermo Cabrera Infante, in arte (quando parlava e scriveva di cinema) G. Caín