mercoledì 23 luglio 2014

Il poliziotto è marcio (1974)

di Fernando di Leo

Il poliziotto è marcio (1974) è sceneggiato da Fernando di Leo su soggetto di Sergio Donati. La fotografia è del solito Franco Villa e il montaggio del fido Amedeo Giomini. Le musiche sono del collaudato Luis Enriquez Bacalov e le scenografie di Francesco Cuppini. Producono Galliano Juso e Ettore Rosboch per Cinemaster/Mount Street Film (Roma) e Mara Film (Parigi). Distribuisce un colosso come Titanus. Interpreti: Luc Merenda, Richard Conte, Delia Boccardo, Raymond Pellegrin, Salvo Randone, Gianni Santuccio, Vittorio Caprioli, Rosario Borrelli, Monica Monet, Gino Milli, Elio Zamuto, Loris Bazzocchi, Marcello Di Falco, Massimo Sarchielli, Marisa Traversi e Sergio Ammirata.


   Il protagonista è il giovane poliziotto Malacarne (nome che è tutto un programma) della questura di Milano, che da tempo riceve mazzette dai boss Mazzari e Pascal attivi nel contrabbando di sigarette e caffè. Il regista presenta subito alcune scene crude e realistiche che documentano scontri tra malavitosi per il predominio nel mercato della droga. Il boss Pascal scatena i suoi uomini e ordina di uccidere i rivali con bastonate e colpi di mitragliatrice, fino a eseguire una vera e propria strage in un capannone. Entra in gioco il commissario e alcune scene di azione documentano il suo impegno per sconfiggere il traffico di droga. Assistiamo a una fuga di criminali, un ottimo inseguimento da poliziottesco classico e infine a un’eroica cattura eseguita da Malacarne. L’incipit è da cinema poliziesco, sono degni di nota gli inseguimenti per le strade di Milano e sui navigli, a base di frenate, sterzate, collisioni, auto affiancate e speronate. Malacarne è un uomo nelle mani della mafia, pure se viene presentato come un eroe quando cattura due sudamericani coinvolti in un traffico d’armi. Ha un’amante, una casa bellissima e conduce una vita agiata grazie ai soldi della malavita. Vittorio Caprioli interpreta un meridionale stizzoso e polemico che presenta al comando dei carabinieri una denuncia pericolosa, ma non se ne rende conto. Un’auto si è fermata sotto la sua abitazione, bloccando la via d’uscita e alcune persone sono scese provocando schiamazzi. Purtroppo non si sono limitati a questo ma hanno anche ucciso un ragazzo di famiglia nobile, una cosa che il meridionale non può sapere. Pascal e Mazzari chiedono a Malacarne di far scomparire la denuncia che potrebbe smascherare gli assassini. Il poliziotto entra in crisi e comprende che il giro si sta allargando, soprattutto non vuole saperne di aiutare la mala se entrano in ballo armi e droga. “Sono sempre stato pagato per favorire un traffico di caffè e sigarette” dice. “I tempi cambiano e anche i soldi che ti diamo sono aumentati…” risponde Pascal. Malacarne si trova coinvolto in una brutta storia. Intanto ci rendiamo conto che anche il luogotenente Garrito è corrotto, perché incassa la sua parte dal commissario che gli intima di vendere il suo Ferrari, perché può far scoprire il gioco. Malacarne deve far scomparire la denuncia che inchioda i colpevoli, un atto protocollato proprio da suo padre, maresciallo dei carabinieri vecchio stampo dotato di grande senso morale. Il contrasto tra la fedeltà al dovere del padre e l’immoralità del figlio occupa la parte centrale della pellicola, ma alla fine il carabiniere decide di consegnare la denuncia perchè venga distrutta. “Non ti far più vedere a casa mia” intima.  Malacarne si mostra esitante, dubbioso, capisce di aver commesso un gesto pericoloso e che adesso non si limita a coprire due contrabbandieri. Al tempo stesso, però, i due boss non si fidano più e decidono di passare all’azione nei suoi confronti, dopo aver fatto fuori il vecchio napoletano che aveva inoltrato la denuncia. Pascal fa uccidere prima il padre di Malacarne e subito dopo la sua amante, scatenando la reazione del poliziotto che si trasforma in una belva. Il leitmotiv è tipico del cinema dileiano e ricorda la trama de La mala ordina. Malacarne uccide alcuni gregari di Pascal, poi fa fuori anche il boss con l’approvazione di Mazzari, durante una riunione organizzata per fingere una riappacificazione. Il finale non è per niente consolatorio e anche il poliziotto corrotto viene ucciso dal luogotenente Garrito, che prenderà il suo posto agli ordini del boss Mazzari.  “Mi dispiace, commissario” dice. Un colpo alla nuca esplode sulla parola fine e un ralenti interminabile mostra il dolore misto a sorpresa del commissario.


   Il poliziotto è marcio è il titolo italiano del romanzo Rogue Cop di William P. McGivern (1954), dal quale deriva il film Senza scampo di Roy Rowland (1954). Di Leo prende soprattutto il titolo del romanzo ma alcuni spunti ispirano lui e Sergio Donati per la costruzione della trama. Rogue Cop racconta la storia di due fratelli poliziotti, uno corrotto e l’altro onesto, che entrano in conflitto quando si tratta di identificare l’autore di un omicidio. Il poliziotto corrotto è sul libro paga di un boss della malavita e cerca di impedire che il fratello risolva il caso. Di Leo non si discosta molto da questo canovaccio e racconta il contrasto tra padre e figlio, il primo integerrimo maresciallo dei carabinieri e il secondo corrotto commissario di pubblica sicurezza al servizio di due boss. Il film arriva nelle sale subito dopo Il boss ed è abbastanza in sintonia con le tematiche e la filosofia del lavoro precedente. Non ci sono personaggi positivi - a parte il padre maresciallo - e anche qui troviamo un poliziotto corrotto interpretato da Luc Merenda, anche se meno evidente del Torri/Garko che abbiamo apprezzato ne Il boss


Le prime sequenze mostrano Malacarne come un poliziotto modello, una sorta di eroe che arresta banditi e si fa onore senza pretendere attenzione da parte dei giornalisti. Il poliziotto sembra un disinteressato tutore dell’ordine che non pensa alla carriera ma solo alla tutela del cittadino. In un secondo tempo apprendiamo che è soltanto un uomo corrotto che recita una parte, pagato per coprire la malavita e loschi traffici di caffè e sigarette. Il fatto che si lasci corrompere solo per il contrabbando di merce innocua e non accetti di collaborare per droga e armi lo rende appena più simpatico, ma la corruzione resta. Il poliziotto dileiano è lontano mille miglia da quello esemplare del poliziottesco classico. Il regista approfondisce il contrasto tra le due figure cardine della storia. 


Il padre è un carabiniere integerrimo alle soglie della pensione, uno straordinario Salvo Randone che si cala nella parte da grande attore di teatro. Il figlio è soltanto un uomo piccolo, un poliziotto imborghesito che non crede nel dovere e non se la sente di rinunciare alla vita lussuosa che conduce grazie alla malavita. Il punto più alto del melodramma è la lite con il padre, accompagnata a dovere dalla musica intensa di Bacalov. Cerco di trascriverlo a memoria. Luc Merenda: “E non facciamo il melodramma! Sissignore, sono corrotto! Sono un infame, un traditore! Ho sessanta milioni da parte, un’amante di lusso e quando alzo la voce tutti si schiaffano sugli attenti! E allora?”. Salvo Randone: “Ti pagano? Ti sei venduto? Tu, mio figlio...”. Merenda: “Ma chi sei tu per farmi la morale? Io ti ho visto leccare le scarpe per tutta la vita. Quante volte hai massacrato di botte dei poveracci con la benedizione dei superiori? Quante prove hai fabbricato per trovare dei colpevoli qualsiasi? Quanti soprusi, quanti inghippi... per un panettoncino a Natale! Pure questa è corruzione, ma corruzione da fessi!”. 


Alla fine il padre accetta di consegnare il documento protocollato, ma ormai Pascal ha dato l’ordine di farlo fuori, così come deve essere eliminata la fidanzata (una Delia Boccardo poco utilizzata). Il commissario si salva dalla bomba collegata al campanello di casa ma al suo posto muore un collega. Di Leo è bravo anche nella rappresentazione della morte quando gira tre feroci esecuzioni che si susseguono in breve tempo. Vittorio Caprioli viene soffocato con un sacchetto insieme al gatto, Salvo Randone è affogato in un naviglio e Delia Boccardo viene massacrata di botte sul letto di casa e quindi finita con il filo del telefono legato al collo. Pare che dalla pellicola uscita nelle sale sia stata eliminata la scena in cui Merenda, accecato dalla rabbia, getta la testa di Conte nel lavandino. Un finale nerissimo e imprevedibile chiude un ottimo film che fa calare il sipario sulla prima fase dell’opera dileiana, quella degli indimenticabili noir metropolitani duri e realistici.


   Il poliziotto è marcio è un poliziottesco atipico, alla di Leo, senza personaggi positivi ed è il primo film noir che non viene realizzato dalla sua casa di produzione, ma su commissione di Galliano Juso ed Ettore Rosboch. Il film è piuttosto riuscito, visto che di Leo e Donati riescono a scrivere una storia originale e meno convenzionale dei soliti poliziotteschi che andavano di gran moda. Prima di tutto c’è la figura del poliziotto corrotto, resa molto bene da Luc Merenda e bilanciata da quella di un padre carabiniere che ha l’espressione intensa di Salvo Randone. Nel poliziottesco classico il commissario è un eroe senza macchia e senza paura, affronta i banditi con metodi spicci e fuori dalle regole, si mette contro i superiori, ma alla fine sconfigge sempre il cattivo di turno. Il poliziotto dileiano, invece, è marcio, corrotto fino al midollo, ma ritrova la sua dignità di uomo di fronte agli eventi tragici della vita. La morte del padre e dell’amante, trucidati dalla mala, innescano una reazione da belva che già avevamo visto nei film del regista pugliese. Delia Boccardo è brava nella parte dell’amante e alla fine viene uccisa dalla mala che vuole scaricare il suo uomo. Il poliziotto non fa una bella fine e muore stritolato da un ingranaggio di corruzione del quale lui stesso aveva fatto parte. La bravura del regista sta nell’aver costruito una figura insolita di poliziotto, dinamico ed eroico nelle sue azioni, ma corrotto perché non sa rinunciare a fare la bella vita. 


Un poliziotto corrotto già lo abbiamo incontrato ne Il boss, magistralmente interpretato da Gianni Garko, ma qui Luc Merenda dà vita a una figura più complessa, perché il suo tutore dell’ordine conserva alcuni sprazzi di eroismo e di lealtà. A suo modo Malacarne ha un codice d’onore e al momento giusto lo tira fuori e si ribella. Il luogotenente Garrito, invece, è irrecuperabile e niente lo può riscattare da un destino che lui stesso sceglie per prendere il posto di Malacarne. Garrito è simile al poliziotto corrotto interpretato da Garko ne Il boss, mentre Luc Merenda è una carogna da noir che nel finale si riscatta e suscita la simpatia dello spettatore. Luc Merenda si cimenta in un ruolo insolito e completamente fuori registro rispetto ai poliziotti senza macchia e senza paura che aveva sempre interpretato. Questo è il suo primo film con di Leo, ma si trova bene e in seguito ne interpreterà altri due. Tra gli interpreti merita un cenno Vittorio Caprioli, attore feticcio del regista, che con la sua comicità napoletana stempera i momenti di tensione. 


Caprioli mette in moto involontariamente tutti i meccanismi perversi della storia, solo per colpa di una denuncia per schiamazzi notturni. Raymond Pellegrin è un cattivo perfetto che veste bene i panni dell’implacabile Pascal, malavitoso che ragiona a colpi di mitra e di efferati omicidi. Richard Conte rappresenta la malavita in doppio petto, quella disposta a pagare e a ragionare prima di uccidere, ma che all’occorrenza elimina gli uomini pericolosi per difendere i propri interessi. Di Leo è molto bravo anche a sottolineare il rapporto padre - figlio, dopo che il padre ha scoperto la sua corruzione. La musica intensa di Bacalv sottolinea momenti commoventi e drammatici, soprattutto la delusione di un padre che per anni ha servito fedelmente lo Stato. Stupendo il finale con un colpo di pistola alla testa che uccide il commissario e la morte viene filmata lentamente, sequenza dopo sequenza, con un ralenti straordinario.


Paolo Mereghetti nel suo importante Dizionario concede due stelle e scrive: Nella sceneggiatura del regista è evidente la volontà di dissacrare i cliché del poliziottesco alla Maurizio Merli, costruendo un personaggio pieno di contraddizioni e nemmeno simpatico: peccato che il racconto spesso si sfilacci, malgrado accelerazioni brutali che lasciano il segno. Concede due stelle anche Pino Farinotti, ma al solito non motiva la decisione e sintetizza la trama. Marco Giusti nel suo Stracult si limita ad apprezzare la bellezza di Monica Monet che interpreta una parte rapidissima da cronista, ma sul film non si pronuncia. Tra l’altro credo che sia uno dei pochi film da lei interpretati e non saprei neppure dire quale fosse il suo vero nome. Monica Monet è uno pseudonimo inventato da di Leo che nasconde una ragazza milanese che frequentava un corso di giornalismo. Come dire che nella pellicola finisce per recitare la parte di se stessa. Il Morandini non cita neppure l’esistenza del film e mi pare piuttosto grave, perché le omissioni che riguardano il cinema dileiano sono numerose e incomprensibili. Pietro Bianchi su Il Giorno del 1974 rappresenta la critica contemporanea all’uscita del film: Si tratta di un film svelto e ben ambientato a Milano e dintorni che cela un baco come il protagonista. Non si capisce come, con tutta la carne al fuoco che offre la cronaca nera, il regista si sia impantanato in un groviglio poco credibile, tenebroso senza giustificazione e del tutto improbabile. Terminiamo con il parere del regista: “Credo di essere stato l’unico ad aver girato un film che parlasse della corruzione delle forze dell’ordine ne Il poliziotto è marcio. Il solo titolo e i manifesti irritarono il Viminale a tal punto che ricevetti telefonate minatorie da voci che a quel ministero facevano riferimento. Va da sé che forse le telefonate le fecero quelle bestie stupide e feroci conosciute come benpensanti” (da Nocturno Cinema - Dossier di Leo).


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